MEDICI, Cosimo de', detto il Vecchio

Enciclopedia Italiana (1934)

MEDICI, Cosimo de', detto il Vecchio

Giovanni Battista Picotti

Nacque in Firenze, nel 1389, il giorno di San Cosimo, 27 settembre, da Giovanni di Bicci de' Medici. Cosimo attese col padre alla mercatura; e, sebbene accompagnasse Giovanni XXIII a Costanza e facesse poi viaggi in Germania e in Francia e, di ritorno in patria, fosse destinato a importanti ambascerie, a Milano nel 1420, a Lucca nel 1423, a Bologna nel 1424, al papa nel 1426, tuttavia, a quarant'anni, quando il padre morì, non era più che un insigne cittadino privato. Ma la grande ricchezza, l'affabilità dei modi, l'intelligente mecenatismo, la singolare larghezza, con la quale aiutava di doni e di prestiti molti cittadini e soccorreva alle necessità dello stato, ne andavano accrescendo il credito e la popolarità.

Senza essere caldo fautore della guerra di Lucca (1429), Cosimo l'appoggiò per non perdere il favore del popolo, che la voleva con meravigliosa concordia: fu anzi eletto due volte fra i Dieci di guerra (dicembre 1430 e giugno 1432) e mandato nel 1432 al marchese di Ferrara a trattare della pace. Ma censurò aspramente il modo con cui la guerra era condotta e assunse un chiaro atteggiamento di opposizione alle mene ambiziose di Rinaldo degli Albizzi, che di questa guerra era l'anima. E quando, volta malamente la fortuna, il popolo si trovò irritato per una pace vergognosa (1433) e ridotto a gravi strettezze, Cosimo apparve capo della parte avversa all'oligarchia dominante, a cui si attribuiva la mala riuscita, e alle aspirazioni di Rinaldo, che tendeva a farsi "capo di setta e principale di popolo" (Cavalcanti, I, p. 496). Il 7 settembre 1433, essendo gonfaloniere Bernardo Guadagni, Cosimo fu chiamato in palazzo e arrestato. Egli temette da prima la morte: tuttavia, più che a ucciderlo, i suoi avversarî tendevano, con l'arresto, a trascinarlo al fallimento. Ma signori e mercanti gli offrirono aiuto; Venezia e il marchese di Ferrara intervennero per lui; egli stesso riuscì a guadagnarsi col danaro alcuni della signoria fiorentina. Si finì col condannarlo come perturbatore dello stato pacifico dell'"aurea patria", escludendolo per dieci anni, con tutti i suoi, da ogni pubblico ufficio e confinandolo per questo tempo a Padova.

A Venezia, Cosimo fu accolto "non come confinato, ma come ambasciatore" (Fabroni); a Padova prima, poi a Venezia abitò come principe, offriva danaro ai Veneziani per la guerra, faceva compiere da Michelozzo lavori nella biblioteca di San Giorgio, dava agli stessi magistrati di Firenze notizie rilevanti per la repubblica. Il credito di Cosimo, il favore del popolo, il bisogno ch'egli sovvenisse il comune del suo danaro apparvero nell'esilio suo maggiori che non fossero quand'era in patria.

Una nuova signoria lo richiamò, mentre l'Albizzi, provatosi invano a mutare lo stato, era bandito per sempre. Cosimo ritornava padrone (ottobre 1434).

Vide allora Cosimo come il "fare lo stato" (Guicciardini, p. 92) fosse ormai necessario per non perdere l'alto posto, che la famiglia aveva raggiunto nella vita economica e politica di Firenze. Ostentò moderazione e si poté vantare che nei due mesi del suo primo gonfalonierato "non si confinò né si fece male ad alcuno" (Fabroni); ma la terra era "pacificata", già prima ch'egli tornasse, e fu poi mantenuta in pace con l'esilio e l'esclusione dai pubblici uffici di quanti potevano dare ombra a lui e alla sua parte: in esilio visse diciotto anni e morì Palla Strozzi, che pure nel momento decisivo s'era mostrato favorevole a Cosimo; questi voleva forse colpire nel restauratore dello Studio fiorentino chi poteva competere con lui in quel campo della protezione della cultura, nel quale i Medici volevano ormai primeggiare. Ma, se egli s'avvedeva come dovesse por mano al potere chi non voleva che altri la ponesse a suo danno, sentiva anche bene come occorresse, in una città avvezza da secoli a forme di reggimento libero, rispettare le esterne apparenze di questo, o, dove pure fosse necessario toccarle, lasciarne ad altri il carico e il pericolo.

Né forse alcuna signoria fu più reale e meno apparente di quella di Cosimo. Se nel 1463 Pio II, nell'invitarlo alla spedizione contro gli Osmani, gli scriveva "In oculis patriae tuae, in luce Italiae, in exterorum auribus nomen tuum versatur cum laude", Cosimo, per sottrarsi all'appello non gradito, poteva rispondergli di considerarsi "privatum hominem et civili quadam semper mediocritate contentum" (Fabroni); ma il pontefice lasciava scritto nei Commentarî (Roma 1584, libro II, p. 89) che a Cosimo nulla mancava del regno tranne il nome e la pompa. Solo per tre bimestri, nel 1435, nel 1439, nel 1445, Cosimo fu gonfaloniere, andò ambasciatore soltanto a Venezia e a Ferrara presso il papa, nel 1438; ma Francesco Sforza comandava al suo oratore di dire ai signori di Firenze "più et meno... como parirà ad esso Cosmo" (Perrens, I, p. 169). E in verità i signori, o fossero tratti a sorte da borse manipolate dagli accoppiatori, come fu dal 1434 al 1444 e di nuovo dal 1455 al 1458, o fossero scelti direttamente dagli accoppiatori stessi o dalle balìe, come nel periodo dal 1444 al 1455 e negli ultimi anni di Cosimo, erano sempre uomini devoti al Medici; di tempo in tempo erano nominate balìe con pieni poteri; e se nel 1455 parve che Cosimo cedesse alcuna parte dell'autorità sua, permettendo il libero sorteggio dei magistrati, nel 1458 un altro colpo di stato, particolare fatica di Luca Pitti, ridusse di nuovo il potere in mano di pochi partigiani, e creò quel Consiglio dei Cento, che, avendo autorità di deliberare sulle imposizioni e sulle condotte delle milizie, divenne fulcro saldissimo del nuovo stato. E presto non fu più in Firenze chi potesse contrastare a Cosimo, poiché i capi della parte avversa erano banditi, i gregarî si stringevano a lui, e Neri Capponi, autorevolissimo nella parte medicea, dopo l'oscura uccisione compiuta in Palazzo del condottiero Baldaccio d'Anghiari, amico suo (1441), si tenne prima in disparte, poi aderì alla volontà di Cosimo.

Questo potere personale di Cosimo si manteneva con diversi accorgimenti. Abbattuta l'oligarchia borghese, Cosimo si appoggiava al popolo, guadagnandoselo con la liberalità; ma nel popolo cercava di formarsi un partito proprio, nel quale entravano largamente uomini oscuri o di contado e, sebbene talvolta assai meritevoli, a lui debitori di ogni loro fortuna. E, se egli si fece amica qualcuna delle famiglie più potenti che avevano dominato negli ultimi decennî in Firenze, e ne strinse a sé altre che appartenevano all'antica nobiltà, e si studiò di nascondere la propria persona dietro a quelle degli amici suoi più autorevoli, cercò tuttavia d'impedire che gli antichi o i nuovi partigiani salissero in modo da potergli dare ombra. Al quale fine serviva meravigliosamente il sistema tributario. Il catasto, istituito nel 1427 per imporre le gravezze pubbliche in ragione delle sostanze, doveva essere rinnovato ogni tre anni, ma non fu riveduto più, né rispondeva alle nuove condizioni degli arricchiti per il favore di Cosimo: la minaccia della sua rinnovazione pesava sopra costoro; e, quando parve, nel 1455, che gli amici di Cosimo ne volessero diminuire l'autorità, "a farli ravvedere" (Machiavelli, VII, 2) valse sopra ogni altra cosa questa, che "si risuscitò il modo del catasto" (1458): i ricchi furono allora "sotto sopra" (Buser, p. 400) e fu possibile il colpo di stato del Pitti. Sulla base poi del catasto era applicata la "scala", cioè l'imposta progressiva, che dal 4% per le fortune più modeste, da 1 a 50 fiorini, saliva al 33½% per le maggiori, oltre ai 1500; e, poiché l'imposizione era affidata in parte alla "coscienza" di deputati fedeli a Cosimo, la scala fu maneggiata così bene da colpire o da minacciare di miseria gli avversarî aperti o gli amici mal sicuri di lui: Giannozzo Manetti, caduto in disgrazia, dovette pagare in più volte 135 mila fiorini d'oro e ne fu rovinato. Certo, le enormi gravezze pesavano sulla vita economica fiorentina, già insidiata dalla concorrenza di quelle industrie forestiere, di cui i Fiorentini erano stati maestri; ma è da riconoscere come esse fossero applicate in modo da avere riguardo alle piccole fortune, opera di giustizia insieme e d'accorta politica. E, d'altra parte, Cosimo promoveva l'agricoltura, incoraggiava la lavorazione domestica della seta, dava incremento al commercio, favorendo la creazione o lo sviluppo di case commerciali, curando la navigabilità dell'Arno, mandando navi nei mari settentrionali e sulle coste africane, annodando relazioni con i Turchi già padroni dell'Oriente: Venezia vedeva con sospetto la nuova potenza, che si affermava nel commercio orientale e che cercava senza alcuno scrupolo di soppiantarla. Cosimo stesso attendeva personalmente alla coltivazione dei suoi poderi, come "intendentissimo" d'agricoltura (Vespasiano da Bisticci); né cessò mai dall'essere "non solamente savio, ma bene avventurato mercante" (Ricordi di Piero di Cosimo, in Fabroni): da Niccolò V, già sovvenuto da lui quand'era ancora Tomaso da Sarzana, era fatto depositario della Chiesa; poteva prestare danaro al re d'Inghilterra e al duca di Borgogna; la casa de' Medici era detta dal Commynes "la plus grande maison que je croy que jamais ait esté au monde" (Mémoires, VII, 6, Parigi 1925, III, p. 41). Così le fortune economiche di Firenze e quelle dei Medici erano congiunte.

La politica estera di Cosimo fu, per trent'anni, la politica stessa della repubblica fiorentina; ne furono cardine prima l'alleanza con i Veneziani contro i disegni egemonici di Filippo Maria Visconti, poi, quando Venezia parve troppo potente e ambiziosa, una strettissima alleanza con Francesco Sforza, che fu tenuto da Cosimo, come questi diceva all'oratore di lui "per suo Dio a questo mondo" (Buser, App., p. 423). Cosimo ebbe non piccola parte nell'assicurare soprattutto col danaro, allo Sforza il trono ducale di Milano; e per lui maneggiò e conchiuse il trattato di Montils-les-Tours col re di Francia (1452) e procurò la discesa in Italia di Renato d'Angiò (1453). Tristi semi di danno futuro; ma, per allora, Cosimo poté pensare di avere assicurato "la libertà di Firenze e di tutta Italia" (Guicciardini, p. 9), di avere dato alla città la pace, di cui ella aveva desiderio e bisogno, e di avere a un tempo guadagnato a sé e alla famiglia nello Sforza un alleato fedele, nel re di Francia un amico prezioso. Furono acquisti non spregevoli il Casentino, Borgo San Sepolcro e Montedoglio, Bagno di Romagna, che assicuravano a Firenze le alte valli dell'Arno e del Tevere e la sicura discesa al piano di Romagna. Ma soprattutto aumentò il credito di Firenze, poiché, osservò il Machiavelli (VII, 5), per la "felicità e prudenza" di Cosimo, "qualunque seco o colla sua patria si collegava, rimaneva o pari o superiore al nemico, e qualunque se gli opponeva, o e' perdeva il tempo e' danari, o lo stato"; e l'essere Cosimo dai suoi agenti o corrispondenti d'affari informato di quanto avvenisse, così che nulla pareva essergli ignoto (Pio II, loc. cit.), rendeva Firenze uno dei centri della politica, non pure d'Italia, ma del mondo.

Ma fu principalissimo vanto di Cosimo e arte sottile di governo l'illuminato mecenatismo. Mediocremente colto, egli aveva tuttavia l'animo aperto a tutti gli allettamenti della cultura e dell'arte; liberale e magnifico per natura, era portato a favorirle; ma il proteggerle, oltre a costituire un mezzo per circondare sé e la famiglia di una luce di gloria, era ufficio di reggitore di una città, dove questa protezione era tra le attribuzioni principali dello stato. Se lo Studio fiorentino non ebbe da Cosimo largo favore, forse per la memoria del governo oligarchico che lo aveva fatto risorgere, intorno a lui si raccolgono umanisti e letterati, G. Argiropulo e il Landino, L. B. Alberti e A. Rinuccini, Donato Acciaiuoli e Bartolomeo Scala; siedono cancellieri in palazzo L. Bruni, C. Marsuppini, Poggio Bracciolini, Benedetto Accolti; il concilio del 1439 porta a Firenze, con lo splendore della corte romana e della bizantina, un amore più intenso alla cultura ellenica e alla filosofia di Platone. E un nuovo Platone vuole Cosimo educare nel figliuolo del medico suo, Marsilio Ficino; nella villetta di Careggi, da lui regalata a Marsilio, si raduna il primo nucleo della nuova Accademia, mentre l'Argiropulo attende per ordine di lui alla traduzione di Aristotele e l'Acciaiuoli prepara il commento dell'Etica, che gli sarà letto dallo Scala negli ultimi giorni. Anche la lingua volgare, poco innanzi spregiata, fa prova della sua virtù nel certame coronario (1441), auspice, con l'Alberti, Piero di Cosimo. Le chiese, i conventi, le cappelle, i palazzi, le ville, in cui Cosimo dà lavoro a "poveri uomini infiniti" (Vespasiano da Bisticci), sorgono miracoli d'arte. Mirabile fioritura di cui certo sarebbe errato attribuire a Cosimo il merito di avere gettato i semi, ma sarebbe pure ingiusto negargli la lode di sapiente e liberale cultore. Nel palazzo mediceo, a San Marco, alla Badia si aprono biblioteche, per le quali si acquistano a gran prezzo e si trascrivono febbrilmente manoscritti; e vi si adunano collezioni preziose di statue, di vasi, di medaglie, di cammei, d'oggetti d'arte d'ogni maniera. Potrà alcuno mormorare che Cosimo abbia "pieno per insino i privati de' frati delle sue palle" (Cavalcanti, Seconda storia, II, p. 210); ma non la sola Firenze sente la magnifica larghezza del primo de' suoi cittadini: a Milano la casa donata a Cosimo dallo Sforza è resa dall'arte di M. Michelozzi e dalle pitture giovanili di Vincenzo Foppa una delle più belle della città; ad Assisi ampliato il convento di San Francesco, costruiti un acquedotto e pavimentata la via dalla città alla Porziuncola; a Parigi restaurato il collegio degl'Italiani; a Gerusalemme eretto per i pellegrini un ospizio mediceo.

Gli ultimi anni di Cosimo non furono lieti: li turbarono la malattia sua, la morte del figliolo Giovanni, la debole salute di Piero; né egli, infiacchito dagli anni e dai dolori, seppe o volle opporsi alla rapace violenza de' suoi partigiani, e in particolare del Pitti, che parve il vero signore di Firenze. E tuttavia, quand'egli morì, a Careggi, il 1° d'agosto 1464, e fu portato con "mediocre mortorio" a San Lorenzo e sepolto, com'egli aveva voluto, in terra davanti all'altare, i cittadini lo piansero e lo onorarono come niun altro mai.

Cosimo non era bello nell'alta persona, aveva ulivigno il colorito, grossi i lineamenti; non era colto più di quello che portasse l'età per un ricco mercante fiorentino; aveva lenta e circospetta la parola come il giudizio; era freddo e spesso cinico estimatore di uomini e di cose. Ebbe pietà religiosa forse sincera, ma non tale che gl'impedisse le debolezze morali della vita privata, le male arti della pubblica. Né era preparato da alcuna tradizione familiare a reggere la città, né aveva alcuna esperienza dell'armi. Ma egli seppe comprendere con accorgimento mirabile quale governo convenisse a Firenze in quell'ora della sua storia, per quali vie quel governo si potesse creare e come conservare. E del potere, anche se acquistato e mantenuto con mezzi non leciti, usò non solo a vantaggio suo e della famiglia e degli amici, ma a pubblico bene. Il Commynes lo giudicò "homme digne d'estre nommé entre les très grands" (III, p. 41), e Firenze volle scritto per pubblico decreto sulla sua tomba Pater patriae.

Bibl.: Oltre alle storie di Firenze del contemporaneo Cavalcanti (Firenze 1838), del Machiavelli, del Guicciardini (Opere inedite, III, Firenze 1859), v.: Buser, Die Beziehungen d. Mediceer zu Frankreich, Lipsia 1879, molto ricca di documenti anche sulla vita interna della repubblica; F.-T. Perrens, Hist. de Florence depuis la domination des Médicis, Parigi 1888, alquanto retorica; F. C. Pellegrini, Sulla repubblica fior. al tempo di Cosimo il Vecchio, Pisa 1889, diligente, ma incompleta. Su C. in particolare, vedi Vespasiano da Bisticci, C. d. M., in Vite di uomini illustri, III, Bologna 1893; A. Fabroni, Magni Cosmi Medicei vita, Pisa 1789, fondamentale; K. D. Ewart, C. d. M., Londra 1898; articoli di J. Armingaud, in Séances et travaux de l'Acad. des sciences mor. et polit., VI (1876); di A. Gelli, in Arch. stor. ital., IV (1882), p. 10, di K. D. Vernon, in Engl. histor. Rev., XV (1900). Un lavoro moderno esauriente manca.

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