Mente e cervello

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Mente e cervello

Pietro Calissano

Il cervello

Il sistema nervoso, di cui il cervello costituisce la parte più consistente, ha la funzione di ricevere informazioni dal mondo esterno, elaborare queste informazioni - memorizzandole se necessario - ed emettere una risposta. Il cervello umano è più voluminoso di quello di qualsiasi altro primate e più piccolo soltanto di quello degli elefanti, dei grandi delfini e delle balene. Il peso medio è di circa 1330 grammi. È stato calcolato che se una scimmia antropomorfa dovesse essere dotata del cervello umano, il suo peso corporeo dovrebbe aggirarsi intorno ai 500 chilogrammi. Il rapporto cervello/corpo è quindi 5-6 volte superiore nell'uomo rispetto a quello degli animali più vicini da un punto di vista genetico e comportamentale. Tuttavia questi numeri non sono di alcuna utilità per comprendere la natura della 'mente' e le capacità dell'uomo rispetto ai suoi antenati più prossimi. Basta considerare che mentre nella specie umana il cervello rappresenta il 2% circa della massa corporea, nei piccoli mammiferi il peso del cervello può raggiungere circa il 4% della massa corporea. Considerazioni analoghe valgono se si utilizzano dati di altro genere, basati sul patrimonio ereditario della specie umana confrontato con quello delle scimmie antropomorfe. È stato dimostrato che uomo e scimpanzé sono accomunati dal 99% dei geni che formano i rispettivi genomi. Se si assume che questi assommano a un totale di circa trentamila, se ne deduce che soltanto 300 geni separano la nostra specie da quella dei nostri 'parenti' più prossimi. Numero che potrebbe apparire paurosamente esiguo a chi ancora si ostinasse a vantare una sostanziale differenza qualitativa fra noi e il 'mondo animale' al quale indissolubilmente apparteniamo; ma lo stesso numero potrebbe essere valutato più che sufficiente e soddisfacente se si considera che in natura possono verificarsi salti evolutivi impressionanti per mutazione di pochi geni o anche di uno soltanto.

Pur costituendo solo il 2% della massa corporea, il nostro cervello consuma il 25% di tutto l'ossigeno che respiriamo e, a riposo, 10 volte più degli altri organi del nostro corpo. È stato calcolato che il cervello dell'uomo, come quello di altri Primati, cresce nell'embrione e nel feto al ritmo di 250.000 neuroni al minuto. Alla nascita questa crescita numerica è quasi completa; l'aumento ulteriore della massa dell'encefalo è dovuta alla crescita delle fibre nervose e delle loro terminazioni, le sinapsi. Nello sviluppo, tuttavia, e anche nei primi anni di vita, si assiste a un apparente paradosso: mentre il numero delle arborizzazioni dendritiche e delle terminazioni sinaptiche di ciascun neurone cresce enormemente (nell'adulto si calcolano 50-500 milioni di sinapsi per mm3 di materia cerebrale), intere popolazioni di cellule nervose attivano un proprio programma di eliminazione, presente nel proprio genoma. Si tratta di una vera e propria autoeliminazione, descritta diversi decenni or sono da R. Levi Montalcini, successivamente anche nelle sue componenti genetico-molecolari. Etichettato con il nome di apoptosi, il programma di autoeliminazione riveste un significato funzionale ben preciso. Ad attivare l'apoptosi, infatti, sono tutti i neuroni che non hanno stabilito contatti appropriati con altri neuroni e che, di conseguenza, costituirebbero un inutile ed energeticamente costoso fardello per la comunità delle cellule attive. Si tratta di una vera e propria selezione darwiniana che opera in modo massiccio negli anni di sviluppo, tanto da portare a una riduzione di circa il 50% l'intera popolazione nervosa dell'encefalo di un diciottenne. L'attivazione impropria di questo programma di autoeliminazione nell'adulto può provocare malattie neurodegenerative di varia natura.

La mente

La parola mente appartiene a quel gruppo di termini che sono tanto usati pur essendo vaghi nel loro significato. Può capitare di incontrare un'identificazione di mente con tutto ciò che è 'spirito' o 'spirituale', spostando così il problema della definizione di mente a quello altrettanto vago di spirito. Una variante di questa confusione semantica è rappresentata dall'identificazione di mente con 'anima', che in molte delle tradizioni spiritualistiche o religiose è considerata immortale. Paradossalmente poi, neppure ciascuna delle funzioni mentali (come pensiero, memoria, coscienza ecc.) sono agevolmente definibili e circoscrivibili.

Cosa identificano il pensiero o la coscienza? Inoltre assumendo che siano il frutto delle funzioni cerebrali, dove risiedono e come si generano? Spesso si usa dire: veloce come il pensiero; si sa che i pensieri, ossia gli impulsi nervosi mediante i quali essi vengono trasmessi, devono percorrere di solito spazi molto ravvicinati, dell'ordine di millimetri o centimetri e quindi, pur circolando nella nostra scatola cranica a una velocità relativamente modesta, coprono queste distanze in frazioni di secondo. La massima velocità con la quale può procedere un impulso nervoso è di 150 mt/sec. Se collegassimo due cervelli attraverso l'oceano i loro pensieri impiegherebbero decine di ore per comunicare fra loro. Il cervello biologico è milioni di volte più lento degli elaboratori elettronici, ma è dotato di altre prerogative. La distinzione fra attività mentali e attività cerebrali si è ormai così radicata e sedimentata, non solo nella nostra comunicazione quotidiana, ma anche e forse ancor più nel linguaggio accademico-scientifico, che raramente si è tentato, fino agli ultimi decenni, di analizzare criticamente e quindi con metodo sperimentale questa dicotomia. Lo stesso mondo accademico ha sancito una dissociazione fra m. e c. ricorrendo a denominazioni disciplinari distinte, come la psichiatria, che si occupa della mente, e la neurologia, centrata sulle attività cerebrali. Tali discipline, con il progredire delle conoscenze, hanno prodotto sottodiscipline come la psicologia, la psicanalisi e altre il cui nome ha come primo elemento psico, oppure come la neurofarmacologia, la neurochimica, la neurobiologia e altre il cui nome ha, invece, come primo elemento neuro. In termini strettamente scientifici, questa dicotomia non ha ragione di esistere, anche se può essere lecito mantenerla per la comunicazione usuale o quotidiana. Prima di analizzare le ragioni che conducono a questa conclusione, è bene valutare brevemente l'organo che è alla base delle attività mentali, il cervello, e i livelli di attività nei quali si possono suddividere le sue funzioni.

I tre livelli di funzioni cerebrali

Il primo livello riguarda i neuroni, che costituiscono la massa cerebrale di un uomo nella misura di circa 100 miliardi e che comunicano fra loro e con il resto dell'organismo con un codice specifico e relativamente universale, ossia comune a tutte le specie dotate di sistema nervoso. Il codice è basato sull'impiego di due 'simboli' di natura completamente differente: a) un insieme di sostanze chimiche denominate neurotrasmettitori o mediatori chimici; b) impulsi elettrici variabili di frequenza, ma non di intensità che prendono il nome di potenziali d'azione. Un potenziale d'azione si genera nel corpo di un neurone in seguito a stimolazioni provenienti da altri neuroni e si propaga lungo la fibra nervosa, l'assone, fino a giungere alle appendici più lontane dell'assone, le sinapsi. Ciascun assone può terminare con migliaia di sinapsi e ciascuna di queste è in stretto collegamento con altri neuroni. All'interno delle sinapsi si trovano uno o più neurotrasmettitori che, quando giunge il potenziale d'azione, vengono liberati, si legano a recettori situati su altri neuroni e, così facendo, provocano la generazione di un secondo potenziale d'azione; questo eccita un altro neurone, il quale a sua volta genera un altro potenziale d'azione e così via. Vi sono neurotrasmettitori che, invece di permettere il passaggio del potenziale da una sinapsi a un'altra, lo bloccano a livello della sinapsi ove sono liberati. Per questo motivo sono denominati neurotrasmettitori inibitori, mentre gli altri sono di natura eccitatoria. È da notare che i progressi più significativi nel campo della cura farmacologica di affezioni mentali come le forme depressive o la schizofrenia, caratterizzate da costi umani e sociali elevatissimi, si sono verificati con la messa a punto di farmaci che agiscono sulla componente chimica del codice neuronale, ossia sui neurotrasmettitori.

Il secondo livello in cui è possibile inquadrare le funzioni cerebrali riguarda le strutture anatomiche mediante le quali i neuroni, organizzati in aree corticali, gangli, centri e altre parti altamente complesse, elaborano impulsi provenienti da altri neuroni o dal mondo esterno, li memorizzano se necessario, ed emettono risposte comportamentali come la ricerca del cibo, l'accoppiamento, la fuga di fronte al pericolo e così via. Si tratta, in sostanza, di reti neuronali che possono essere composte da poche migliaia di neuroni fino a molti milioni o anche miliardi. Tali reti presiedono a funzioni presenti in misura differente in tutte le specie dotate di sistema nervoso. A seconda delle infinite modalità con le quali si organizzano i neuroni in reti, gangli, centri, aree e così via, si possono generare un numero sostanzialmente infinito e unico di reti nervose. Reti che potrebbero in ogni istante cambiare organizzazione con conseguente mutamento della risposta neuronale. Il problema cruciale è il seguente: in che modo neuroni e reti nervose danno luogo al terzo livello di funzioni cerebrali? Il cervello animale è stato vagamente assimilato a un potentissimo, ancora ineguagliato ricevitore ed elaboratore di informazioni capace di gestire intorno a 1017 bit di informazioni al secondo, cioè cento milioni di miliardi di bit ogni secondo di attività cerebrale. Da questo punto di vista il cervello può essere considerato alla stregua di un potentissimo elaboratore di informazioni che si concretizzano in funzioni sensoriali o motorie del secondo livello. Il vero e proprio salto di qualità si verifica quando si analizza il terzo livello di funzioni cerebrali, cioè quelle che presiedono ad attività che in precedenza si sono denominate con il termine onnicomprensivo di mentali. È su queste proprietà che si fonda l'unicità - reale o presunta - delle prestazioni del cervello di Homo sapiens. Ma negli ultimi decenni si è scoperto che anche tali funzioni cerebrali sono riconducibili alle attività neuronali tanto quanto le funzioni più semplici, quali l'articolazione di un movimento, la percezione di un suono oppure di un odore. Se ne discostano semplicemente perché coinvolgono un numero enormemente maggiore di neuroni, dislocati in aree cerebrali diverse, e non sono dunque di facile accesso all'analisi e alla sperimentazione. Sulle ipotesi che riguardano questa nostra facoltà di far emergere pensiero, emozioni, affettività e tutte le altre funzioni 'mentali' si accennerà più avanti. Confineremo qui di seguito la nostra analisi alle conoscenze generali che vi sottendono, descrivendo una proprietà che coinvolge tutti e tre i livelli di attività cerebrale e che ne costituisce una sorta di collante funzionale. Ci si riferisce alla plasticità cerebrale (v. plasticità nervosa), che interessa le più svariate strutture del sistema nervoso, dalle molecole alle cellule e da queste alle reti neurali fino a giungere alle funzioni di ordine superiore vere e proprie.

La plasticità. - Apprendimento e memoria costituiscono due fondamentali proprietà del cervello non soltanto per la vita di relazione, ma anche per la nostra identità di individui. È su queste due proprietà che poggia l'unicità di ciascuno di noi rispetto all'intera comunità degli esseri umani. Apprendimento è il processo con cui si acquisiscono nuove conoscenze; memoria o memorizzazione è il processo mediante il quale queste conoscenze oppure informazioni vengono conservate nel tempo. Apprendimento e memoria sono il risultato concreto, a loro volta, di una proprietà più generale del cervello che viene definita con il termine di plasticità, tanto impiegato nel linguaggio corrente quanto ambiguo nei suoi precisi connotati. Tuttavia, ciascuno di noi possiede una sorta di percezione intuitiva del significato di questa parola che si può riassumere nella capacità del cervello di mutare struttura e funzione in relazione agli stimoli ambientali o a quelli che si generano nel cervello stesso. In sostanza, nell'istante in cui l'occhio del lettore legge queste parole si verificano mutamenti sottilissimi, ma consistenti nel cervello (plasticità); mutamenti che vengono fissati nei circuiti nervosi per un periodo più o meno lungo (memoria) e che, se sono dotati di novità, arricchiranno le nostre conoscenze per un tempo più o meno lungo (apprendimento). Se il nostro cervello non fosse plastico non sarebbe neppure in grado di memorizzare e apprendere, perché i circuiti di cui è dotato servirebbero come semplici cavi elettrici che conducono le informazioni, ed essi scomparirebbero non appena si interrompesse l'energia elettrica che li genera e ne costituisce il corriere.

I meccanismi molecolari della memoria

fig. 1

Il nostro cervello è dotato di due tipi di memoria: una di breve durata, denominata anche memoria di lavoro, perché serve per i ricordi collegati con la nostra vita quotidiana, e una di più lunga durata, depositaria dei nostri ricordi più stabili e remoti, e quindi indispensabile per la consapevolezza di noi stessi e del mondo che ci circonda. La memoria di breve durata impiega meccanismi di rapidissima attuazione (frazioni di secondo) e di rapida cancellazione. Essi sono accompagnati da modificazioni chimiche di determinate proteine preesistenti, di solito a livello delle sinapsi. La memoria di lunga durata, invece, per instaurarsi stabilmente, impiega meccanismi più lenti, minuti oppure ore, necessari perché si basano sulla sintesi di nuove proteine. Esistono 'interruttori molecolari' che vengono attivati espressamente per la fissazione di un ricordo: in quale modo agiscono? Un primo, fondamentale interruttore è stato individuato: appartiene alla categoria dei recettori; la sua denominazione scientifica è NMDA (N-metil-D-aspartato) ed è unico nel suo genere. Proprio questa sua unicità permette di affermare che è tale molecola proteica ad attivare la fissazione più o meno temporanea di un certo evento. Grazie alla sua azione, altre proteine, situate dentro il neurone, possono essere messe in moto e, in una reazione a cascata, possono anche andare a influenzare il cuore operativo della cellula (i suoi geni). Quando taluni di questi geni si attivano, la fissazione di quel ricordo diviene più stabile, fino a essere talvolta irreversibile. Per questo secondo tipo di eventi, tuttavia, gli studi sono in una fase esplorativa. Manca l'identificazione dei geni e delle proteine corrispettive che vengono attivati (o repressi) una volta che, a livello sinaptico, i neuroni sono stati coinvolti. Non vi è dubbio che in un futuro prossimo anche questa seconda categoria di macromolecole sarà identificata e si porterà alla luce il complesso dei meccanismi che servono a fissare i ricordi e a esserne coscienti (fig. 1). La proprietà di mutare in relazione agli stimoli esterni non è confinata alle singole molecole che costituiscono le sinapsi, ma si estende alla loro intera struttura e a interi distretti neuronali. In sostanza, molecole, sinapsi e assembramenti cellulari 'fluttuano' sotto l'influsso delle informazioni. Se la plasticità è la proprietà funzionale che coinvolge a tutti i livelli le attività cerebrali, vi è un tipo di neuroni che ne ha costituito lo strumento operativo maggiormente rilevante: gli interneuroni.

Interneuroni. - Vi sono nel nostro encefalo, come in quello di ogni altro animale, sostanzialmente tre tipi di cellule nervose: i neuroni che servono per i nostri movimenti, denominati per questo motorii; quelli che sono devoluti alla percezione del mondo esterno, detti sensoriali, e infine i neuroni funzionalmente interposti a questi due tipi, denominati interneuroni. Gli interneuroni ricevono gli stimoli dai neuroni sensoriali ed elaborano una serie di segnali che viene inviata ai neuroni motorii o ad altri tipi di cellule per la risposta appropriata. È stato osservato che gli interneuroni aumentano progressivamente nella filogenesi: il rapporto fra neuroni motorii e sensoriali da una parte, e interneuroni dall'altra, che si approssima all'unità oppure a sue frazioni nelle specie filogeneticamente più lontane, nei Primati è dell'ordine di 1:100.000. Il che significa che tra ogni neurone sensoriale e ogni neurone motorio se ne interpongono, con funzioni di elaborazione dell'informazione, circa 100.000.

fig. 2

La possibilità di elaborare informazione da parte del sistema nervoso si è progressivamente espansa nel corso dell'evoluzione animale (fig. 2). Poiché questa capacità costituisce uno strumento ineguagliabile al fine di adattare le risposte animali ai vari cambiamenti del nostro mondo circostante, si può dedurre che tramite esso gli organismi si sono progressivamente svincolati dalle ferree regole dei geni, e che, di conseguenza, la componente ereditaria del comportamento è andata progressivamente diminuendo nel corso dell'evoluzione. Se in tutte le specie, dunque, l'espansione degli interneuroni ha costituito un formidabile strumento di elaborazione delle informazioni, nella corteccia dell'encefalo dell'uomo si è verificato un loro particolare aumento nella parte prefrontale, tanto che, sempre in termini relativi, questa si è notevolmente accresciuta. L'espansione relativamente selettiva ha costituito lo strumento anatomico per una funzione peculiare nell'ambito dell'elaborazione dell'informazione: il linguaggio.

Linguaggio

Sebbene i sistemi di comunicazione di altre specie possono mostrare collegamenti operativi con gli eventi esterni, solamente le parole e le frasi che l'uomo è in grado di generare fin dalla più tenera età possiedono un carattere referenziale astratto. Proprietà questa che permette alle stesse parole, a parti di parole e a locuzioni, di riferirsi a 'cose' che non debbono neppure essere tangibili o presenti alla vista in quel preciso momento o neppure realmente possibili. Questa funzione simbolica del linguaggio costituisce un punto di raccordo ideale fra le cosiddette attività cerebrali e quelle mentali. Se da un lato, infatti, questa funzione è riferibile a determinate, specifiche aree della corteccia cerebrale (denominate area di Broca e area di Wernicke), tanto da costituire lo strumento di localizzazione di determinati danni cerebrali, dall'altro è principalmente mediante questo strumento di comunicazione che il nostro cervello è in grado di compiere il passaggio dal secondo livello di funzioni al terzo. In sostanza, l'evoluzione di un sistema fonatorio peculiare (laringe e sistema corticale per la modulazione dei muscoli collegati) unitamente a un sistema neuronale di elaborazione dell'informazione situato nella corteccia cerebrale è progressivamente aumentato venendo a costituire un formidabile binomio funzionale elaborazione-comunicazione.

Natura e cultura

Le conoscenze che si stanno progressivamente acquisendo su questo problema sono tutte in favore di una relativa predeterminazione dei nostri comportamenti; una predeterminazione potenziale, tuttavia, che si realizza grazie all'influenza dell'ambiente ed è quindi, in ultima analisi, da questo modulata. Il cervello di un animale adulto costituisce il frutto finale di tutti gli stimoli giunti dal mondo esterno e da quelli che sono programmati nel genoma, ossia nel complesso dei geni che contribuiscono allo sviluppo dell'intero organismo, encefalo compreso. D.O. Hebb, lo scienziato che ha avanzato l'ipotesi sul meccanismo di base del processo di fissazione di un evento mnemonico, sosteneva che pretendere di valutare l'apporto di questi stimoli nel caso specifico dell'uomo (anche quelli di natura culturale) e il contributo dell'eredità alla formazione dei miliardi di circuiti presenti nel cervello è come presumere di poter calcolare quanto influisce la base e quanto l'altezza sull'area di un triangolo. Le due variabili sono interconnesse in modo tale che non è possibile calcolare l'apporto dell'una e quello dell'altra.

fig. 3

È opportuno ricordare alcune nozioni generali relative a questo problema, le quali pur non potendo essere adottate come criterio di valutazione quantitativa, costituiscono tuttavia una traccia utile su un piano generale. La prima è che in tutte le specie animali, uomo compreso, i geni svolgono un ruolo essenziale nel predeterminare la formazione dei 'macrocircuiti', vale a dire di quelle reti nervose che presiedono alle funzioni generali e che sono caratteristiche di ogni specie animale. Un macrocircuito può essere considerato quello che costituisce l'insieme delle vie nervose dalle quali deriva, per es., la facoltà del linguaggio. Mentre anche il più sciocco degli esseri umani è in grado di esercitare questa funzione, essa non è prerogativa neppure del più intelligente degli scimpanzé. Macrocircuiti programmati nel patrimonio ereditario di ogni animale sono quelli che presiedono a taluni comportamenti fondamentali, quali quelli relativi alla riproduzione, alle migrazioni stagionali, al canto degli uccelli, al frinire dei grilli e così via. Gli stimoli ambientali, al contrario, influiscono maggiormente oppure esclusivamente sulla modulazione fine dei macrocircuiti o presiedono alla loro diramazione ultima. In sostanza, mentre la capacità di linguaggio è programmata nei nostri geni, l'apprendimento di una determinata lingua è frutto esclusivo dell'ambiente in cui cresciamo. Una seconda nozione generale sostiene che, quanto più si arretra nell'albero filogenetico, tanto più svolge un ruolo importante l'eredità, cioè il complesso dei nostri geni. Viceversa, quanto più ci si avvicina ai Primati, compresa la specie umana, tanto più gli stimoli ambientali (e nel caso dell'uomo quelli culturali) svolgono un ruolo determinante nel comportamento dell'animale adulto (fig. 3). Si consideri un caso esemplare per chiarezza: la formazione del sistema visivo. Ciò che è emerso dagli studi sui meccanismi che presiedono alla visione è che la natura 'predetermina' la formazione dei collegamenti nervosi che permettono di vedere. Se, tuttavia, questi circuiti non sono stimolati nei tempi giusti, quegli stessi circuiti non si formano e l'animale è privato della funzione visiva. Così, se l'occhio di un gatto neonato viene chiuso per un breve periodo - coincidente con quello che normalmente permette alle fibre nervose di formare i collegamenti appropriati con la corteccia cerebrale - e poi viene riaperto, la funzione dell'occhio temporaneamente occluso è irreversibilmente compromessa. Se la stessa operazione di chiusura viene effettuata nell'animale adulto non si verificano danni permanenti. Evidentemente, l'utilizzo dell'occhio (ossia gli stimoli sensoriali) hanno svolto una funzione fondamentale nella formazione dei circuiti visivi. Se tale funzione viene a mancare nell'adulto, quando i circuiti si sono già formati, non accade nulla di irreparabile. La conoscenza dell'importanza delle stimolazioni sensoriali nel corso dello sviluppo induce a qualche riflessione sul problema dell'educazione e dell'insegnamento nella formazione dei giovani. Se le stimolazioni sensoriali sono tanto importanti nella costituzione dei circuiti visivi e in genere di tutti i circuiti cerebrali, altrettanto e forse più lo saranno gli stimoli culturali per modellare le vie nervose che presiedono ai processi associativi e creativi nell'uomo. Si tratta di un problema che è sempre stato presente agli educatori molto tempo prima delle scoperte di neurofisiologia cui si è fatto cenno.

Sistemi intelligenti naturali e artificiali

Nel periodo compreso tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine del 20° sec., si è assistito a un crescente impegno di risorse umane ed economiche per sviluppare sistemi di elaborazione sempre più potenti e sofisticati. I cultori di questa materia hanno sviluppato e diffuso la convinzione che un giorno le macchine intelligenti avrebbero eguagliato e superato l'intelligenza naturale. Tra i primi ad avanzare queste ipotesi fu A.M. Turing il quale, nel 1950, pubblicò un articolo dal titolo Una macchina può pensare?, in cui tale domanda ne sottintendeva una più precisa: un calcolatore digitale può passare per un essere umano in un gioco di imitazione? In quell'articolo Turing si diceva convinto che dopo una cinquantina d'anni sarebbe stato possibile programmare calcolatori dotati di una memoria in bit pari a circa 10 elevato alla nona potenza, tali da farli giocare così bene al gioco dell'imitazione che un interrogante medio avrebbe avuto una possibilità non superiore al 70% di compiere l'identificazione giusta dopo cinque minuti di interrogatorio. All'inizio del 21° sec. la memoria del disco fisso di un calcolatore può essere molto superiore. Tuttavia, non si dispone di un programma adeguato per tradurre da un linguaggio a un altro, e non sarebbe necessario molto tempo per smascherare un nostro interlocutore-macchina. È bene notare, comunque, che la Natura ha avuto a disposizione centinaia di milioni di anni per mettere a punto la macchina cervello, mentre quest'ultimo lavora su un analogo progetto - specie di clonazione artificiale - da pochi decenni. Le due principali differenze fra il sistema nervoso e i computer stanno, ovviamente, nella loro composizione fisica e nel modo di operare. Come si è accennato, il cervello è milioni di volte più lento di un computer, ma opera in serie e in parallelo in contemporanea ed è in grado di collegare numerosi distretti cerebrali nello stesso tempo.In questo modo è in grado di procedere ad associazioni multiple e in tempo reale, procedimento di particolare utilità nei processi mentali più complessi che si concretizzano, per es., nella coscienza e nella consapevolezza di sé. Il cervello è dotato di un'enorme plasticità, che si estende fino alle singole componenti molecolari di ogni sinapsi e che fornisce risposte adattive a ogni istante e in ogni distretto del cervello; questo grado estremo di plasticità appare di difficile realizzazione per un sistema artificiale. Il sistema nervoso umano non processa le informazioni nel senso di processare elementi discreti (che esistono già fatti nel mondo esterno in attesa di essere raccolti dal sistema cognitivo), ma interagisce con l'ambiente modulando continuamente la propria struttura. Inoltre, la nostra intelligenza come anche le nostre memorie sono sempre perfuse dalle emozioni.

Vi è infine un aspetto del funzionamento del cervello che raramente è valutato e discusso nei confronti degli elaboratori. Il sistema nervoso nel suo complesso, infatti, esercita anche un ruolo di vera e propria ghiandola endocrina. Dalle sue terminazioni sinaptiche e dallo stesso corpo del neurone vengono liberate sostanze di varia natura, compresi peptidi ad azione ormono-simile e perfino gas come l'ossido di azoto (NO) e l'ossido di carbonio (CO), che diffondono negli spazi circostanti, in aree cerebrali lontane, e in taluni casi in tutto l'organismo. Queste sostanze servono a modulare e a sincronizzare numerose funzioni organismiche.

Coscienza e autocoscienza

La distinzione fra coscienza e autocoscienza può essere meglio compresa ricorrendo a un esempio. Si osservi un cane mentre si aggira nel suo territorio a caccia della preda che poco prima, mentre sonnecchiava, gli era comparsa in sogno smuovendolo dal suo torpore. Lo si segua mentre, una volta individuata una preda, si pone in un atteggiamento che indiscutibilmente denota un coinvolgimento quasi globale del suo sistema nervoso. Non solo tutti i suoi sensi, ma anche le memorie passate (appetibilità e qualità della preda comparsa nel sogno), possibili competitori sul territorio, esperienze passate sulle insidie e sulle caratteristiche prevedibili del territorio e tutto ciò che costituisce una sorta di insieme di istantanee mentali in qualche modo collegate con quel momento, sono presenti contemporaneamente, come lo scenario nel quale si muoverebbe un attore sul palcoscenico senza tuttavia avere coscienza di sé stesso. Il mondo circostante, costituito dall'insieme delle percezioni che vengono evocate in quel momento, opera come un tutt'uno che forma lo sfondo nel cui contesto esso agisce. L'insieme dei processi di organizzazione neurale che servono a costruire, in quel momento, un modello del mondo esterno costituisce la coscienza di quell'animale. Si provi ora a porre quello stesso cane davanti a uno specchio. Nonostante esso abbia dimostrato indiscutibili segni di intelligenza, capacità emotive, affettività, tuttavia mostrerà una totale indifferenza, come se si trovasse davanti a un altro animale e non di fronte alla propria immagine riflessa. Si ritiene che, nel corso dell'evoluzione, l'uomo e alcuni altri Primati non umani come gli scimpanzé e gli oranghi, abbiano allargato questa capacità di costruire un modello del mondo esterno, propria di molte specie animali, estendendola anche a sé stesso. L'autocoscienza secondo Turing si verifica quando quegli stessi processi impiegati per costruire un modello del mondo esterno vengono utilizzati anche per la rappresentazione di sé stessi. Solo gli esseri umani, gli scimpanzé e gli oranghi, nel mondo animale, dimostrano di riconoscersi quando sono sottoposti al semplice test di autoriconoscimento ideato da G. Gallup, e che è divenuto la prova più semplice e attendibile della capacità di autocoscienza. Si discute ancora se per questo passaggio fondamentale nell'evoluzione dei processi mentali sia indispensabile il linguaggio simbolico proprio dell'uomo; numerosi scienziati ritengono che ne sia alla base una strategia computazionale, ossia una capacità di creare un più complesso modello percettivo che prescinde dal linguaggio.

Ipotesi generali sui processi mentali

Le attività cerebrali e quelle mentali sono tutte generate dagli stessi meccanismi neurali, e quindi, in ultima analisi, riconducibili alle cellule nervose che costituiscono il cervello, oppure le une e le altre sono eventi o funzioni incomparabili, poiché le attività mentali scaturiscono da processi indipendenti, dalle 'semplici' attività neuronali e dalle comuni leggi della fisica e della biologia? Sostanzialmente vi sono tre correnti di pensiero al riguardo: a) tutte le attività della mente sono esclusivamente dovute ai neuroni; da questo punto di vista il nostro cervello è come un potente e ancora in parte sconosciuto computer, nel quale i neuroni svolgono il ruolo di microchip naturali; questa concezione è definita monista, materialista o riduzionista; b) secondo l'ipotesi dualista, al contrario, attività cerebrali e attività psichiche sono assolutamente distinte e non scaturiscono da meccanismi sostanzialmente eguali; c) una terza ipotesi, infine, sostiene che entrambe sono dovute ai neuroni, ma le attività 'mentali' non sono la semplice risultante dell'attività neuronale, come il movimento di un arto o la percezione di un colore; esse costituiscono un salto di qualità di natura ancora in parte sconosciuta. Secondo questa concezione, assimilare il cervello a un potente computer è improprio e non è certo che un giorno si potranno costruire macchine dotate di tutte le facoltà del cervello umano, soprattutto quelle attinenti la coscienza del sé o autocoscienza. Si chiamerà questa ipotesi, della quale non vi è ancora una definizione appropriata, delle proprietà emergenti, per motivi che si chiariranno in seguito.

Dualisti e vitalisti. - Prima di analizzare le altre due varianti interpretative dei processi mentali è indispensabile spiegare perché l'ipotesi dualista delle funzioni cerebrali sia ormai insostenibile. Delle tre concezioni, quella dualista è la visione più antica e, in un certo senso, quella che in passato ha goduto di maggior successo. Nel campo del problema m. e c., si sta verificando quanto è accaduto nei primi decenni del 20° sec. nel campo delle scienze della vita. Prima di questi studi, per spiegare un fenomeno così prodigioso come la vita, ci si adagiava su un concetto tanto gratificante quanto oscuro, al quale si ispiravano i vitalisti. La vita era considerata alla stregua di un soffio, una specie di anima che pervade ogni essere vivente e che, almeno nell'uomo, non si identifica con la struttura corporea, anzi se ne allontana al momento della morte. Oggi si sa che la vita è la risultante di un complesso numero di attività cellulari e molecolari e che talvolta è sufficiente che una sola di esse si interrompa perché tutto l'organismo ne risenta e perisca, anche se tutte le altre sono ancora perfettamente funzionanti. Non a caso, per ritornare alla erroneità del concetto vitalistico, oggi si sa che con la morte cerebrale, che decreta la morte dell'individuo pensante, non vi è la morte di ogni sua parte, e che quell'individuo può ancora donare 'porzioni della propria vita', consistenti in molti dei suoi organi, ancora perfettamente vitali.

Riduzionismo e proprietà emergenti. - È lecito affermare che i progressi più impressionanti nel campo delle neuroscienze negli ultimi decenni sono avvenuti in quei settori che analizzano le funzioni cerebrali con un approccio riduzionista. Esso si basa sul presupposto che in natura una data funzione è simile in ogni animale nel quale essa venga analizzata, secondo l'affermazione di J. Monod che ciò che vale per un batterio vale anche per un elefante. Quindi, per comprendere le attività di base è saggio e talvolta indispensabile analizzare prima il semplice, e poi provare a estendere quanto scoperto al più complesso. Questa strategia scientifica ha dato risultati straordinari, fornendo all'umanità gli antibiotici, la comprensione del codice genetico e della struttura del DNA, nonché un'infinità di altre conoscenze di fondamentale importanza per la biologia e la medicina. Nel campo neurobiologico, grazie a questi avanzamenti, si è compreso il codice di comunicazione dei neuroni al quale si è fatto cenno. La comprensione del funzionamento di tale codice ha permesso la messa a punto di una vasta categoria di farmaci per il trattamento di ansie, insonnie, depressioni, e in parte anche di affezioni gravissime come la schizofrenia. Queste conquiste hanno indotto un numero crescente di neuroscienziati a sostenere una correlazione funzionale diretta e senza soluzione di continuità fra neuroni, cervello e mente. Tale vastissimo insieme di studi, tuttavia, anche se porterà un notevole contributo al progresso delle neuroscienze, non prende in considerazione - proprio per il metodo riduzionista adottato - la nozione che spesso in natura si verificano salti qualitativi imprevedibili non analizzabili e non comprensibili senza il ricorso a procedimenti scientifici più complessi, capaci di valutazioni globali. Questa conclusione vale a tutti i livelli di organizzazione della materia: dagli atomi alle molecole e da esse alle cellule; dalle cellule che costituiscono un organismo alle società di organismi, comprese quelle fondate dagli uomini. Ogniqualvolta si verifica un aumento di complessità del sistema in analisi si può osservare (o dedurre in base a certe proprietà) che ne emergono proprietà imprevedibili, complicando, spesso a dismisura, la possibilità di predire o teorizzare il modo con il quale quella proprietà si è generata. Questo tipo di eventi viene a costituire un sistema non lineare. Le proprietà dell'acqua non dipendono da quelle dell'idrogeno e dell'ossigeno che la compongono. I fenomeni non lineari sono di gran lunga diffusi in campo biologico. Come procedere, allora? La risposta più appropriata nasce dalle riflessioni formulate in precedenza; considerando le attività mentali come proprietà emergenti, proprietà, cioè, che pur essendo il frutto esclusivo dell'attività dei neuroni, non ne sono una semplice e diretta espressione funzionale. Giova sottolineare, a questo proposito, che le conoscenze che si vanno progressivamente acquisendo sulle proprietà dei singoli neuroni prospettano una complessità funzionale tale da rendere ancora più impredicibili funzioni globali come quelle mentali, le quali emergono dall'attività di miliardi di cellule. Il problema m. e c., pertanto, dovrebbe essere considerato non scartando le ipotesi dualistiche ormai obsolete, ma neppure limitandosi ad approcci sperimentali esclusivamente basati su concezioni riduzionistiche, anche se queste sono state - e saranno nei decenni futuri - estremamente fruttuose nella ricerca biologica di base. Non è nota una risposta soddisfacente per quanto riguarda l'approccio sperimentale basato sul concetto di attività mentali come proprietà emergenti. Questo problema deve essere affrontato con mentalità aperta alle più svariate discipline che si occupano del cervello, consapevoli della complessità della sfida.

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