CESAROTTI, Melchiorre

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 24 (1980)

CESAROTTI, Melchiorre

Giorgio Patrizi

Nacque a Padova il 15 maggio 1730, da una famiglia nobile di origine, ma oramai borghese (il padre era un funzionario statale) e non molto agiata. Fin da giovane rivelò un carattere aperto ed interessato ai problemi della cultura ed un notevole amore per gli studi, nonostante fosse avversato dal padre, persona gretta ed insensibile a tali problemi. Solo grazie alla benevolenza di uno zio gli fu possibile entrare nel seminario di Padova, una delle più prestigiose università del tempo. Qui seguì dapprima gli studi di lettere e filosofia, che più lo interessavano, poi matematica, giurisprudenza, e per un certo periodo, anche studi ecclesiastici - prese gli ordini minori senza divenire sacerdote - per tornare infine ai suoi studi letterari.

Questi anni presso il seminario di Padova sono molto importanti per la formazione del C., sia come uomo sia come letterato. Molta influenza infatti avrà sulle sue future teorie linguistiche e letterarie, sulle sue concezioni estetiche e critiche la conoscenza della cultura francese contemporanea e dei problemi che in essa si dibattevano allora, come la famosa "querelle des anciens et des modernes", aperta nel secolo precedente dai Parallèles di Ch. Perrault, o come le teorie sull'origine del linguaggio di Condillac e De Brosses. Durante questa sua permanenza pressò il seminario, infatti, ebbe modo di conoscere Giuseppe Toaldo, professore di matematica ed astronomia, che coltivava anche interessi filosofici e letterari: questi, lo spinse a leggere tutti i maggiori filosofi illuministi europei, da Voltaire a Hume, a Condillac, fino a Vico e a Shaftesbury. Sempre tramite il Toaldo, il C. conobbe La sagesse del francese P. Charron, che produsse su di lui una forte impressione, come egli stesso confessava (cfr. Barbieri, Memorie), in quanto in essa si sosteneva una teoria estremamente congeniale alle idee del C., cioè la necessità, nel giudizio, di conciliare ragione sentimento.

A Padova il C. si formò una conoscenza altrettanto profonda anche della cultura italiana contemporanea e dei dibattiti che proprio in quegli anni erano sorti intorno al problema della lingua, dopo la pubblicazione nel 1717 del Nuovo Vocabolario della Crusca, in una cultura italiana che si stava allora aprendo al nuovo verbo illuministico e mostrava le prime esigenze di novità e modernità.

In questi anni, a margine e complemento dei suoi studi, il C. aveva iniziato un minuzioso lavoro di estratti, spogli, memorie dei tanti libri che leggeva, lavoro che venne riunito dal C. stesso in quasi dodici volumi, andati poi perduti, tranne un volume di prose greche e uno di poesie latine. Oltre a questi studi e ai lavori relativi, il C. scrisse nello stesso periodo alcuni componimenti in latino, fra cui, tra il 1754 e il 1758, un dialogo dal titolo Homines histriones (in Opere, XXXI, pp. 285 ss.), da intendersi nel senso dispregiativo di "ciarlatani", (S. Serena), importante in quanto in esso compare già la sua polemica contro la pedanteria dei grammatici e degli imitatori pedissequi dei classici, ribadita, sempre in quel periodo, da due epigrammi latini: In grammaticos (in Opere, XXXI)e In homerolatras (ibid., XXXIII).

Sono di questi anni anche la traduzione del Prometeo di Eschilo, eseguita per conto di Paolo Brazzolo, un mecenate di Padova, e di sette Odi di Pindaro, entrambe edite (s. l.) nel 1754. Nello stesso anno iniziò la traduzione delle tragedie di Voltaire, fatte rappresentare nel teatro del seminario.

Questa sua infaticabile attività di studioso e letterato era valsa a fargli ottenere, ancora molto giovane (l'anno preciso non viene menzionato da nessuno dei suoi biografi), la prestigiosa cattedra di retorica, presso lo stesso seminario di Padova. Da questa posizione di prestigio egli cominciò ad estendere, con ben altri presupposti, la sua battaglia contro ogni forma di pregiudizio scolastico, contro coloro che inneggiavano ai classici in nome di una perfezione che per lui era solo "un bel cadavere" contro i cruscanti e i puristi con il loro ideale di lingua immobile nel tempo; e ciò alla luce di un nuovo canone letterario - e di un nuovo ruolo di letterato - svincolato dalla rigidità di una tradizione ormai astratta e inoperante ma capace piuttosto di agire a fondo nei valori culturali più avanzati dell'epoca.

Nel 1762 il C. venne chiamato a Venezia, come precettore presso la nobile famiglia dei Grimaldi, con uno stipendio mensile molto elevato e vi rimase fino al 1768. Il trasferimento a Venezia fu determinante per lui: il suo orizzonte culturale si allargò ulteriormente, strinse amicizia con personaggi illustri della cultura italiana e straniera, come G. Gozzi.

Proprio nel 1762 venne pubblicata a Venezia, presso la tipografia Pasquali, la sua traduzione delle tragedie di Voltaire iniziata a Padova, con il titolo: Il Cesare e il Maometto, tragedie del signor di Voltaire, trasportate in versi italiani, con alcuni ragionamenti del traduttore, cui il C.premise, come dice nel titolo, due Ragionamenti, che si possono considerare come le prime formulazioni ufficiali della sua estetica (poi in Opere, XXXIII).

Uno dei dibattiti culturali più intensi del Settecento riguardò la revisione dei generi letterari, che, codificati dall'estetica rinascimentale, a seguito della rilettura della poetica aristotelica, sembravano rivelare fino in fondo la propria rigidità e l'inadeguatezza a rispondere alle attese del nuovo gusto. In particolare a proposito della tragedia, il Dubos in Francia aveva affermato che, dato che l'essenza dell'arte consiste nel suscitare passioni, ciò avviene soprattutto nella tragedia, il cui fine è l'effetto emozionale che suscita nello spettatore.

Nel primo dei due ragionamenti citati, dal titolo Ragionamento sopra il diletto della tragedia, il C. affronta l'argomento e, pur accettando le teorie del Dubos, aggiunge che l'emozione prodotta dai casi tragici non basta da sola a dilettare, ma è necessario anche quello che egli chiama il "piacere morale", derivante dall'insegnamento che se ne trae, cioè che per evitare errori, pregiudizi, passioni nefaste bisogna fare buon uso della ragione. Come si vede il C. attua in questa sua teoria un compromesso tra la filosofia sensista, che poneva l'accento sull'effetto emozionale, e la filosofia razionalista, che invece sosteneva l'utilità educatrice della tragedia, rivelando fin da ora come caratteristica costante del suo pensiero la capacità di mediare posizioni teoriche diverse rilevabili nella cultura del suo tempo. In tal modo, nel Ragionamento citato, egli giunge a teorizzare un tipo di tragedia nutrita di motivi filosofici, ma capace al tempo stesso di dilettare ed interessare (E. Bigi, Le idee); tale tipo di tragedia egli vede realizzato proprio nelle tragedie del Voltaire, non in quella greca, che a suo parere mirava troppo a effetti orridi, né in quella secentesca, che considerava troppo romanzesca e frivola. Maggiore importanza ha il secondo dei due ragionamenti, dal titolo Ragionamento sopra l'origine e i progressi dell'arte poetica: in esso troviamo esposti i presupposti teorici della sua futura produzione letteraria e critica.

Il C. accetta il canone classico della poesia come imitazione della natura, ma rinnova dall'interno questo concetto, affermando che la natura è molteplice e infinita e pertanto molteplici ed infiniti sono i modi di imitarla. Da qui si deduce la validità di ogni arte poetica e l'infinita libertà dello scrittore, al di là di ogni schema e di ogni regola. A sostegno di ciò il C. afferma che le arti devono l'origine all'istinto e quindi sostiene l'anteriorità della poesia rispetto a tutte le regole, basate unicamente sull'autorità dei classici e sulle convenzioni consolidatesi nei secoli.

In questo Ragionamento sitrovano alcuni motivi che, presenti già nella cultura settecentesca - basti pensare al Vico, con la sua esaltazione della poesia primitiva e istintiva, o al Rousseau, con il suo culto della natura -, verranno poi sviluppati dall'Ottocento romantico; in particolare, il senso vivissimo dell'individualità e originalità dello scrittore e l'insistenza sul carattere fantastico-passionale della poesia (v. J. Macpherson, Poesie di Ossian, a cura di E. Bigi). Tuttavia, accanto a questi accenti di preromanticismo, sussistono nel C. elementi tipici della mentalità illuminista, come ad esempio la distinzione tra "genio universale" (o "gusto universale"), che è proprio di ognuno, in quanto tutti possono far poesia, e il "genio particolare delle nazioni", che limita la facoltà poetica e le dà impronte differenti, a seconda dell'ambiente cui lo scrittore appartiene. Seppur con accento negativo, ilC. intuisce la interagenza tra lo scrittore e la società in cui vive, che sarà uno dei temi centrali della critica letteraria romantica. Anche in questo Ragionamento, pertanto, egli attua una mediazione tra la teoria, già preromantica, della libertà creatrice del genio poetico, e quella razionalista, che non rinunciava a credere alla necessità dell'esistenza di "rapporti eterni ed immutabili tra gli oggetti e l'uomo", conosciuti i quali è possibile formulare la base per un'arte poetica universale. In altre parole, egli dice, "se il Genio crea, è il criterio che discerne"; in tal modo, l'arte viene a porsi come momento posteriore rispetto all'intuizione poetica, cioè momento in cui la intuizione si estrinseca in una forma particolare, determinante e condizionata dall'ambiente, ma comunque necessaria per far poesia.

Una conseguenza delle teorie esposte in questo Ragionamento è la presa di posizione del C. in difesa dei moderni, nella famosa "querelle" sorta in Francia, circa la superiorità degli scrittori antichi o di quelli moderni. Infatti se, come abbiamo visto, ogni forma di poesia è valida e anteriore alle regole, anche le letterature moderne hanno la loro validità ed importanza, ed è vano pretendere di servirsi ancora delle forme, anche se perfette, dei classici, in quanto, così facendo, si nega lo sviluppo della civiltà umana.

A Venezia il C. aveva conosciuto Charles Sackville, un inglese che gli aveva fatto leggere il primo volume dei Poemi di Ossian, in prosa inglese, del Macpherson. Il C. rimase entustasmato dalla lettura di un'epica differente dall'omerica, in cui vedeva la conferma delle sue teorie anticlassiciste, e volle accingersi alla traduzione in italiano dei poemi ossianici. Sappiamo che in realtà questi poemi erano un'abile finzione letteraria del Macpherson, il quale, in possesso di alcuni frammenti di manoscritti autentici di canti del ciclo ossianico, uno dei tre cicli eroici della letteratura gaelica, pubblicò nel 1761 il Fingal (London 1762) e quindi Temora (London 1763) entrambi uniti a scritti minori, facendoli credere composti da Ossian, un bardo celtico del III secolo d.C. Subito si era acceso un ampio dibattito sull'autenticità o meno dei poemi ossianici: il C. non si interessò molto a questo dibattito, quanto al fatto che la poesia ossianica veniva ad essere una conferma delle teorie estetiche esposte nei suoi Ragionamenti del 1762; infatti essa rappresentava un'affermazione della libertà di ispirazione poetica, fuori della tradizione classica, anzi essa era la vera poesia di natura e di sentimento, cioè istintiva, primitiva. Inoltre il C. intese con questa traduzione dare sostegno alla sua battaglia per liberare la letteratura italiana dagli impacci classicistici, che le impedivano di essere una letteratura moderna, critica che era stata mossa anche in Francia da letterati come il Bouhours.

Pertanto tra il 1762 e il 1763 egli si accinse alla traduzione dei Poemi di Ossian, dalla prosa inglese del Macpherson, in endecasillabi sciolti. La prima edizione apparve a Padova presso l'editore Comino alla fine del 1763, con il titolo: Poesie di Ossian, antico poeta celtico, in due volumi, comprendenti i poemi ossianici stampati dal Macpherson fino al 1762, con osservazioni critiche e morali. Seguirono altre due edizioni: la seconda nel 1772, sempre a Padova dallo stesso editore, in quattro volumi, con l'aggiunta del poema Temora e degli altri poemetti stampati dal Macpherson dopo il 1762, corredata di un Discorso introduttivo, di un Ragionamento preliminare intorno ai Caledoni, della Dissertazione critica, di Hugo Blair, presente anche nell'edizione del Macpherson del 1762, un indice dei nomi e delle cose principali contenuti nelle poesie di Ossian, e un dizionario ossianico. Ultima edizione fu quella di Pisa del 1800, negli "opera omnia" del Cesarotti. I Poemi di Ossian ebbero un vero e proprio valore di rottura rispetto alla teoria letteraria vigente: furono la scoperta di canoni estetici completamente nuovi rispetto al dominante razionalismo, ai modelli conoscitivi ormai consolidati di una cultura borghese via via più sicura di sé e della propria egemonia.

Un elemento importante che caratterizza la traduzione ossianica del C. è l'uso nuovo dell'endecasillabo sciolto. Egli incontrò molte difficoltà in quanto l'opera del Macpherson era in prosa, mentre il C. le rese la forma di poema; aveva quindi necessità di trovare un metro che si confacesse al gusto di quei poemi, al ritmo della narrazione di una materia così nuova. L'aver usato l'endecasillabo sciolto, liberandolo dal tono didascalico e discorsivo che fino ad allora l'aveva caratterizzato per dargli intonazione lirica, nuova musicalità, nuovo ritmo melodico, è senz'altro uno dei meriti maggiori del C. letterato. Proprio questa duttilità del metro fece sì che l'endecasillabo sciolto divenne presto uno degli strumenti preferiti della nuova lirica italiana, da Alfieri a Foscolo, a Leopardi, per la sua disponibilità a modellarsi secondo le esigenze dei nuovi codici espressivi, del nuovo registro emotivo.

La traduzione dei Poemi di Ossian aveva esteso la fama del C., il quale fu invitato, anche a Parma dal ministro Du Tillot, a ricoprire la cattedra di lettere greche; ma Venezia non volle privarsi di lui. Tuttavia nel 1768 il C. lasciò la Dominante, chiamato di nuovo a Padova alla cattedra di lingua greca ed ebraica presso l'archiginnasio.

La sua attività di professore non lo distolse dagli studi, che anzi intensificò. Legate alla sua attività didattica sono la traduzione di tutte le Opere di Demostene (Padova 1774-78, 6 voll.; poi nei volumi XXIII-XXVIII delle Opere) e il Corso ragionato di letteratura greca (Padova 1781-1784), che, rimasto incompiuto (volumi XX-XXII dell'ediz. pisana delle Opere), consiste in una serie di traduzioni di oratori greci, corredate da introduzioni e note critiche, scritto, come egli afferma, per combattere "il culto esclusivo e superstizioso degli antichi". Questo lavoro era stato preparato nel 1778 dal Piano ragionato di traduzioni dal greco, che poi, rielaborato, aveva costituito il Ragionamento preliminare al Corso.

Nel Piano il C. affermava che la decadenza della cultura greca in Italia era dovuta ai pregiudizi e alla pedanteria dei classicisti e che per farla risorgere bisognava riallacciare con i classici un rapporto più diretto e più libero. Da ciò l'utilità delle traduzioni che devono essere fedeli non alla lettera, ma allo spirito dell'originale, per poterne mettere in luce i meriti più autentici.

Sempre legate alla sua attività universitaria sono le Prolusioni latine, che il C. lesse a partire dal 1769. Di esse rivestono particolare importanza, per gli sviluppi futuri delle sue teorie linguistiche, la prolusione De linguarum studii origine,progressu, vicibus, praetio - letta il 17 genn. 1769 - e l'altra De naturali linguarum explicatione, sempre del 1769 (nel volume XXXI delle Opere). Nel frattempo, essendo stata fondata aPadova nel 1779 l'Accademia di scienze, lettere ed arti, il C. venne nominato segretario perpetuo per la sezione Belle Lettere. Per questo suo nuovo incarico, egli scrisse nel 1780 le Riflessioni sui doveri accademici, in cui traccia le linee del suo futuro lavoro. Queste Riflessioni furono edite per la prima volta dalla stessa Accademia nel 1786, e poi una seconda volta dal C. stesso, all'inizio della sua raccolta di Relazioni accademiche, cioè le relazioni che il C. lesse all'inizio di ogni anno accademico, dal 1780 al 1796 (pubblicate nei volumi XVII e XVIII dell'edizione pisana delle Opere).

Nel 1785 il C. pubblicava le due opere che consacrarono definitivamente la sua fama di letterato e di critico. In esse, infatti, trovano la loro forma compiuta e definitiva tutte le intuizioni estetiche, critiche, linguistiche, che abbiamo visto esposte già nelle opere precedenti. Di esse, il Saggio sulla filosofia del gusto dedicato all'Arcadia di Roma, in cui il C. era stato iscritto, fu pubblicato per la prima volta a Roma nel 1785 dalla stessa Accademia dell'Arcadia; la seconda stampa fu in appendice alla seconda edizione dell'altro Saggio sulla lingua, nel 1788. Questo apparve nella prima edizione del 1785 a Padova, presso l'editore Penada, con il titolo Saggio sopra la lingua italiana; nell'edizione del 1788, a Venezia con l'editore Turra, conservò lo stesso titolo, mentre nell'edizione di Pisa del 1800 comparve con il titolo definitivo Saggio sulla filosofia delle lingue, applicato alla lingua italiana,con varie note, due rischiaramenti, e una lettera.

Nel Saggio sulla filosofia del gusto, considerato dal C. stesso l'esposizione definitiva del suo pensiero estetico e critico, si rileva come egli, partendo dalla cultura dell'illuminismo e sviluppandone alcuni degli elementi tipici, sia arrivato a concezioni estetiche e ad un orientamento del gusto del tutto nuovi, operando in tal modo un ampliamento della sensibilità critica, che costituirà la base di partenza per la cultura romantica.

Il C. rivolge la sua polemica contro le varie forme di critica letteraria: la critica grammaticale, troppo attenta ai caratteri esteriori, è incapace di aderire al contenuto dell'opera; la critica storico-erudita trascura la ispirazione, per considerare le opere solo in relazione alla vita sociale; la critica allegorico-metafisica si perde nelle favole e nelle ipotesi. Contro queste forme di critica, tutte basate su principî razionalistici, egli sostiene che in campo letterario la ragione, da sola non può giudicare. La facoltà di giudizio spetta al gusto, anche se assistito dalla ragione. Per usare le parole dello stesso C., tale facoltà spetta a coloro che "partecipano delle qualità dell'autore stesso, e che posseggono ... fantasia desta, cuore pronto alle vibrazioni del sentimento, capacità di trasportarsi nella situazione dell'autore"; a ciò si deve accompagnare la "ben intesa disciplina", cioè "uno spirito lontano ugualmente dalla servitù e dall'audacia, superiore ai miserabili pregiudizi del secolo, della nazione, della scuola, che concittadino di tutti i popoli intende tutti i linguaggi del bello ... nè lo adora stupidamente sotto forma, ma gli rende omaggio in tutti gli aspetti che ne rappresentano acconciamente l'immagine". In tal modo il gusto viene ad essere insieme facoltà teoretica, come "genio che presiede all'arte del bello", e facoltà critica, di cui ci si serve per giudicare. Pertanto, dato che gusto e ragione sono due momenti distinti del giudizio, corrispondenti il primo al sentire, il secondo al filosofare, il vero critico, per giudicare di poesia, deve smettere di essere filosofo, per farsi anche egli poeta.

Il Saggio sulla filosofia delle lingue è l'opera italiana più complessa sul problema della lingua come si era venuto sviluppando nel Settecento, ed anche il documento fondamentale della cultura e del gusto in Italia nel trapasso tra illuminismo e romanticismo" (M. Puppo, Introduzione a M. Cesarotti, Saggio sulla filosofia delle lingue). Esso si può "porre idealmente sulla stessa linea del De vulgari eloquentia di Dante e delle Prose dellavolgar lingua del Bembo, come documento della presa di coscienza di un momento dello sviluppo del gusto e degli ideali linguistico-letterari.

A detta dello stesso C., questo Saggio fu scritto con il proposito di "toglier la lingua dal dispotismo dell'autorità e dai capricci della moda e dell'uso, per metterla sotto il governo legittimo della ragione e del gusto..., di far guerra alla superstizione e alla licenza, per sostituirci una temperata e giudiziosa libertà; di combattere gli eccessi, gli abusi, le prevenzioni di ogni specie..., di indicar i mezzi per renderla [la nostra lingua] più ricca, più disinvolta, più vegeta, più atta a reggere in ogni maniera di soggetto e di stile al paragone delle più celebri...". Il C., infatti, nelle sue traduzioni si era potuto rendere conto della incapacità della lingua italiana ad esprimere nuovi contenuti, per il peso che su di essa avevano gli impacci della tradizione. Egli vedeva pertanto la necessità di un rinnovamento linguistico, come in quegli anni veniva auspicato anche dal gruppo di scrittori del Caffè, di un arricchimento del linguaggio poetico italiano; per far questo era necessario anche conoscere le letterature moderne europee, pur non dimenticando i classici. Questa posizione del C. fu oggetto dell'accusa di voler corrompere la lingua italiana, soprattutto da parte dei puristi, come il Botta e il Galeani Napione - cui è indirizzata la lettera che il C. pubblicò in appendice al Saggio nell'edizione di Pisa - per i quali la lingua italiana non aveva bisogno di arricchimento, avendo già raggiunto la perfezione nel Trecento.

Il Saggio sulla filosofia delle lingue si compone di quattro parti: nella prima, polemica, il C. combatte le opinioni sulle lingue nate dai pregiudizi e che ne limitano lo sviluppo; la seconda parte, teorica, tratta "dei principi che debbono guidar la ragione nel giudicar della lingua scritta, nel perfezionarla, e nel farne il miglior uso"; nella terza, normativa, si espongono le regole di cui deve servirsi uno "scrittore giudizioso" nell'usare le varie parti della lingua; nella quarta, infine, il C. applica quanto esposto alla lingua italiana.

Anche se il Saggio è un'opera più pratica che filosofica, nata dall'esigenza di risolvere un problema storicamente determinato, tuttavia il C. si riallaccia, per le sue teorie sull'origine del linguaggio, a quanto era stato affermato dai filosofi sensisti francesi Condillac e De Brosses, che sostenevano l'origine naturale, onomatopeica del linguaggio. L'uomo cioè dà agli oggetti nomi analoghi al suono che gli stessi oggetti comunicano meccanicamente ai sensi. Pertanto, prima si sono formati i vocaboli relativi ad oggetti e impressioni sensibili, poi, per analogia, quelli relativi a fenomeni spirituali, infine tutti gli altri, tramite un processo di associazioni e combinazioni, fino ad arrivare dall'originale linguaggio "necessario" al linguaggio "convenzionale".

Altra affermazione che il C. riprende da Condillac - ma anche da Muratori - è il legame profondo esistente tra linguaggio e comunità umana, il rapporto cioè tra lingua e pensiero, per cui, evolvendosi la società civile e il pensiero umano, è necessario e inevitabile che anche il linguaggio muti e si evolva, per attuare sempre il "perfetto accordo tra l'espressione e le idee".

Interessante è anche la distinzione che egli fa tra "genio grammaticale" e "genio retorico" della lingua: il primo è inalterabile e dipende dalla struttura meccanica e sintattica della lingua, l'altro invece è suscettibile di evoluzione, essendo legato al sistema di idee e di sentimenti di una determinata nazione, ed è il "risultato del modo di concepire, di giudicare, di sentire che domina presso i vari popoli" (F. Caliri).

Conseguenza delle teorie del C. sull'origine del linguaggio e sulla sua evoluzione, è l'affermazione, in opposizione ai puristi, che nessuna lingua è più pura delle altre, e non c'è lingua perfetta; da qui il valore delle moderne lingue europee la cui conoscenza servirà ad arricchire, non a corrompere la lingua italiana; anzi il C. arriva ad auspicare addirittura un unico linguaggio europeo. Come affermava il Puppo (Introduz. al Saggio sulla filosofia delle lingue), sono presenti nell'opera due motivi fondamentali: "la coscienza della vita inesauribile del linguaggio ela difesa della libertà dello scrittore", il qualeha diritto di attingere a qualsiasi fonte: quelladello scrittore è una libertà universale "fondata sulla ragione, regolata dal gusto, autorizzata dalla nazione".

Anche in questo Saggio il C. rimane fedele alla sua immagine di conciliatore moderato, di pensatore in equilibrio tra Settecento e Ottocento, tra il Muratori, e il Vico, tra rinnovamento e tradizione. Comunque la sua è una posizione che, per quanto possa risultare, ambigua, costituisce senz'altro un contributo all'abbattimento di pregiudizi e al rinnovamento linguistico e di conseguenza letterario, che si attua in Italia tra il secolo XVIII ed il secolo XIX.

Nel 1786 il C. iniziò la pubblicazione di una versione letterale in prosa dell'Iliade, con ragionamenti storico-critici e note, terminata nel 1794 (in Opere, XXVI, insieme con varie dissertazioni). A questo egli affiancò un rifacimento in versi sciolti della stessa Iliade, pubblicato a parte con il titolo La morte di Ettore (in Opere, VI-IX). Quest'ultima, come afferma il C. nel Ragionamento storico-critico all'Iliade, "non è una traduzione, né un'imitazione, ma una riforma e una rigenerazione dell'Iliade". Per il C. infatti tradurre significava rendere perfette e adatte ai tempi opere scritte nel passato; egli pertanto traduce l'Iliade per dimostrare che Omero, considerando il tempo in cui ha scritto, non poteva fare opera migliore; ma ormai, dopo tanti secoli, non si può pretendere che rimangano validi i canoni da essa espressi. Mentre nella traduzione in prosa il C. vuol far conoscere Omero in tutti i suoi aspetti, e realizza pertanto una traduzione letterale, nel rifacimento in versi vuol far gustare Omero nelle sue bellezze eterne, eliminando la parte legata al tempo, riscrivendo cioè il testo come l'avrebbe fatto Omero nel Settecento.

Questa rielaborazione dell'Iliade del C., in linea con tutta la sua polemica anticlassicista, fu oggetto di severe critiche, soprattutto dalla posteriore critica romantica, che vi scorgeva una grave insensibilità storicistica e una conseguente distorsione interpretativa. La traduzione in prosa invece, che può considerarsi il maggiore lavoro di critica realizzato dal C., ha il pregio di costituire una vera e propria "enciclopedia omerica", per la notevole messe di osservazioni, dissertazioni critiche ed erudite, notizie su leggi, costumi, consuetudini, riti che contiene.

Il C. affrontò la "questione omerica" soltanto dopo la pubblicazione dei Prolegomena ad Homerum (1795)del Wolf, scrivendo nel 1801 la Digressione sopra iProlegomeni all'edizione di Omero del chiarissimo signor Federico Augusto Wolf, professore di letteratura nell'università di Hola in Sassonia, pubblicata poi nel volume IX dell'edizione pisana delle Opere. Il Wolf, basandosi sull'inesistenza della scrittura al tempo di Omero, aveva sostenuto l'impossibilità che un unico poeta avesse potuto comporre due poemi così lunghi e complessi, affidandosi unicamente alla parola e alla memoria. Essi pertanto sono un aggregato di canti separati, di cui alcuni certamente composti da Omero, il quale sarebbe quindi solo uno dei tanti rapsodi. Quando in un secondo tempo fu possibile fissare con la scrittura i canti tramandati oralmente, Pisistrato raccolse ed ordinò tutti i canti in due poemi.

A queste considerazioni del Wolf il C. oppose un'argomentazione per lui decisiva, cioè che in realtà, nonostante che ad esempio la trama dell'Iliade sia apparentemente estesa, essa si può ridurre ad otto canti veramente essenziali, essendo gli altri solo episodici e quindi tali da poter essere inseriti o meno dal poeta nella recitazione. Pertanto, data inoltre l'innegabile omogeneità stilistica di tutti i canti e dei poemi nel complesso, è possibile ammettere che tutti siano opera dello stesso Omero, che poi inseriva a suo criterio i canti meno importanti, mantenendo fisse sempre solo le parti essenziali. La conclusione del C. è pertanto che Omero concepì l'idea di tutti e due i suoi poemi, e ciò è provato anche dal fatto che l'azione più che intrecciata e complessa è progressiva, e che tutto è legato, ma contemporaneamente distinto, senza possibilità di confusione (G. Rossi). A seguito della Digressione nacque una fitta corrispondenza tra il C. e il Wolf, andata quasi tutta perduta, tranne una lettera del Wolf, ora inclusa nel volume XXXVIII dell'edizione di Pisa delle opere del C. ed una risposta di questo edita dal Mazzoni (M. Cesarotti, Prose edite ed inedite, a cura di G. Mazzoni, Bologua 1882), che richiamava il Wolf al precedente del Vico sulla questione omerica.

La Rivoluzione, nel frattempo, aveva travolto e sconvolto l'Europa. Il C., come molti, si era entusiasmato ai nuovi principî rivoluzionari, ma presto deluso e impaurito per gli eccessi commessi dai Francesi, aveva approvato la formazione delle coalizioni europee contro la Francia rivoluzionaria. Al momento dell'invasione delle armate francesi in Italia, però, dopo un primo momento di incertezza, egli vide nel Bonaparte il restauratore della tranquillità e dell'ordine, ma altresì il garante dei nuovi valori di democrazia e libertà. Il C. non ebbe idee politiche originali, fu semmai l'interprete dell'opinione pubblica veneta dinanzi ai nuovi eventi.

All'arrivo del generale Bonaparte e Padova, il 2 maggio 1797 il C. gli andò incontro insieme con altri nobili padovani per rendergli omaggio, tanto che il Bonaparte, già lettore ed ammiratore di Ossian, lo prese sotto la sua protezione, concedendogli una pensione annua di tremila franchi: inoltre gli conferì la nomina di professore soprannumerario, garantendogli l'ingresso nel Collegio dei legisti, ed infine gli offrì la carica pubblica di "aggiunto libero del Comitato di pubblica istruzione" (A. Meneghelli).

Fu pertanto su istanza dello stesso Comitato che il C. scrisse nel 1797 l'Istruzione d'un cittadino a' suoi fratelli meno istrutti, pubblicata a Padova (una ristampa con il titolo Istruzione d'un cittadino a' suoi fratelli meno istruiti venne pubblicata a Roma nel 1798, insieme con Il patriottismo illuminato,omaggio d'un cittadino alla patria); ad essa seguì il Patriottismo illuminato, la cui prima edizione, sempre nel 1797, uscì a Padova, presso l'editore P. Brandolese.

Secondo quanto afferma lo stesso C., l'Istruzione fu scritta per illuminare il popolo sulla natura della Rivoluzione e sui suoi vantaggi, cioè "per istruire il popolo su quelle nuove parole che erano spauracchio a molti e a molti pretesto a mal fare". Egli afferma che bisogna saper intendere nel giusto senso le parole di libertà ed uguaglianza che, se male intese, possono essere dannose. Così mentre la libertà naturale è funesta, la libertà civile è utile: essa consiste nel fare tutto ciò che non si oppone all'onestà né alla legge. Per quanto riguarda l'uguaglianza, egli innanzitutto sottolinea il carattere utopistico dei concetti egualitari: gli uomini sono sì tutti uguali perché tutti figli di Dio, ma sono anche diversi nelle capacità; il segreto sta perciò nella collaborazione. L'unica uguaglianza possibile e legittima è l'uguaglianza civile, la cui garanzia sta nell'imparzialità della legge, e non l'uguaglianza economica, che anzi può essere dannosa. Come affermerà in seguito nella lettera all'abate Olivi, il C. intese in quest'opera fare un ritratto della democrazia in astratto, in condizione di utopica perfezione e indicarne i pregi, qualora amministrata nello spirito di virtù, nel qual caso essa è il migliore dei governi. Nel Patriottismo invece volle fare un ritratto della democrazia quale è di fatto, facendone vedere i pericoli, indicando i modi di combattere gli eccessi del fanatismo con umanità e ragione. Perciò in essa egli non si rivolge più al popolo, bensì ai nobili, ai "cittadini illuminati e virtuosi", perché non accendano gli animi con le parole di democrazia e sovranità popolare, ma educhino il popolo alla moderazione e a sapere godere dei vantaggi della democrazia, non oltre la ragione e il giusto.

Queste due opere politiche del C. sono chiaramente un tentativo di conciliare le nuove idee repubblicane e democratiche con l'eredità del vecchio governo, evitando gli eccessi, secondo la linea dell'umanitarismo paternalistico del Necker, delle cui teorie politiche egli era un ammiratore.

Sempre nel 1797 il C. scrisse, ancora su incarico del suddetto Comitato, il Saggio sulle istituzioni scolastiche private e pubbliche (Venezia; poi in Opere, XXIX, pp. 1-116).

In esso, entrando nel merito di un altro tra i dibattiti del secolo sulla necessità di liberare l'insegnamento dai pregiudizi, per i quali le scuole non rispondevano più alle esigenze della società, egli, dopo aver affermato l'importanza dell'educazione per ogni popolo, sostiene che l'insegnamento si deve ispirare non al pregiudizio, all'abitudine, all'autorità tradizionale, ma alla "ragione libera e diretta costantemente dalle viste luminose di pubblica utilità". Giunge anche ad affermare che l'educazione, il cui fine pratico è la formazione di un ideale di civiltà e di moralità, non deve dipendere da privati, ma dal governo (A. Marasco). Interessante ed in linea con le sue teorie linguistiche è la proposta di ridurre l'insegnamento del latino nelle scuole medie, allargando quello della lingua italiana e delle lingue moderne europee.

Quando, dopo il trattato di Campoformio, Venezia passò sotto il dominio austriaco il C., dimentico dei suoi recenti entusiasmi democratici, tornò ad appoggiare i governi autocratici. Scrisse anzi due sonetti per l'avvento del dominio asburgico, di cui uno dal titolo Bando alla falsa libertà, che sembra una negazione di quanto sostenuto nell'Istruzione, e una cantata L'Adria consolata nel 1803, in esaltazione di Francesco II. In realtà, amante della tranquillità e dell'ordine sociale, il C. non ebbe un ideale politico definito; tanto che arrivò ad affermare che ogni governo è buono in astratto e cattivo in pratica, per cui il male minore per l'uomo saggio è accettare la forma attuale di governo, qualunque esso sia, promuovendo riforme (G. Marzot). A riprova di ciò sta il fatto che, nel 1806, al ritorno di Napoleone divenuto imperatore il C. si piegò a scrivere il poema adulatorio Pronea (Firenze1807, poi in Opere, XXXII, pp. 1-64), in versi sciolti. In esso Pronea, divinità celeste, rappresenta la provvidenza e il suo alunno è Napoleone, mandato dal cielo come restauratore dell'ordine, della religione, della pace europea. In tale prospettiva provvidenziale è vista e trasfigurata la storia europea dalla Rivoluzione alla conquista dell'Europa da parte di Napoleone. Il C. ottenne l'onorificenza di cavaliere e poi commendatore della Corona ferrea, due pensioni straordinarie e la protezione del viceré E. Beauharnais.

Ma oramai il C. si era ritirato dalla vita pubblica e viveva quasi stabilmente in una villetta a Selvazzano, vicino Padova, sempre studiando, scrivendo e coltivando il suo giardino, che egli chiamava il suo "poema vegetale". A testimonianza della sua infaticabile attività vanno ricordati alcuni abbozzi e progetti di opere ricordate dal Barbieri e che non furono compiute, come un Saggio di retorica, di cui rimane un frammento sul bello (Opere, XXIX-XXX); una Drammaturgia omerica, cioè un catalogo di tutti i componimenti drammatici antichi e moderni, tratti dai poemi omerici; un Corso di riflessioni critiche su Orazio (in Opere, XXX, pp. 95-146); La filosofia della Bibbia ed Esame etraduzione degli squarci più scelti dell'Odissea (ibid., XXIX-XXX).

Portò a termine invece la traduzione delle Satire di Giovenale (ibid., XIX) e Vite dei primi cento Pontefici (ibid., XXXIV), un'opera di erudizione sulle vite dei papi, da s. Pietro a Pasquale I.

Infine bisogna citare il suo Canzoniere (ibid., XXXII) di fredda imitazione petrarchesca, scritto durante il suo giovanilesoggiorno a Venezia, e l'Epistolario, uno dei più interessanti e nutriti del Settecento, che forma attualmente i volumidal XXXV al XXXIX e parte del XLdella raccolta completa delle opere del Cesarotti.

In esso possiamo vedere come il C. mantenesse una fitta e stimolante corrispondenza con le personalità più significative della cultura contemporanea, italiana ed europea: ci sono lettere al Macpherson, all'Alfieri, al Foscolo, al Monti, a madame de Stäel, al Toaldo. Nelle lettere, veri e propri brevi trattati, si dibattono problemi critici, si esprimono giudizi su situazioni politiche, si espongono idee critiche su Metastasio, Goldoni, Alfieri, Necker, Omero, su questioni linguistiche ed estetiche. Esso costituisce pertanto un sussidio ineliminabile per la comprensione della personalità del Cesarotti.

Il 4 novembre 1808 il C. morì a Selvazzano (Padova), dopo aver affidato al Barbieri, suo discepolo, la propria collezione di libri e manoscritti e la cura della edizione delle sue Opere, che, iniziata a Pisa nel 1800 a cura di Giovanni Rosini, fu conclusa nel 1813, in quaranta volumi (i volumi XII-XXXVII vennero pubblicati a Firenze tra il 1804 e 1811).

Personaggio complesso, al centro di tendenze culturali diverse e contrastanti, letterato capace di un'abile azione di mediazioni e sincretismi, il C. prepara un passaggio graduale, non traumatico, nella nostra cultura. Dalla vecchia tradizione classica, vista nella monumentalità compiuta di un sistema di valori equilibrato e razionalizzato dal pensiero illuminista alla ipotesi di un ordine letterario capace di nuovi approcci col "quotidiano" e col "vissuto", di nuovi modi di vivere questo in proiezione fantasmatica.

Ossian è un mito nascente da un nuovo gusto della società letteraria, interprete dei sogni-illusioni-nostalgie di un mondo che andava ridefinendo valori e ideologie secondo l'ipotesi di una nuova razionalità - quella degli affetti - e di un nuovo polo sociale - l'individualismo problematico - capace di rappresentare la dinamica della realtà in tutte le sue fratture e contraddizioni.

Il C. è tanto abile - di una abilità di letterato a cui una tradizione secolare ha insegnato a filtrare e a mediare - da recepire distintamente tale esigenza di rinnovamento e di incanalarla nei termini di graduale ammodernamento delle forme della conoscenza e dell'espressione - in linguistica come in politica e in letteratura - fino a che queste siano ampliate al punto da abbracciare le nuove realtà, ma senza rompere il filo dell'ordine classico.

È il filo che modera, nella nostra cultura, le presenze giacobine, che le supera nella razionalità, paternalistica e spesso spregiudicata della moderna borghesia, a cui il populismo cattolico e un moralismo precapitalista assicuravano gli strumenti dell'ogemonia. In tale contesto il C. finisce per essere un protagonista, dalle molteplici relazioni, dalla capacità di far valere il proprio peso e la propria parola. Con il gusto sicuro ed educato di chi sa come controllare il nuovo attraverso il vecchio.

Fonti e Bibl.: G. Barbieri, Consideraz. sul poema Pronea, s. l. 1808; G. B. Zuccala, Saggio sopra la vita e le opere dell'abate M. C., Bergamo 1809;G. Barbieri, Mem. sulla vita e sugli studi dell'ab. M. C., Padova 1810; A. Meneghelli, Vita di M. C., s. l. 1817; G. Mosini, Sugli epistolari del C. e del Monti, s. l. 1851; G. Mazzoni, Le idee polit. di M. C., Firenze 1880; C. Vannetti, L'Aristodemo e il Caio Gracco di Vincenzo Monti giudicato da M. C., Firenze 1880; G. Zanella, I Poemi di Ossian e M. C., Roma 1882; V. Alemanni, Un filosofo delle lettere, M. C., I, Torino1894; A. Marasco, M. C. pedagogista, s. l. 1908; C. Osti, M. C. e la sua versione poetica dell'Iliade, Trieste 1913; P. Lingueglia, Conferenze e discorsi, s. l.1914, IV, conf. X; S. Serena, Scrittori latini del Seminario di Padova, Padova1936, pp. 302-29; G. Natali, Il Settecento, Milano 1936, ad Indicem; W. Binni, M. C. e il preromanticismo ital., in Civiltà moderna, XIII (1941), pp. 403-11; G. Rossi, M. C. critico e poeta, s. l.1943; S. Romagnoli, M. C. politico, in Belfagor, III (1948), pp. 143-58; G. Marzot, Il gran C., s. l. 1949; M. Puppo, Storicità della lingua e libertà dello scrittore nel "Saggio sulla filosofia della lingua" del C., in Giorn. stor. della lett. ital., CXXXII(1956), pp. 510-42; Discussioni linguistiche del Settecento, a cura di M. Puppo, Torino 1957, pp. 295-487; E. Bigi, Le idee estetiche del C., s. l.1958; Id., Dal Muratori al C., IV, Critici e stor. della poesia e delle arti del secondo Settecento, Milano-Napoli 1960, ad Ind.; S. Rota Ghibaudi, La fortuna di Rousseau in Italia, Torino 1961, ad Ind.;G. Grana, Lingua ital. e lingua francese nella polemica Galeani Napione-C., in Convivium, XXXII (1964), pp. 479-97; M. Puppo, Introduz. a M. Cesarotti, Saggio sulla filosofia delle lingue, Milano 1969, pp. 5-16; C. Cooke, La traduz. cesarottiana delle poesie di Ossian, in Aevum, XLV(1971), pp. 340-57; F. Piva, Contributi alla fortuna di Helvétius nel Veneto del secondo Settecento,ibid., pp. 430-37; M. Paglieri, Alfieri,C. e la "Congiura de' Pazzi", in Atti e mem. d. Accad. Toscana... La Colombaria, XXXVI(1971), pp. 233-64; F. Caliri, Note sulla posizione linguistica di M. C., s. l.1973; E. Bigi, Introduzione a J.Macpherson, Poesie di Ossian, Torino1976.

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