MERCANTILISMO

Enciclopedia Italiana (1934)

MERCANTILISMO

Gino Luzzatto

. Il nome di mercantilismo, o più spesso di sistema mercantile, fu usato - sembra - per la prima volta dai fisiocratici, e poi largamente diffuso da Adamo Smith, che dedicò una larga parte della sua classica opera all'esposizione e alla critica del sistema. Con quel nome, scelto forse perché, secondo tale sistema, si applicavano all'economia pubblica i criterî d'una buona gestione commerciale (intendendo per commercio, come fanno tutti gli economisti del Settecento, ogni forma di produzione e di scambio), lo Smith comprende la politica indirizzata ad aumentare, entro lo stato, la disponibilità di denaro, nonché il protezionismo che deve concorrere allo stesso scopo, diminuendo le importazioni di merci e creando con ciò la possibilità d'una bilancia commerciale favorevole. Ma, in questo modo, lo Smith non ha delineato che due degli elementi caratteristici del mercantilismo, il quale in realtà è qualche cosa di assai più complesso e organico, e può definirsi come il sistema della politica economica delle grandi monarchie nazionali unitarie, le quali, col loro intervento in materia economica, tendono a porre su basi più solide l'unità statale e a fare dell'incremento della ricchezza nazionale uno strumento per aumentare la forza dello stato nei suoi rapporti con l'estero. Il mercantilismo può essere anche considerato come un particolare stato d'animo, come una forma mentale, diffusa in larghissimi strati, alti e bassi, della popolazione, intimamente persuasi della bontà di certi procedimenti economici. Inteso in questo senso si può dire che esso sia antico quanto lo stato e sia oggi più vivo che mai: è infatti quasi istintiva nell'uomo civile la convinzione dell'onnipotenza dello stato in materia economica e, oltre che del diritto, anche, e più, del dovere dello stato d'intervenire non solo per difendere ed equamente distribuire la ricchezza nazionale, ma anche per crearla, per promuovere, indirizzare, aiutare i varî rami della produzione, anche se i loro interessi contrastino fra loro.

Considerato solo come un particolare indirizzo della dottrina economica, il predominio del mercantilismo dev'essere limitato a un periodo molto ristretto. Dopo qualche accenno molto significativo che s'incontra già in alcuni scrittori, per buona parte italiani, della seconda metà del Cinquecento, esso assurge agli onori d'una trattazione sistematica, durante poco più d'un secolo, fra i primi del Seicento e l'età dei fisiocratici e di Adamo Smith. E anche per questo periodo non si può forse parlare d'un sistema organico di dottrine, d' una vera e propria "teoria mercantilistica". S'incontra bensì in Italia, come in Francia, in Inghilterra, in Germania e in altri paesi, un gruppo assai numeroso di scrittori di cose politiche e sociali, i quali s'interessano ai problemi economici concreti del loro tempo e del loro paese; ma se anche dànno ai loro scritti un titolo che può far pensare al sistema, come è il caso del Montchrétien, il quale pubblicò nel 1615 il primo trattato di "economia politica", riguardante le manifatture, il commercio, la navigazione, ecc., in realtà non si occupano che di problemi singoli, e da un punto di vista prevalentemente pratico. Essi, per usare una terminologia moderna, sono assai più scrittori di politica economica, che di economia teorica; propugnano soluzioni pratiche che s'impongono, nel loro tempo, all'attenzíone delle monarchie assolute, e che variano da paese a paese a seconda delle condizioni e delle necessità diverse: così, per il calabrese Serra, come per gli scrittori francesi del Seicento, il problema più urgente è quello di sottrarre il loro paese al predominio dei mercanti stranieri, d'indurre i proprî connazionali a trasformare le materie prime di cui è ricco il loro paese, di esercitare direttamente il commercio d'esportazione; per gl'inglesi invece, il problema più assillante è quello della marina mercantile, in cui essi devono liberarsi dal predominio olandese. Nell'esame di questi problemi, nelle soluzioni ch'essi propongono, essi hanno tutti in comune la mentalità mercantilistica, così largamente diffusa al loro tempo, e a cui finiscono sempre per ritornare, anche se di tratto in tratto essi affacciano, a difesa delle soluzioni che propugnano, idee che sembrano preludere alla formazione d'un vero e proprio pensiero scientifico. Carattere comune di tutti questi scrittori, poi, è il loro proporsi, nella soluzione dei varî problemi economici, non l'interesse dei singoli, ma la ricchezza e la potenza del loro stato.

Ma quando invece si guardi al mercantilismo nel suo aspetto essenziale, che è appunto quello d'un determinato indirizzo di politica economica, si può dire che l'età del suo predominio è quella a cui si dà il nome di moderna o dell'economia nazionale; comincia cioè alla fine del Quattrocento, quando si fanno innanzi le tendenze accentratrici e assolutistiche delle monarchie occidentali, e culmina nella metà del Seicento, al tempo di Cromwell e di Colbert, per declinare tra la fine del Settecento e i primi dell'Ottocento. A prescindere dai grandi imperi dell'antichità, dove sarebbe assai facile trovare i precedenti del sistema, è indubitato che alcuni degli elementi fondamentali della politica mercantilistica s'incontrano già nei maggiori comuni medievali, specialmente italiani. Qui è continuo l'intervento del potere pubblico in materia industriale e commerciale, per garantire la bontà del prodotto con disposizioni tecniche minutissime e con un'assidua vigilanza; per assicurare alla città quei rami d'industria che ancora le manchino, mediante esenzioni fiscali e sussidî di vario genere a chi introduca quell'industria, e mediante la sua difesa, temporanea o permanente, dalla concorrenza straniera; per promuovere il commercio d'esportazione con trattati, con la tutela dei proprî mercanti all'estero, con linee marittime di stato; per impedire l'esodo della moneta più pregiata e l'invasione della moneta cattiva.

Ma soprattutto lo stato moderno, verso il quale i primi passi sono mossi dai grandi comuni e dalle signorie italiane del Trecento, determina con le sue funzioni del tutto nuove la necessità d'una politica mercantilistica nel significato più largo e complesso della parola. Il monarca medievale, che esercitava una sovranità effettiva soltanto sulle terre che gli erano direttamente soggette, e per tutto il resto del regno si limitava a essere il primo dei feudatarî, costretto a subordinare al consenso dei suoi dipendenti la possibilità di fare la guerra col concorso delle loro truppe e dei loro contributi pecuniarî, si avvia rapidamente, nel Quattrocento, a diventare il vero e solo sovrano di tutto lo stato, che non vuol riconoscere tra sé e i sudditi alcun potere intermedio. Ma questo ampliamento, o meglio questa trasformazione del potere sovrano, porta con sé funzioni e bisogni del tutto nuovi. Il principe deve esercitare effettivamente il suo potere in tutte le parti dello stato, per mezzo di funzionarî che dipendano direttamente da lui. Deve creare perciò una burocrazia professionale stipendiata, in gran parte a sue spese, sia al centro sia alla periferia. Per l'affermazione del suo potere sovrano nei rapporti con gli altri stati, ha bisogno di rappresentanze diplomatiche all'estero, dapprima temporanee e poi permanenti. Deve provvedere, sebbene ancora in misura assai modesta, a qualche opera e servizio pubblico d'interesse più generale. Ma soprattutto, per rendersi indipendente dai signori feudali e dai poteri locali, per appoggiare su basi più solide il suo potere all'interno e il suo prestigio all'estero, deve disporre di una forza militare propria, che dipenda direttamente ed esclusivamente da lui.

Tutte queste nuove funzioni, e in modo particolarissimo la creazione d'un esercito permanente stipendiato, che avviene appunto nel periodo in cui si compie una profonda trasformazione nella tecnica militare col predominio della fanteria e dell'artiglieria, da cui deriva anche la necessità di rinnovare tutte le opere di difesa, richiedono una somma di spese, ordinarie e straordinarie, di proporzioni, per quei tempi, inaudite, a cui gli stati medievali non erano in alcun modo preparati. Le monarchie, abituate a contare, abitualmente, sulle sole entrate patrimoniali delle loro terre di diretto dominio, e in casi eccezionali sui donativi concessi loro dai parlamenti, devono assicurarsi un sistema d'entrate assai più largo e meno aleatorio, e traggono da questa necessità una delle spinte più efficaci per rompere gli ostacoli che si oppongono all'unità doganale dello stato, creando una sola barriera e una sola tariffa estema che esse possano liberamente modificare, e per sostituire all'estrema varietà l'unità delle imposte dirette, sopprimendo le mille divisioni, differenze ed esenzioni, che ne paralizzavano la riscossione.

Le necessità del tutto nuove della finanza inducono i governi a interessarsi dei problemi economici del loro paese: "Il commercio - scriveva Colbert nel 1666 - è la sorgente delle finanze, e le finanze sono il nerbo vitale della guerra". In questa sentenza v'è, si può dire, tutta l'essenza della politica mercantilistica: il fine da raggiungere è la potenza dello stato, che si fonda in primissima linea sulla forza militare; il mezzo immediato per potere assicurare questa forza è la finanza; il mezzo indiretto, ma fondamentale, è l'aumento della ricchezza nazionale, raggiunto con l'intensificazione della produzione e degli scambî, soprattutto esterni. L'intervento dello stato nella vita economica non è giustificato da una preoccupazione per il benessere deí cittadini, ma è determinato da un interesse squisitamente politico. L'aumento della ricchezza privata interessa lo stato, non meno dell'ampliamento del territorio e dell'incremento della popolazione, unicamente come un mezzo per aumentare la propria forza: l'economia, nelle intenzioni almeno degli uomini di governo, se non sempre nella realtà, è completamente subordinata alla politica.

Ma se questo, di un'economia subordinata alle finalità dello stato, è il concetto informatore del sistema mercantile, se esso risorge anche nell'età contemporanea (ad esempio nella Germania dopo il 1815 e nella maggior parte degli stati del mondo, dopo la guerra mondiale) tutte le volte che si sente la necessità di cementare la coesione e l'indipendenza nazionale; i mezzi a cui si ricorre per applicare questo concetto e i risultati variano da periodo a periodo e da luogo a luogo. E sono in fondo questi mezzi, assai più che il fine, ciò che forma l'aspetto più caratteristico e per noi più importante della politica economica delle grandi monarchie dell'Europa occidentale nell'epoca di cui ci occupiamo.

Essi si possono, in generale, riassumere nei punti seguenti:

1. politica demografica, tendente a ottenere un aumento della popolazione, di cui si sente la necessità per assicurarsi una maggiore disponibilità di uomini atti alle armi, e, più ancora, per avere una larga offerta di mano d'opera e un grande numero di contribuenti. Ma questa politica, per l'insufficienza dei mezzi a cui si poteva ricorrere, non riuscì a raggiungere risultati notevoli. A eccezione infatti degli incoraggiamenti all'immigrazione, che soltanto in alcuni casi poterono riuscire veramente efficaci, mancavano ancora allo stato tutte quelle armi che, dal Settecento in poi, e in misura assai maggiore dopo l'Ottocento, concorsero a rendere possibile un rapido incremento della popolazione europea: mancavano cioè del tutto i provvedimenti d'igiene pubblica e privata, che valessero a combattere le pestilenze e a diminuire la mortalità, sempre altissima, fra i bambini;. e mancava quasi del tutto la facilità delle comunicazioni e dei trasporti interni, che togliesse ai forti addensamenti di popolazione industriale il pericolo della fame;

2. politica unitaria, che tende non solo all'unità politica, amministrativa, tributaria e giudiziaria, ma anche all'unità economica, alla formazione cioè di un unico mercato nazionale, in cui le merci e le persone possano circolare liberamente nell'interno dello stato e la politica economica abbia un unico centro disciplinatore e propulsore. Ma se la tendenza all'unità è evidente in tutte le grandi monarchie occidentali, dalla Spagna alla Svezia, se costituisce anzi, come si è detto, uno degli elementi essenziali della politica mercantilistica, i risultati raggiunti variano moltissimo da paese a paese, a seconda degli ostacoli maggiori o minori opposti dalle condizioni naturali e dalla resistenza dei poteri locali;

3. politica della produzione, che varia anch'essa a seconda delle condizioni sociali e a seconda della forza politica di cui possono disporre i varî gruppi di produttori, ma che presenta il carattere comune dell'intervento diretto dello stato per promuovere e difendere lo sviluppo di quei rami della produzione che esso ritiene più vitali per l'interesse nazionale; della convinzione che basti un atto di volontà del governo per. dare vita a un'industria e per creare con ciò una nuova fonte di ricchezza. I mezzi d'intervento sono assai varî: per le industrie vecchie e che provvedono ai bisogni più elementari, il mezzo preferito è quella della disciplina statale delle corporazioni, con cui si concilia il carattere locale, cittadino, dell'organizzazione industriale con il diritto di legiferare e di vigilare sopra di essa e con l'interesse fiscale dello stato. Per le industrie nuove e per quelle fra le industrie vecchie che hanno maggiore importanza per l'esportazione, l'aiuto più efficace viene dato dalla protezione doganale, che assume spesso il carattere di un sistema proibitivo. Per essa, l'industria gode per lo più di una duplice protezione: nell'acquisto delle materie prime, di cui è vietata o gravemente ostacolata l'esportazione; nella conquista o nella conservazione del mercato nazionale, in cui l'importazione dei prodotti stranieri concorrenti è vietata o sottoposta a dazî molto elevati. In quei paesi, poi dove il ceto agricolo non ha raggiunta una notevole influenza politica, l'industria gode anche d'una protezione indiretta, inquantoché il divieto di esportazione dei cereali e di altre derrate alimentari tende a tener basso il costo della mano d'opera.

Ma spesso queste forme d'aiuto non sono sufficienti; quando non bastino nemmeno i premî alla produzione o all'esportazione, si ricorre al privilegio, concesso per lo più al singolo privato o a una compagnia che s'impegni d'introdurre un'industria nuova. Il privilegio può assumere forme ed estensioni diverse: dalla semplice esenzione fiscale per un certo numero di anni; dal diritto di assumere liberamente la mano d'opera in qualunque numero e di qualunque provenienza, in deroga agli statuti delle corporazioni; dagli anticipi o dai donativi d'una somma di danaro, fatti dalla corona stessa, si arriva fino al monopolio di produzione e di vendita entro i limiti d'una provincìa, d'una regione o, assai più raramente, di tutto lo stato. Nel caso poi d'industrie più delicate e costose non bastano nemmeno i privilegi più larghi, e si arriva addirittura all'industria di stato;

4. politica commerciale, indirizzata a incoraggiare con ogni mezzo il commercio esterno e a trovargli nuovi sbocchi. Negli scambî con l'estero e in particolare nell'eccedenza delle esportazioni sulle importazioni (bilancia commerciale favorevole), si vede allora il mezzo, forse anzi il solo mezzo efficace, per aumentare la ricchezza nazionale a spese dei paesi stranieri. Al suo miglioramento si cerca di concorrere con trattati di commercio, con l'azione diplomatica e anche militare, col protezionismo doganale, che si propone, non solo di difendere le industrie, ma anche i due fini, difficilmente conciliabili fra loro, di diminuire le importazioni e di aumentare le esportazioni; con i premî, con i privilegi. con la stessa politica coloniale, che ha in questo periodo, nonostante la diversità dei suoi caratteri e dei suoi risultati, una finalità prevalentemente, se non esclusivamente, commerciale. Il mezzo preferito è quello della concessione del monopolio a compagnie private, che finiscono per assumere dappertutto il carattere delle società per azioni, in cui, nonostante la gravità del rischio, il capitale è attirato dalla speranza di profitti altissimi, tutelati appunto dal privilegio dell'esclusività. Il privilegio, esteso talvolta a tutt'e tre le attività, marinara, commerciale e coloniale, in un determinato campo, spesso vastissimo, comprende in altri casi le prime due, e in altri casi la sola attività coloniale, subordinata sempre agl'interessi commerciali della madre patria, nel senso che le colonie sono considerate come un centro di rifornimento di materie prime alle sue industrie, come mercato di consumo dei suoi manufatti, come fonte sicura e riservata di attività per la sua marina mercantile;

5. politica del denaro e dei metalli preziosi. Se la critica più recente ha potuto con ottimi argomenti dimostrare l'infondatezza della tesi, che ha dominato da Adamo Smith fino ai nostri giorni, secondo la quale il sistema mercantile si riassumerebbe tutto nell'identificazione dei due termini: ricchezza nazionale e abbondanza d'oro e d'argento, se è vero che il "sistema" è qualche cosa di assai più complesso e organico, è tuttavia innegabile che l'interesse di assicurare allo stato una sempre più larga riserva di denaro e di metalli preziosi occupa in esso un posto centrale e preminente, costituendo la preoccupazione costante così degli uomini di governo come degli studiosi e il criterio ispiratore di molti dei provvedimenti di politica economica da essi attuati o suggeriti.

La preoccupazione di assicurarsi una riserva d'oro e d'argento e d'impedirne l'esodo aveva ispirato in tutto il Medioevo la politica delle città e delle monarchie, ma assunse proporzioni di gran lunga maggiori al principio dell'età moderna, per l'estendersi dell'economia monetaria, per la necessità del tutto nuova delle finanze statali; ed è stata portata al più alto grado dalle notizie, in parte vere, in parte fantastiche, delle enormi ricchezze che le miniere americane riversavano ogni anno nel tesoro della corona di Spagna. In quel flusso inesauribile d'oro e d'argento, si vide allora il massimo fattore della potenza spagnola; i viaggi più arditi d'esplorazione e i primi tentativi di colonizzazione furono provocati quasi esclusivamente dal desiderio di arrivare per altre vie a quelle sorgenti dell'oro o di trovarne di nuove; e poiché quelle speranze rimasero in massima parte deluse, si cercò di far deviare dalla Spagna la corrente preziosa, servendosi a questo fine di ogni mezzo, lecito o illecito, violento o pacifico: della guerra di corsa, della pirateria vera e propria, del contrabbando, delle licenze d'importazione di manufatti in Spagna e nelle sue colonie. Dei varî mezzi per raggiungere quello scopo, l'ultimo dové presto apparire non solo il più onesto e il meno pericoloso, ma anche il più efficace; tanto che, fin dai primi del Seicento, esso è elevato a sistema. Già nel 1613, il calabrese Antonio Serra intitolava il suo acuto trattatello: "delle cause che possono fare abbondare li regni d'oro e d'argento dove non sono miniere", e designava come tali le industrie manifatturiere, il commercio estero e la politica dei cambî. Pochi decennî più tardi, l'inglese Tomaso Mun dava anch'egli alla sua opera, considerata poi come la più genuina espressione del pensiero mercantilista, un titolo, che è per sé stesso un programma: "Il tesoro dell'Inghilterra nel commercio estero". Le idee di questi e di tanti altri saittori rispecchiano fedelmente quella che era l'opinione comune di quanti s'interessavano a quei tempi dei problemi economici e il criterio direttivo degli uomini di govemo. Non è mancata - è vero - la voce contraria di qualche isolato, come quella del fiorentino Bernardo Davanzati, il quale nel 1588, con una chiarezza di visione, che sembra quasi profetica, ammoniva gli illusi che l'aumento enorme dei prezzi, triplicatisi in meno di 50 anni, era la conseguenza immediata delle importazioni dell'oro americano, e che il giorno in cui d'oro del Perù fosse passato in Europa "allora converrà, perché l'oro ci fia vilissimo, trovar altra cosa più cara per far moneta o tomare al baratto antico"; del francese Boisguillebert che, un secolo più tardi, dimostrava l'errore in cui cadono coloro che ricercano il denaro con tanta avidità, perché il denaro non è, e non è mai stato, che un mezzo per procurarsi le merci, ed è acquistato alla sua volta con la vendita di merci.

Ma in quei tempi, ben pochi erano disposti a prestare ascolto a tali ammonimenti; e la convinzione che l'abbondanza di denaro e di metalli preziosi costituisse la maggior forza d'uno stato era sempre il movente principale che si adduceva in difesa di tutti i privilegi industriali e commerciali, di tutti i favori all'esportazione dei prodotti lavorati, di tutte le misure protezionistiche o proibitive contro le importazioni. Fu necessario che lo sviluppo della tecnica e della produzione agraria ponesse in prima linea il problema della libertà del commercio dei cereali, che i rapidi progressi della marina mercantile e del traffico oceanico provocassero una vivace opposizione contro ogni ostacolo alla libertà delle importazioni e delle esportazioni, perché si facesse strada nel Settecento una corrente di idee nettamente opposta al mercantilismo ed essa si affermasse vittoriosamente con la grande fortuna degli scritti dei fisiocratici e soprattutto dell'opera classica di Adamo Smith.

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