DANDOLO, Matteo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 32 (1986)

DANDOLO, Matteo

Giuseppe Gullino

Nacque a Venezia nel 1498, unico figlio maschio del dottore e cavaliere Marco di Andrea e di Nicolosa Loredan di Pietro di Lorenzo.

Il padre, che risiedeva a S. Moisè, era uno dei maggiori esponenti delle "case vecchie" e percorse una intensa prestigiosa carriera politica; oltre al D. ebbe quattro figlie (Elisabetta, che sposò Francesco Diedo, Maria, sposata ad Andrea Bragadin, Zilia, maritata al futuro doge Lorenzo Priuli, Chiara, che si fece suora).

Non sappiamo quale tipo di studi il D. abbia percorso, ma poiché riuscì oratore eloquente e raffinato scrittore è probabile che il padre - uomo di vasta e scelta dottrina - ne abbia seguito con cura l'istruzione e lo abbia introdotto nei circoli più qualificati della cultura veneziana. Significativo, a questo proposito, è anche il matrimonio che procurò al D. appena ventitreenne: la moglie, infatti, venne scelta nella persona di Paola Contarini di Alvise; era dunque sorella di quel Gasparo che fu uno dei più notevoli rappresentanti della riforma cattolica, convinto proprio dal D. - con cui il Contarini fu in rapporti di stretta amicizia - ad accettare il titolo di cardinale, nel maggio del '35. Nel '21,intanto, i 6.000 ducati portati in dote da Paola furono utilizzati dai Dandolo parte per accasare le figlie, parte nella mercatura, settore nel quale il D. costituì una compagnia assieme ai Contarini, approfittando probabilmente delle indicazioni e dei contatti che il padre, capitano a Candia dal 1517 al '19, doveva essere in grado di fornire.

In effetti, i Dandolo erano ricchi, come testimoniano le redecime del 1518 e del 1566 (quest'ultima attribuisce al D. la proprietà di 53immobili a Venezia - oltre al palazzo dominicale -, una casa a Padova in contrada Santa Sofia, circa 420 campi presso i colli Euganei), ma l'esercizio della vita pubblica, ed in particolare le incessanti legazioni alle corti di principi e sovrani, costituirono per essi un gravosissimo impegno, al punto che nel testamento (1º luglio 1570) il D. confessa che "se io non havessi voluto continuare in quel honore et riverenza che io portai in vita alla bona memoria di mio padre, harrei refusati i beni paterni, perché si come lui delle sue dotti comprò le possessioni da suo padre, cossi posso dire di haverle io della mia comprate da lui, perché lui se la hebbe quasi tuta per pagare li suoi debiti, massimamente per il maritare di mie sorelle".

Sempre nel '21 il D. fece il suo ingresso nella politica, acquistando per 400 ducati il titolo di senatore, ma la prima occasione per porsi in luce fu il convegno di Bologna, nell'inverno 1529-30. Qui, dove già si trovava Gasparo Contarini, egli giunse una prima volta, in veste privata, alla fine di ottobre del '29; tornato a Venezia, in vista della probabile conclusione di un accordo generale, il padre Marco si fece promotore in Senato dell'invio di un'ambasceria straordinaria di quattro nobili al pontefice e all'imperatore; senonché, essendo poi egli stesso risultato tra gli eletti, cercò di rifiutare, adducendo difficoltà economiche; duramente ripreso dal doge, dovette accettare. L'indomani, il 3 genn. 1530, il D. "qual vien in Pregadi per danari - così il Sanuto - parlò ben in excusation de suo padre, sichè fo laudà da molti"; l'"eloquentissimo uffizio" del D. è ricordato anche dal Priuli, che anzi precisa essergli valso l'elezione a savio di Terraferma per il primo semestre del '31. A Bologna, dunque, il D. si recò nuovamente col padre, tra la metà di gennaio e la fine del mese successivo: le frequenti lettere al cognato Lorenzo Priuli, nelle quali descrive tra l'altro l'incoronazione a re dei Romani e ad imperatore di Carlo V, sono puntualmente riportate dal Sanuto nei suoi Diarii, non soltanto - è da ritenere - per l'esattezza della narrazione, ma anche per la straordinaria vivacità dello stile, sempre preciso disinvolto felice, sia nel ritratto politico sia nel cogliere la dinamica degli avvenimenti.

In questa occasione, a contatto con le massime autorità del tempo (il padre ebbe modo di presentarlo al papa e all'imperatore), il D. ricevette un'impareggiabile lezione di arte diplomatica e riuscì a contrarre importanti amicizie, anche tra i molti concittadini che furono a Bologna per assistere alla cerimonia dell'incoronazione ("Noi siamo qui tanti e di tante sorte che potresemo far feste, Conseglio et Pregadi").

Al ritorno in patria il tirocinio politico proseguì con piccoli incarichi di rappresentanza, in occasione dell'arrivo a Venezia di principi o di loro inviati; inoltre - come si è detto - fu savio di Terraferma per il primo semestre del 1531 e questa carica ricoprì ancora per lo stesso periodo dell'anno seguente, poi dall'ottobre '34 al marzo '35 ed ancora nella prima metà del '37; il 22 aprile di quest'anno entrò a far parte della zonta del Senato, dove fu poi sempre rieletto.

Mentre nel corso delle sue ambascerie il D. si sarebbe sempre mostrato deciso fautore della neutralità della Repubblica, ben diverso fu invece il suo atteggiamento nei confronti del mondo turco, che con Solimano stava conoscendo l'apogeo della sua potenza: nel '38 e nel '39, infatti, si batté in Senato contro l'ipotesi di una pace di compromesso con gli aggressori ottomani, contro i quali caldeggiò invece una lega con il pontefice e l'imperatore, quale la tregua di Nizza faceva allora ritenere possibile. La morte del padre (15 maggio 1535) riversò su di lui il peso delle maggiori responsabilità politiche e il 24 luglio 1540 risultò eletto ambasciatore al re di Francia, presso il quale si trattenne quasi due anni, fino alla ripresa delle ostilità tra Francesco I e Carlo V.

La relazione conclusiva, vivace e precisa, politicamente prudente, ci offre il quadro di un paese militarmente forte, ma in precarie condizioni finanziarie; il D. la lesse in Senato nel settembre del 1542, senza mancare di porre in rilievo l'asprezza del viaggio e le fatiche sostenute nel corso di tanti mesi: "a 2 di dicembre [1540] passai crudelmente il Moncenis, e ne sono tornato a mezza estate, che all'ultimo di luglio passai la Gabelletta, così aspra montagna che mi sforzò con estremo caldo camminare a piedi la maggior parte nel discendere, ed arrivai qui a' 20 di agosto passato; dal qual tempo non so se io potessi cavare tre mesi che io non sia stato fermo, per il continuo vagare che fa quella maestà con tanto incomodo di chi la convien seguitare". Secondo la prassi, il documento è diviso in tre parti: la prima è dedicata ad una descrizione della Francia, "non secondo Giulio Cesare, ma secondo che sua maestà la possiede", cioè all'esame della struttura amministrativa e militare delle diverse province (e qui, precisa l'Alberi, p. 36, nell'assegnare al paese l'enorme cifra di 1.000.700 parrocchie, il D. ripropone probabilmente lo stesso errore in cui era incorso il Machiavelli nei suoi Ritratti delle cose di Francia); la seconda alla gestione finanziaria del regno, cioè alle entrate ed alle spese, entrambe elevatissime, al punto che i contadini, nell'impossibilità di pagare la taglia, fuggono dai villaggi "come disperati, non gli rimanendo più alcuna cosa"; la terza all'indole ed ai costumi del re e della corte, dove la scontata ammirazione per un sovrano che si dimostra in ogni occasione perfetto cavaliere e gran cacciatore è temperata da un'attenta valutazione delle notevoli difficoltà in cui si dibatte la politica francese. Nella conclusione, un preciso suggerimento politico: Francesco I si trova "di migliore animo verso la Serenità Vostra che giammai sia stato".

Tornato in patria col titolo di cavaliere, prontamente confermatogli dalla Repubblica, il 5 genn. 1543 il D. era eletto savio alla Riforma del sussidio per la Terraferma; savio di Terraferma per il primo semestre del '44, il 10 ottobre entrava a far parte del Collegio delle Fortezze e il 10 maggio '45 del Consiglio dei dieci; un mese più tardi (11 giugno) risultò eletto ambasciatore all'imperatore, ma preferì optare (20 settembre) per il capitanato di Padova, che sostenne dal febbraio 1546 sino a tutto il maggio dell'anno seguente.

Nella città euganea egli poté seguire da vicino la conduzione delle sue terre (erano gli anni in cui stava iniziando, nel Veneto, la grande operazione delle bonifiche), mentre per quanto concerne l'attività politica, emerge dalla sua relazione uno specifico interesse per le questioni dello Studio (perennemente travagliato dalle turbolenze degli studenti), del fisco (a proposito del quale denuncia, sia pure cautamente, le prevaricazioni della veneziana magistratura "sopra Camere"), delle strutture militari ("Sapia la Serenità Vostra et le Eccellenze Vostre che se elle se credessino di haver Padova forte, le se ingannerebbono di grosso").

Al termine del suo mandato, il D. si trattenne a Venezia solo qualche giorno, giacché sin dal 13 apr. 1547 era stato nominato, assieme a Vettore Grimani, ambasciatore straordinario al nuovo re di Francia, Enrico II.

La traversata delle Alpi, in piena calura estiva, fu disastrosa: al D. il cavallo "caschò di sotto a perpendicolo giù della montagna", quanto al Grimani, "era in una così disperata indisposizione, che... pareva un San Job, siccome si dipinge"; giunto in Savoia, dovette tornarsene indietro. Così il D. proseguì da solo la missione, fermandosi circa due mesi a Compiègne ed a Fontainebleau, come afferma nella relazione letta in Senato il 17 dicembre: documento che conserva l'abituale freschezza espositiva del D., ma che ci appare mal strutturato e qua e là ripetitivo (e dovette accorgersene lo stesso D., che nella conclusione accusa "il solito risentimento, che mi suol venire quasi ogni mese, siccome lo ebbi ieri, che mi ha fatto esser fiacco in questa mia relazione"). Essa si sofferma soprattutto a sottolineare la buona disposizione del re verso la Repubblica, i timori ch'egli nutre nei confronti degli Inglesi, i sentimenti di speranza, ed insieme di paura, che lo animano verso l'imperatore. Quanto all'indole del ventinovenne sovrano, esso gli appare "principe serenissimo, umanissimo e sapientissimo", come il padre appassionato della caccia e dei tornei: "e io l'ho veduto giostrar più fiate, l'una e l'altra volta che fui oratore in corte, non senza pericolo".

Qualche giorno dopo il suo rimpatrio, venne eletto savio di Terraferma per il primo semestre del '48, ma la permanenza nella sua città e fra i suoi affetti fu di breve durata: il 12 ott. 1548 accettava infatti la nomina ad ambasciatore presso la S. Sede, dove rimase dal febbraio 1549 al maggio '51.

Assistette dunque alla morte di Paolo III, che rimpianse come sincero amico della Repubblica, ed al conclave che portò all'elevazione al soglio del cardinale Ciocchi del Monte, con cui cercò di appianare i contrasti che dividevano Venezia da Roma in merito all'assistenza dei laici nei processi inquisitoriali ed alla presenza di focolai ereticali a Bergamo e Brescia. Ma l'aspetto più interessante della legazione del D. ci appare oggi consistere nei dispacci ch'egli inviò al Senato, e soprattutto nella relazione conclusiva (20 giugno 1551), autentico capolavoro di vivacità stilistica e di acume psicologico nell'ambito della pur qualificata produzione della diplomazia veneta. Esemplare il ritratto ch'egli fornisce del defunto pontefice: "Il negoziare con papa Paolo fu giudicato da ognuno difficile; perché era tardissimo nel parlare, e perché non voleva mai proferire parola che non fosse elegante ed esquisita…, e perché era vecchissimo, parlava bassissimo ed era assai lungo; né voleva negare cosa che gli si addimandasse, ma né anco che in alcuna, l'uomo che negoziava seco potesse esser sicuro di avere avuto da Sua Santità il sì più che il no"; maggiormente sfumato - come del resto è ovvio - il giudizio su Giulio III, che gli offre però il destro di ribadire al Senato la propria convinzione circa la necessità di conservare intatti il prestigio e la potenza economica veneziana mediante una politica di vigile, ma prudente neutralità: ne è prova, infatti, il desiderio manifestatogli dal papa, di "natura collerica molto, ma anco molto benigna", che la sua famiglia fosse ascritta al patriziato della Repubblica, perché "questa è la più vera nobiltà e sicurtà che si possa avere in questo mondo".

Il modello che il D. coltiva è quello di uno Stato pacifico, ma non imbelle, che fonda la sua superiorità nella certezza dei propri diritti, nella mancanza di traumatici conflitti tra le classi sociali, nella garanzia - quantomeno nella prassi - di talune fondamentali libertà. A questo proposito, particolare importanza rivestiva la politica culturale attuata dalla Repubblica, e con gesto inusitato ed audace, reso possibile solo dalla consapevolezza di godere di un indiscusso prestigio, a conclusione della relazione romana il D. rivendicò per sé la nomina a riformatore dello Studio di Padova.

Dei quarantasei cardinali componenti il Collegio, ben dodici aveva già avuto modo di conoscere nella città euganea, "i quali tutti, per causa di esso Studio, restano affezionati a questo inclito Stato; e la maggior parte per esso riconoscono la loro dignità dalle E.E.V.V.; le quali perciò ne devono far gran conto, e non guardare a spesa per conservarlo in aumento; perché questo sarà il soldo che migliorerà il Ducato. E perché pure, in tale proposito mi vien detto, che, dovendo ora il clarissimo M. Lorenzo dei Priuli, mio cognato, andare al reggimento di Verona, le E.E.V.V. mi diano il carico di quello di Padova in suo luogo; le avverto e supplico a non fare allo Studio questo disfavore". Subentrò quindi al cognato il 3 sett. 1551, e fu ancora eletto riformatore dello Studio di Padova il 13 luglio '53.

Negli anni che seguirono, il D. ricoprì le più importanti cariche dello Stato e gli vennero affidate le missioni di maggior prestigio: il 19 apr. 1555 fu nominato ambasciatore straordinario al nuovo papa Marcello II; in ottobre entrò consigliere ducale, nel giugno dell'anno successivo fu dei quarantuno elettori del doge Lorenzo Priuli, suo cognato; nel secondo semestre 1557 ricoprì la carica di savio del Consiglio, cui venne costantemente riconfermato, per tutto il resto della sua vita; fu nuovamente riformatore dello Studio di Padova (17 sett. '57), e dall'ottobre '59 fece quasi sempre parte della zonta del Consiglio dei dieci. Nominato, col futuro doge Nicolò da Ponte, rappresentante della Repubblica nella fase conclusiva del concilio di Trento (29 sett. 1561), giunse colà il 24 apr. '62 e si fermò sino al termine dei lavori, badando soprattutto a tutelare i diritti dei sudditi di rito greco.

La nomina a procuratore di S. Marco de ultra (3 dic. 1563) prevenne il suo arrivo a Venezia; alla morte del doge Girolamo Priuli (4 nov. 1567) non riuscì eletto per l'opposizione degli esponenti delle "case nuove" e per la concorrenza di Alvise Mocenigo: la scelta cadde così sull'ottantacinquenne Pietro Loredan. Ultimo esponente di questo ramo della famiglia, morì a Venezia il 29 luglio 1570 e fu sepolto presso il padre, a S. Moisè. Nei suoi Annali, Alvise Michiel lo ricorda come uno dei principali "oracoli della città"; fu certamente tra i più lucidi tenaci interpreti della creazione del "mito" dello Stato marciano.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. Codd. I, St. veneta, 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii..., pp. 172, 176, 197; Ibid., Avogaria di Comun. Balla d'oro, reg. 165, c. 121r; Ibid., Dieci savi alle decime, b. 128/850-851; Ibid., Sezione notarile. Testamenti, b. 1260/696; Venezia, Bibl. del CivicoMuseo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti…,cc. 232v-234r. Per la carriera politica: Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII,821 (= 8900): Consegi, cc. 78r, 238r, 270r; 822 (= 8901), cc. 35v, 99v, 122v, 172r, 237r, 283r, 305r; 823 (= 8902), cc. 108r, 175r; 824 (= 8903), cc. 6r, 49v, 168v, 187r, 264r, 300v, 330r; 825 (= 8904), cc. 21r, 45r, 104v, 121v, 124r, 178v, 195r, 221v, 248v, 277r, 279v, 296r, 374v; 826 (= 8905), cc. 2v, 41v, 60v, 101r, 191v, 240v, 243v, 309v; 827 (= 8906), cc. 3v, 35v, 38r, 110r, 166r, 177v, 267v. Vedi inoltre, Arch. di Stato di Venezia, Senato. Mar, reg. 23, cc. 32v, 173r; reg. 33, cc. 53r, 81v, 159r; Ibid., Lettere di ambasciatori ai capi del Consiglio dei dieci, b. 10, nn. 200-210 (Francia, 1541) e n. 267 (Francia, 1547); b. 23, nn. 134-162 (Roma, 1549-1550); b. 24, n. 158 (Roma, 1563); b. 30, nn. 197-255 (Trento, 1562-1563); Ibid., Lettere di rettori ai capi del Consiglio dei dieci, b. 82, nn. 89-90, 93 (Padova, 1545-46). Numerose anche le fonti edite concernenti la sua attività politica: M. Sanuto, Diarii, LI-LVIII, Venezia 1898-1903, ad Indices; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, IV, Podestaria e capitanato di Padova, Milano 1975, pp. VII, LIV, 9-18; per le relazioni di Francia (1542 e 1547) e di Roma (1552), vedi rispettivamente: Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, Firenze 1839-63, s. 1, II, pp. 161-191; IV, pp. 27-56; s. 2, 111, pp. 335-363. Si veda inoltre: Nuntiaturberichte aus Deutschland..., XVI, Nuntiatur des Girolamo Martinengo (1550-1554)…, Tübingen 1965, p. 113; G. N. Doglioni, Historia venetiana...,Venetia 1598, p. 765; P. Sarpi, Istoria del Concilio Tridentino, a cura di G. Gambarin, Bari 1935, II, pp. 372, 377, 402, 419, 471, 488, 505; III, pp. 257-258, 282, 285-286, 356; A. Valier, Bernardi Naugerii... cardinalis... vita..., Patavii 1719, p. 79; A. Valier, Patriciorum aliquot Venetorum orationes..., Patavii 1719, pp. 280-281; G. De Leva, La politica papale nella controversia su l'Interim di Augusta, in Riv. storica ital., VI (1889), pp. 49-52; L. von Pastor, Storia dei papi..., V, Roma 1914, pp. 22 s., 25, 99, 229, 285, 288, 635, 639, 801; VI, ibid. 1922, pp. 8, 11-13, 19, 22-24, 26, 37 s., 42, 48, 51, 55 s., 58, 112; VII, ibid. 1923, p. 197; F. C. Church, Iriformatori ital., I,Firenze 1935, p. 281; P. Paschini, Tre illustri prelati del Rinascimento. E. Barbaro, A. Castellesi, G. Grimani, Romae 1957, pp. 149, 185; H. Jedin, G. Contarini e il contributo veneziano alla riforma cattolica, in La civiltà venez. del Rinascimento, Firenze 1958, p. 120; A. Stella, La regolazione delle pubbliche entrate e la crisi politica veneziana del 1582, in Misc. in on. di R. Cessi, II, Roma 1958, p. 161; G. Cozzi, Il doge N. Contarini. Ricerche sul patriziato venez. agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, p. 28; P. Paschini, Venezia e l'Inquisizione romana da Giulio III a Pio IV, Padova 1959, pp. 37-38, 41-44, 53-67, 109; D. E. Queller, The Development of Ambassadorial Relazioni, in Renaissance Venice, a cura di J. R. Hale, London 1973, p. 191; A. Santosuosso, The moderate Inquisitor. Giovanni Della Casa's Venetian Nunciature. 1544-1549, in Studi venez., n. s., II (1978), pp. 202, 104; A. Loredan, I Dandolo, Varese 1983, p. 328; G. Moroni, Diz. di erudiz. storico-eccles., XCII, pp. 303, 357, 369, 372.

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