Mercati finanziari

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Mercati finanziari

MMarcello de Cecco

di Marcello de Cecco

Mercati finanziari

sommario: 1. I termini essenziali. a) Origine e contenuto dei mercati finanziari. b) I soggetti coinvolti nei mercati finanziari. c) La liquidità. 2. I mercati finanziari in prospettiva storica. a) Il sistema di Bretton Woods. b) La crisi del sistema di Bretton Woods. c) Il sistema finanziario internazionale dopo Bretton Woods. 3. Tendenze recenti. a) I mercati azionari. b) I mercati obbligazionari. c) Contratti finanziari a termine e prodotti derivati. □ Bibliografia.

1. I termini essenziali

a) Origine e contenuto dei mercati finanziari

Quando si pensa a un mercato si immagina un luogo fisicamente determinato, ad esempio una piazza, o una fiera, nel quale convengono, in un tempo stabilito, compratori e venditori di una merce specifica o di molte merci allo scopo di realizzare scambi in condizione di massima informazione. La compresenza di una pluralità di venditori e compratori, delle loro merci o di campioni di esse, contribuisce infatti alla diffusione di informazioni. Si danno vari casi nei quali i mercati sono organizzati per la vendita di una sola merce o tipo di merce: mercati di bestiame, mercati di derrate alimentari, mercati di prodotti tessili, ecc. Anche nei mercati più complessi tendono a formarsi isole merceologiche. Quanto più intenso è il radicamento dell'attività mercantile in un luogo, tanto più è probabile che intorno a esso si collochino stabilmente botteghe dove mercanti fissi sono pronti a fornire determinate merci, e quindi anche a comprarle, entro e fuori le ore e i giorni di mercato. Già Platone, nella Repubblica, rileva questi fenomeni.

Il passaggio dal mercato al negozio fornisce un elemento di continuità temporale all'attività mercantile, agevolandone lo sviluppo, così come agevola l'emergere della specializzazione fra commercianti all'ingrosso e al dettaglio.

I mercati hanno in effetti funzionato a lungo senza che nessuna merce particolare fungesse da intermediario degli scambi, e cioè da moneta. Ma da lunghissimo tempo le contrattazioni che fanno uso di un mezzo di scambio e pagamento universalmente accettabile (entro un universo comunque definito) hanno rimpiazzato gli scambi in forma di baratto.

La moneta, al pari delle botteghe e della divisione tra ingrosso e dettaglio, costituisce un espediente per agevolare gli scambi. Quando si scambiano merci contro merci o merci contro moneta, l'atto dello scambio - tra merci ritenute di valore uguale o tra una merce e una quantità di moneta ritenuta congrua da entrambe le parti - segna la conclusione della transazione.

Diverso è il caso nel quale i mercati e i mercanti riescono a superare gli ambiti sia territoriali che temporali per allargare l'universo degli scambi. Al controvalore di una merce in altra merce o in moneta si sostituisce una promessa di pagamento. Il contratto è stipulato all'istante, ma l'effettiva consegna del controvalore pattuito in merce o denaro può essere differita nel tempo rispetto a quella della merce. Nascono in questo modo obbligazioni in forma cartolare, che rappresentano l'impegno formale di una parte a consegnare alla controparte una data quantità di merce standard o qualitativamente definita oppure una determinata quantità di una ben definita moneta nazionale a una data certa e in un luogo definito.

È la moltitudine di tali impegni scritti che ha fatto sorgere la possibilità di organizzare per essi dei veri e propri mercati, uguali quasi in tutto a quelli delle merci, e che prendono il nome collettivo di mercati finanziari. Come i mercati delle merci, anche quelli finanziari si sono per secoli e addirittura millenni stabiliti in luoghi definiti, spesso contigui ai mercati delle merci, in particolare a quelli delle merci all'ingrosso.

Il progresso delle tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni ha contribuito, nel corso del Novecento, a una massiccia trasformazione delle modalità con le quali tali mercati sono organizzati. Di tale trasformazione ci occuperemo nelle pagine che seguono, esaminando anche come essa abbia influito sul funzionamento degli stessi mercati.

Dato che le obbligazioni a consegnare merci o somme nel futuro incorporano una forte componente di rischio e di incertezza, è bene anche ricordare che il modo di trattare questi fenomeni fa necessariamente parte integrante dei problemi organizzativi dei mercati finanziari, delle discipline analitiche che ne studiano i comportamenti e delle norme giuridiche che li regolano.

Sui mercati finanziari si contrattano - attraverso modalità di cui diremo brevemente - strumenti di debito, cioè impegni a ripagare in una o più soluzioni somme prese a prestito. Ma, con il diffondersi del metodo della proprietà collettiva - suddivisa in quote - di beni capitali, anche tali quote, espresse in appropriate certificazioni scritte, sono divenute una parte sempre più importante dei mercati finanziari. Generalmente tali strumenti vanno sotto il nome di azioni. Dunque, il mercato finanziario è venuto a costituirsi come l'insieme delle contrattazioni che hanno per oggetto azioni e obbligazioni.

Ogni strumento finanziario comporta una serie di obblighi da parte di chi lo emette. L'adempimento preciso di tali obblighi costituisce elemento essenziale per il buon funzionamento dei mercati finanziari. Gli obblighi associati a ogni strumento finanziario riguardano individui nei loro rapporti con altri individui, ed è interessante vedere in quanti modi, nel corso della storia, sia stato organizzato il meccanismo sociale che garantisce il rispetto delle obbligazioni. Talvolta esso è stato affidato a categorie coese di individui, come le corporazioni mercantili o la city di Londra fino al 1986, ma più spesso è stato demandato a giudici e ad altre autorità statali. Ciò ha posto e pone delicati problemi giuridico-politici, se si pensa che una parte assai grande delle obbligazioni finanziarie esistenti in ogni momento è costituita da strumenti del debito pubblico.

b) I soggetti coinvolti nei mercati finanziari

L'intero edificio dei mercati finanziari è stato eretto e si regge essenzialmente perché, nell'articolazione sempre maggiore delle società organizzate, la funzione del risparmio viene a essere sempre più separata da quella dell'impiego del risparmio stesso. Vi sono, in altre parole, sempre più individui che dispongono in ogni momento di maggiori risorse di quante possano o vogliano spendere immediatamente e che sono dunque pronti a metterle a disposizione di altri. Allo stesso tempo, vi sono individui, imprese o enti pubblici che hanno la capacità istituzionale di investire maggiori risorse rispetto a quelle che affluiscono loro in ogni momento. Da questa differenziazione nascono i mercati finanziari, esattamente come dalla divisione del lavoro nasce lo scambio di merci e servizi. È importante comprendere come, senza la compresenza di entrambe le necessità, non si diano scambi finanziari, e dunque non possano esistere mercati finanziari. Se non ci sono debitori non possono esserci nemmeno creditori, e viceversa. Se non ci sono persone fisiche o giuridiche disposte a consumare o investire più del loro reddito, non possono esserci nemmeno risparmiatori, se non entro gli ambiti ristretti dell'autoconsumo differito e viceversa.

Da questa considerazione nasce la tendenza teorica a considerare il valore di una somma per consegna differita rispetto al valore di una somma per consegna a pronti, cioè il tasso di sconto, come dipendente dall'abbondanza o scarsità relativa dei debitori rispetto ai creditori in un dato momento. L'abbondanza o scarsità relativa di risparmio eserciterà dunque, a parità di altre condizioni, una pressione sullo sconto stesso, il quale è più comunemente visto come il tasso di interesse che il destinatario di un prestito per un determinato periodo deve versare annualmente per poter fruire della somma prestata per tale periodo. I debitori saranno avvantaggiati da una situazione simile, così come lo saranno coloro che vogliono costituire società per esercitare imprese di vario genere e ne dividono la proprietà, vendendone titoli rappresentativi di quote sul mercato azionario.

Ma è bene ricordare che nelle società organizzate vi è in genere una forte presenza dello Stato o di altre istituzioni pubbliche dotate di bilanci propri e capaci di spendere somme cospicue, le quali derivano dall'esazione di imposte e tasse, o dall'emissione di debiti, o dalla gestione del sistema monetario, il che facilita grandemente gli scambi permettendo transazioni multilaterali. Ed è anche necessario menzionare la presenza delle banche, che gestiscono scorte monetarie affidate loro dai cittadini e ne rendono maggiore la velocità di circolazione mediante l'emissione di 'pagherò a vista' chiamati assegni o, in epoche precedenti a quella attuale, mediante banconote che sono ora privilegio di una sola banca, la banca centrale di ciascun paese, o addirittura di una sola banca centrale per una molteplicità di paesi, come è il caso attuale dell'Unione monetaria europea.

c) La liquidità

Se chi emette la moneta - nelle società moderne, lo Stato tramite la banca centrale - non lo fa in maniera esagerata, la moneta non si deprezza nei confronti delle merci e dunque viene accettata senza che il prenditore richieda uno sconto sul suo valore facciale. La moneta può essere spesa dovunque e in qualsiasi momento, entro i confini dello Stato che la emette, senza che nasca incertezza sul suo potere di acquisto. Chi ha moneta può allora essere certo di quanto possiede e non deve prendere quelle misure atte a diminuire il rischio e l'incertezza che affliggono gli altri strumenti finanziari.

Da questa condizione nasce il concetto di liquidità, fondamentale per lo studio dei mercati finanziari. La liquidità è la capacità di un'attività finanziaria di restituire al suo proprietario, all'atto dell'eventuale rivendita, lo stesso ammontare di denaro per il quale è stata acquistata. Tale capacità non è conferita dalla durata temporale del titolo - nel senso che un titolo a breve è necessariamente più liquido di uno a lunga scadenza - ma dall'esistenza, in ogni momento della vita del titolo stesso, di un mercato capace di assorbirlo senza perdite per il venditore. Questo tipo di mercato è detto secondario. Il mercato primario è invece quello sul quale viene collocato (cioè, venduto) un titolo alla sua emissione.

Lo strumento per eccellenza liquido è la moneta emessa dallo Stato direttamente o tramite la banca centrale, perché essa sola può fungere come mezzo ultimo di pagamento. Tutti gli altri strumenti finanziari - e i mercati sui quali essi sono negoziati - possono essere idealmente ordinati in un ordine decrescente a seconda della liquidità che offrono a chi li possiede. La moneta si scambia contro altra moneta senza perdite di valore capitale, ma gli altri strumenti, per i quali non esiste l'assoluta certezza del ripagamento, sono soggetti a uno sconto quando vengono scambiati contro moneta. Lo sconto normalmente cresce con l'allungarsi dell'impegno temporale. Gli strumenti finanziari che rappresentano debiti a breve sono dunque normalmente scambiati a sconto nei confronti della moneta e a premio nei confronti di strumenti finanziari a più lunga scadenza. È bene sottolineare che possono darsi, e frequentemente si danno, casi nei quali questo non vale: lo sconto sugli impegni a breve può essere maggiore di quello sugli impegni a più lungo termine.

Le attività delle banche centrali e delle banche commerciali influenzano il funzionamento dei mercati finanziari, perché da esse dipende - oltre che dall'incontro tra domanda e offerta di risparmio - il livello e l'andamento del saggio dello sconto, ossia del prezzo al quale si scambiano strumenti finanziari di varia durata. Nel tempo, si sono scontrate teorie che assegnano maggiore o minore importanza a tale influenza, e che quindi vedono in modo diverso la gerarchia che si stabilisce tra moneta statale e bancaria, da un lato, e mercati finanziari, dall'altro. Alcune teorie, infatti, considerano lo sconto tra presente e futuro un puro fenomeno di mercato, dipendente da situazioni strutturali come quella della dinamica della popolazione, che può essere solo temporaneamente disturbato dalle azioni della banca centrale e delle banche di deposito.

2. I mercati finanziari in prospettiva storica

Mercati finanziari, banche centrali, banche commerciali, banche di investimento e altri intermediari finanziari costituiscono un insieme che va sotto il nome di sistema finanziario. Ciascuna realtà finanziaria nazionale può considerarsi come un sistema finanziario a sé, e si potrebbe dire che la somma di tutti i sistemi finanziari nazionali costituisce il sistema finanziario mondiale. Molti, tuttavia, criticano questo modo di vedere le cose. Secondo questa visione alternativa, esiste un sistema finanziario internazionale, storicamente distinto da quelli nazionali, all'interno del quale si intrecciano rapporti finanziari che stanno a fronte di scambi commerciali internazionali e che mantiene, con le varie realtà nazionali, rapporti più o meno intensi e duraturi. In epoche come gli ultimi cinquant'anni - o come nel periodo che va dal 1870 al 1914 - la distinzione tra sistemi nazionali e sistema internazionale ha gradualmente perso di importanza, mano a mano che l'intreccio tra finanza nazionale e internazionale si è fatto più fitto e intenso. Ma queste due epoche sono separate da un periodo abbastanza lungo nel quale la distinzione tra sistemi finanziari nazionali è stata netta. Si tratta del periodo caratterizzato dalle due guerre mondiali e quindi dalla necessità, per tutti i paesi belligeranti, di organizzare una 'finanza di guerra'. In tali condizioni, quasi tutti gli Stati hanno fatto ricorso a sistemi autoritari di pianificazione economica, e i sistemi finanziari sono stati modificati per consentire di mobilitare risorse là dove lo Stato riteneva che ve ne fosse bisogno. La mobilitazione delle risorse si è espressa sotto forma di ciò che viene comunemente indicato con il termine 'repressione finanziaria', vale a dire l'impossibilità da parte del proprietario di determinate risorse di disporne in piena libertà destinandole agli usi che meglio desidera, nei modi e con gli strumenti che preferisce, entro e fuori i confini dello Stato nel quale risiede.

a) Il sistema di Bretton Woods

Con l'intervallo degli anni venti del secolo appena trascorso - nel quale si consumò un breve e spasmodico tentativo di ritornare alla realtà dei decenni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale - il periodo che va dal 1914 al 1960 ha visto, nella gran parte dei paesi sviluppati, il permanere di stati di repressione finanziaria più o meno severa, che si sono gradualmente attenuati nel decennio successivo. L'accordo detto di Bretton Woods - raggiunto tra i paesi vincitori della seconda guerra mondiale sotto l'egida e per impulso degli Stati Uniti, ed esteso man mano a moltissimi altri paesi - cercò di favorire la riduzione delle barriere agli scambi internazionali che erano state erette negli anni trenta e durante la guerra, instaurando un sistema di rapporti monetari internazionali a cambi essenzialmente fissi (anche se modificabili) sulla cui tenuta venne posto a vegliare il Fondo Monetario Internazionale (FMI), un'istituzione specializzata delle Nazioni Unite. L'FMI poteva prestare riserve valutarie a paesi membri che si fossero trovati in temporaneo squilibrio delle loro bilance dei pagamenti, allo scopo di permettere loro di mantenere aperti gli scambi internazionali su base multilaterale. Scopo finale era l'abolizione graduale del sistema di rigido collegamento degli scambi ai pagamenti bilaterali instaurato in molti paesi a partire dagli anni trenta per far fronte alle conseguenze della depressione mondiale e della caduta del commercio internazionale che ne derivò.

Nel sistema di Bretton Woods, l'obiettivo principale era la ricostituzione di un sistema di scambi multilaterali in condizioni di piena occupazione per tutti i paesi partecipanti, al cui raggiungimento fu sacrificato l'obiettivo della libertà delle transazioni finanziarie internazionali, in particolare di quelle a breve termine. Si pensò allora che la restaurazione della libertà dei movimenti di merci valesse bene l'eventuale permanere, anche in paesi importanti, della repressione finanziaria. Questo perché era invalsa l'abitudine, in quei decenni, di addebitare ai movimenti di capitale a breve l'impossibilità, per le autorità nazionali di politica economica, di raggiungere e mantenere nel tempo l'obiettivo della piena occupazione, senza sacrificare la libertà degli scambi.

b) La crisi del sistema di Bretton Woods

I vari mercati finanziari nazionali restarono dunque a lungo fortemente segmentati al loro interno e virtualmente non comunicanti tra loro. Tuttavia, negli Stati Uniti, nuovo centro dell'economia mondiale, cominciò a delinearsi un movimento teso a riportare la libertà degli scambi interni e internazionali e a porre fine alla repressione finanziaria. Tale movimento, sviluppatosi gradualmente per tutto il dopoguerra, ricevette un impulso particolare a partire dal 1973 - quando la prima crisi del petrolio mise i paesi sviluppati di fronte alla nuova realtà di un deficit strutturale dei pagamenti esteri - e trionfò definitivamente dopo la seconda crisi petrolifera, nel 1979. Il movimento in questione coinvolgeva quegli ambienti finanziari che avevano sofferto maggiormente delle conseguenze delle riforme imposte dal presidente Roosevelt ai mercati finanziari nei primi anni trenta, in particolare le grandi banche di credito ordinario di New York. Tali banche, cui era stato vietato di negoziare azioni e obbligazioni, si vedevano spesso costrette a sacrificare le proprie attività di prestito, le quali erano di entità assai superiore rispetto alla capacità di raccolta, che, a sua volta, veniva frenata dal divieto di creare filiali in Stati diversi da quello d'origine, a causa della mancanza di fondi sufficienti, irreperibili perfino sul mercato interbancario. Questo stato del mercato interbancario era dovuto all'enorme diffusione, nei bilanci delle banche provinciali, dei titoli del debito pubblico, con i quali il governo statunitense aveva finanziato le spese belliche del secondo conflitto mondiale. La politica di sostegno ai corsi di tale debito, praticata dalla Banca Centrale e dal Tesoro degli Stati Uniti, continuò anche dopo la fine del conflitto, rendendo nullo il rischio relativo al valore capitale dei titoli di Stato. In queste condizioni, le grandi banche di New York avevano imparato a procurarsi fondi sul mercato finanziario internazionale, offerti soprattutto da quei risparmiatori che guardavano agli Stati Uniti come all'unico paese politicamente e strategicamente sicuro in una fase ancora molto perturbata dalla prospettiva di espansione del comunismo. Non deve dunque meravigliare se le grandi banche americane si opposero energicamente e vittoriosamente al suggerimento - proveniente dai due architetti degli Accordi di Bretton Woods, John Maynard Keynes e Harry Dexter White - di sottoporre a stretto controllo i movimenti di capitale a breve termine, inserendo nello Statuto dell'FMI una clausola in virtù della quale le perdite di riserve causate dalle fughe di capitali a breve dovevano essere automaticamente risarcite dai paesi destinatari. Tale clausola, già auspicata da Luigi Luzzatti dopo la crisi finanziaria internazionale del 1907, fu riproposta da Keynes e White, ma non venne accolta per la decisa opposizione delle grandi banche newyorchesi. Dagli stessi ambienti, inoltre, fu avviata una lunga campagna per la liberalizzazione del mercato finanziario interno negli Stati Uniti che riuscì, prima gradualmente e poi, a partire dal 1980, sempre più rapidamente, a demolire uno dopo l'altro i fondamenti della segmentazione del sistema finanziario organizzata molto prima della stessa età di Roosevelt.

Come già accennato, il movimento di liberalizzazione finanziaria interna e internazionale ricevette un impulso fondamentale dopo le due crisi petrolifere degli anni settanta. Tutti i principali paesi importatori di petrolio si trovarono a pagare somme elevate, di solito in dollari, in cambio del petrolio che importavano. A vendere petrolio, peraltro, erano paesi incapaci di importare beni e servizi per l'intero ammontare che ricevevano in pagamento. Tra i paesi importatori si vennero a creare due gruppi: quelli dotati di sistemi finanziari più capaci di intermediare grandi quantità di fondi liquidi decisero di chiudere i propri conti con l'estero, prendendo a prestito il denaro che pagavano ai paesi produttori di petrolio e riprestandolo ai paesi che non avevano intermediari e mercati capaci di svolgere tale funzione; viceversa, quelli nei quali la repressione finanziaria era ancora molto forte - come Germania, Giappone e Italia - cercarono di pagare la bolletta petrolifera esportando merci.

c) Il sistema finanziario internazionale dopo Bretton Woods

Motivi storico-politici e istituzionali hanno fatto sì che in paesi diversi prevalessero forme organizzative differenti per i sistemi finanziari. Questo fu notato sin dalla fine dell'Ottocento, ma è soltanto nei primi decenni del Novecento che si cominciò a riflettere sistematicamente su queste differenze. Le analisi elaborate allora furono poi riprese negli anni cinquanta e nei successivi decenni e condussero a conferire un rinnovato rilievo alla distinzione tra sistemi finanziari basati su banche 'tuttofare' o universali - che esplicano le funzioni finanziarie nei confronti di privati e imprese e dominano anche le borse-valori, dando luogo a sistemi banco-centrici - e sistemi finanziari nei quali col passare del tempo e per determinate vicissitudini storiche si sono evoluti intermediari finanziari specializzati ciascuno nell'esplicazione di una precipua funzione, operanti su mercati anch'essi specializzati come i mercati dei titoli di Stato, delle obbligazioni private, delle azioni, ecc., dando luogo a sistemi mercato-centrici. Riprendendo il concetto di liquidità prima enunciato, è bene chiarire che i sistemi banco-centrici si sono evoluti là dove prevalevano titoli di debito scarsamente liquidi, cioè in realtà sfornite di mercati secondari funzionali e attivi. In questi contesti il ruolo delle banche si ingrandisce fino al protagonismo assoluto: esse si sostituiscono a mercati secondari poco efficienti - o addirittura inesistenti - nell'assorbire titoli che sono per forza di cose poco liquidi. L'attivo di tali banche diviene di conseguenza anch'esso poco liquido. È allora essenziale, nei sistemi banco-centrici, che al cuore del sistema esista una banca centrale fornita della possibilità di venire in ogni momento in soccorso di un sistema bancario carente di liquidità a causa delle attività assorbite. La banca centrale deve avere la facoltà di creare liquidità primaria in misura sufficiente e senza indugi, per fornirla alle banche contro le attività divenute illiquide. Se la banca centrale, come accadde nella seconda metà degli anni venti in molti paesi europei, riceve statutariamente una limitazione alla sua capacità di creare moneta, può non essere in grado di restituire fluidità al sistema bancario.

Nella riflessione più recente sulle differenze tra sistemi finanziari si è giunti addirittura a teorizzare che i sistemi banco-centrici rappresentino una fase meno avanzata di sviluppo finanziario rispetto a quelli mercato-centrici, e che dunque sia auspicabile e quasi inevitabile che dalla prima si passi alla seconda fase. Tale passaggio è divenuto un obiettivo della politica economica internazionale di paesi quali gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, tradizionalmente forniti di mercati finanziari tra i più sviluppati e liberi a livello mondiale. Sia gli Stati Uniti che il Regno Unito si ritenevano svantaggiati nella competizione sui mercati internazionali dei prodotti manufatti contro paesi come Germania, Giappone e Italia, i cui sistemi finanziari, banco-centrici e fortemente regolamentati, sembravano in grado di fornire alle imprese un vantaggio competitivo in termini di disponibilità di risorse finanziarie a basso costo. Si ritenne allora che la liberalizzazione finanziaria potesse permettere ai massimi centri finanziari mondiali, Londra e New York, di acquistare un ruolo di leadership settoriale nella nuova divisione internazionale del lavoro. Abolendo le barriere finanziarie interne ai vari paesi e quelle internazionali, flussi crescenti di fondi sarebbero affluiti ai centri finanziari di Londra e New York, riducendo la possibilità - per le imprese tedesche, giapponesi e italiane - di ottenere fondi investibili a condizioni particolarmente vantaggiose. Nella gestione politica di questo obiettivo, tuttavia, l'accento viene sempre maggiormente posto sulla configurazione atomistica di tali mercati e sull'anonimità delle transazioni: in una parola, si tende a rappresentare tali mercati come perfetti, luoghi d'incontro di una domanda e di un'offerta espresse da operatori di piccole dimensioni, incapaci di influenzare con le proprie decisioni strategiche le quantità e quindi i prezzi. Ma la realtà è assai diversa, perché sin dall'inizio, e via via per tutti i decenni successivi, i mercati finanziari interni, e a maggior ragione quelli internazionali, si sono caratterizzati proprio per la presenza di intermediari di grandi dimensioni, per i quali passano quote cospicue delle transazioni totali.

Negli anni a noi più vicini, inoltre, tendono a perdere gradualmente importanza i mercati centralmente organizzati, sul modello delle borse-valori dell'Europa continentale, ispirate allo stesso archetipo napoleonico e basate sul metodo dell'asta competitiva, mentre si affermano i cosiddetti mercati over the counter. All'interno di questi ultimi, intermediari specializzati (dealers) sono pronti a fornire, a un prezzo da loro quotato, quantità determinate di un titolo, di cui dispongono direttamente o che sono in grado di procurarsi a condizioni più vantaggiose, e a comprare - a un prezzo generalmente inferiore a quello di vendita - quantità determinate dello stesso titolo. Questo sistema decentrato, favorito dalla prassi inglese e statunitense, si estende ad altre piazze finanziarie man mano che la globalizzazione dei mercati finanziari aumenta. Tale metodo di contrattazione è anche favorito dalle innovazioni tecnologiche nel campo della comunicazione, che rendono possibile stipulare contratti in maniera decentrata e senza perdita d'informazione, laddove, con le vecchie tecnologie, un'informazione adeguata richiedeva l'accentramento delle contrattazioni.

Nonostante ciò, nei decenni più recenti, si sono affermate ulteriormente le maggiori piazze finanziarie mondiali, quelle tradizionali, Londra e New York, e quelle emergenti, Francoforte e Tokyo. Come spiegare questa concentrazione, che a prima vista sembra in contraddizione con gli effetti dell'elettronica decentrata? La verità è che - a tutt'oggi, e presumibilmente ancora per parecchio tempo - non tutto si può fare per via virtuale. In particolare, l'acquisizione di informazioni riservate, così importanti per la dinamica dei mercati finanziari, richiede ancora contatti diretti tra gli operatori, il che rende fondamentali le distanze ravvicinate. Più in generale, tutte le argomentazioni a favore delle economie da agglomerazione contribuiscono a spiegare la collocazione dei mercati finanziari in poche grandi piazze, che concentrano e ridistribuiscono le contrattazioni. È anche vero che, nell'organizzazione dei grandi affari finanziari internazionali, vi sono fasi di preparazione (anche logistica) che richiedono la concentrazione in un solo luogo di grandi risorse umane e tecniche. Inoltre, specie a Londra e a New York, sono presenti i grandi studi legali internazionali specializzati in transazioni finanziarie, la cui consulenza costituisce un elemento essenziale nell'organizzazione di ogni grande operazione finanziaria. Negli stessi centri, infine, sono presenti le case-madri delle più grandi banche commerciali del mondo e delle massime banche di investimento, oltre che i maggiori intermediari non bancari. Tutti questi elementi contribuiscono a costituire, all'interno delle grandi piazze finanziarie mondiali, una massa di economie esterne veramente considerevole, perpetuando in tal modo una caratteristica dei mercati che li contraddistingue sin dai tempi più antichi, ossia la localizzazione in un sito geografico preciso. La fisicità dei mercati, certamente attenuata dalle innovazioni nelle comunicazioni e nei trasporti, risulta in tal modo per altri versi ulteriormente accentuata proprio dalle stesse innovazioni, che provvedono allo stesso tempo a decentrare e a riaccentrare.

Il 15 agosto del 1971 Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, decretò l'abolizione del legame tra il dollaro e una quantità fissa di oro. La parità fissa tra oro e dollaro, 35 dollari per oncia, resisteva da più di trent'anni ed era stata reiterata dagli accordi di Bretton Woods. Ma, per la persistenza di un deficit strutturale nella bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti, la quantità di dollari offerta sui mercati internazionali non trovava una domanda equivalente, dati i tassi di cambio stabiliti a Bretton Woods. Le parità venivano dunque mantenute a fatica, grazie all'intervento continuo delle banche centrali, e coloro i quali speculavano sui cambi potevano realizzare vistosi guadagni scommettendo contro il dollaro nella certezza del supporto ufficiale delle parità. I cambi fissi hanno il grande vantaggio di eliminare l'incertezza sul corso futuro dei cambi dai calcoli di chi deve effettuare transazioni che implicano l'uso di monete diverse dalla propria. L'onere di sostenere le parità ricade sulle banche centrali dei vari paesi e le transazioni private internazionali avvengono in condizioni di certezza relativamente al corso futuro dei cambi.

A partire dal 15 agosto 1971, questo non è stato più possibile. Gli Stati Uniti hanno reiteratamente dichiarato, nel corso del trentennio successivo, che il cambio del dollaro non faceva parte delle proprie responsabilità di governo, e che quindi poteva essere lasciato alle forze di mercato. Chiunque avesse a che fare con gli scambi internazionali, magari come semplice importatore o esportatore di scarpe, si è così trovato nella necessità di assicurarsi in qualche modo contro il rischio di cambio, a meno di non volere speculare apertamente. In questo tipo di scambi le possibili perdite o guadagni in cambi entrano necessariamente a far parte del calcolo economico, a meno che non si scelga di proteggersi dal rischio di cambio attraverso una transazione valutaria d'importo uguale e segno contrario rispetto a quella effettuata per motivi commerciali. È venuta pertanto in essere, nel corso degli ultimi trent'anni, una gigantesca massa di transazioni valutarie effettuate unicamente allo scopo di proteggersi da rischi in cambi connessi a transazioni reali o finanziarie che nulla hanno a che fare con la speculazione. Le transazioni in cambi totali assommano a molte volte il valore del commercio internazionale mondiale.

Questa profonda trasformazione del mercato dei cambi ha avuto ripercussioni altrettanto profonde sui mercati finanziari. A essa si deve aggiungere la crescita vorticosa e contemporanea dei debiti pubblici nei principali paesi, nonché quella del commercio internazionale, sviluppatosi secondo tassi d'incremento abbondantemente superiori ai tassi di crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) dei medesimi paesi a partire dal 1971. Parallelamente, si è verificata una crescita impetuosa della capitalizzazione totale delle borse valori, per l'aumento enorme delle nuove emissioni e delle negoziazioni di titoli esistenti e per la crescita incessante dei corsi, che si è arrestata e in parte invertita solo a partire dal marzo 2000. Tutti insieme, questi elementi hanno contribuito a costituire una struttura dei mercati finanziari nazionali e internazionali profondamente diversa da quella del trentennio precedente. Di tale struttura ci occuperemo nelle pagine seguenti, mettendone in luce i caratteri principali.

Prima di passare a descrivere tali caratteri, è bene tuttavia ricordare come a tutt'oggi - nonostante la crescita vertiginosa delle transazioni finanziarie, in termini di volumi e di complessità - permanga nei principali paesi un fenomeno che va sotto il nome di paradosso di Orioka-Feldstein. Tale paradosso consiste nel fatto che, malgrado la globalizzazione dei mercati finanziari e la gran mole di investimenti esteri che ogni anno vengono effettuati, si nota una forte correlazione tra risparmi e investimenti in ciascun paese. È come se ovunque fosse disponibile, per finanziare gli investimenti, solo il risparmio interno. Paesi a basso tasso di risparmio si caratterizzano pertanto per un basso tasso di investimento, e viceversa. Si danno, è vero, anche notevoli eccezioni a questa regola rozza; ma essa persiste ed è confermata da tutte le stime sull'argomento fatte nel corso del tempo. Analogamente, persiste una regola altrettanto rozza, secondo la quale i risparmiatori tendono a investire prevalentemente negli strumenti finanziari e nelle azioni emesse da società ed enti a loro spazialmente vicini. L'orizzonte dei risparmiatori e degli investitori resta così ancora notevolmente limitato, circoscritto da conoscenze e frequentazioni dirette. Quantitativamente ciò è fuori di dubbio, nonostante tutte le storie, peraltro vere, che si leggono e si ascoltano a proposito di avventurosi investimenti fatti in capo al mondo da tranquilli borghesi, i quali non hanno alcuna idea dei luoghi e delle istituzioni private e pubbliche nelle quali hanno investito il proprio denaro.

Caratteristica comune nella dinamica di tutti i sistemi finanziari, e in particolare dei mercati finanziari, negli ultimi tre decenni, è la diminuzione dell'importanza relativa degli investitori individuali diretti e il contemporaneo affermarsi degli investitori 'istituzionali'. Nella letteratura specializzata tale fenomeno viene attribuito alla forte incentivazione fiscale offerta alle famiglie per collocare parte dei propri risparmi in fondi d'investimento sia azionari che obbligazionari, allestiti e gestiti da istituzioni finanziarie indipendenti o derivanti direttamente da intermediari tradizionali come banche e società di assicurazione.

Nella letteratura specialistica si dà inoltre ampio spazio alle economie di scala di cui godrebbero i gestori istituzionali di fondi nei confronti degli individui. Tale vantaggio dovrebbe dipendere dalla superiore capacità dei gestori di dedicare risorse per ottenere informazioni, ma anche dalla capacità di diversificare il proprio portafoglio in virtù della maggiore potenza contrattuale di cui godono sul mercato. Tali caratteristiche sono tuttavia messe in dubbio da una parte non trascurabile e crescente degli studiosi, in particolare per quel che riguarda la pretesa superiorità nell'ottenere informazioni. Si rileva, infatti, che raramente accade che i gestori istituzionali di fondi riescano a ottenere risultati superiori all'andamento degli indici dei mercati organizzati.

La crescita dell'investimento istituzionale è stata drasticamente favorita, negli ultimi decenni, dal forte aumento dei fondi destinati alle pensioni private, che coincide con la crisi crescente della previdenza obbligatoria nei paesi sviluppati. Anche in questo settore, leggi di deregolamentazione e incentivi fiscali hanno nettamente favorito i fondi-pensione rispetto al risparmio individuale.

3. Tendenze recenti

a) I mercati azionari

Nel panorama finanziario mondiale, è impossibile non rendersi conto del peso del mercato azionario statunitense. Esso rappresenta attualmente, per capitalizzazione, circa il 50° del totale mondiale. È evidente quindi che quel che accade a Wall Street influenza fortemente ciò che accade sui mercati azionari del resto del mondo, a maggior ragione in seguito al formarsi di una massa crescente dei capitali in movimento tra i diversi mercati nazionali. Se quindi si ritiene che il mutamento delle condizioni della politica monetaria o della politica economica più in generale influisca sulle quotazioni azionarie, bisognerà riconoscere che le decisioni delle autorità statunitensi in materia di politica economica devono avere uno speciale influsso sui mercati borsistici di tutto il mondo. Lo stesso vale per qualsiasi forza influisca sulla dinamica delle nuove emissioni di azioni, così come sul volume di scambi nei mercati secondari. Il rilievo di tali considerazioni è accresciuto dal fatto che la gran parte degli investitori istituzionali adotta il cosiddetto metodo del 'portafoglio globale', distribuendo i propri investimenti secondo il peso della capitalizzazione delle varie borse sul totale. Essi 'sovrappesano' o 'sottopesano' un certo mercato, ma entro limiti abbastanza stretti. È facile dunque comprendere in quale misura annunci e previsioni relative all'andamento di variabili cruciali della vita economica statunitense influiscano sugli indici di tutte le borse del mondo.

Se si tiene presente tutto ciò, è più facile rendersi conto dell'importanza di fenomeni di matrice statunitense - come il boom delle azioni delle imprese della cosiddetta new economy o la grande crescita delle operazioni di fusione e acquisizione tra imprese - per l'intero mercato finanziario mondiale. Le emissioni di nuove azioni sono enormemente aumentate, infatti, a partire dal 1980. Secondo alcuni osservatori la crescita dei fondi gestiti da investitori istituzionali ha indotto, anziché la diminuzione, l'aumento marcato del fenomeno della 'volatilità' degli indici azionari. Questo è spiegato con la necessità dei gestori professionisti di ottenere guadagni cospicui sui loro portafogli in tempi brevi, che sono divenuti anche più brevi nell'ultimo decennio. I privati che investono nel risparmio gestito, infatti, sono liberi ormai di passare da un fondo all'altro e lo fanno seguendo i risultati di breve periodo enunciati dai gestori. Anche la grande mobilità internazionale dei capitali ha contribuito ad aumentare la volatilità, propagando rialzi e ribassi da un mercato all'altro. Lo sviluppo del risparmio gestito in paesi privi di ampi mercati di borsa ha anche avuto la conseguenza, nell'ultimo quindicennio, di concentrare gli investimenti dei gestori europei e asiatici sulle azioni statunitensi in misura persino maggiore del loro peso sul totale mondiale.

Seguendo il principio della cosiddetta diversificazione del rischio, tali gestori hanno trovato un numero di azioni sufficientemente non correlate tra loro solo nella borsa americana. L'intensificarsi dei flussi di acquisti e vendite di azioni denominate in valute diverse da quelle nazionali degli investitori ha poi fortemente aumentato la domanda di strumenti finanziari capaci di immunizzare i portafogli stessi contro i rischi di cambio. Questo ha contribuito a far letteralmente esplodere la domanda di cosiddetti 'prodotti derivati', dei quali ci occuperemo più avanti.

Molti osservatori sostengono che in generale, nel corso degli ultimi due decenni, sia diminuita l'attenzione degli investitori per i rendimenti di lungo periodo delle azioni - basati sull'andamento di costi e profitti delle imprese di cui tali azioni rappresentano la proprietà -, attenzione che si concentrerebbe invece sui rendimenti di breve periodo, maggiormente soggetti ai flussi speculativi e alle mutevoli condizioni di liquidità dei mercati, vale a dire della quantità di denaro disponibile per l'acquisto di azioni.

Molto importante è stato, infine, il passaggio - avvenuto quasi ovunque nell'ultimo ventennio, ma anch'esso di matrice statunitense - dal sistema delle commissioni fisse a quello delle commissioni variabili nella negoziazione di azioni per conto terzi da parte delle istituzioni finanziarie, nonché il passaggio dallo stato di compratore o venditore in conto terzi ad attore in conto proprio da parte degli agenti di borsa e degli altri intermediari che operano nel mercato finanziario.

Le trasformazioni che abbiamo elencato riguardano tutti i mercati finanziari e non solo quelli azionari. Esse hanno avuto il merito di ridurre, almeno a breve termine, il costo dell'investimento finanziario per gli investitori finali e per i gestori professionisti di patrimoni, aumentando il livello di concorrenza. Nei tempi medi, però, la possibilità di ridurre i costi di intermediazione favorirebbe gli intermediari maggiori, facendo aumentare la concentrazione dei mercati e riducendo il numero dei concorrenti. Sebbene una parte degli economisti teorici sostenga non esservi alcuna relazione tra numero di concorrenti e intensità della concorrenza, tale ipotesi, accettata da molte autorità di tutela della concorrenza, è tutt'altro che definitivamente provata.

b) I mercati obbligazionari

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale i mercati dei certificati di debito di emittenti pubblici e privati hanno conosciuto due fasi: la prima, dagli anni cinquanta alla crisi petrolifera del 1973, ha visto quasi ovunque la netta riduzione del peso dei titoli pubblici emessi, tanto in rapporto al PIL, quanto rispetto al totale dei titoli obbligazionari emessi dai vari paesi. Nel corso della seconda fase, iniziata nel 1973, questa tendenza si è invertita e il debito pubblico ha ricominciato a crescere in termini assoluti e rispetto al PIL in molti paesi importanti, a cominciare dagli Stati Uniti. Tale fenomeno non ha avuto luogo in maniera sincrona nei principali paesi, ma negli ultimi tre decenni tutti ne sono stati interessati, sia pure in tempi diversi. Il fenomeno si è altresì esteso ai cosiddetti paesi 'emergenti'. L'indebitamento pubblico a livello mondiale ha dunque nuovamente raggiunto livelli cospicui. Alcuni osservatori ritengono che le notevoli oscillazioni che i tassi di interesse hanno avuto nel corso degli stessi decenni siano state determinate da quelle del rapporto debito pubblico/PIL, cresciuto a partire dal 1973, specialmente negli Stati Uniti (soprattutto dopo il 1980), e ridottosi intorno agli anni novanta. Più ragionevolmente, si osserva come la lievitazione del rapporto debito pubblico/PIL sia da attribuirsi alla decisione della Banca Centrale degli Stati Uniti di non assecondare più, a partire dal 1982, la politica fiscale espansiva del governo federale con una politica monetaria altrettanto espansiva, in virtù della quale tassi di interesse molto bassi tendono a minimizzare il costo della gestione del debito pubblico. Si riteneva che tale politica fosse stata responsabile della forte inflazione registratasi negli Stati Uniti tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta e che, come tale, si dovesse operare una correzione di rotta onde tornare alla stabilità dei prezzi.

Alla fine della politica monetaria espansiva, però, non seguì affatto la riduzione della spesa pubblica federale. Il governo si limitò piuttosto a prendere a prestito dal pubblico statunitense e dalle autorità monetarie di alcuni grandi paesi che registravano eccedenze nella bilancia dei pagamenti, facendo così esplodere il rapporto debito pubblico/PIL, senza preoccuparsi della enorme lievitazione dei tassi di interesse da pagare sullo stesso debito.

L'alto costo del denaro, così generato, si estese a tutti i mercati finanziari mondiali dei titoli pubblici come dei certificati di debito privati e dei prestiti bancari. La carenza di liquidità, volutamente indotta dalle autorità monetarie statunitensi, produsse inoltre condizioni recessive, riducendo drasticamente le possibilità per le imprese di finanziarsi emettendo azioni. Anche i paesi emergenti furono colpiti dall'alto costo del denaro sui mercati internazionali, dovendo affrontare considerevoli aumenti nel servizio del proprio debito internazionale, fortemente aumentato per le occasioni offerte dal riciclaggio dei petrodollari iniziato dopo il 1973.

Questa fase si concluse nel 1985, quando le autorità monetarie statunitensi (che con la loro politica avevano indotto anche un forte rialzo del corso del dollaro nei confronti del marco e dello yen, e la conseguente invasione del mercato nazionale da parte di merci europee e giapponesi) decisero di attenuare la stretta monetaria, favorendo il ribasso dei tassi di interesse e un boom di borsa, conclusosi nell'ottobre 1987 con una crisi a Wall Street. Sulle cause di tale crisi, risolta solo dal deciso intervento della Federal Reserve, non c'è ancora unanimità di opinioni. A partire dal 1985, dunque, la fase più acuta del costo del denaro si concluse. Il ribasso dei tassi di interesse statunitensi, tuttavia, non condusse immediatamente a una riduzione del rapporto debito/PIL, che anzi continuava ad aumentare.

A partire dal 1992, e per tutti gli anni novanta, una politica monetaria di segno generalmente espansivo (con brevi eccezioni nel 1994 e nel 2000) ha generato tassi di interesse molto più bassi rispetto al decennio precedente, e una notevole riduzione del rapporto debito/PIL. Tale riduzione si spiega soprattutto con la forte accelerazione che il tasso di crescita del PIL ha registrato negli Stati Uniti negli anni novanta: le entrate fiscali sono infatti aumentate in maniera tale da ridurre, fino ad azzerarlo, il deficit pubblico. Ma nei primi anni del nuovo secolo assistiamo a una nuova inversione di tendenza. La politica monetaria statunitense diviene nuovamente restrittiva nel 2001 e il boom dell'economia si trasforma in profonda recessione, peggiorata della tragedia dell'11 settembre 2001. Il deficit pubblico torna a crescere e il rapporto debito/PIL ad aumentare, anche se questa volta la Banca Centrale si impegna in una decisa politica monetaria espansiva. Ma è il livello delle entrate fiscali, ridottosi per effetto della recessione e degli sgravi fiscali, a determinare il ritorno del governo federale sul mercato del debito con nuove emissioni destinate a chiudere il deficit nei conti pubblici.

A partire dal 1980, dunque, si può affermare che le autorità statunitensi abbiano determinato, con il loro comportamento, la gran parte delle turbolenze registratesi sul mercato dei titoli pubblici, aumentandone la variabilità. Anche altri importanti governi nazionali - come quello tedesco, a partire dalla riunificazione, e quello giapponese, molto più tardi nel corso del decennio - hanno fortemente aumentato le emissioni dei propri titoli a reddito fisso. La Germania ha così raggiunto un rapporto debito/PIL del 60° e il Giappone superiore al 140°. Altri paesi - come l'Italia, il Belgio e la Grecia - hanno lasciato lievitare i propri debiti pubblici fino a superare il 100° del PIL. Anche i paesi emergenti hanno incrementato fortemente il loro debito estero, fidando in un flusso costante di capitale straniero, che spesso è in realtà capitale nazionale travestito da straniero per motivi fiscali. A partire dall'inizio del nuovo secolo, però, questo flusso si è arrestato, causando seri problemi sia agli emittenti che agli investitori e facendo lievitare ulteriormente i deficit delle bilance dei pagamenti dei paesi stessi. Il persistere di una direzione espansiva nella politica monetaria statunitense a partire dal settembre 2001, tuttavia, ha ridotto i pericoli di insolvenza per i governi e i debitori privati dei paesi emergenti.

Sui mercati delle obbligazioni non si negoziano solo titoli di Stato, ma anche titoli emessi da enti locali, agenzie para-governative, imprese e banche. Nei decenni recenti, inoltre, si sono affermate le cosiddette 'eurobbligazioni', titoli sottoscritti da consorzi internazionali di banche e offerti simultaneamente in più paesi. Loro caratteristica principale è di essere emessi fuori dalla giurisdizione dei singoli paesi.

Le emissioni di titoli non governativi hanno rappresentato dapprima una proporzione decrescente del totale dei titoli emessi, specie in alcune importanti realtà nazionali, come conseguenza della menzionata rapida crescita dello stock di debito pubblico, soprattutto negli Stati Uniti, in Germania, in Italia e in Giappone. A partire dai primi anni novanta, questa tendenza si è invertita là dove la crescita del debito pubblico era stata più rapida (Stati Uniti, Italia), mentre il debito pubblico giapponese ha cominciato a crescere rapidamente proprio a metà degli anni novanta. Negli Stati Uniti, il fenomeno più rilevante sul mercato obbligazionario è stato il forte aumento nelle emissioni di titoli da parte delle agenzie para-governative per il finanziamento dell'edilizia (Fannie Mae, Freddie Mac). Ben diverse, però, sono le conseguenze di una crescita del debito pubblico, e in generale delle emissioni obbligazionarie, in Europa o negli Stati Uniti rispetto al Giappone. I titoli pubblici europei e statunitensi sono infatti assorbiti in grande percentuale da investitori esteri, mentre quelli giapponesi sono acquistati quasi esclusivamente da investitori locali. In generale la volatilità dei titoli tenuti in portafoglio da investitori stranieri tende a essere maggiore, in relazione a un possesso che si considera meno stabile rispetto a quello dei titoli nazionali.

Se si pensa che ben il 51° sul totale delle obbligazioni presenti sui mercati proviene da emittenti statunitensi, si comprende ancora meglio quanto già affermato a proposito dell'importanza della politica monetaria statunitense rispetto all'andamento dei corsi delle obbligazioni in tutto il mondo.

L'aumento delle oscillazioni nei tassi di interesse - indotto dalla decisione delle autorità monetarie statunitensi di controllare il tasso di inflazione servendosi quasi esclusivamente della leva monetaria - ha reso più rischioso il possesso di obbligazioni per tutti gli investitori tranne per quelli che detengono i titoli dall'emissione alla scadenza (i quali sono una minoranza rispetto al totale). Sono dunque enormemente aumentati, anche in questa sezione dei mercati finanziari, i rischi derivanti dalle oscillazioni dei corsi, le possibilità di guadagno e la necessità di immunizzarsi contro tali rischi. Una necessità del genere è stata sentita, in maniera particolare, da parte di tutti quegli investitori che per un verso sono attirati dalla certezza relativa dei flussi di cassa provenienti dagli interessi maturati sui titoli stessi, ma che per l'altro temono i rischi in conto capitale, insiti nel possesso di obbligazioni comprate dopo l'emissione e da vendersi prima della scadenza. Ne è seguita una domanda forte e crescente di prodotti derivati da utilizzarsi per immunizzazione finanziaria, che si è aggiunta a quella indotta dall'oscillazione dei cambi.

Il valore di tutte le obbligazioni presenti sui mercati mondiali si è quintuplicato tra il 1975 e il 1987 e si è quadruplicato tra il 1987 e il 2001. Gran parte della dinamica del primo periodo si deve ai titoli di Stato, mentre nel secondo periodo anche gli altri emittenti hanno mostrato maggiore attivismo.

Dal punto di vista tecnico, il mercato delle obbligazioni ha registrato sviluppi molto importanti e complessi nei decenni di cui ci stiamo occupando. L'arrivo in massa degli investitori istituzionali, unito al forte aumento dei rischi derivanti dalle oscillazioni dei tassi di interesse, ha fatto sì che enormi risorse fossero dedicate allo studio di tecniche di emissione e gestione sempre più complesse. Si è diffusa, ad esempio, la tecnica di separare le cedole di un titolo a reddito fisso dal capitale del medesimo, negoziando poi tali cedole come se si trattasse di obbligazioni senza cedola (zero coupon bonds) e vendendole a operatori interessati a ricevere la somma corrispondente alla cedola nel momento in cui essa giunge a maturazione. In questo modo, il mercato cosiddetto 'a termine', fiorito da molti decenni intorno ai titoli azionari, si è potuto sviluppare anche per i titoli a reddito fisso, usando appunto le tecniche approntate per i mercati azionari e inventandone di nuove.

Il mercato delle obbligazioni ha visto aumentare le sue dimensioni non solo a causa dell'enorme crescita dei debiti pubblici in molti paesi del mondo, ma anche per l'introduzione di tecniche che permettono di emettere obbligazioni basate su crediti 'cartolarizzati'. La 'cartolarizzazione' consiste nella trasformazione di un debito in un titolo negoziabile sul mercato: l'esempio più rilevante è costituito dai mutui ipotecari, tradizionalmente forniti da banche o intermediari specializzati a persone fisiche o giuridiche per l'acquisto di immobili, mediante accensione di ipoteche sugli stessi a garanzia dei mutui. Negli ultimi decenni si è realizzata la possibilità, per i creditori di tali mutui, di venderli ad altri investitori prima della scadenza. Onde evitare l'eccessiva rischiosità di tali operazioni, si è pensato di 'consolidare' molti contratti di mutuo in 'pacchetti' rappresentati da obbligazioni, salvaguardando le garanzie e la titolarità giuridica dei crediti ceduti attraverso complesse procedure. L'attività di emissione e negoziazione delle mortgage backed securities, titoli rappresentativi di attività immobiliari, si è quindi estesa ad altri crediti, come i mutui concessi per l'acquisto di automezzi e altri beni di consumo durevole, e persino ai crediti accesi da titolari di carte di credito con le istituzioni finanziarie che tali carte emettono.

Per quanto riguarda il settore immobiliare, lo sviluppo della cartolarizzazione negli Stati Uniti, che anche in questo caso hanno fatto da battistrada (se si eccettua la cospicua esperienza, precedente di molti lustri, dei Pfandbriefe tedeschi), è stato ampiamente favorito dalla creazione, da parte del Congresso, di alcune società parastatali, come le ricordate Fannie Mae e Freddie Mac, che forniscono il credito agli acquirenti di case unifamiliari mediante fondi reperiti attraverso l'emissione di obbligazioni. La garanzia del governo federale statunitense su tali obbligazioni non è certa, ma probabile, tanto da avere indotto numerose banche centrali straniere ad acquistarne, negli anni a cavallo del 2000, quantitativi ingenti da usare come riserve valutarie a causa del temporaneo rarefarsi delle emissioni di titoli di Stato statunitensi, normalmente usati per questo scopo dalle banche centrali di tutto il mondo.

c) Contratti finanziari a termine e prodotti derivati

I contratti nei quali si fissa un prezzo di vendita per un bene da consegnarsi a una data futura sono, per quanto riguarda le merci - in particolare le merci standardizzate come alcuni prodotti agricoli e materie prime - di origine relativamente antica. Il loro scopo originario è abbastanza chiaro: i contraenti possono essere interessati a estendere il campo della loro contrattazione a merci non ancora prodotte, fissando in anticipo le condizioni di prezzo e quantità alle quali tali scambi avranno luogo. L'interesse verso operazioni del genere tende a svilupparsi solo quando i prezzi delle merci (naturalmente di merci standard) sono soggetti a oscillazioni. Se, ad esempio, un individuo deve vendere a un altro una tonnellata di grano tra sei mesi e pensa che il prezzo del grano possa oscillare, egli potrà cautelarsi contro tali oscillazioni (che potrebbero essere per lui favorevoli o sfavorevoli) fissando il prezzo e magari addirittura facendoselo versare dalla controparte. Ma se l'acquirente non è interessato a questo tipo di operazione - in altre parole, se vuole speculare sul prezzo futuro della merce - egli potrà ottenere il risultato che si prefigge se riuscirà a trovare sul mercato qualcuno disposto a vendergli oggi la stessa merce per consegna a sei mesi, ma a un prezzo oggi stesso definito. In questo modo, l'acquirente s'immunizza contro le oscillazioni possibili del prezzo della merce in questione.

Il mercato a termine può assumere una forma organizzata, simile a quella della borsa valori, per cui anche nel caso in cui si trattino solamente merci vere e proprie esso diviene quasi naturalmente un mercato nel quale una cospicua parte dei partecipanti è interessata solo al lato finanziario delle transazioni. Il produttore di grano ha un genuino interesse a non rischiare e può trovare sul mercato, con l'aiuto di un mediatore professionista, un utilizzatore finale di grano che voglia fare un'operazione opposta alla sua. Molto più spesso, tuttavia, egli trova sul mercato un operatore interessato esclusivamente alla speculazione finanziaria, cioè a scommettere che il prezzo che s'impegna a pagare al venditore per la merce in questione oscillerà nella direzione a lui favorevole. Avendo ad esempio fissato un prezzo pari a dieci euro per una tonnellata di grano per consegna a sei mesi, egli scommette sul fatto che al momento della consegna possa rivendere lo stesso grano a un prezzo superiore. Il guadagno dell'operazione scaturisce dalla differenza fra i due prezzi, al netto dei costi connessi a partire dagli interessi di sei mesi sulla somma in questione.

La maggiore volatilità dei tassi di interesse, verificatasi a partire dalla fine del sistema di cambi fissi di Bretton Woods, ha avuto riflessi sui mercati a termine. Gli operatori hanno cominciato a dichiararsi disponibili a fornire contratti a termine sullo scambio di valute estere o sui tassi di interesse. Col passare degli anni - viste le notevolissime oscillazioni dei cambi e dei tassi di interesse, oscillazioni che continuano a verificarsi tuttora - questi mercati hanno acquisito dimensioni sempre maggiori. Poiché molti di coloro che si rivolgono a essi per ottenere un'immunizzazione dal rischio di cambio o di interesse trovano come controparte solo speculatori puri, l'instabilità strutturale di tali mercati è notevolmente cresciuta.

L'instabilità è vieppiù aumentata nel momento in cui buona parte delle transazioni a termine, aventi per oggetto i cosiddetti 'prodotti derivati', si è trasferita dalle borse organizzate, regolamentate dalle autorità, alle sedi di alcune grandi banche. Qui i prodotti derivati, così chiamati in quanto il loro valore deriva da quello di un'obbligazione sottostante, sono confezionati seguendo le necessità dei singoli richiedenti che hanno come controparti le stesse banche (v. anche finanza dei derivati, vol. XII). Queste transazioni si definiscono over the counter, cioè 'allo sportello'. Le banche confezionano prodotti derivati che ritengono interessanti per loro clientela e poi ne affiggono le caratteristiche e i prezzi ai loro 'sportelli', che in realtà sono degli schermi di computer collegati a una rete accessibile alle banche e a coloro che vogliono negoziare con loro.

Tra i prodotti derivati - oltre ai contratti futuri (standardizzati, scambiati nei mercati organizzati e approvati dalle autorità di vigilanza su tali mercati) e quelli a termine (negoziati 'allo sportello' tra grandi banche e singoli clienti) - vale la pena di ricordare, per la loro crescente importanza, i contratti cosiddetti di 'opzione'. Essi si originano nei mercati azionari e danno al contraente la facoltà ma non l'obbligo di comprare o vendere da chi fornisce l'opzione (solitamente una grande banca o un operatore professionista che opera su un mercato organizzato) un certo prodotto finanziario. La facoltà di esercitare tale opzione ha una scadenza fissa (opzioni europee) o una scadenza ultima, entro la quale il diritto di esercizio può essere fatto valere (opzioni statunitensi). Scaduta la data ultima o fissa, l'opzione si intende abbandonata. Il prezzo al quale tale facoltà di acquistare o vendere un prodotto finanziario può essere esercitata è fissato secondo regole matematiche abbastanza complesse, che sono state banalizzate in algoritmi calcolabili automaticamente, fornendo alcuni semplici parametri, su calcolatrici elettroniche di costo modesto. Da quando tali calcolatrici sono divenute disponibili, il mercato delle opzioni ha ricevuto un impulso straordinario. Come avviene quasi sempre nel caso dei prodotti derivati, ciò comporta notevoli pericoli. La possibilità di calcolare i prezzi dei prodotti stessi fornendo alle macchine calcolatrici solo pochi parametri non significa che chi le utilizza si renda veramente conto di come sono ottenuti tali algoritmi e delle implicazioni derivanti dal mutamento di qualche parametro o delle altre condizioni di mercato o delle variabili esogene. Come spesso accade nei casi in cui i partecipanti ai mercati non siano perfettamente in grado di comprendere a fondo tutte le caratteristiche di funzionamento dei mercati stessi e degli strumenti in essi negoziati, il cambiamento improvviso e inatteso dei parametri o delle variabili esogene può determinare conseguenze impreviste e indurre il subitaneo ritiro dai mercati di molti partecipanti, che solo in questi momenti si rendono conto di non avere un grado di informazione tecnica sufficiente. In tal caso, il ritiro dal mercato viene visto come la politica meno pericolosa, ma induce la repentina scomparsa di una parte notevole del mercato stesso, con pesanti conseguenze in termini di volatilità dei prezzi e instabilità.

La disponibilità di un'ampia gamma di prodotti derivati, sempre più complessi e tagliati su misura per le esigenze dei singoli operatori, ha offerto notevoli possibilità, specie a banche e società di assicurazioni, di eludere le regole che le autorità di vigilanza, isolatamente o riunite in consorzi come i Comitati di Basilea, hanno stabilito per ridurre la volatilità e l'instabilità dei mercati (fissando ad esempio coefficienti obbligatori di capitale su vari tipi di operazioni di banca). Sembra dunque che, in tutti questi modi, sia venuta a determinarsi una situazione nella quale le autorità fissano regole per ridurre la volatilità e l'instabilità dei mercati finanziari, e i partecipanti a tali mercati - nel tentativo di eluderle proprio utilizzando gli strumenti offerti dagli stessi mercati - contribuiscono ad aumentare volatilità e instabilità. Si può dunque dire che, in un certo senso, è proprio l'attività di regolamentazione, condotta in un contesto nel quale gli organizzatori dei mercati possono eludere tale attività, a far aumentare i fenomeni negativi dei quali si vuol ridurre la frequenza e la portata.

Qualche dato servirà a dar conto dello sviluppo raggiunto attualmente dai mercati delle opzioni e degli altri prodotti derivati. Al dicembre 2002, il valore nozionale di tutti i contratti derivati esistenti è stato calcolato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali in oltre 141 miliardi di dollari, mentre al dicembre 2000 tale valore era ancora a 95 miliardi di dollari. Si tratta in massima parte di contratti relativi a movimenti dei tassi di interesse, mentre i contratti sui cambi riguardano il 12° del totale. I mercati dei prodotti derivati, nonostante o forse a causa delle numerose crisi finanziarie internazionali che si sono verificate, continuano dunque a crescere a tassi estremamente elevati.

bibliografia

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Steinherr, A., Derivatives: the wild beast of finance, New York: Wiley, 1998.

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