Memorialisti dell'Ottocento. Tomo III

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1972)

Memorialisti dell'Ottocento. Tomo III

Carmelo Cappuccio

Questo nuovo tomo di memorialisti dell'Ottocento si aggiunge a due precedenti già apparsi in questa stessa collana. Si amplia così uno sfondo di ricordi ed esperienze personali, che giova a meglio ricostruire e intendere la vita di uno dei secoli più complessi e densi di mutamenti della nostra storia: il secolo, soprattutto, che ha visto accrescersi la presenza attiva degli umili, divenuti essi stessi attori delle vicende storiche e personaggi-protagonisti di tanta letteratura. Le memorie dei due tomi precedenti accoglievano, in genere, più immediati riflessi delle vicende risorgimentali: questo, invece, salvo alcune pagine deamicisiane, ritesse quelle vicende come un ricordo e un rimpianto, che si sbiadiscono con il cammino del tempo, o più spesso tace di quei giorni esaltanti, sia perché ancora futuri, sia perché già sorpassati e demitizzati da altre ansie e pensieri, quelli delle nuove leve storiche. L'età che dal romanticismo giunse al realismo attraverso molte, complesse esperienze, presenta, proprio per questa sua lunga linea di svolgimento, una pluralità di aspetti e atteggiamenti, di luci e ombre, che chiedono esplorazioni più estese e penetranti tra le memorie che ne abbiamo ereditato. Una ricerca, dunque, che non dovrebbe giovare soltanto a chi consideri le espressioni letterarie dell'Ottocento, ma piuttosto concorrere a una più ampia ricostruzione della civiltà del secolo.

Nello scegliere le pagine di memorie che abbiamo raccolto si è continuamente presentato un problema di valutazione. La perplessità nasceva dalla incerta linea divisoria tra gli scritti che appartengono all'area della letteratura e quelli che ne sono estranei. Un confine che è divenuto sempre più difficile tracciare, anzitutto perché i valori formali, del bello scrivere, sono una misura da gran tempo giustamente abbandonata, e d'altra parte l'interesse dei contenuti è soggetto esso stesso a un variabilissimo metro. Né i moduli estetici crociani, ancora tutt'altro che validamente sostituiti, potevano giovare alla distinzione, in uno spazio, comunque, che non è dell'arte ma della letteratura. Anche a mantenersi prudenti di fronte a certe eccessive aperture, è certo che il concetto di letteratura si è dilatato e la sua storia si avvia a divenire storia della cultura. E ciò sposta, ma non risolve il problema, e solo lega più strettamente le espressioni, le voci di un periodo alla storia, sfericamente intesa, di quel periodo ; sì che la misura nello scegliere diviene diversa, e più generosa, ma pur sempre incerta. Del resto, il fenomeno ubbidisce a una motivazione più complessa, perché la maggiore partecipazione culturale e politica di forze sociali rimaste a lungo nell'ombra ha contemporaneamente dilatato la concezione una volta più aristocraticamente selettiva della letteratura, accogliendo, invece, in essa la parola delle nuove leve sociali e avviando inoltre una esplorazione e una conquista retrospettiva di prodotti rifiutati o svalutati dal severo giudizio dei lettori del passato. Ed è ormai evidente che questa opera di revisione si sta svolgendo attualmente su tutto il nostro Ottocento, e riappaiono perciò opere di molto vario argomento, che erano state a lungo dimenticate, e che preparano con la loro presenza un riesame dell'intero secolo, secondo le esigenze e le idealità, e perciò anche il gusto, dei tempi in cui viviamo.

Di pagine di memorie l'Ottocento è ricchissimo, forse più di ogni altro secolo, anche perché già in esso era oltremodo cresciuto, con l'avvento di più vasti strati della borghesia, il numero di coloro che intendevano lasciare, scrivendo i propri ricordi, una traccia della loro attività e del loro passaggio sulla terra. Nello scrivere, li sosteneva spesso la persuasione di poter servire di esempio a una cerchia più o meno vasta di lettori, o di sopravvivere più a lungo nel rimpianto e nelle lodi dei familiari; e, a volte, delle stesse generazioni future. Speranze, certo, molto spesso deluse; ma l'uso di narrare la propria storia personale continuò insistente in tutto il secolo.

L'interesse, tuttavia, dei tanti libri di memorie non si accentra, naturalmente, solo intorno al personaggio che narra di sé stesso, ma anche - e ancor più - sui numerosi particolari che circondano la sua figura e che spesso affiorano senza che egli se lo proponga. Gli affetti familiari, e una loro spontanea freschezza; certi interni di famiglie con madri di una semplicità paesana, intente per una intera vita a governare la casa, a preparare quotidiani cibi e conserve, silenziose, pronte al sacrificio; i modi con cui fiorivano certi amori di adolescenti; gli entusiasmi risorgimentali di un popolo che si affacciava solo allora all'idea di nazione; le scuole del tempo, e i confini di una cultura ancora diversa nelle varie regioni; le città e le campagne ottocentesche, le comunicazioni lente e penose, con i viaggi interminabili; il volto deluso dei conservatori davanti all'incalzare degli eventi, e il sentimento concreto, puntualizzato nel costume, delle differenze e distanze sociali; certe convinzioni che sembrano dominare come leggi indiscutibili la vita di tutti; la generale parsimonia e quasi povertà nel tenore di vita degli stessi abbienti; la penosa condizione dei miseri ancora accettata come ineluttabile: in una parola, la storia, la vita di un'epoca, vista non già nelle linee d'insieme, nei problemi generali, ma scoperta o riconquistata nei particolari, come se improvvisamente si aprisse uno spiraglio nel tempo e ci si riaffacciasse, fortunati spettatori, nelle città, nei villaggi, nelle case dell'Ottocento, a seguirne l'esistenza quotidiana, a cogliere nell'intimità degli affetti e dei costumi una popolazione tanto diversa, ma dalla quale siamo discesi e a cui dobbiamo molti aspetti della nostra attuale esistenza.

Nella scelta, insieme con autori comunemente noti, anche se non più ristampati, presentiamo memorie del tutto dimenticate, che forse al loro apparire interessarono solo una piccola cerchia di lettori. È il caso di Mariano Cellini, un tipografo fiorentino, e della sua Vita d'un povero ragazzo. Le sue pagine si appoggiano a una sintassi elementare, che a volte è anche sciatta, la sua cultura è quella povera di un popolano autodidatta, il lessico assai spesso dialettale. Ma fin dall'inizio risorge vivissima una Firenze di piccoli, umili artigiani; una esistenza misurata, faticosa e tuttavia serena; dei sistemi educativi, in scuola e in casa, autoritari per convinzione di far bene; un'ansia di salire e di sapere, e anche perciò l'ammirazione per gli uomini dotti, un desiderio di avvicinarli, finalmente appagato, nel Cellini, dall'incontro col Vieusseux; la religiosità tradizionale che si lega a una volontà animosa di progresso, di libertà, ma che sempre rifiuta ogni disordine. Nella narrazione si segue il cammino dell'autore da piccolo commesso di cartoleria fino a gestore di una tipografia, la Galileiana, di cui divenne poi unico padrone, c che ha avuto molti meriti nelle vicende dell'editoria fiorentina. In genere le pagine di memorie dell'Ottocento sono opere di una borghesia colta, e perciò i ricordi, e gli sfondi su cui essi risorgono, spesso rispecchiano la vita di un solo settore della società; e anche se l'attenzione si volge ad altri ambienti, le loro linee, il loro colore appaiono filtrati attraverso una valutazione che li modifica. Nel Cellini la vita dei popolani della Firenze granducale torna invece con un suo timbro spontaneo e senza agghindature, e perciò, nella nostra scelta, la Vita d'un povero ragazzo vorrebbe rappresentare un esempio di quegli scavi esplorativi, al di sotto della produzione ormai legittimata, che potrebbero dar rilievo più vivo a molti aspetti dell'Ottocento e completarne la ricostruzione. D'altra parte, in un obbiettivo ripensamento dell'azione svolta dall'Ottocento per l'elevazione delle minori classi sociali - anche arricchendo orientamenti già sorti con l'illuminismo; un attento sguardo meriterebbe il Cellini, non soltanto e non tanto per l'assidua cura rivolta alle società dì mutuo soccorso, a umili iniziative operaie, e per la difesa della libertà di stampa, ma soprattutto per quelle «Letture di famiglia» che diresse insieme con Pietro Thouar per lunghi anni. La pubblicazione, nata con altro nome nel 1847, e preso quello definitivo nel 1849, si protrasse fino al maggio del 1885, oltre la vita dei due direttori, e svolse un'attività sociale molto intensa e intelligente, il cui merito, in buona parte, è anche del Cellini. Se non sono sue le parole con cui il primo numero esponeva il programma, di «far conoscere al popolo», tra l'altro, «i diritti che vengono conculcati e ì doveri che vengono trascurati», certamente anche sua è l'ispirazione di queste idee e, più ancora, la volontà che il giornale «fatto per il popolo» parlasse «il popolare linguaggio»; e sua è ancora la libertà con cui accolse molte idee mazziniane, pronto ad opporsi a quelle che non corrispondessero alle sue convinzioni. Del resto, anche la lingua usata dal Cellini nelle sue memorie spesso ha più del parlato che dello scritto, e sempre del popolare più che del letterario, ma proprio per queste sue derivazioni giova a far rivivere un ambiente, a risentirne le forme espressive. Infatti sono esse che varie volte sbalzano efficacemente alcune scene: come la corsa del fanciullo inseguito dal prete, il corteo del condannato a morte, il viaggio sui cammelli nella breve parentesi egiziana, gli amori e le nozze. E anche piace notare nelle pagine il ricordo del religioso impegno con cui il Cellini curò la composizione e la stampa di quell'«Antologia.» che fu tra le maggiori e più operose riviste italiane per il nostro risveglio nazionale.

I ricordi del Cellini furono stampati in pochi esemplari, alla sua morte. Ugualmente poco numerose certamente furono le copie delle Memorie sull'Egitto che l'editore Pirotta pubblicò a Milano nel 1841. Ne era autrice una donna, Amalia Nizzoli, di cui abbiamo potuto dare pochissime notizie, nonostante le molte ricerche. Ma il suo libro ci è sembrato che meritasse di tornare alla luce, non già perché ricco di pagine belle nel significato tradizionale di una superata norma retorica, ché anzi a volte il linguaggio risente del plurilinguismo della scrittrice, ma per la vivezza e l'immediatezza con cui riappare un mondo esotico ormai tramontato, con i suoi interni più gelosi. Pregevole per la sua eccezionalità la descrizione della vita di un harem, seguita dal suo interno, colta nella sua oziosa mollezza; fortemente colorite le scene delle donne ai bagni pubblici, in un rilievo di costumi, ma anche di stati d'animo, di contrapposizioni sociali, di sottile erotismo. Si segue con forte umano interesse una descrizione di viaggio per mare, su una nave insicura, tra le superstizioni dei marinai, le minacce e il terrore di una tempesta: la scena rivive in una gradazione di tinte fosche, distribuite con una sapienza che certo non nasce da abilità di mestiere, ma da un ritorno di immagini ancora paurose nel ricordo, e perciò espresse con vivezza. Aggiungeremo che forse, a nostro parere, molte altre pagine del libro meriterebbero di essere conosciute; ma la prudenza che ci doveva guidare ha limitato la nostra scelta.

Anche Gaspero Barbèra è un tipografo-editore come il Cellini, e anch'egli nei primi passi ha lavorato come commesso, in un negozio di tessuti, in librerie e tipografie, fino a farsi padrone di una propria casa editrice. Lo scenario dei suoi ricordi si sposta da Torino - rivista nel suo conservatorismo del primissimo Ottocento, ma già sveglia a nuove esigenze nei più giovani, desiderosi di maggiori orizzonti - a Firenze, dove i fermenti di civiltà s'erano fatti già più operosi, molto prima che il granduca lasciasse la Toscana. Diversi di qualità i due tipografi-editori, anche se esteriormente con alcuni elementi comuni: ma l'autodidattismo dell'uno ha una risultanza elementare, mentre nell'altro compensa in pieno le lacune iniziali; già affrontate, del resto, con quella tenacia piemontese che tornerà immutata, per le conquiste economiche e di prestigio, nell'industria editoriale. Diversità di statura umana, ma anche rapido mutarsi di tempi, di cui è segno il dilatato orizzonte del Barbèra, che coglie i problemi italiani più che i soli toscani, e volge lo sguardo alla Francia, alla Germania, seguendo nella sua nuova attività tipografica le vie che i mercanti piemontesi già percorrevano per la diffusione dei loro tessuti. La vitalità dell'uomo si fa, sulle pagine di memorie, vivacità di presentazione: di una vecchia Torino con i suoi rigidi costumi, combattuti - ma non troppo - dai giovani, e in una sua onestà proverbiale; di una Firenze ancora incerta in una sua mescolanza di vecchio e di nuovo, di granducale e italiano, ma gelosa delle sue tradizioni, di un suo primato nobiliare di fronte all'invadenza piemontese; di un risorgimento sorretto da una minoranza colta, quella degli scrittori, in una galleria di figure storiche - dal Guerrazzi al Giusti, al d'Azeglio, al Ricasoli - colorite in particolari di vita essenziali a rivelarne il profilo. Alcuni ritratti restano a lungo nella memoria, come il giovane che cammina per Torino portando sulla spalla rotoli di canapa, e intanto legge da un libro che tiene aperto davanti a sé; o, per fare due altri esempi, il Guerrazzi nel carcere delle Murate, e il d'Azeglio a Cannerò, desideroso e lieto del giudizio sul manoscritto dei suoi Ricordi, e poi a Torino sul suo letto di morte. Senza dubbio, nei suoi Ricordi il Barbèra evita di ritrarre la vita intima del proprio ambiente familiare, di abbandonarsi a vibrazioni del sentimento. L'intenzione, nello scrivere, era diversa da quella di un autobiografismo solitario, anzi l'uomo era rivisto soprattutto nella sua attività di tipografo, di cittadino, di editore. Ma all'intenzione si univa, nel creare questo orientamento, la riservatezza e severità del costume piemontese, e anche, come abbiamo già osservato, l'allargarsi degli interessi, degli orizzonti in un passaggio da una editoria ancora artigianale a un'azienda di più largo respiro, incamminata verso le dimensioni industriali. Da tutti questi elementi deriva, per non poche pagine, un certo grigiore, una compassatezza che crea un forte distacco di atteggiamenti fra le memorie del Barbèra e quelle di molti contemporanei. Ma anche ne deriva una maggiore cura formale, che se non è quella d'uno scrittore è però segno di una volontà di conservare esatta e corretta la narrazione.

Non è uno scrittore Niccolò Monti, anche se dedicò gran parte delle sue ore a scrivere e farsi stampare: quasi più che a dipingere, mentre i suoi studi, all'Accademia di Firenze, l'avevano educato per la pittura. Ma la sua narrazione di un lungo viaggio in Polonia, al seguito di un conte che voleva l'opera di un artista italiano nel suo palazzo, e poi fino in Russia, a dipingervi, e il ritorno, con ampia curva verso il nord, nella Firenze da cui era partito, formano un quadro di vivo interesse. Anzitutto per i paesaggi, i costumi, l'evidente struttura ancora feudale della società polacca: ma inoltre interessano molto gli accenni a scultori, pittori, architetti polacchi e russi, alle loro opere, ai dotti delle terre percorse nel viaggio, ai legami tra la nostra e altre civiltà in un periodo del primo Ottocento immediatamente successivo alla caduta di Napoleone. Sono memorie narrate senza intento artistico: tutta l'attenzione del Monti è rivolta ai fatti, a volte con la convinzione di aver vissuto un'eccezionale vicenda da far stupire i lettori, più spesso in una cura di fissare per sé stesso gli anni migliori della propria vita, quasi a impedire che il tempo ne dissolva l'immagine.

Nella nostra scelta sono numerose le pagine di viaggi. Ne abbiamo già ricordate molte, dicendo della Nizzoli e del Monti, ma certo altrettanto o molto più interessanti riusciranno quelle del De Amicis, del Fontana, della Bonacci Brunamonti. Ferdinando Fontana viaggiava come giornalista e le sue pagine conservano il taglio, e spesso la trascuratezza, di una frettolosa corrispondenza, ma proprio per questa loro immediatezza ritraggono al vivo luoghi e persone, mantengono il colore delle scene. Le corrispondenze da Berlino e poi da varii luoghi della Germania, raccolte nel volume In Tedescherìa, rivelano fra loro ineguaglianze notevoli; gli affanni dell'occhiuta ma ottusa polizia illuminano un ambiente e una mentalità in modo più efficace di alcune pagine troppo analitiche dedicate ai ritrovi dei berlinesi, mentre ritorna ad essere una stampa felice lo scenario del fiume di birra che si consuma in ogni locale. Ineguaglianze che confermano il minor livello del Fontana come scrittore, ma che non sminuiscono il pregio delle sue rievocazioni. La New York delle sue descrizioni, con una moltitudine di negozi, tanta bizzarria di propaganda, commerci già intensissimi, mostra ancora non digrossati certi costumi primitivi e alcuni tipici avventurieri a cui ci hanno abituato i racconti e le stampe del Far West, mentre vicino al porto ha forte rilievo il Castle-Garden, il grande serbatoio di mano d'opera, il flusso di emigranti che il vecchio mondo scarica nel nuovo, italiani, tedeschi, irlandesi, che si incolonnano tra alte cancellate, ingabbiati come gregge; e già scivolano tra i lavoratori e sfuggono ad ogni controllo, con la compiacenza degli stessi controllori, i fuggitivi che hanno lasciato, dietro sé, nei paesi di origine, una storia di delinquenza da cancellare, o proseguire in più ampio raggio, nella nuova terra. L'emigrazione come fenomeno e problema storico diventa dramma concreto, vissuto e sofferto dai singoli, in uno scenario rapidamente sbozzato, senza fronzoli, senza compiacenze, senza insistenze e irritante pietismo.

Anche Edmondo De Amicis viaggiava come inviato di giornali, ma le corrispondenze, prima di essere raccolte in volume, furono da lui variamente rielaborate e integrate. Meglio ancora, nelle sue pagine vi è il segno di un artista. Anche ad accettare tutte le riserve che sono state avanzate sui suoi libri di viaggio, e specialmente sulla genesi libresca, - scritti, si è detto esagerando, più a tavolino che visitando e ritraendo con spontaneità e immediatezza - sopravvive pur sempre il fascino, la ricchezza di colore, il rilievo delle sue narrazioni. L'impressione dominante è di una festosa luminosità, di una parola che fluisce senza fatica, e che rivela un lieto, giovanile abbandono alle molteplici esperienze. Chi legge già prevenuto dal comune giudizio sul sentimentalismo languido del De Amicis, incontrerà certo momenti di sottolineate commozioni, di ripiegamenti dolciastri, ma sono momenti più rari di quanto si sia affermato. Si rilegga la descrizione della corrida, così mossa e sfaccettata, in un continuo spostarsi dello sguardo dal pubblico ai toreri, ai cavalli, ai tori. Ferite e morte degli animali creano nella narrazione curve di commossa pietà, mentre nel Baretti - questo richiamo è ormai tradizionale - il distacco è maggiore, anche se il giudizio è ugualmente severo. Ma la pietà deamicisiana è continuamente frenata, deviata verso particolari dello scenario, dispersa e vinta da spunti comici rapidamente sbozzati, e intrecciati con abile garbo. Senza dubbio, il Baretti resta più freddo, verrebbe detto che il suo giuoco è più dell'intelletto che del cuore, in un rapporto che nel De Amicis varie volte si capovolge. Tra le due descrizioni vi è la diversità umana dei due autori, ma anche vi è stata l'esperienza del romanticismo nelle sue varie gradazioni e l'influenza del Prati nel periodo giovanile. Tuttavia il cliché di un De Amicis tutto languori meriterebbe di essere riveduto. Al Cuore egli deve molta della sua celebrità, ma forse anche il danno dei giudizi più severi, che pure non si riuscirebbe ad applicare a una parte non esigua delle sue opere. Per restare sui libri di viaggi, non si può trovare nulla di insistente e eccessivamente dolciastro nella descrizione retrospettiva dell'incendio di Pera, almeno in una valutazione d'insieme, né pecca di sentimentalismo il grande spettacolo di centinaia di donne arabe sulle bianche terrazze di Fez, visto da un alto terrazzo del palazzo del Sultano, né il goldoniano viaggio con una «truppa» di attori in bastimento verso Cadice. Le lettere a Enrico e i racconti mensili di Cuore, molti di Vita militare sono, senza dubbio, lacrimosi, ma l'osservazione non è valida per le tante pagine di ricordi, in cui torna la città di Cuneo dell'adolescenza deamicisiana, la Torino vibrante di promesse risorgimentali, il salotto fiorentino e la villa all'Antella dei Peruzzi : un panorama vastissimo su cui riappaiono numerosi personaggi delle vicende storiche dell'Ottocento, ma sorpresi in atteggiamenti e situazioni di vita privata e perciò umanizzati, e spesso felicemente rimpiccioliti nel distaccarli da certi ingrandimenti oleografici. Le linee sicure e affettuose con cui il De Amicis traccia il profilo dei suoi personaggi, tornano, riconfermate, nei ritratti di quei suoi «incontri» da cui abbiamo scelto, come esempio, le pagine su Francesco Tamagno e su Giovanni Grasso, anch'esse ricche di sentimento, ma che sarebbe ingiusto definire lacrimose. Certamente, a un controllato giudizio complessivo dovrebbe concorrere una attenta rilettura di tutte le opere. Gioverebbe tuttavia insistere sulla migliore misura che deriva da una più attenta collocazione storica, tra un romanticismo che scivolava nella sua degenerazione sentimentale e un naturalismo di voluta, scientifica insensibilità, per ritrovare il rilievo personale che ha il De Amicis su questo sfondo storico: e anche ricordare quanto impegno pedagogico abbia guidato il De Amicis, nella radicata convinzione di un proprio doveroso ufficio morale. Del resto, nella letteratura dell'Ottocento questo elemento pedagogico rimase a lungo dominante e, in molti casi, si presentò come giustificazione dell'attività letteraria. Ma l'azione pedagogica era essenzialmente rivolta al sentimento. Al prevalere di questo indirizzo influivano molteplici elementi: non soltanto il diffuso romanticismo, presente nel costume oltre che nella letteratura, ma una necessità del moto risorgimentale che cercava una più ampia base di adesioni e poteva trovarle, al di là delle minoranze colte, solo mobilitando gli affetti di larghi strati del popolo, commovendone gli animi intorno ad alcuni temi. Non era un calcolato programma, ma un atteggiamento diffuso, con intenzioni certo nobilissime: e dapprima preparò, e successivamente si volse a realizzare l'unità effettiva del paese. La famosa frase del d'Azeglio - ora bisogna fare gl'Italiani - è in realtà la parola d'ordine degli scrittori, prima e dopo l'unità, per un ampio arco dell'Ottocento: e ne derivano molti caratteri della loro produzione, non ultimo il tono oratorio assai diffuso. D'altra parte, questa penetrazione sentimentale fu anche il modo con cui si richiamò l'attenzione sulle classi più umili e si avviò, insieme, la loro elevazione: un processo sociale che mal poteva sollecitarsi su basi in cui i problemi si presentassero con una impostazione dottrinaria. Nonostante il giudizio di Filippo Turati, che respingeva l'accusa rivolta al De Amicis, che fosse approdato al socialismo solo per una via sentimentale, bisogna riconoscere che questa componente concorse in modo notevole al suo orientamento politico: e che il sentimento guidò molti momenti della sua vita. Tuttavia sono i suoi scritti deliberatamente educativi a restare spesso dominati dal sentimentalismo: ma non le molte pagine nate da una sorgente diversa, in cui l'impegno pedagogico dello scrittore- maestro si è attenuato.

Ma a parte ogni considerazione sul peso del sentimento nell'opera del De Amicis e sulla necessità di valutarne il significato e le conseguenze, pensiamo, per tornare nei confini del nostro assunto, che la scelta da noi offerta resti valida come rievocazione di un interessante passato, attraverso aspetti e momenti e figure particolari. Dietro il sipario e dietro il palcoscenico, numerosi contrasti e grovigli politici può scoprire e indicare lo storico della presa di Roma, ma il pubblico contemporaneo la seguì e la visse in una «angolata», ma reale partecipazione, con una illusa, ma sincera esaltazione degli affetti, che non è meno valida di un meditato giudizio storico: e perciò le pagine immediate, che i contemporanei - in questo caso il De Amicis - scrissero nel caldo dell'avvenimento, restano il mezzo migliore per integrare sul piano umano la ricostruzione dell'episodio. Certo, la cronaca scorge gli avvenimenti nella loro singola, isolata esistenza, non riesce a ridimensionarne il significato in un panorama più vasto, più complesso: ma il sapore, il colore del tempo ritornano solo attraverso la immediatezza della cronaca.

Alinda Bonacci Brunamonti riempiva di ricordi i suoi quaderni di viaggio, che solo dopo la sua morte sono usciti in pubblico, per volontà e cura del marito. Parrebbe, dunque, che fossero destinati a lei sola, come un diario personale: ma ci si avvede facilmente che molte pagine sono accompagnate dalla compiacenza della scrittrice per la propria bravura, da una civetteria per il bello stile, e perciò il pubblico dei lettori è sottinteso, già presente nel momento della composizione. Anche perché la Bonacci è convinta di un proprio rilievo tra i letterati del tempo, e perciò di una sua funzione ufficiale. Questo atteggiamento spesso raffredda e nega vivacità a luoghi e scene - come se uscissero da un album, fiori di un erbario - ma non toglie interesse alla memoria di tanti incontri per tante città, da Venezia fino al ritorno in Umbria, in un pellegrinaggio tra artistico e letterario, che ritrae spesso figure minori del tempo ma ricollocate nella cornice di un loro ambiente, come Prospero Viani, bibliotecario della Riccardiana, Augusto Conti, Gesualda Malenchini, Giannina Milli, per richiamare alcuni nomi: o quadri di luoghi, come i monumenti di Padova, di una Firenze agitata per la facciata del Duomo, di Spoleto, di Recanati, di Arezzo. Le città tornano con un loro volto ancora provinciale, belle ma raccolte in una vita modesta, interessanti a noi per la loro distanza nel tempo, e pur tuttavia abitate e percorse da una sola classe sociale, colta e salottiera, in un perbenismo che vale da solo a ricostruire le linee di un tempo. Ad ogni arrivo, nel viaggio, i contatti subito si svolgono nel chiuso cerchio di una consorteria di letterati, di notabili: visite e cortesie: come se tutta la penisola fosse abitata solo da questa élite. Fissiamo, naturalmente, il colore storico, non cerchiamo una polemica anacronistica. Il libro si legge con gusto, vi circola una vita sana, senza complicazioni, ma rarefatta, cristallizzata in una elementarietà che sembra ignorare le reali tempeste che si agitavano al di là del muro di cinta, o allontanarle da sé come colpevoli. Molta letteratura del tempo affondava ben più profonde le sue radici nella realtà, ma aveva accanto questo mondo gentile, asettico, dove si era sviluppata una vita da serra e di cui resta documento in tanta letteratura minore, che forse giova alla ricostruzione del passato più che le maggiori espressioni estetiche.

Intanto, vi era un mondo che moriva. Giovanni Faldella è riuscito a darne un'immagine servendosi di uno scenario caricaturale, simbolico pur nell'esasperazione delle sue forme: un mondo retorico, tutto pose, esteriorità, gerarchie, sentimenti puerili, fede e amore belati in una voluta, stilizzata dimensione arcadica. Sono pagine vivissime, anche se a volte nocciono certe insistenze: il Faldella si diverte a disegnare quel mondo, a sbalzarne in rilievo la comicità, a riderne sottilmente. I frequenti richiami alle manifestazioni settecentesche dell'Accademia, al Gravina, al Crescimbeni, allo Zappi, al Rezzonico, al Casti, al Metastasio, valgono a mostrare quanto di vecchio, di sopravvissuto, imbalsamato si attardi nelle riunioni del palazzo d'Altemps e nei giardini del Gianicolo. Nessuna nota di condanna, neppure al fondo della presentazione: se ve n'è traccia nelle ultime pagine - che abbiamo tralasciato - ci si accorge che si tratta di una « coda » aggiunta per un ripensamento. L'impressione centrale è quella di una carnevalata, una riapparizione del passato in attesa dell'alba che disperderà i fantasmi della grande mascherata pastorale: e perciò non può esservi condanna, astio e polemica, ma la franca risata di chi sa buffa ma inoffensiva tanta eloquenza di orazioni e sonetti.

Tuttavia, quel mondo esisteva: non già nelle forme esasperate che il Faldella aveva caricaturato, ma pur sempre esisteva in molti aspetti del costume, della letteratura, dei rapporti tra gli uomini. Nel suo fondo, al di là delle apparenze, vi erano atteggiamenti che sembravano intramontabili: e di cui solo simbolicamente l'Arcadia diveniva responsabile. Proprio nello stesso anno (1882) in cui usciva Roma borghese del Faldella, il Carducci raccoglieva in volume i suoi Giambi ed Epodi, in cui per un decennio aveva duramente frustato simili carnevalate e la corruzione che spesso vi si annidava, ma con la violenza e il sarcasmo che gli erano propri, mentre il Faldella demoliva con un suo riso canzonatorio assai più divertito che indignato. Un'epoca ha mille facce: bisogna ritrovarle nelle pagine del tempo.

Memorie e paesaggio si legano saldamente in unità nel Fascino delle solitudini di Annie Vivanti. Ma i ricordi sono già filtrati attraverso un'intenzione artistica: non perdono il contatto con l'esperienza vissuta, ma la trascinano verso una dimensione poetica. La stazioncina isolata, gli spazi immensi e silenziosi, il ranch sperduto, i pastori solitari, la carica paurosa del bestiame, il fascino e il terrore di un mondo ancora lontanissimo, di anni e di spazio, dalla civiltà, sono persuasiva, vivace testimonianza di una fase ormai superata nell'evoluzione del territorio americano: una testimonianza che nel ricordo della scrittrice accentua alcune tinte e si ravviva di sorridenti ironie, tutta percorsa da quella giovanile festosità che fu tipica delle pagine migliori della Vivanti. Si direbbe che nel Fascino delle solitudini abbiano trovato un loro equilibrio l'obbiettività della memoria e la sua elevazione nell'arte. Un'osservazione che potrebbe ripetersi per le celebri pagine sul Carducci, che non falsano la figura del poeta, e tuttavia lo ritraggono con un calore così affettuoso e ammirato da sollevarlo in un alone di luce. Questo felice equilibrio che raggiunge nelle memorie, la Vivanti non lo attinse nei romanzi: la sua poesia nasceva dalla vita reale, non riusciva a fiorire da una vita immaginata. Proprio per questo, le lettere al Carducci sono anch'esse tra le sue espressioni migliori.

I ricordi della Vivanti non hanno peso di pensiero, si risolvono in immagini, e nei sentimenti che le percorrono: un abbandono giovanile alla vita, senza complicazioni, senza ripiegamenti, in una sorridente fiducia, quasi la scrittrice avanzasse con passo di danza. I tempi delle sue memorie erano stati certo molto più complessi e tormentati di quanto le apparisse, - e le fu dato tanto di vita da soffrirne gli esiti più dolorosi - ma le sue pagine fermano un aspetto, sia pure di superficie, dell'ottimismo in cui molta società del tempo si isolò dalla realtà.

Molto complesso, invece, il piano su cui si muove Angelo Camillo De Meis, tracciando, in forma di epistolario, un intimo dialogo con sé stesso. Mentre egli pubblicava il suo libro Dopo la laurea, il positivismo si affermava come nuovo orientamento del pensiero, e perciò negli studi e nelle ricerche mediche dominava un'esplorazione naturalistica, fra analisi, provette, alambicchi e microscopi. Il De Meis proveniva da una educazione hegeliana, e gli era stato maestro il suo amicissimo Bertrando Spaventa, compagno di collegio nell'adolescenza, di esilio, in Piemonte, negli anni successivi. Medico, aveva dedicato molta attenzione anche alle scienze naturali, tanto che si trovava a metà strada fra un desiderio di astrazione filosofica e una consuetudine all'analisi del particolare concreto. Avrebbe voluto unificare i due atteggiamenti, salire a una interpretazione in cui natura e pensiero, senza perdere nulla di sé stessi, si rivelassero due facce, due momenti di una stessa realtà. Ne deriva una analisi spietata dei limiti in cui egli vedeva attardarsi la scuola naturalistica col suo rifiuto di ogni metafisica ; la sofferenza di non riuscire a smuovere i ricercatori dai loro « amminicoli », a far loro cercare non soltanto il «come» dei fenomeni ma il «perché», a convincerli che la storia della medicina non è altro che un capitolo della storia della filosofia, un aspetto dello svolgersi del pensiero che conquista sé stesso. Non riusciva a convincere gli scienziati : ma, in realtà, non convinceva del tutto neppure sé stesso. Tuttavia, al di là dell'esito negativo del suo impegno, poche opere esprimono in forma così piena i limiti del positivismo, l'ansia di trascendere il dato naturalistico, anche se il tentativo si svolge in una direzione illusoria. Le successive conquiste della medicina, con gli orientamenti psicosomatici, con il rilievo assegnato alle indagini psicologiche e psichiatriche, ricercheranno il superamento del dato fisico o esprimeranno l'esigenza di questo superamento, ma con ciò stesso dimostreranno la vitalità del tormento in cui si era dibattuto il De Meis. La sua opera, tra l'altro, ripresenta il tessuto di pensiero di quel movimento hegeliano che da Napoli, con gli esuli - lo Spaventa, il De Sanctis ecc. - si era trasferito in Piemonte, ma vi era rimasto isolato, e anzi, in vari, aveva subito l'influenza della concreta operosità piemontese, come innesto fecondo per una rielaborazione di molti problemi. Non così nel De Meis, che mirabilmente rimase ancorato alla sua prima istituzione filosofica e ne tentò una esplicazione e un'applicazione, isolato nella sua fede e nell'assidua ricerca. Ma al di là dell'interesse che nasce dalla loro collocazione storica, le pagine del De Meis hanno un denso vigore e un fascino per quel pensiero che cerca sé stesso, e vuole raggiungere una propria chiarezza e farsi persuasivo; ma non soddisfatto del discorso concettuale, il De Meis spesso ricorre alle immagini, a un simbolismo fantastico, da cui erompe una natura meridionale con una sua ricchezza di colori. L'inclinazione poetica, respinta dalle convinzioni filosofiche, sta tuttavia al fondo di molte pagine e continuamente riaffiora: e insieme una affannata rievocazione di giorni più sereni - nell'adolescenza, nello stesso esilio ancora pieno di attese - e un senso di stanchezza per il presente.

Aspetti minori dello stesso periodo di tempo ci tramandano le pagine di Dino Mantovani. Le sue Lettere provinciali sono ben lontane dalla tormentata prosa in cui si dibatte il pensiero del meridionale De Meis. Nascono, invece, con una limpidezza tutta veneziana, in una agilità scorrevole del periodo: trattano con garbo molti problemi, e affrontano molte difficoltà che sono dell'autore, ma ancor più della nostra nazione da poco costituita. Il disappunto del Mantovani per essere costretto, quale insegnante, a pellegrinare lontano dalla propria casa, si allarga, per una osservazione e testimonianza felice, nella pena delle numerose schiere di dipendenti statali, che l'unità della penisola e l'accentramento amministrativo avevano obbligato a spostarsi da una all'altra città. Nei piccoli stati, prima del Risorgimento, la vita si svolgeva sulla propria terra, circondati dal calore umano di persone familiari fin dall'infanzia, in una casa che era la stessa da generazioni. «Noi invece siamo come gli zingari. . . corriamo dietro al nostro pane senza riposo». Una situazione e un lamento che dovettero avere conseguenze e riflessi più profondi di quanto sembri, anche se giovarono - come lo stesso Mantovani osserva - a sprovincializzare, a suggerire pensieri più vasti, a rimescolare lingua e cultura: un processo unitario che si svolge in modo meno evidente, ma parallelo all'unificazione legislativa e amministrativa, e di esse assai più importante e profondo: un processo che continua tuttora, e di cui solo le memorie del tempo, tra cui quelle del Mantovani, possono darci una concreta, viva impressione. Soprattutto, la danno con il quadro della scuola, che è un osservatorio tra i più felici per cogliere un costume di vita, il livello di cultura del paese, le sue stratificazioni sociali. Le considerazioni del Mantovani, in un suo ritratto di una scuola vista dall'interno, sono lontane dai nostri nuovi orientamenti, ma divengono documento di una fase del nostro cammino, pongono dei problemi tuttora in parte validi. L'ultima lettera che abbiamo riprodotto rivela i sentimenti predominanti nella borghesia italiana verso la patria, la monarchia, l'esercito, i confini orientali del regno. Sono sentimenti non molto diversi da quelli che pochi anni prima il De Amicis aveva espresso nelle pagine del Cuore, anche se il Mantovani li raffrena nella sua controllata prosa, dove hanno, del resto, carattere occasionale, e non certo didattico. Dire che appartengono alla retorica del secondo Ottocento è inesatto, perché erano commozioni sincere e anche conducevano a un conseguente costume morale, ma certo appaiono ormai lontane e proprio per questo capaci di ricostruire un ambiente e l'atteggiamento delle generazioni del tempo. Non vi è, del resto, differenza di tono nella prosa del Mantovani tra l'esaltazione di questi sentimenti «patriottici» e quella lode e ammirazione per la gente friulana, che fu per lui sprone assiduo nei suoi studi sul Nievo. Ma, a proposito di retorica, non bisognerà dimenticare le molte pagine in cui il Mantovani addita e condanna i difetti che vedeva negli italiani, e nel livello di civiltà in cui si attardavano: ciò che è evidente soprattutto in una lettera a Guido Mazzoni che per ragioni di spazio non abbiamo riprodotto.

Molti mali del costume italiano risorgono, da un uguale osservatorio, nelle pagine su Le tribolazioni di un insegnante di ginnasio di cui il D'Ancona si fece editore, e meglio ancora, per più ricca esemplificazione, nelle memorie di Fedele Romani, pellegrino di anno in anno nelle scuole di Abruzzo, Calabria, Sicilia, Sardegna fino al lungamente sognato approdo a Firenze. I ritratti scolastici si risolvono in ritratti di costumi, di livelli civili, di caratteri regionali, puntualizzati in una concretezza di episodi rivelatori, di cui solo esperienze direttamente vissute riescono a trasmettere così persuasivi quadri.

Abbiamo nominato Fedele Romani per un tema delle sue pagine che egli ha in comune con altri memorialisti. Ma i suoi libri, Colledara e Da Colledara a Firenze, ritraggono molti altri aspetti della vita italiana in varie regioni, e percorrono un arco di tempo assai ampio, anche accogliendo ricordi ascoltati dai familiari nell'adolescenza. Perciò i quadri di vita scolastica, anche se in alcune parti sembrano accentrare l'attenzione, in realtà valgono soprattutto per quel che rivelano della vita d'ogni città. Il pregio minore attribuito alla cultura dai genitori, l'orizzonte spesso meschino in cui si muovono gli stessi insegnanti, sono occasioni per mostrare la vita e i costumi degli abitanti, le prepotenze di alcuni notabili locali, la borghesia e il popolo nei reciproci rapporti; ma anche un'ansia di migliorarsi, una sostanziale sanità di vita, e il lavorio inconsapevole con cui di tante genti diverse, lentamente, si accentuano gli elementi comuni, si attenuano le differenze, mentre si procede a unire ciò che è stato solo unificato. Indietro nel tempo, tornano i contrasti e le incertezze dei primi anni di libertà, ancora tra lealisti borbonici e patriotti, fra il terrore del brigantaggio faticosamente domato e l'esodo dai paesi in città per sfuggire alle grassazioni, alle rapine, agli eccidi, e la rovina di una borghesia terriera travolta da uno spostarsi della ricchezza e del valore della moneta. Un quadro di tutto il paese reso attraverso situazioni particolari, che riescono emblematiche e si ripresentano col colore e la trepidazione in cui furono vissute. Il Romani narra in una prosa pacata che guarda certamente, come è stato detto, al modello manzoniano, del quale, a volte, ha anche certo gusto ironico e alcune conclusioni morali, ma l'uno e l'altre molto meno impegnati, e perciò alleggeriti da un sorriso. Un manzonismo piuttosto esteriore, che poggia sulla scelta linguistica, sul tono confidenziale, e non va oltre. L'avvicinamento, se mai, può farsi con altri scritti di memorie, col Lorenzo Benoni del Ruffini che anche nelle traduzioni conserva una sua cordialità evocativa, con molte pagine del Settembrini, con le prime della Giovinezza del De Sanctis, quando non si dimentichi il pregio maggiore che viene a questi libri di ricordi dal loro ampliarsi verso una intensa partecipazione al dramma del Risorgimento, e dalle diverse stature degli autori, e infine il passaggio, col Romani, a un periodo senza martiri e senza esìli, in cui è già in atto la demitizzazione del Risorgimento, e la presentazione, in un quadro concreto, della situazione reale del paese. Ma i ricordi del Romani sono certamente tra le letture rievocative più attraenti che ci abbia lasciato il suo tempo, e sarebbe facile citare da molte pagine felici del libro: la figura del padre e della madre in uno sfondo di sanità paesana, lo zio monsignore, il seminario, le tante macchiette di preti, e di maestri ignoranti, i cattedratici di Pisa, la povertà e il sudiciume di molte città, la delinquenza, l'albagia, l'arretratezza di varie regioni e, in contrasto, il quadro luminoso di certi paesaggi ripensati come un'oasi, e sentiti come una riposante apparizione.

Tra i maestri dell'ateneo pisano, vi era Alessandro D'Ancona, che il Romani ricorda con ammirazione. Il D'Ancona ha lasciato negli studi letterari una forte traccia, specialmente nell'esplorazione di quella poesia popolare e di quelle prime forme teatrali che egli cercava negli inizi della nostra produzione in volgare. Apparteneva alla generazione risorgimentale e aveva anch'egli contribuito all'unità politica della nazione: e perciò è più facile trovare in lui entusiasmi, che nel suo discepolo Romani si sono ormai smorzati. Questo entusiasmo è evidente nelle sue Rimembranze gradevoli, e segna una linea essenziale del suo profilo: e anche riconduce a un periodo di cui altre sue pagine, sul Prati e su Rossini, sono suggestive stampe. Ma i suoi ricordi di maggior rilievo si trovano nel compianto della figlia Giulia, che morì tredicenne, e della quale ci fa seguire il declino, circondandolo di presentimenti, ricostruendo gli affetti, le attese, gli interni, i personaggi tra i quali si svolse e concluse il penoso dramma.

Nella nostra scelta, molte pagine della seconda metà dell'Ottocento risentono in modo evidente dell'influsso della prosa manzoniana, anche se a volte non si tratta di un'azione diretta, ma mediata attraverso gli indirizzi allora prevalenti. Altre sono ancora legate a modelli meridionali, come quelle del De Meis; o risentono piuttosto del Nievo, ed è il caso del Mantovani; o innestano sulla tradizione italiana coloriture anglosassoni, nella vivace prosa della Vivanti. Ma quasi sempre si tratta di echi che giova poco individuare in una produzione che resta agli estremi margini della tradizione e della scelta letteraria, e perciò ancorata alla lingua comune della propria epoca. Il rilievo individuale nasce da altri elementi, dai contenuti stessi, dalle qualità personali che si fanno valere pur nell'assenza - o nella esiguità o addirittura nell'intenzionale rifiuto - di ogni istituzione letteraria. Forse questo è lo spiraglio migliore per avvicinarsi alle forme medie della parola parlata nell'epoca. Certo, l'osservazione che vale in pieno per un Fontana non può adattarsi a un De Amicis, ma tra i due estremi le gradazioni stesse pesano come conferma.

Interesse maggiore possono destare altri angoli di riflessione. I viaggi, narrati con il tono concreto di una relazione obbiettiva nel Monti, nella Nizzoli, nel Fontana, si allontanano da questo impegno di ricalco e accolgono coloriture e vibrazioni soggettive nel De Amicis, divengono pretesto per libere costruzioni artistiche in una Vivanti, tornano intermedie tra relazione e denuncia di vecchi mali e speranze di un rinnovamento nel Romani, si attardano in una pura contemplazione di gusto letterario nel Mantovani: differenze che sono certo dovute a diversa temperie umana, ma che anche rivelano contrastanti origini culturali e opposte concezioni di una tematica più spesso tradizionalmente legata a testimonianze esatte, anziché a variazioni e trasformazioni poetiche.

Le pagine che riproduciamo sembrano ignorare i problemi sociali che pure facevano già sentire vivamente la loro presenza e premevano sulla vita politica, sulle condizioni economiche, nelle piazze, nelle fabbriche, negli stessi rapporti familiari. Questo silenzio deriva in buona parte dalla nostra stessa scelta, che si sarebbe potuta rivolgere ad altri scritti, di tematica sociale, che sebbene poco numerosi tuttavia non mancano, anche se il loro fine battagliero molto spesso li allontana dal tipo della nostra ricerca. Ma è anche vero che a gran parte della borghesia italiana dell'Ottocento le istanze e le agitazioni sociali più che un problema da risolvere apparivano una momentanea aberrazione, un disordine inconsulto, una febbre improvvisa cui doveva seguire la rasserenata guarigione. La letteratura non ignorava gli umili, la povertà dei derelitti, e ha pianto e fatto piangere abbondantemente sui reietti, sugli uomini curvi nella fatica, nel freddo e la fame, ma per invitare alla pietà, alla carità, a una comprensione più spesso che a un'opera di redenzione. Perciò, nella nostra scelta, il silenzio di cui dicevamo è anche rivelatore di un'epoca, e gli accenni di umana pietà che vi affiorano sono conferma di un atteggiamento comune a una società. A chiarire i limiti di questa umana comprensione, meritano di essere sottolineati alcuni accenni: ad esempio, le osservazioni del Barbèra sulla necessità di allontanare da Parigi tutte le fabbriche e gli operai, la cui presenza riuscirà sempre motivo di disordine e pericolo per lo Stato: osservazione di un uomo che era « fraternamente » pensoso dei bisogni dei propri dipendenti ma ancora chiuso ai problemi sociali. E anche rivelatore di una diffusa mentalità, riesce nelle memorie della Bonacci Brunamonti non solo quanto già abbiamo osservato sull'isolata aristocrazia culturale in cui si svolge il suo lungo viaggio, ma il suo stupore che una sentinella delle prigioni di Arezzo non sappia distinguere tra «la canaglia» e «la gente a modo»: dove la contrapposizione dei due termini riproduce quella tradizionale tra «galantuomini» e «villani», peggiorandone il significato in una valutazione che diventa contemporaneamente morale ed economica e si colora di disprezzo.

Ma questi ed altri simili accenni rivelatori, che pure si potrebbero ritrovare nelle pagine della presente scelta, vogliono servire, nella nostra intenzione, a caratterizzare un'epoca, i suoi atteggiamenti, e non già a lamentare che essa non precorresse tempi successivi. Del resto, l'atteggiamento di pietà e comprensione, la carità borghese dell'Ottocento, di cui è traccia evidente nella contemporanea letteratura, - e di cui sarebbe qui superfluo richiamare una serie di testimonianze - furono la prima forma di riflessione sulla condizione degli umili: espressioni ancora sentimentali, come la stessa condanna d'ogni disordine, ma avviamento ad una impostazione logico-economica e politica del problema sociale.

In questo senso rappresenta un notevole passo avanti il quadro severo e concreto che Fedele Romani accuratamente traccia di varie regioni italiane, senza fremiti di pietà, senza valutazioni astratte e generiche, in un impegno positivo di elencare i mali e le deficienze accanto alle qualità più promettenti. Segnava così la via su cui procedere per un'opera di bonifica : a volte anche con parole dure per le classi dirigenti dell'epoca, ma sempre con la pacatezza da cui non potevano nascere certo le trasformazioni fulminee, ma piuttosto i meditati, profondi rinnovamenti del costume morale e del livello di una civiltà.

Contemporaneamente, gli entusiasmi eroici del periodo risorgimentale si andavano spengendo. Anche nel ripensamento gli anni dell'unificazione lasciavano cadere le dorature con cui erano stati celebrati, si iniziava una revisione critica. Chi ripercorra i ricordi del De Amicis che rievocano la Torino del fervore patriottico, e giunga, per gradi, alle pagine tristi sui garibaldini visitati a Londra dalla Vivanti o alla dura analisi del Romani sul clientelismo politico, può ancora una volta seguire la curva di una esperienza storica che sottolinea molti aspetti dell'itinerario ottocentesco della nostra nazione e di alcuni suoi orientamenti successivi.

Come già abbiamo osservato, l'Ottocento è un secolo ricchissimo di memorie: i volumi della collezione Ricciardi che - con questo terzo - ne hanno offerto una scelta, sono ben lontani dall'averne intaccata l'eccezionale ricchezza. E perciò ci rammarichiamo di aver tralasciato tanti altri aspetti della vita del tempo, che pur si rispecchiano in vivissime pagine di ricordi: e solo ci conforta la speranza di avere ancora tempo e forze adeguate per volgere la nostra attenzione a una successiva raccolta.

Il carattere di questa nostra «premessa» esclude che essa sia accompagnata da una bibliografia, poiché ogni eventuale indicazione finirebbe col ripetere quelle stesse che seguono il «profilo» dei singoli autori o si amplierebbe inutilmente alle conclusioni generali raggiunte dagli studi critici sul nostro Ottocento. Abbiamo piuttosto voluto giustificare i criteri che ci hanno guidato nella scelta, nei giudizi che le sono impliciti o abbiamo espresso nei «profili». Tali criteri risultano, infine, anche dalla Nota ai testi e dalle note poste via via nelle varie pagine a chiarimento dei singoli accenni.

Nel licenziare il volume, desideriamo chiedere ai lettori di tener presente che molti dei testi prescelti ricevono ora per la prima volta delle note esplicative, e che perciò meritano forse un meno duro rimprovero gli errori e le omissioni in cui quasi certamente saremo incorsi. Abbiamo tuttavia rivolto ogni cura che ci fosse possibile al presente volume, in ciò sapientemente aiutati dagli esperti amici della Casa editrice e, in particolare, dalla dottoressa Fiorenza Mazzaroli che ci è stata preziosa e assidua collaboratrice per molte annotazioni e varie faticose ricerche.

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