MEDICINA E CURE PALLIATIVE

XXI Secolo (2010)

Medicina e cure palliative

Claudio Cartoni

Nell’accezione comune del termine, e soprattutto in Italia, palliativo comunica un significato di limite, di inadeguatezza, rispetto agli obiettivi che ci si prefiggono. Il termine, infatti, risale al latino tardo palliare, nel significato di mascherare o coprire con un pallio (lat. pallium «mantello»). E l’espressione: «quel rimedio è solo un palliativo» declassa quel tipo di intervento a livello di soluzione transitoria che risolverà solo in parte il problema.

Anche nell’ambito della cultura medica contemporanea, tesa alla soluzione di tutti i problemi fisici e psicologici delle persone (quali gli interventi sulle fasi iniziali della vita o il suo allungamento temporale mediante l’uso di sofisticate tecnologie), per molto tempo l’approccio palliativo si è configurato come una pratica medica riduttiva in quanto incapace di risolvere alla radice un problema clinico, ma piuttosto orientata alla sola gestione delle manifestazioni di una malattia, peraltro inguaribile. In verità, al di là delle definizioni restrittive le cure palliative sono espressione di una concezione olistica della medicina che libera il termine curare dalla prospettiva totalizzante del guarire, assumendo il concetto ben più complesso del prendersi cura dell’individuo. Tale assunto determina ricadute corrette in termini di impegno professionale, tempo, spazio, strutture, idee e ricerca.

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) definisce le cure palliative come un approccio in grado di migliorare «la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie che si trovano ad affrontare le problematiche associate a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza per mezzo di una identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicosociale e spirituale» (World health organization, National cancer control programmes. Policies and managerial guidelines, 20022, p. 84).

Quando il decorso della malattia diventa irreversibile e porta in un intervallo di tempo variabile il paziente alla morte, si evidenzia sovente un complesso quadro di problemi definito dolore totale: oltre ai problemi fisici si possono manifestare sofferenza psicologica e spirituale, difficoltà nei rapporti interpersonali e sociali e problemi economici.

La fase terminale di una malattia è caratterizzata dunque, per la persona malata, da una progressiva perdita di autonomia, dal manifestarsi di sintomi fisici e psichici spesso di difficile e complesso trattamento, primo fra tutti il dolore, e da una sofferenza globale che coinvolge anche il nucleo familiare e quello amicale, e tale da mettere spesso in crisi la rete delle relazioni sociali ed economiche del malato e dei suoi familiari.

Prendersi cura del malato in fase terminale significa quindi affrontare tutti questi diversi aspetti della sofferenza umana. Per questo, le cure palliative prevedono un supporto di tipo psicologico, spirituale e sociale rivolto sia alla persona malata sia al nucleo, familiare o amicale, di sostegno al paziente.

I malati destinatari di cure palliative

Secondo i dati ISTAT in Italia muoiono ogni anno oltre 159.000 persone a causa di una malattia neoplastica, il 90% delle quali (143.100) attraversa una fase terminale, necessitando quindi di un piano personalizzato di cura e assistenza in grado di garantire la migliore qualità di vita residua possibile durante gli ultimi mesi di vita.

Oltre ai malati di cancro, vi sono altri pazienti che necessitano di cure palliative, in particolare quelli affetti da patologie di tipo cronico-degenerativo come le miocardiopatie dilatative, le malattie neurologiche degenerative come la sclerosi laterale amiotrofica e la sclerosi sistemica, demenze senili e presenili; le malattie respiratorie croniche con insufficienza respiratoria refrattaria; le malattie epatiche e renali in fase avanzata; le malattie infettive a prognosi infausta come per es., l’AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome). Secondo uno studio condotto nel 1997 (Murray, Lopez), si prevede che nel 2020 le prime cinque cause di morte saranno: malattie cardiache, malattie cerebro-vascolari, malattie respiratorie croniche, infezioni respiratorie e cancro ai polmoni.

In base alle stime contenute nel documento dell’accordo tra il ministro della Salute, le Regioni e i Comuni (pubblicato nella «Gazzetta ufficiale» serie generale n. 110, il 14 maggio 2001) sulle iniziative per l’organizzazione della rete dei servizi delle cure palliative, il fabbisogno potenziale annuo di cure palliative riguarda un numero di malati non neoplastici stimabile nel 50÷100% dei malati neoplastici, i quali sono pari a 143.100 pazienti/anno. Di conseguenza, ogni anno avrebbero bisogno di essere inseriti in un programma assistenziale di cure palliative mediamente più di 250.000 nuove persone affette da una malattia inguaribile, non solo oncologica, in fase evolutiva e non più controllabile dalle terapie causali. Il progressivo invecchiamento della popolazione, con la conseguente maggiore prevalenza di forme croniche di malattie per le quali allo stato attuale non vi è guarigione, e l’aumento della sopravvivenza di quei pazienti affetti da malattie neoplastiche dalle quali non possono però guarire inducono la comunità medica e le istituzioni sanitarie di molte nazioni a riconsiderare l’intervento palliativo come elemento fondamentale della cura di pazienti affetti da malattie inguaribili.

Nonostante i malati in età pediatrica siano stati fino a oggi abitualmente esclusi da un programma di cure palliative a causa di ostacoli culturali, organizzativi e psicologici, attualmente vi è una progressiva attenzione a questa fascia di pazienti. Se è comprensibile la difficoltà con cui un genitore può accettare che il proprio figlio sia definito un malato inguaribile o in fase terminale, non è altresì giustificabile la resistenza e il ritardo con cui le istituzioni sanitarie e la comunità medica hanno dato risposta ai bisogni dei piccoli malati e delle loro famiglie.

Secondo uno studio eseguito dal Ministero della Salute in collaborazione con l’ISTAT, in Italia ogni anno muoiono circa 1100-1200 giovanissimi (di età compresa tra 0 e 17 anni) a causa di una malattia inguaribile-terminale (1 su 10.000 bambini). Dei piccoli pazienti che muoiono a casa, la maggior parte è affetta da patologia oncologica (41%), una percentuale lievemente inferiore (38%) da patologie non oncologiche, quali le malattie neurodegenerative, metaboliche e genetiche. Sarebbe però auspicabile che il numero di giovanissimi assistiti in un ambiente familiare crescesse. Nel documento tecnico del Ministero della Salute italiano sulle cure palliative pediatriche, approvato in Conferenza Stato-Regioni in data 20 marzo 2008, sono elencate le quattro categorie diverse di bambini con patologie inguaribili che possono beneficiare delle cure palliative: bambini con patologie per le quali esiste un trattamento specifico, che però può fallire in un certo numero di casi (neoplasie, insufficienza d’organo irreversibile); bambini con patologie in cui la morte precoce è inevitabile, ma in cui le cure appropriate possono prolungare la vita e assicurarne la buona qualità (infezione da HIV, Human Immunodeficiency Virus; fibrosi cistica); bambini con patologie ad andamento progressivo (malattie degenerative neurologiche e metaboliche, patologie cromosomiche e geniche ecc.), nel qual caso le cure palliative intervengono nel momento in cui il paziente presenta bisogni complessi; bambini con patologie irreversibili ma non progressive, che causano disabilità severa e morte prematura (paralisi cerebrale severa, disabilità per sequele di danni cerebrali e/o midollari). Anche in quest’ultima categoria le cure palliative intervengono quando il paziente presenta bisogni complessi.

Con l’esclusione del primo gruppo, in cui l’intervento palliativo può inserirsi in una fase terminale di durata prevedibile e limitata nel tempo, nelle altre condizioni caratterizzate da una lunga sopravvivenza e da un andamento di malattia variabile, le cure palliative specialistiche debbono intervenire in fase di aggravamento, quando il paziente presenta bisogni complessi. Questo spiega in parte la difficoltà con cui si è riusciti a implementare una risposta assistenziale che richiede una costante integrazione tra il pediatra e lo specialista in cure palliative.

Nel documento in cui l’Organizzazione mondiale della sanità definisce le cure palliative si trova anche una declinazione dei principi ispiratori alla base di tale approccio e delle modalità concrete per raggiungere gli obiettivi enunciati nella definizione (World health organization, National cancer control programmes. Policies and managerial guidelines, 20022, p. 109). La trattazione di tali enunciati come paragrafi tematici consentirà quindi di approfondire i vari aspetti delle cure palliative.

L’approccio globale al paziente che soffre

Le cure palliative provvedono al controllo del dolore e degli altri sintomi che sono causa di sofferenza per il malato, integrando anche gli aspetti psicologici e spirituali delle cure.

La fase terminale delle malattie oncologiche è stata definita come caratterizzata da un’aspettativa media di vita variabile dai tre ai sei mesi, da una non idoneità del paziente a essere trattato con terapie specifiche mirate alla guarigione, in quanto inutili a questo fine, e da un variabile grado di gravità delle condizioni cliniche del malato con una conseguente marcata riduzione del livello di autosufficienza. In questa fase i sintomi più comuni di cui il malato soffre sono il dolore, la difficoltà di respiro (dispnea), la tosse, la nausea, la depressione, la stitichezza intrattabile, i disturbi del sonno, la perdita di appetito, la stanchezza cronica. Vi è ormai accordo che in questa fase di malattia una buona terapia di un sintomo non possa consistere soltanto in una corretta somministrazione di farmaci, ma anche in una gestione delle problematiche non mediche che il paziente presenta. In altri termini, il sintomo, in quanto espressione di un disagio multifattoriale, diventa il problema clinico centrale attorno a cui ruota l’intervento palliativo. Per la risoluzione del problema dolore sarà necessario, per es., dare la giusta dose di farmaci oppiodi, ma anche affrontare la depressione del paziente ed eseguire un counseling per preparare emotivamente e tecnicamente un familiare a gestire una terapia morfinica. Con l’intento di migliorare la qualità della vita del paziente, la risoluzione di un problema clinico che sembra solo l’epifenomeno di una malattia – il sintomo – offre la formidabile occasione di prendersi cura in modo globale del malato. Partendo dalla periferia del problema (la cura del sintomo) per arrivare al centro, ossia alla cura della persona con tutti i suoi bisogni, l’intervento palliativo quindi diviene espressione di qualcosa di risolutivo per il benessere del paziente. Con un significato proprio opposto a quello limitato e insufficiente comunemente attribuito al termine palliativo.

Oltre al dolore, vi sono altri sintomi che richiedono una strategia terapeutica complessiva. In particolare la fatigue, e cioè lo stato di grave stanchezza, di progressiva perdita di energia e delle capacità mentali che condiziona negativamente la vita dei malati in fase terminale; non risulta essere provocata solo da cause organiche come, per es., l’anemia, la denutrizione, gli effetti collaterali di farmaci oppiodi o la progressione della malattia neoplastica. Tale condizione è determinata anche da stati di disagio sia psicologico (quali la depressione, l’ansia, la rabbia) sia di tipo sociale (quali la perdita di ruolo professionale, l’isolamento e la solitudine causati dallo stato di malattia). Così come per il dolore e altri sintomi, l’approccio terapeutico alla fatigue richiede pertanto un intervento farmacologico, di assistenza psicologica, sociale e spirituale che solo una concezione olistica di cura del malato può assicurare.

La frequenza e la tipologia dei sintomi associati a malattie di tipo cronico-degenerativo sono paragonabili a quelle delle malattie oncologiche, come dimostrato da una recente meta-analisi sistematica condotta su 64 studi originali relativi alla prevalenza di undici sintomi comunemente presenti nella fase terminale di malattie oncologiche, cardiologiche, polmonari e renali croniche e AIDS. In particolare, tre sintomi – dolore, dispnea e fatigue – sono stati riscontrati in più del 50% dei pazienti affetti da ognuna delle cinque malattie (v. tabella).

Le malattie cardiache possono causare il dolore al petto tipico dell’angina ischemica o la mancanza di fiato e l’affaticamento caratteristici dello scompenso cardiaco. L’ictus secondario a patologie cerebro-vascolari può causare difficoltà motorie o della parola, mentre le patologie polmonari croniche di tipo ostruttivo possono essere invalidanti a causa della mancanza di fiato (dispnea). Alcune malattie neurologiche degenerative (per es., sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica) causano un progressivo peggioramento dell’autonomia dei malati sino al termine della loro vita, attraverso fasi di riacutizzazione e remissione caratterizzate da gravi sintomi fisici e psichici e da necessità di elevati e complessi livelli di supporto assistenziale.

Il controllo di tali sintomi richiede quindi una specifica competenza che si configura come una vera e propria branca della medicina, ovvero la medicina palliativa, che in alcuni Paesi anglosassoni è stata in­quadrata come disciplina specialistica insegnata in diversi corsi universitari postlaurea.

La vita e la morte nella storia del malato

Le cure palliative affermano il valore della vita e considerano la morte come un processo naturale che non intendono accelerare né posporre.

La medicina tecnologica consente oggi di prolungare la vita dei pazienti, sia rendendo disponibili farmaci sempre nuovi sia utilizzando tecniche di sostegno delle funzioni vitali. A causa della complessità di tali interventi, spesso il paziente si vede costretto a trascorrere l’ultima parte della vita in ospedale. La morte avviene in un contesto estraneo ed estraniante, in cui, mentre si desidera affrontare con dignità il processo della conclusione della propria vita, la possibilità di stabilire un’intimità tra malato e parente appare fortemente condizionata dagli impedimenti logistici, organizzativi e culturali rilevabili in un ospedale. Spesso il malato muore in una condizione di solitudine sia fisica sia psicologica e di non accettazione sociale della morte come fatto prevedibile e naturale.

Secondo molti rappresentanti di diverse linee di pensiero, negli ultimi decenni si è consolidato, infatti, un ideale dominante secondo il quale la nostra vita debba essere prolungata in una condizione di benessere e di piacere e quindi la malattia, il dolore e la morte debbano essere rifiutati in quanto privi di senso in una società impostata sul principio del piacere e della giovinezza protratta. In tale contesto culturale e sociale appare sempre più difficile per i parenti prestare aiuto ai malati inguaribili al momento del decesso. Sicuramente l’accettazione della morte è sempre stata un problema: chi è vivo si identifica con difficoltà in un morente. Ma se anche il significato spirituale e simbolico della morte di una persona assume per la società in cui vive una connotazione innaturale, estranea al ciclo della vita, allora la distanza tra chi muore e chi lo circonda rischia di divenire incolmabile. A differenza del passato, infatti, oggi è molto ridimensionato il ruolo di quelle che sono state definite fantasie collettive istituzionalizzate, quali le convinzioni religiose, che consentivano di rafforzare la certezza di una immortalità al singolo in vista di una vita ultraterrena, o gli ideali etici condivisi da una comunità che giustificavano la morte di una persona. La morte, le fantasie e i pensieri a essa associati sono oggi sempre più un fatto privato del singolo che, con sempre maggiore difficoltà, riesce ad affrontare la fine della vita senza angoscia e senso di isolamento. La morte rischia quindi di apparire come un danno estraneo al corso della vita e non un evento naturale che, in quanto tale, deve essere riconosciuto come realtà. Solo allontanandosi dall’illusione di una vita eterna e priva di dolore e liberando la morte dal giudizio in termini di bene e di male è possibile spostare le nostre concezioni della morte dall’ambito del principio del piacere, che sottende tra l’altro l’uso dell’eutanasia come mezzo atto a terminare uno stato di non piacere, a quello del principio della realtà e quindi a un modo di morire adeguato alla realtà del morente o ortotanasia (dal greco orthós «giusto» e tema di thánatos «morte»).

È essenziale poter dare a ciascuno la possibilità di ricevere cure di elevata qualità e di morire in modo dignitoso, senza dolore e altri sintomi intollerabili. A tale proposito, alla base dei principi ispiratori delle cure palliative, vi sono il rispetto del principio di autonomia del malato e la considerazione dei valori etici e degli usi sociali delle persone che affrontano una grave malattia progressiva. Di conseguenza, il coinvolgimento dei pazienti nelle scelte che riguardano la cura della loro malattia rappresenta uno degli obiettivi principali dell’operato di chi somministra le cure palliative.

Vi sono invece evidenze di come nel mondo, e in particolare in Italia, troppi malati muoiano, troppo spesso in ospedale, senza conoscere la diagnosi della malattia da cui sono affetti né la prognosi correlata. Da uno studio recentemente condotto sul territorio nazionale risulta che solo il 13% delle persone che muoiono di cancro ha ricevuto informazioni sulla prognosi (Costantini, Morasso, Montella et al. 2006). Altrettanto vero è che indagini retrospettive eseguite attraverso interviste a parenti di malati deceduti indicano che, al contrario di quanto accaduto, la sede desiderata dai pazienti per trascorrere le ultime fasi della vita fosse la casa e non l’ospedale.

Diverse sono le capacità culturali e le attitudini dei pazienti sia a discutere della propria malattia e della sua prognosi sia a stabilire con lo staff medico il luogo dove essere curati e il grado di controllo dei sintomi da cui sono affetti. In aggiunta, la difficoltà ad affrontare i pregiudizi del paziente e dei familiari legati al timore per i trattamenti analgesici a base di farmaci oppioidi (come la morfina) richiede che gli operatori sanitari abbiano sviluppato un percorso di formazione sulle capacità di comunicazione. Saper comunicare con il malato rappresenta dunque un momento strategico dell’assistenza, intesa come elemento qualificante del servizio offerto e come legittima aspettativa dei pazienti e di chi li assiste. Informare ed educare una persona che si ammala di cancro o di altra grave malattia non è un aspetto marginale delle cure: i pazienti hanno bisogno di chiare informazioni per conoscere e valutare in modo consapevole le conseguenze degli interventi terapeutici e diagnostici e reagire a esse.

Sono ancora numerosi gli ostacoli che medici e infermieri incontrano nella comunicazione della diagnosi o dell’eventuale progressione di malattia: il timore di ferire inutilmente la persona malata; la paura di vivere angosce e sentimenti di impotenza difficilmente gestibili; la percezione che il tempo sia sempre troppo limitato per discutere di temi difficili che provocano sofferenza; la convinzione che la competenza di alcune figure professionali riguardi solo la componente organica della malattia e non quella emozionale o psicosociale, demandate invece interamente a esperti come psicologi e psichiatri. È pertanto necessario avviare un percorso di formazione sul tema della comunicazione, rivolto a tutti gli operatori sanitari, a partire dai corsi universitari per medici e infermieri professionali, per poter arrivare a considerare il tempo e le risorse impiegate per la comunicazione come parte integrante della prestazione sanitaria e non come un’azione che comporti una perdita di tempo rispetto alla prestazione stessa. È dimostrato che, rispetto alla mera prescrizione, avere tempo per spiegare gli obiettivi che ci si prefiggono nella pianificazione di una terapia con morfina, la possibile comparsa di effetti collaterali e il modo per contrastarli, e per coinvolgere anche i familiari nella somministrazione del farmaco, incrementa significativamente le possibilità di successo di una terapia antalgica.

Il lavoro di équipe per i malati e i loro familiari

Le cure palliative, per dare una risposta ai bisogni del malato e della famiglia, incluso il supporto durante il lutto, richiedono l’intervento integrato in équipe di diverse figure professionali competenti: infermieri, medici, fisioterapisti, psicologi, assistenti sociali e spirituali. Tali cure possono essere realizzate a domicilio se il paziente lo desidera e la famiglia, supportata adeguatamente, può diventare parte integrante dell’assistenza. Possono inoltre essere realizzate in ospedale e in strutture di ricovero specializzate, chiamate hospices. Con questo termine venivano indicate quelle strutture di accoglienza per le cure ai morenti realizzate in Francia nella metà dell’Ottocento da un gruppo di signore, le Dames du Calvaire, coordinate da Jeanne Garnier. A questa esperienza seguirono le aperture di altri hospices in Irlanda e in Gran Bretagna nella seconda metà dell’Ottocento.

Di fatto le cure palliative nascono in Gran Bretagna nella seconda metà del Novecento a opera di Cicely Saunders, una giovane donna dell’alta borghesia inglese che, in seguito alle sue esperienze prima come assistente sociale e poi come infermiera in ospedali del Regno Unito, decise di occuparsi attivamente della cura dei pazienti inguaribili. Dopo avere conseguito la laurea in medicina, la Saunders, grazie all’impiego di fondi privati, fondò e attivò nel 1967 a Londra il St. Cristopher’s hospice, la prima struttura residenziale per l’assistenza gratuita dei pazienti in fase terminale. Questa esperienza di integrazione tra organizzazione del settore privato sociale e servizio sanitario pubblico fu di riferimento per il movimento degli hospices nei Paesi anglosassoni e in seguito in altre parti del mondo.

Il movimento britannico degli hospices approdò rapidamente negli Stati Uniti, ove il primo programma fu avviato nel 1975, assumendo sin dall’inizio un’impronta particolare. Nato al di fuori degli ospedali come programma di assistenza domiciliare, ha a tutt’oggi mantenuto questo carattere. Malgrado la sua estraneità al sistema sanitario ospedaliero, esso è riuscito a imporsi e a ottenere già nel 1982 il riconoscimento da parte di Medicare (programma di assicurazione medica del governo statunitense). Quando si parla di hospice negli Stati Uniti e in Canada non si intende una struttura di ricovero, come generalmente in Italia, bensì un programma di cure multidisciplinari – cure palliative per l’appunto – che offre la terapia del dolore e degli altri sintomi disturbanti, il sostegno psicosociale, l’assistenza spirituale e l’appoggio ai familiari sia durante la malattia sia dopo la morte per aiutarli nell’elaborazione del lutto.

Negli Stati Uniti due sono le condizioni per accedere al programma hospice: una prognosi di vita inferiore o eguale a sei mesi e la rinuncia da parte del malato a terapie attive, come la chemioterapia. Il successo di questi programmi è stato importante: si calcola che ne benefici dal 50 al 90% dei malati di cancro; prescindendo dalla diagnosi, circa il 40% degli statunitensi che muoiono di una malattia cronica evolutiva entra nei programmi hospice.

La caratteristica comune dei modelli assistenziali di cure palliative, sviluppati in tempi diversi in tutto il mondo per malati oncologici in fase terminale, è riassumibile nel concetto di presa in carico globale del paziente da parte di una équipe multiprofessionale allo scopo di poter rispondere a bisogni specifici e differenziati in campo medico, psicologico e sociale.

Allo stesso tempo, un’altra caratteristica delle cure palliative è l’attenzione nei confronti di quelle persone, familiari o amici, che si prendono cura (caregiv­ers) del malato e che rappresentano il cosiddetto supporto informale. La persona più vicina e importante per il paziente, e che diviene il principale interlocutore per il team di cure palliative, viene definita caregiver primario. L’individuazione dei bisogni del caregiver comprende, nel rispetto assoluto della volontà del paziente, un’adeguata informazione circa la diagnosi, la storia naturale e la prognosi della malattia. Questo è indispensabile per assicurare la qualità dell’assistenza, per aiutare il paziente ad affrontare scelte di carattere medico, sociale e personale, per alleviare paure immotivate e attenuare l’ansia che deriva dall’incertezza. La rete di supporto informale si assume l’onere di molte funzioni di assistenza domiciliare, dalla cura della persona alla gestione dei farmaci, che vanno a sommarsi alle altre attività relative al vivere quotidiano. Spesso chi assiste un malato deve rinunciare o ridimensionare i suoi impegni lavorativi con conseguente mancato guadagno e modificazione del suo ruolo sociale. Vi è evidenza di come i caregivers abbiano un rischio elevato di incorrere in disturbi psicologici di tipo depressivo di diversa entità, sindromi ansiose, disturbi del sonno e calo ponderale. I caregiv­ers più anziani, per la loro maggiore fragilità, hanno un rischio aumentato di morbilità e mortalità. L’identificazione di categorie di caregivers ad alto rischio di tipo sia psicosociale sia medico consente alle équipes di cure palliative di sviluppare un piano di assistenza volto a evitare la perdita del sostegno fondamentale svolto dal sistema informale, senza il quale qualsiasi assistenza domiciliare non potrebbe essere svolta. Il piano di supporto al caregiver deve completarsi con un piano di assistenza durante la fase del lutto, perché tale esperienza è associata ad alto rischio di malattia depressiva e a un’alta mortalità.

La modificazione della struttura familiare attualmente in corso comporta nuclei numericamente più piccoli, spesso maggiormente articolati e geograficamente più dispersi, caratterizzati da un aumento di migrazioni, divorzi e pressioni esterne. Un minor numero di persone sarà quindi in grado di offrire assistenza e cure a malati inguaribili. I sistemi sanitari dovranno perciò riuscire a erogare cure efficaci e a elevato livello di umanizzazione a un sempre maggior numero di persone arrivate alla fine della vita, cure adeguate a tali modificazioni di tipo sociale. Le importanti limitazioni di tipo economico che condizionano le politiche sanitarie impongono di sviluppare approcci innovativi per fornire cure che soddisfino i bisogni in questione. In particolare, esistono nel mondo esempi di eccellenza basati sulla collaborazione fra operatori sanitari particolarmente motivati.

In Italia le cure palliative sono diventate temi di discussione di attualità dopo l’approvazione del Piano sanitario nazionale (1998-2000) che, al fine di tutelare la salute dei soggetti deboli, individuava come prioritaria l’assistenza alle persone che affrontano la fase terminale della vita, indicando le azioni da privilegiare, quali il potenziamento dell’assistenza medica e infermieristica a domicilio, il potenziamento degli interventi di terapia palliativa e antalgica e la realizzazione degli hospices. In quel periodo erano già operanti esperienze spontanee di cure palliative di tipo prevalentemente domiciliare, erogate e finanziate da organizzazioni di volontariato e non lucrative del settore privato-sociale. Queste esperienze hanno rappresentato una prima risposta della società civile ai bisogni di pazienti in fase terminale e hanno indicato la via da perseguire nello sviluppo di una rete assistenziale di cure palliative. In considerazione del fatto che la sola attività del settore privato-sociale non poteva soddisfare le richieste di una grande utenza di malati, le istituzioni sanitarie italiane hanno cominciato, con molto ritardo, ad approntare un piano strategico per colmare un vuoto assistenziale così vasto. La pubblicazione del programma nazionale per la realizzazione di strutture per le cure palliative, del 28 settembre 1999 («Gazzetta ufficiale» n. 55 del 7 marzo 2000), e del decreto ministeriale recante i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi per i centri residenziali di cure palliative, del 20 gennaio 2000 («Gazzetta ufficiale» n. 67 del 21 marzo 2000), ha quindi consentito alle Regioni di creare le unità di cure palliative, composte di medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali e operatori sociosanitari. Secondo le indicazioni contenute nell’accordo della Conferenza unificata Stato e Regioni del 19 aprile 2001, la rete di assistenza ai pazienti terminali è costituita da un’aggregazione funzionale e integrata di servizi distrettuali e ospedalieri, sanitari e sociali che eroga le cure in diversi ambiti. Nel documento si distinguono:

a) cure palliative residenziali, effettuate in strutture specifiche per malati inguaribili (hospices o case dedicate a pazienti con patologie particolari, residenze sanitarie assistenziali) oppure nei reparti ospedalieri di degenza per acuti;

b) cure palliative domiciliari, attraverso le quali il malato clinicamente più complesso è seguito a domicilio da una équipe specialistica ospedaliera coordinata da un esperto in cure palliative (ospedalizzazione domiciliare) o, nel caso di malati meno gravi, da una équipe territoriale coordinata dal medico di medicina generale e supportata dalla consulenza dell’esperto in cure palliative (assistenza domiciliare integrata, ADI);

c) cure palliative in ambulatorio o in day hospital, dove il paziente autosufficiente può recarsi e ricevere cure orientate al trattamento dei sintomi e al supporto psicologico e sociale.

L’obiettivo è quello di gestire in modo unitario, da parte dell’unità di cura, il sistema di rete e di garantire ai malati e alle loro famiglie una continuità terapeutica e assistenziale attraverso l’ospedale, l’assistenza domiciliare e l’hospice. Le esigenze di elevata personalizzazione dell’assistenza rendono necessarie strutture di piccole dimensioni con numero limitato di posti letto. Si prevedono hospices di 12-15 posti letto, e che comunque non superino i 30 posti letto, diffusi sul territorio regionale in modo tale da favorire la facile accessibilità. Altrettanto importante è assicurare ai malati la possibilità di essere seguiti a casa durante le varie fasi della malattia, al fine di consentire loro l’opportunità di vivere assieme ai propri familiari e di evitare ricoveri inutili in ospedale. Si calcola che su un’utenza potenziale di 100 pazienti il 70-80% di essi possa essere assistito a casa e il 10-20%, invece, presso strutture tipo hospice.

Nella primavera 2008, al termine della legislatura, l’allora ministro della Salute Livia Turco firmò il decreto ministeriale che prevede l’inserimento delle cure palliative domiciliari e residenziali nei nuovi livelli essenziali di assistenza (LEA) per la popolazione italiana. Secondo tali indicazioni, dovrà essere garantita la continuità assistenziale ai pazienti seguiti a domicilio attraverso la programmazione degli interventi per tutti i giorni della settimana e la pronta disponibilità medica nelle 24 ore. Gli hospices vengono definiti come centri specialistici, in cui medici, infermieri e operatori tecnici hanno competenze specifiche in relazione agli obiettivi che il piano assistenziale si prefigge nei confronti del malato e della famiglia.

Secondo la Società italiana di cure palliative (SICP) e la Federazione cure palliative (FCP), organizzazioni tra loro integrate e diffuse sul territorio nazionale, è ipotizzabile che ogni anno venga assistito da una rete locale di cure palliative formalmente definita non più del 20% degli utenti potenziali. Questo dato nazionale è connotato da profonde oscillazioni interregionali e riguarda in modo pressoché esclusivo l’utenza oncologica: tra i malati assistiti dalla rete, sia a domicilio sia presso uno degli hospices esistenti, solo un numero inferiore all’1% risulta affetto da una malattia non oncologica. Si può perciò affermare che in Italia le cure palliative per i malati non oncologici non esistono.

Nella monografia Hospice in Italia. Prima rilevazione ufficiale 2006, pubblicata nel novembre 2007 dalla SICP per conto del Ministero della Salute, il numero di strutture residenziali per cure palliative-hospices realizzate grazie ai finanziamenti della l. n. 39 (26 febbr. 1999) era pari a 187. Sempre in tale documento, si prevedeva di realizzare entro il 2008 l’attivazione di 206 hospices, con 2346 posti letto e un indice medio di 0,40 posti letto su 10.000 residenti (ricavato da un ambito di valori compreso tra 0,64 e 0,08 posti letto su 10.000 residenti), ed entro il 2011 l’attivazione di 245 strutture, con 0,47 letti ogni 10.000 abitanti. In realtà, in base a un resoconto riportato al congresso nazionale della SICP, gli hospices realmente operativi in Italia al 20 ottobre 2008 erano 147, con grandi differenze geografiche (50 in Lombardia, 4 in Sicilia, 2 in Calabria e nessuno in Abruzzo). La Conferenza Stato-Regioni in data 25 marzo 2009 ha quindi approvato lo stanziamento di 100 milioni di euro destinati all’attivazione di strutture per l’erogazione di terapia del dolore e cure palliative, al fine di superare il deficit assistenziale e le disomogeneità che permangono a livello territoriale nazionale.

Per monitorare sia il grado di attuazione della programmazione regionale relativa alla rete di cure palliative sia lo stato di realizzazione delle strutture residenziali/hospices programmati, la SICP, la Fondazione Isabella Seràgnoli, la Fondazione Floriani (FF), con il patrocinio del Ministero della Salute, hanno avviato nel 2009 il progetto Rete degli hospice italiani – Aggiornamento 2009, che porterà alla pubblicazione di una seconda monografia nel corso del 2010.

Il 20 marzo 2008 era stato approvato in Conferenza Stato-Regioni un documento tecnico sulle cure palliative pediatriche che prevedeva la creazione di reti assistenziali di cure palliative pediatriche in tutte le Regioni. Attualmente, in Italia, nella maggior parte dei casi, l’assistenza a pazienti pediatrici è erogata in regime di ricovero ospedaliero, frequentemente in reparti di terapia intensiva. L’assistenza in regime residenziale dedicato alle cure palliative rappresenta una risposta migliorativa e più adeguata alle esigenze della fase avanzata e/o terminale di malattia. La stima della popolazione pediatrica candidata alle cure palliative e le esperienze attualmente in corso a livello nazionale e internazionale, suggeriscono, come risposta alle esigenze assistenziali di cure palliative rivolte al minore, l’attivazione di un Centro di riferimento di cure palliative pediatriche (CPP), con personale specificatamente formato e dedicato e un ampio bacino di utenza (anche regionale o sovraregionale), che sostiene una rete di cure palliative pediatriche (composta dai servizi ospedalieri e dai servizi territoriali sanitari, sociosanitari e socioassistenziali), prevedendo, ove necessario, la possibilità di ricovero in ambiente dedicato e protetto, anche attraverso l’istituzione di un Centro residenziale di cure palliative pediatriche.

Il Parlamento italiano ha finalmente approvato in via definitiva la legge 15 marzo 2010 n. 38 – Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore – pubblicata nella «Gazzetta ufficiale» n. 65 del 19 marzo 2010. Tale legge segna un’importante svolta nell’assetto del sistema sanitario italiano, inserendo le cure palliative e la terapia del dolore nei livelli essenziali di assistenza sanitaria (LEA) da garantire a tutti i cittadini italiani. All’applicazione della legge è stato fissato un budget di 50 milioni di euro, più 100 milioni di euro inseriti dal 2009 tra gli obiettivi di piano del fondo sanitario nazionale. I punti salienti della legge possono essere così riassunti:

a) L’obbligo per i professionisti sanitari (medici e infermieri) di rilevare, misurare e monitorare nella cartella clinica il dolore dei malati affetti da una qualsiasi condizione morbosa. Il dolore diviene quindi un parametro vitale paragonabile ad altri quali la pressione e la temperatura corporea.

b) L’istituzione di due reti distinte di strutture sanitarie e di professionisti: una per le cure palliative, l’altra per la terapia del dolore. Tali strutture metteranno in connessione diversi centri specializzati in questo tipo di cure, formando delle figure professionali specifiche. Questa distinzione appare assai importante in quanto le competenze dei professionisti e gli obiettivi delle cure palliative non coincidono necessariamente con quelli della terapia del dolore.

c) La legge prevede una semplificazione e una facilitazione della prescrizione dei farmaci oppiacei non iniettabili. I medici del sistema sanitario nazionale e i medici di medicina generale potranno prescrivere questo tipo di farmaci con la semplice ricetta del Servizio sanitario nazionale. Tale norma, se da un lato consentirà un più facile accesso ai farmaci analgesici oppiacei per i pazienti, dall’altro esclude però dalla prescrizione facilitata i medici non dipendenti dal Servizio sanitario nazionale. Quest’ultimo aspetto sembra quindi un lato debole della legge.

d) Al fine di ridurre le disparità in termini di costi e di qualità delle cure attualmente presenti tra le diverse Regioni, la legge prevede un’omogeneità delle tariffe per le cure palliative su tutto il territorio nazionale.

e) Sarà rafforzata l’attività dei comitati ‘Ospedale senza dolore’, istituiti dall’omonimo progetto ministeriale del 2001, per iniziative di tipo formativo e operativo sulla terapia del dolore in ambito ospedaliero e territoriale. Inoltre è prevista l’istituzione di un master professionale per i professionisti impegnati nelle cure palliative e la terapia del dolore.

f) La legge introduce infine la definizione del diritto per i pazienti minori di 18 anni di ricevere a livello domiciliare assistenza relativa alle cure palliative e alla terapia del dolore, primo provvedimento normativo di questo genere a livello mondiale.

Non solo cure di fine vita

Le cure palliative intendono migliorare la qualità della vita, e possono anche influenzare positivamente il decorso della malattia. Sono applicabili precocemente nel corso della malattia, insieme ad altre terapie che hanno come obiettivo quello di prolungare la vita, quali la chemioterapia e la radioterapia, e comprendono quelle indagini diagnostiche necessarie a meglio comprendere e trattare le complicanze cliniche causa di sofferenza.

È essenziale distinguere le cure palliative dalle cure terminali: le cure terminali si riferiscono alla presa in carico del paziente nel periodo strettamente legato all’evento della morte (settimane, giorni, ore). Le cure terminali non sono le cure palliative, ma queste ultime comprendono le cure della terminalità. Questo grande equivoco provoca pesanti errori in merito alla definizione dei criteri di eleggibilità, dei bisogni e delle modalità con cui offrire risposte adeguate.

Sulla base delle circostanze e del setting clinico in cui sono nate, le cure palliative e la medicina palliativa sono state ritenute adeguate soprattutto alla fase terminale di malattie oncologiche.

La storia della malattia neoplastica viene tradizionalmente suddivisa in una fase diagnostica, in una fase terapeutica caratterizzata dalle cure specifiche antineoplastiche, che hanno come obiettivo principale la guarigione e quindi la sopravvivenza del paziente, e, in caso di insuccesso di queste ultime, in una fase terminale delle cure palliative, che hanno come obiettivo la qualità della vita restante del paziente. Secondo questa concezione schematica le cure palliative devono quindi intervenire al momento della formulazione di una prognosi di malattia terminale, successiva al trattamento con cure specifiche (fig. 1). La conseguenza di questo approccio si manifesta abitualmente come una brusca discontinuità nella storia assistenziale del paziente, che si sente improvvisamente abbandonato dall’équipe di medici oncologi e affidato a nuove e quindi sconosciute figure mediche, con cui stabilire una nuova relazione di cura. Un’altra conseguenza consiste invece nella mancanza o nel ritardo di affidamento del paziente alle cure palliative a causa di una difficoltà da parte dei medici oncologi a formulare una prognosi di malattia terminale.

Nel corso del tempo il perfezionamento delle tecniche terapeutiche e riabilitative per la cura delle malattie oncologiche ha consentito di allungare l’aspettativa di vita media dei pazienti, così come si è andata imponendo sempre più la necessità di garantire una qualità di vita accettabile per i malati anche nelle fasi precoci della storia della loro malattia. Terapie innovative antineoplastiche, anche di tipo biologico come la target therapy, consentono oggi di prolungare la vita del malato senza indurre eccessiva tossicità, attraverso il contenimento ma non l’eradicazione della malattia. Di conseguenza, la fase terminale di alcune malattie oncologiche, la cui durata è stimata per convenzione mediamente di tre mesi, può oltrepassare di molto questo tempo previsto; il paziente in questa fase può mantenere un certo grado di autosufficienza e convivere più o meno bene con una malattia inguaribile e i sintomi associati, a seconda che questi siano trattati in modo adeguato con un approccio palliativo. Tipico è il caso di una paziente con metastasi da tumore del colon o del seno non più guaribile, con unica lesione ossea trattata con terapie specifiche antineoplastiche e contro il dolore. La sopravvivenza di tali pazienti può anche superare l’anno e la loro qualità di vita può essere assicurata dal controllo efficace di sintomi quali il dolore, la depressione o la stanchezza.

Nei numerosi anni che trascorrono a partire dal momento della diagnosi i malati e le loro famiglie devono quindi affrontare molte criticità e hanno bisogno di un aiuto costante, non soltanto in uno specifico momento cronologicamente collocabile subito prima della morte.

La consapevolezza che tali bisogni riguardano anche gruppi di pazienti che non si trovano vicini al decesso ha spinto quindi la medicina contemporanea a estendere l’approccio delle cure palliative alle fasi più precoci delle malattie, cercando di assicurare in tal modo un’assistenza globale per i malati. Una nuova visione delle cure palliative, definita simultaneous care (fig. 2), tende a integrare queste cure in maniera incrementale in base al decorso di ciascuna malattia. Deve essere sempre più sviluppato e utilizzato il concetto secondo il quale le cure palliative sono un intervento che può essere offerto durante tutto il percorso clinico, quindi anche durante le fasi nelle quali vengono praticate cure specifiche della malattia di base (chemioterapia, radioterapia, terapie biologiche), per rispondere ai problemi dei malati.

Le infezioni da HIV, come l’AIDS, hanno un decorso intermittente e protratto nel tempo e spesso causano sintomi e problematiche multiple che richiedono programmi specifici e interventi efficaci che li risolvano e controllino.

Le malattie a carattere cronico-degenerativo non neoplastiche sono caratterizzate infine da una serie di bisogni specifici tali da richiedere l’intervento palliativo. Si tratta, infatti, di malattie inguaribili che, contrariamente a quelle oncologiche, nelle quali la durata della fase terminale risulta prevedibile con buona approssimazione, hanno un decorso imprevedibile che può comunque durare anni, con periodici peggioramenti oppure con un progressivo deterioramento delle funzioni di più organi. Le malattie croniche di frequente sono presenti contemporaneamente nello stesso malato e per questo motivo si sommano nel causare problemi che incidono profondamente sulla qualità della vita.

Come conseguenza ne deriva la considerazione che esiste una reale difficoltà a determinare con ragionevole attendibilità la prognosi a breve-medio termine in pazienti affetti da patologie croniche in fase terminale. L’accuratezza predittiva per una malattia terminale risulta ancora più difficile nei pazienti anziani, che rappresentano il target privilegiato delle cure palliative. Questi pazienti presentano infatti contemporaneamente molteplici problemi clinici, per es. la comparsa di una grave malattia cardiologica in un soggetto affetto da demenza senile o l’insorgenza di una neoplasia in un malato con nefropatia cronica. In questi casi non è agevole stabilire per quale malattia un soggetto possa essere definito in fase terminale. Per pazienti così complessi si ritiene pertanto opportuno utilizzare sistemi di valutazione che integrino le informazioni provenienti dagli specialisti delle varie problematiche cliniche, cognitive e sociali, attraverso l’uso di strumenti affidabili, quali le scale validate per stimare il livello di autosufficienza e di comorbilità. È evidente che si tratta di un processo complesso, che deve inoltre permettere di osservare l’evoluzione delle condizioni del paziente e la risposta ai trattamenti, avvalendosi di diverse figure coinvolte nell’assistenza. L’aspetto critico per tali pazienti è appunto costituito dalla difficoltà di identificare un referente unico che sia capace di gestire il paziente (case manager) nel suo percorso assistenziale, perché potrebbe essere il medico di medicina generale, lo specialista di una delle specifiche patologie di cui il paziente è affetto, il geriatra o il team di cure palliative.

Anche per i pazienti pediatrici, quando si valuta la possibilità di accedere alle cure palliative, il criterio temporale (costituito da un’aspettativa di vita media pari a tre mesi) e quello del decadimento continuo delle condizioni cliniche e delle funzioni appaiono inadeguati e obsoleti. Si tratta, infatti, di assistere bambini affetti da malattie inguaribili: in alcuni casi, solo nei primi anni di vita (malattie congenite); in altri, per periodi decisamente maggiori (patologie neurologiche, cardiologiche, fibrosi cistica, malattie autoimmuni), che sono caratterizzati da fasi di dimissione dai reparti e successiva ripresa in carico; in altri ancora nell’ultimo periodo di vita (nel caso delle malattie neoplastiche). Quindi, in età pediatrica, non esiste una chiara distinzione fra intervento curativo volto a migliorare la qualità della vita e prolungarne la durata, e intervento puramente palliativo.

In conclusione, le cure palliative e la medicina palliativa, che costituiscono, rispettivamente, una modalità assistenziale e una branca della medicina nate nell’ambito della cura delle fasi estreme della vita, vedono applicati i loro modi operativi e i loro principi in ambiti clinici sempre più ampi e per il trattamento di numerose malattie, comprese, ma non solo, quelle neoplastiche. La realizzazione degli obiettivi delle cure palliative richiede che esse siano accessibili e applicate in modo uniforme nel nostro Paese e contemporaneamente che siano avviati specifici percorsi formativi in questo campo.

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Per ulteriori approfondimenti sulla medicina e sulle cure palliative si vedano inoltre i seguenti siti:

Regional palliative care program in Edmonton Alberta, www. palliative.org.

European association for palliative care, www.eapcnet.org.

Osservatorio italiano cure palliative, www.oicp.org.

Società italiana di cure palliative, www.sicp.it.

Scuola italiana di medicina e cure palliative, www.simpascuola.org.