Meditazioni metafisiche (Meditationes de prima philosophia)

Dizionario di filosofia (2009)

Meditazioni metafisiche (Meditationes de prima philosophia)


Meditazioni metafisiche

(Meditationes de prima philosophia) Opera (1641) di R. Descartes, pubblicata dapprima a Parigi da Mersenne e poi ad Amsterdam, direttamente dall’autore in ed. ampliata (1642). Lo scritto è composto dal testo di sei meditazioni, in cui l’autore espone la sua «filosofia prima» (latinizzazione della formula aristotelica πρῶτη φιλοσοφία, che Descartes preferisce al termine lat. metaphysica), cui seguono sette serie di Obiezioni (Obiectiones) poste da filosofi, teologi e scienziati – Caterus, teologo olandese (I), Mersenne (II), Hobbes (III), Arnauld (IV), Gassendi (V), ancora Mersenne (VI) e il gesuita P. Bourdin (VII) – raccolte da Descartes stesso (Prime obiezioni) e da Mersenne (dalle Seconde alle Settime obiezioni) con le Risposte (Responsiones) dell’autore. Descartes dimostra, come recita il sottotitolo dell’opera (ed. 1642), «l’esistenza di Dio e la distinzione dell’anima dal corpo» da cui deriva l’immortalità. Nelle M. m. la ricerca di fondamenti sicuri del conoscere è condotta gradualmente estendendo iperbolicamente il dubbio alle facoltà conoscitive, ai sensi, alla memoria, all’immaginazione e alla ragione, e a intere classi di realtà (sensibili, materiali, immaginarie, e razionali), fino alle verità di ragione, le quali per quanto «manifeste», possono dipendere da un ‘dio ingannatore’, il quale «abbia voluto che io m’inganni tutte le volte che fo l’addizione di due e di tre». Da tali dubbi ‘iperbolici’ resta esclusa soltanto la certezza di esistere attestata dal pensiero («io sono […] una cosa che pensa»), quand’anche tutti i suoi contenuti fossero «falsi o immaginari». La contraddittorietà dell’inganno divino è superata, secondo Des­cartes, dall’evidente inconciliabilità fra inganno, motivato dal «difetto», da ‘invidia’, e idea di Dio come essere infinito (Meditazione III; tale circolarità argomentativa viene fortemente sottolineata dagli obiettori, per es. Gassendi). Nella Meditazione II, in base al principio della ‘distinzione reale’ (ciò che si presenta all’evidenza del pensiero come distinto da altro, lo è anche nella realtà) Descartes stabilisce la distinzione fra cogito, la sostanza pensante che «dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche e che sente», e la sostanza estesa connotata appunto unicamente dall’estensione e non da qualità quali la figura, l’odore, la consistenza fisica, come avviene nell’esempio della tavoletta di cera riscaldata di cui, pur modificandosi tali caratteristiche, resta comunque invariata l’estensione. Idee sono tutti i contenuti del pensiero (Meditazione III), ma esse si distinguono in base alla loro origine in innate, avventizie (ossia provenienti dall’esperienza) e in fittizie, vale a dire ottenute dalla combinazione di altre idee operata dalla mente, come nel caso della chimera. Dalla presenza dell’idea innata di Dio (innata poiché un essere finito non può produrre un’idea il cui contenuto è un essere infinito, in quanto tale contenuto ontologico è, per la propria realtà formale, superiore al proprio, ossia alla realtà del soggetto pensante) si ricava l’esistenza di Dio. Esistenza che, per Descartes, è indissolubilmente legata all’idea di Dio come quella di una vallata lo è all’idea di una montagna (Meditazione V). Tale ricorso all’idea di infinito presente nell’uomo sarà discussa da tutti gli obiettori, mentre il ricorso al principio di causalità in riferimento all’idea di Dio condurrà, nelle obiezioni (I e IV) e nelle risposte di Des­cartes, a provare l’esistenza di Dio, secondo la causalità, come sostanza causa di sé stessa, come «sui causa» (è il tema che sarà ripreso da Spinoza). La possibilità dell’errore (Meditazione IV) è dovuta al fatto che l’immagine del creatore impressa nella creatura, ossia l’essere l’uomo creato a somiglianza di Dio, risiede non nella ragione, facoltà limitata e valida soltanto entro i limiti che le sono propri, ma nella volontà, che, estendendosi oltre tali limiti, può suscitare l’assenso e indurre all’errore. Errore dunque della volontà, non della ragione, ciò che pone il problema di come ovviare, nell’attribuire la responsabilità dell’errore, di riferirsi all’origine divina della volontà, distinguendo il male metafisico (proprio della creatura in quanto finita) ed errore morale, ove è in questione anche il libero arbitrio; tali argomenti improntano, per es., le obiezioni del teologo Arnauld, come anche le difficoltà che sorgono per la spiegazione della transustanziazione posto il rifiuto delle qualità reali in una concezione della materia come mera estensione. Nella Meditazione VI Descartes recupera, in base al criterio di evidenza, alla distinzione reale e al non inganno divino, la reale esistenza del mondo fisico in quanto conoscibile mediante la pura ragione (ossia per le sue proprietà matematiche), come anche il corretto modo di impiegare i sensi e l’immaginazione. Si pone però la questione dell’‘unione sostanziale’, ossia del modo in cui nell’uomo due sostanze che possono essere concepite come ‘distine’ possano, nonostante il principio della distinzione reale, essere unite in modo tale da agire l’una sull’altra anche se eterogenee. Se per Descartes tale ‘unione’ è indubitabile poiché l’io pensante è così «strettamente congiunto, e talmente confuso e mescolato [al corpo] da comporre come un sol tutto», ben diversamente sarà problematizzata la questione sia dagli obiettori sia dalla tradizione cartesiana in cui si porranno le alterne soluzioni del monismo o dell’occasionalismo. Resta nell’economia dell’opera cartesiana la scarsa problematicità dell’assunto dell’‘unione’ da cui deriva la certezza di essere corpo fra i corpi e uomo fra gli uomini, e dunque soggetto alle reciproche interazioni poste da tale situazione: «in quanto son composto del corpo e dell’anima posso ricevere diversi comodi e incomodi dagli altri corpi che mi circondano».

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