MATERIALI COMPOSITI

XXI Secolo (2010)

Materiali compositi

Roberto Frassine

La classificazione dei materiali è tradizionalmente basata sulla loro composizione chimica e comprende tre classi: metalli, plastiche e ceramiche. I metalli sono rigidi, resistenti e tenaci, e per questo sono largamente utilizzati nelle applicazioni strutturali; le plastiche sono leggere, resistenti ed economiche; le ceramiche sono dure e adatte per impieghi alle alte temperature. Negli anni più recenti gli scienziati hanno creato nuovi materiali che non rientrano in queste categorie e che possiedono proprietà interamente nuove, come, per es., i superconduttori a bassa temperatura critica o i semiconduttori utilizzati dall’industria elettronica.

I materiali compositi sono ottenuti combinando tra loro materiali delle diverse classi per ottenere proprietà nuove o migliorate rispetto a quelle dei materiali di partenza. Questa definizione, se intesa in senso stretto, porterebbe a classificare come compositi quasi tutti i materiali disponibili commercialmente, in quanto costituiti da sostanze non pure o contenenti cariche e agenti modificanti (leghe metalliche, polimeri additivati con cariche inorganiche o plastificanti, ceramici tenacizzati ecc.). In ambito tecnico è perciò consuetudine circoscrivere la classe dei materiali compositi ai soli materiali rinforzati, nei quali almeno un componente, di solito sotto forma di fibre, ha caratteristiche meccaniche molto superiori agli altri. L’idea non è particolarmente nuova: fin dall’antichità i materiali da costruzione sono stati perfezionati aggiungendo fasi fibrose, come, per es., la paglia utilizzata all’interno dell’argilla per fabbricare mattoni nell’antico Egitto; il calcestruzzo è un materiale costituito da cemento e ghiaia che, in una delle applicazioni più comuni, viene combinato con barre in acciaio per poter compensare la sua resistenza a trazione molto bassa. Ciò che caratterizza i materiali compositi moderni, tuttavia, è la capacità di ottenere prodotti con struttura e proprietà controllate alla scala microscopica. Nel 1920 l’inglese Alan A. Griffith (1893-1963) scoprì che fibre di vetro molto sottili risultavano più resistenti del vetro in lastra, a patto che fossero esenti da difetti provocati dallo sfregamento sulla loro superficie. L’utilizzo di rivestimenti protettivi e di resine per impregnazione ha reso possibile negli anni Quaranta del 20° sec. lo sviluppo di un materiale composito comunemente detto vetroresina, oggi utilizzato in una grande varietà di applicazioni, dai componenti per autovetture alle imbarcazioni da diporto e dalle travi per strutture reticolari ai serbatoi per sostanze chimiche o alimentari. Questo materiale possiede alcune caratteristiche tipiche delle plastiche (per es., leggerezza, resistenza alla corrosione e isolamento elettrico) combinate con quelle del vetro (rigidezza e resistenza). Lo sviluppo di nuove fibre di rinforzo, come quelle di carbonio o arammidiche, e di matrici con migliorate caratteristiche meccaniche e ambientali ha successivamente ampliato il campo di applicazione di questi materiali, che, affermatisi definitivamente a partire dagli anni Settanta, sono oggi impiegati in quasi tutti i settori industriali: l’aerospazio, la produzione di energia, le costruzioni, i trasporti, lo sport e così via. Si prevede che le applicazioni dei materiali compositi continueranno ad avere un tasso di sviluppo molto elevato anche nei prossimi decenni, grazie alla versatilità e alle eccellenti caratteristiche per impieghi strutturali.

I materiali compositi di gran lunga più diffusi sono, per ragioni essenzialmente legate all’economicità dei processi di produzione, alla leggerezza e alla resistenza all’ambiente, quelli a matrice polimerica (PMC, Polymer Matrix Composites). Molti altri materiali possono però in linea di principio essere utilizzati come matrice per un composito. Il calcestruzzo rinforzato con fibre di vetro, il titanio rinforzato con carburo di silicio e l’alluminio rinforzato con fibre di boro sono soltanto alcune delle possibili combinazioni utilizzate nell’industria moderna per migliorare le caratteristiche dei materiali strutturali.

La principale proprietà che i singoli componenti devono possedere per poter dare luogo a un composito è quella di mantenere la loro identità originaria, senza miscelarsi o dissolversi l’uno nell’altro. Un composito è quindi un materiale eterogeneo costituito da fasi distinte che possono sempre essere separate le une dalle altre. Nella sua versione più semplice, esso è costituito da una fase discontinua (rinforzo) dispersa all’interno di una fase continua (matrice). Il compito della matrice è di proteggere e supportare il rinforzo, mantenendolo nella sua posizione originaria, e di trasferire uniformemente su di esso le sollecitazioni provenienti dall’esterno. Il rinforzo è così in grado di esprimere le sue proprietà fisiche e meccaniche, migliorando le caratteristiche della matrice. Affinché questo effetto sinergico tra matrice e rinforzo possa svilupparsi adeguatamente, è necessario che si realizzi tra loro un buon contatto attraverso un processo di impregnazione del rinforzo da parte della matrice e che tale contatto venga mantenuto anche in presenza di elevate sollecitazioni meccaniche esterne; quest’ultimo requisito è esprimibile in termini di buona adesione tra le fasi.

L’adesione è di solito promossa mediante l’impiego di un terzo componente (appretto) applicato in strato molto sottile sulla superficie delle fibre, che la rende compatibile con la matrice. Nei materiali compositi è perciò sempre presente una terza fase (interfase) di spessore molto sottile (spesso monoatomico) localizzata all’interfaccia tra la matrice e le fibre che, pur non contribuendo direttamente a determinare proprietà fisiche e meccaniche complessive del composito, svolge un ruolo fondamentale per il loro mantenimento soprattutto a lungo termine (fig. 1). Nella maggior parte dei casi, tuttavia, un materiale composito non è quasi mai costituito da una sola fase dispersa: all’interno della matrice possono essere presenti, oltre alle fibre, anche cariche minerali (per es., talco, silice o carbonato di calcio), particelle di gomma o nanotubi di carbonio, che vengono impiegati per modificare alcune proprietà della matrice non direttamente controllate dalla fase di rinforzo principale, quali, per es., la tenacità a frattura interlaminare, il ritiro da stampaggio o la conduttività elettrica. La creazione della microstruttura di un materiale composito avviene sempre durante la fase di produzione del manufatto e può essere raggiunta in un solo stadio (per es., nello stampaggio a iniezione di un componente rinforzato con fibre discontinue) o in più stadi (per es., nello stampaggio in autoclave di un laminato a fibre continue). In ogni caso, oltre a impartire la forma corretta all’oggetto, la tecnologia di produzione deve poter garantire la continuità del materiale all’interfaccia tra fase/i di rinforzo e matrice e una dispersione omogenea del rinforzo in tutte le zone del manufatto. Sotto queste condizioni, le proprietà meccaniche del composito dipenderanno principalmente da proprietà, concentrazione e orientazione della fase di rinforzo.

Proprietà dei compositi

I materiali compositi a matrice polimerica sono leggeri, rigidi e resistenti e perciò il loro impiego diventa particolarmente vantaggioso qualora sia richiesto un elevato rapporto tra le proprietà meccaniche e la massa del materiale. Nel settore dei mezzi di trasporto (aerei, treni, imbarcazioni, autoveicoli, motoveicoli ecc.) tali materiali sono molto impiegati in quanto permettono di ridurre la massa dei veicoli a parità di prestazioni rispetto ai metalli e alle leghe leggere; essi trovano applicazione anche in molti altri settori, come, per es., nell’adeguamento sismico delle costruzioni, nella realizzazione di ponti e travature reticolari, negli impianti chimici e agroalimentari e nelle turbine eoliche per la produzione di energia. Sono materiali facili ed economici da produrre in forme complesse, e questo permette una flessibilità nella progettazione dei manufatti non eguagliabile con altri materiali. Inoltre, il controllo della microstruttura della fase di rinforzo durante la fase di produzione permette al materiale stesso di essere progettato in modo da ottimizzare le sue prestazioni in funzione della specifica applicazione. Le fibre di rinforzo saranno disposte prevalentemente in direzione della lunghezza nel caso di una barra con funzione di tirante o di trave soggetta a flessione, mentre si troveranno a ± 45° se lo stesso manufatto dovrà essere impiegato come albero di trasmissione. È possibile quindi disporre la fase di rinforzo soltanto nelle direzioni necessarie in funzione delle sollecitazioni esterne applicate. Inoltre, i materiali compositi sono sicuri e durevoli anche in assenza di manutenzione. La loro resistenza all’impatto e la loro elasticità (capacità di ritornare alla forma originaria dopo sollecitazione) li rendono particolarmente adatti per strutture potenzialmente soggette a urti e sollecitazioni impulsive. L’impiego di matrici polimeriche li rende inoltre immuni a fenomeni di corrosione e quindi non necessitano di trattamenti protettivi nemmeno in ambienti particolarmente aggressivi dal punto vista chimico.

Un’ultima caratteristica dei compositi di particolare interesse per le applicazioni è la possibilità di di­sporre di proprietà multifunzionali, cioè non direttamente legate a quelle di impiego strutturale. Attraverso una scelta opportuna dei tipi di rinforzo è possibile, per es., controllare con molta accuratezza proprietà quali il coefficiente di dilatazione termica o la conduttività termica ed elettrica. Inoltre, la caratteristica di questi materiali di essere anisotropi, cioè di possedere proprietà differenti nelle diverse direzioni, offre una libertà progettuale impensabile con i materiali tradizionali. È infatti possibile progettare componenti che si deformano a torsione quando soggetti a flessione, modificando così la portanza fluidodinamica senza necessità di azionamenti meccanici, oppure effettuare interventi di adeguamento sismico delle costruzioni più rapidi e sicuri. Con riferimento a quest’ultimo esempio, è particolarmente interessante il caso del confinamento dei pilastri con strati di materiale composito a fibre continue e monodirezionali avvolti in direzione trasversale rispetto all’altezza del pilastro stesso. Tale intervento aumenta considerevolmente la resistenza a compressione e a taglio del pilastro, in quanto posticipa lo schiacciamento del calcestruzzo, ma lascia inalterate le sue caratteristiche di rigidezza nei confronti degli spostamenti orizzontali, poiché le fibre di rinforzo sono tutte orientate in direzione trasversale. Pertanto, dal punto di vista dinamico, il pilastro rinforzato ha un comportamento simile a quello non rinforzato, consentendo la ripartizione dei carichi che derivano dall’azione sismica in modo omogeneo tra tutti gli elementi portanti della struttura.

Elementi di un composito

Circa il 65% delle applicazioni dei materiali compositi a matrice polimerica utilizza la fibra di vetro come fase di rinforzo e resine poliestere, vinilestere o epossidiche come matrice. Questa categoria di compositi è comunemente detta vetroresina.

Le fibre di vetro si caratterizzano essenzialmente per il basso costo, l’elevata resistenza – oltre 4 volte superiore rispetto a quella dell’acciaio – e l’ottima resistenza a fatica. Tuttavia, il modulo di elasticità (di poco superiore a 70 GPa) e la resistenza all’abrasione sono relativamente modesti. L’elevata polarità della superficie le rende soggette a perdita di adesione con la matrice, specialmente in ambiente umido: questo problema può essere controllato con l’uso di opportuni appretti silanici applicati direttamente durante la fase di filatura delle fibre. La massa volumica (densità) del vetro è la più elevata nella classe delle fibre di rinforzo (circa 2,6 kg/dm3). Il vetro è composto principalmente da silice (SiO2) con struttura tetraedrica. Allumina e altri ossidi metallici possono essere aggiunti in varie proporzioni per facilitare le operazioni di lavorazione o per modificare alcune proprietà. La miscela viene portata a fusione a circa 1260 °C e filata su boccole di platino per ottenere filamenti di circa 10 μm di diametro. I filamenti vengono quindi raggruppati, con o senza una leggera torsione, a formare fili tipicamente costituiti da alcune centinaia di filamenti, che vengono infine avvolti su bobine a velocità molto elevate (dell’ordine dei km/min). La nomenclatura delle fibre di rinforzo per materiali compositi è mutuata direttamente da quella tradizionalmente utilizzata per le fibre tessili. I fili sono caratterizzati essenzialmente dalla loro composizione chimica, dal diametro dei filamenti e dal loro numero, espresso più convenientemente in massa a unità di lunghezza. L’unità di misura di massa lineare secondo la norma ISO 2974 è il tex, equivalente a 1 g per km di fibra (106 kg/m). Altre indicazioni accessorie sono il senso e il valore dell’eventuale torsione e il numero di fili costituenti i ritorti.

I fili vengono infine raccolti, perlopiù senza ritorcitura, in fasci da 20 a 200 che prendono il nome di roving. I valori di tex tipici del roving sono compresi tra 300 e 2000. Il roving può essere utilizzato direttamente nei processi tecnologici di lavorazione per la fabbricazione dei compositi strutturali o può essere tagliato per dare origine a fibre corte, alcune delle quali (chopped-strand fibers) con lunghezze dell’ordine dei mm, da impiegare prevalentemente nella realizzazione di compositi da stampaggio. Le fibre di vetro sono anche disponibili in forma di foglio sottile (mat) ed è essenzialmente un tessuto non tessuto che può essere costituito da fibre sia continue sia discontinue, queste ultime di lunghezza tipica compresa tra 25 e 50 millimetri. In entrambi i casi, le fibre sono disposte casualmente sul piano e assemblate mediante un legante chimico.

Le fibre di vetro sono disponibili commercialmente anche in una grande varietà di tessuti intrecciati, il più comune dei quali è una tela (woven roving) ottenuta a partire dal roving. Poiché il roving è essenzialmente privo di ritorcitura, il filo tende ad aprirsi sotto il carico radiale dovuto all’incrocio della trama con l’ordito e dà luogo a un tessuto grossolano, adatto a realizzare rapidamente manufatti di grandi dimensioni ed elevato spessore, quali, per es., gli scafi per imbarcazioni. Per applicazioni più specifiche, in cui sia richiesta l’ottimizzazione del peso della struttura, si utilizzano tessuti ottenuti direttamente dalla tessitura dei fili, che risultano così più leggeri e compatti. Un composito ottenuto con l’impiego di tessuti di rinforzo presenterà sempre una frazione in volume di fibre inferiore rispetto a un laminato composto da lamine di fibre monodirezionali, a causa dell’ondulazione imposta dalla tessitura. I tipi di tessuto possono essere diversi a seconda dell’impiego previsto, della formabilità in fase di laminazione e della stabilità richiesta durante lo stampaggio. Il tessuto a tela (plain) presenta la struttura più rigida e stabile, in quanto possiede una trama molto fitta. I principali svantaggi sono la difficoltà di impregnazione con la resina e il fatto che trama e ordito si presentano molto ondulati. Quest’ultima caratteristica implica una minore efficienza del rinforzo nella direzione della trama rispetto al caso delle fibre monodirezionali. Se la forma dello stampo richiede un tessuto più flessibile, è possibile utilizzare una tessitura con un intreccio meno fitto, come, per es., la levantina (satin) nella quale le fibre risultano meno ondulate anche se meno stabili in fase di manipolazione. Per sopperire a queste limitazioni si sta diffondendo nell’industria dei materiali compositi l’uso di tessuti multiassiali, costituiti da strati di fibre monodirezionali sovrapposti tra loro con angoli di orientazione diversi ma non intrecciati; l’insieme degli strati è infatti stabilizzato con una cucitura leggera realizzata con filo di cotone o di poliestere. Esistono infine anche tessuti tridimensionali, in cui la presenza di una seconda trama in direzione ortogonale al piano impartisce maggiore resistenza e proprietà specifiche (per es., la capacità di rigonfiarsi quando vengono impregnati con la resina).

Per la fabbricazione di compositi ad alte prestazioni si utilizzano altri tipi di fibre come le fibre di carbonio e quelle arammidiche. Le prime, costituite da piani di grafite orientati in direzione longitudinale, sono ottenute per pirolisi di precursori organici, dei quali i più comuni sono poliacrilonitrile (PAN), rayon e pece. Le fibre di carbonio possiedono un modulo di elasticità molto più elevato rispetto a quello delle fibre di vetro, una resistenza che può superare di oltre 10 volte quella dell’acciaio e una massa volumica compresa tra 1,7 e 1,9 kg/dm3. La terminologia commerciale distingue tra fibre di carbonio, con tenore di grafite compreso tra l’80 e il 95%, e fibre di grafite, con tenore di grafite superiore al 99%. Per ragioni legate al processo di produzione, non è possibile ottenere fibre di carbonio che presentino valori elevati sia del modulo di elasticità sia di resistenza: si distingue perciò ulteriormente tra fibre ad alto modulo elastico (fino a oltre 600 GPa) e fibre ad alta resistenza a rottura (fino a oltre 6 GPa). Il diametro dei filamenti è compreso tra 6 e 10 μm e i fili sono classificati in base al numero totale dei filamenti, solitamente compreso tra 1 e 18 k, espresso in migliaia. Le fibre arammidiche sono fibre sintetiche ottenute per filatura da soluzione di una poliammide parzialmente aromatica e sono state prodotte per la prima volta nel 1973 dall’azienda DuPont col nome commerciale di Kevlar®. Il modulo di elasticità e la resistenza sono intermedi rispetto a quelli delle fibre di vetro e di carbonio, mentre la massa volumica è più bassa (circa 1,5 kg/dm3). Le fibre arammidiche a basso modulo presentano un’ottima resistenza all’impatto e sono perciò utilizzate per armature e protezioni individuali in applicazioni balistiche. Il principale limite nell’uso di queste fibre è legato alla modesta resistenza a compressione, pari a circa 1/4 di quella a trazione, dovuta a fenomeni d’instabilità locale nella struttura della fibra con formazione di pieghe (kinks). Inoltre, possono anche degradarsi per esposizione prolungata alla luce solare, con perdita della resistenza a trazione fino a oltre il 30% in alcuni casi. I valori di tex tipici del roving sono compresi tra 20 e 800.

Altre fibre di rinforzo inorganiche utilizzate per la fabbricazione dei materiali compositi sono, per es., quelle di boro, di basalto e di carburo di silicio, mentre tra le fibre di natura sintetica sono particolarmente impiegate quelle a base di alcool polivinilico (PVA), polietilene (PE) ad alto modulo e polipropilene (PP). Negli ultimi anni si è inoltre assistito a un impiego progressivamente crescente di fibre di rinforzo naturali, come, per es., fibre di canapa e di lino.

La realizzazione di un materiale composito passa sempre attraverso un processo di impregnazione della fase dispersa di rinforzo con una matrice, che ne costituisce la fase continua. Tale matrice può essere di natura polimerica, metallica o ceramica. Le matrici polimeriche sono di gran lunga le più impiegate e danno luogo ai cosiddetti PMC. La maggior parte di questi compositi è ottenuta a partire da resine termoindurenti, ovverosia sostanze polimeriche a basso peso molecolare che sono liquide a temperatura am­biente con viscosità sufficientemente bassa da permettere un agevole processo di impregnazione delle fibre. Quando vengono miscelate con opportuni agenti reticolanti e in presenza di catalizzatori, queste resine danno luogo a una reazione chimica di reticolazione che ne eleva il peso molecolare fino a portarle allo stato solido vetroso (indurimento). Tale reazione è spesso attivata mediante un riscaldamento a una temperatura opportuna che è definita temperatura di cura. Le più comuni resine termoindurenti per compositi sono dei seguenti tipi: fenoliche, poliestere, epossidiche e poliimmidiche.

Le resine fenoliche sono state le prime resine termoindurenti a essere utilizzate in applicazioni aeronautiche. Le loro caratteristiche di resistenza alla combustione con trascurabile sviluppo di fumo e gas tossici le rendono ancora competitive con le altre resine termoindurenti. La temperatura massima di esercizio è prossima a 200 °C, ma la resistenza all’ossidazione è piuttosto modesta. Queste resine mostrano una buona resistenza all’attacco dei solventi e all’umidità ambientale. Le resine fenoliche per materiali compositi sono basate essenzialmente su sostanze chiamate resoli, che si ottengono per reazione in ambiente basico di fenolo con formaldeide in eccesso e contengono diversi gruppi metilolici non condensati. Le resine a base di resoli sono comunemente dette resine monostadio perché possono reticolare per condensazione dei gruppi metilolici semplicemente attraverso una modifica del pH della miscela. La reazione di reticolazione sviluppa acqua come sottoprodotto, che deve essere allontanato dalla miscela prima che avvenga il completo indurimento. La densità di reticolazione è piuttosto elevata e di conseguenza il materiale mostra un comportamento a rottura tendenzialmente fragile.

Le resine poliestere sono caratterizzate da notevole versatilità ed elevata reattività. Il materiale presenta un elevato ritiro di volume durante la reticolazione, coefficiente di espansione termica e capacità di assorbire umidità dall’ambiente piuttosto elevati, per cui si possono creare problemi legati allo sviluppo di sforzi interni e perdita di adesione con le fibre. La resistenza meccanica e le proprietà adesive sono modeste e la temperatura massima di esercizio può arrivare fino a 120 °C circa. La miscela dei reagenti è costituita da una resina poliestere insatura, sostanza solida a temperatura ambiente, disciolta in un monomero reattivo (di solito stirene) anch’esso insaturo. La presenza dei doppi legami permette di creare punti di reticolazione tra le molecole di poliestere attraverso una reazione esotermica di tipo radicalico, che ha luogo senza la formazione di prodotti secondari. Variando il tipo e la quantità di catalizzatore, la reazione può essere condotta sia a temperatura ambiente sia a elevata temperatura secondo le necessità tecnologiche e le proprietà finali desiderate. In sostituzione dello stirene, che presenta problemi di elevata volatilità e scarsa compatibilità ambientale, le formulazioni più recenti possono utilizzare anche ciclopentadiene come agente reticolante. La famiglia delle resine poliestere per materiali compositi è composta essenzialmente da isoftaliche, ortoftaliche e bisfenoliche. Per impieghi in ambienti fortemente aggressivi dal punto di vista chimico a elevata temperatura sono state sviluppate le resine vinilestere, che dal punto di vista applicativo hanno caratteristiche intermedie tra le resine poliestere tradizionali e le resine epossidiche.

Le resine epossidiche sono caratterizzate da un costo più elevato rispetto a quello delle resine poliestere, ma presentano migliori proprietà adesive e maggiore resistenza all’umidità e agli agenti chimici. Sono perciò particolarmente indicate per la realizzazione di compositi a elevate prestazioni. Il loro comportamento a frattura è tendenzialmente fragile, ma la loro tenacità può essere aumentata sensibilmente con l’aggiunta di particelle di gomma. La temperatura massima di esercizio può arrivare fino a 180 °C circa. Il reagente principale è costituito da liquidi organici a basso peso molecolare che contengono un certo numero di gruppi epossidici, strutture ad anello contenenti un atomo di ossigeno e due atomi di carbonio. Una delle sostanze più comunemente utilizzate è il diglicidiletere del bisfenolo A (DGEBA), prodotto per reazione di epicloridrina con acidi del bisfenolo A, mentre l’agente reticolante è di solito un’ammina secondaria o terziaria. La reazione, di tipo radicalico, è esotermica e ha luogo senza la formazione di prodotti secondari. Può essere condotta a temperatura ambiente ma anche a elevata temperatura a seconda delle necessità tecnologiche e delle proprietà finali desiderate. Per elevate temperature di esercizio è più comune l’impiego dell’N-N′-tetraglicidil-4-4′-diamminodifenilmetano (TGDDM), che utilizza il 4-4-3 diamminodifenilsulfone (DDS) come agente reticolante.

Le resine poliimmidiche sono caratterizzate da una temperatura di esercizio relativamente elevata rispetto alle resine poliestere ed epossidiche (da 250 a 300 °C), ma presentano il problema dell’eliminazione dell’acqua di condensazione e dei solventi impiegati nella miscela di reazione. L’assorbimento d’acqua è relativamente contenuto rispetto alle resine poliestere, ma il costo del materiale è decisamente più elevato. Poiché il reagente di partenza è un oligomero, il materiale presenta una densità di reticolazione molto elevata che lo rende intrinsecamente fragile. Questo è probabilmente il principale limite nell’uso di queste matrici in applicazioni strutturali.

I limiti intrinseci delle resine termoindurenti, in particolare la scarsa tenacità, le temperature massime di esercizio piuttosto modeste e la tendenza ad assorbire umidità dall’ambiente, hanno portato in anni recenti allo sviluppo di compositi a matrice termoplastica. Le resine termoplastiche sono mediamente più tenaci e possono essere impiegate a temperature più elevate rispetto alle resine termoindurenti. Inoltre, la possibilità di rendere fluido il materiale aumentando la temperatura consente di semplificare notevolmente le operazioni di manutenzione e di riparazione dei manufatti. Il principale limite all’uso di queste matrici è la loro elevata viscosità, che può rendere problematico il processo di impregnazione delle fibre. Nel settore dei materiali compositi a fibra continua per applicazioni strutturali l’impiego di matrici polimeriche termoplastiche è in costante aumento, soprattutto laddove siano richieste elevata resistenza all’impatto ed elevate temperature di esercizio.

I materiali compositi a matrice metallica (MMC, Metal Matrix Composites) si ottengono di solito combinando una matrice metallica piuttosto deformabile, come, per es., le leghe a base di alluminio, rame, magnesio e titanio, con una fase di rinforzo molto rigida (carburo di silicio, allumina, carburo di tungsteno ecc.). La maggior parte dei rinforzi utilizzati non è di tipo fibroso bensì particellare, e le principali applicazioni si trovano nell’industria aerospaziale (componenti strutturali di velivoli e parti di turbine), nell’industria degli autoveicoli (dischi freno e componenti dei motori), nell’industria elettronica e nello sport.

I materiali compositi a matrice ceramica (CMC, Ceramic Matrix Composites) sono invece impiegati quando il materiale deve essere esposto a temperature di esercizio molto elevate o in condizioni di attrito e usura molto severe.

Processi produttivi

La produzione di un manufatto in materiale composito implica l’unione di diversi materiali e avviene di solito all’interno di uno stampo; di questi materiali, almeno uno (la matrice) deve essere fatto fluire per poter riempire gli spazi vuoti presenti all’interno della fase dispersa di rinforzo e per dare così continuità al materiale. Al termine del processo il materiale fluido deve essere consolidato per consentire al manufatto di mantenere la forma dello stampo. Se la matrice è un polimero termoindurente, il consolidamento è dato dalla reazione chimica di reticolazione, mentre, nel caso di un polimero termoplastico, questo avviene per raffreddamento e conseguente solidificazione a partire dallo stato fuso. Limitando per semplicità l’esame alle sole matrici termoindurenti, una generica tecnologia di trasformazione di un materiale composito in manufatto deve poter attuare le seguenti operazioni fondamentali: impartire all’oggetto la forma desiderata, provvedere alla sintesi della matrice secondo le reazioni chimiche prima esaminate, controllare la struttura del materiale in modo che le fibre di rinforzo siano disposte secondo le direzioni desiderate e, infine, garantire la continuità del materiale e una dispersione omogenea delle fibre nella matrice.

La struttura del materiale è di solito predeterminata tramite la deposizione delle fibre all’interno dello stampo nei primi stadi del processo produttivo. Affinché le fibre non cambino la loro posizione, è necessario che il flusso di resina nella fase di impregnazione sia lento e progressivo e che le fibre siano sottoposte a un confinamento geometrico che, nel caso più semplice, può essere dato da uno stampo aperto posto inferiormente, ma che spesso è completato dall’uso di un controstampo o di un sacco da vuoto posti superiormente. L’impregnazione delle fibre da parte della resina è governata dai processi che avvengono all’interfaccia, che occupa normalmente una superficie molto grande all’interno del materiale. L’area d’interfaccia tra fibre e matrice per un pannello piano di materiale composito di 1 m2 di area per 2 cm di spessore risulta pari a circa 5000 m2 (praticamente la superficie di un campo di calcio per un pannello non sufficiente a costituire il piano di una scrivania). È indispensabile che la resina venga in contatto con ciascuna fibra per garantire sia lo sviluppo di questa interfaccia, necessaria per proteggere le fibre dal contatto reciproco, sia la ripartizione uniforme dei carichi esterni tra le diverse fibre, sia una certa coesione del materiale in direzione trasversale. Tale contatto è favorito dal punto di vista termodinamico (tende cioè ad avvenire spontaneamente in assenza di campi di flusso esterni) se la tensione superficiale delle fibre è molto superiore a quella del liquido: in pratica, liquidi a bassa tensione superficiale tendono a bagnare spontaneamente solidi a elevata tensione superficiale. Per es., il fatto che il rapporto tra la tensione superficiale del vetro e quella di un polimero liquido sia pari a circa 10 implica che la resina tenderà spontaneamente a impregnare le fibre anche in presenza di un reticolo molto fitto quale quello di una stuoia.

Le fibre di carbonio o arammidiche presentano invece un rapporto meno favorevole, per cui sarà necessario promuovere il flusso mediante la modifica della tensione superficiale con opportuni appretti o mediante l’aumento del gradiente di pressione al contorno. La termodinamica del processo, infatti, non ci dà indicazioni dirette sulla velocità alla quale il fenomeno evolve verso il suo stato di equilibrio, che è controllata dalla capacità di flusso della resina. Per impregnare rapidamente un fascio di fibre, la resina deve essere fatta penetrare per capillarità negli interstizi, normalmente con l’ausilio di una pressione esterna applicata. La velocità di flusso di un fluido viscoso in un mezzo solido poroso è in prima approssimazione direttamente proporzionale al gradiente di pressione e inversamente proporzionale alla viscosità del fluido secondo la legge di Darcy. Un fattore ulteriore di proporzionalità diretta è dato dalla permeabilità del mezzo poroso, che diminuisce all’aumentare della frazione in volume di fibre e dipende dal diametro e dal tipo di distribuzione spaziale delle fibre stesse (monodirezionali, tessute, non tessute ecc.).

Le più comuni tecnologie di trasformazione dei materiali compositi a fibra continua sono: stratificazione (detta anche laminazione) seguita da consolidamento in autoclave, avvolgimento (FW, Filament Winding), pultrusione, stampaggio a trasferimento di resina (RTM, Resin Transfer Molding) e infusione di resina sottovuoto. Per lo stampaggio a compressione di componenti semistrutturali con fibre discontinue sono stati recentemente proposti nuovi materiali: per es., i fogli da stampaggio con fibre lunghe e matrice termoplastica (LFT, Long Fiber Thermoplastic) e lo stampaggio di lastre a fibre lunghe orientate (HexMC).

Stratificazione

La produzione di compositi stratificati mediante consolidamento in autoclave trova impiego quasi esclusivamente nella fabbricazione di pannelli strutturali per componenti a elevate prestazioni (compositi avanzati) per l’industria aerospaziale e nella produzione di imbarcazioni e autoveicoli sportivi e da competizione. Il processo tecnologico prevede diverse fasi, di cui la prima è la deposizione su uno stampo aperto di numerosi strati di un semilavorato (preimpregnato) costituito da fibre già impregnate con la quantità necessaria di matrice. La sequenza di stratificazione viene stabilita in fase di progettazione del componente e definita mediante l’uso di un codice di laminazione. Assegnata una direzione di riferimento sul laminato, ogni lamina è identificata con un numero che rappresenta l’angolo di orientazione delle fibre (in caso di tessuti si fa riferimento alla direzione dell’ordito). L’orientazione delle lamine viene elencata in sequenza a partire dalla prima lamina deposta, utilizzando una barra come elemento di separazione se gli angoli sono differenti. Per delimitare l’inizio e la fine del codice si utilizzano le parentesi quadre. Angoli di valore uguale ma di segno opposto sono caratterizzati dai simboli + e −; il segno + è convenzionalmente assegnato a una rotazione in senso orario (fig. 2).

Allo scopo di prevenire la distorsione dei pannelli dovuta sia alla contrazione termica a seguito del ciclo di consolidamento sia all’applicazione di carichi esterni (accoppiamento delle deformazioni) è frequente il ricorso a sequenze di laminazione simmetriche rispetto al piano di mezzeria del laminato. In questo caso è necessario specificare soltanto la prima metà della sequenza di stratificazione e i laminati simmetrici sono identificati dal pedice S applicato alla parentesi quadra. Il procedimento di stratificazione è molto flessibile e la sequenza di laminazione può comprendere anche strati composti da materiali diversi (laminati ibridi) o strati interni di materiali espansi o strutture a nido d’ape racchiuse tra due pelli di materiale composito (laminati sandwich) allo scopo di ottimizzare il comportamento strutturale del pannello a parità di massa totale.

Prima dell’inserimento in autoclave il laminato viene racchiuso all’interno del sacco da vuoto, che è essenziale per la conduzione del successivo processo di reticolazione della matrice. Il sacco vero e proprio, solitamente costituito da un film di poliammide impermeabile all’aria, presenta al suo interno alcuni strati con diverse funzioni: sono sempre presenti almeno uno strato poroso, che ha lo scopo di agevolare l’estrazione dell’aria su tutta l’estensione del componente, uno strato assorbente che intercetta l’eccesso di resina dovuto alla compattazione della diverse lamine sotto l’azione della pressione esterna applicata in autoclave, e uno strato distaccante (peel-ply) che facilita la rimozione del sacco da vuoto al termine del processo di reticolazione della resina. Il vuoto ha essenzialmente il compito di consentire la rapida evacuazione (estrazione) dei solventi e dell’aria contenuti nel laminato durante le prime fasi del riscaldamento in autoclave, quando la viscosità della resina è ancora sufficientemente bassa da consentire la migrazione delle bolle e la loro espulsione. Una volta verificata la tenuta del sacco, il laminato può essere inserito nell’autoclave, che consiste essenzialmente in un recipiente con aria in pressione provvisto di regolazione della temperatura. Il consolidamento in autoclave ha l’obiettivo di fare avvenire il processo di reticolazione della resina eliminando i vuoti contenuti nel laminato e facendo compenetrare tra loro le diverse lamine per garantire la continuità del materiale in direzione trasversale. La temperatura di ciclo può superare i 200 °C di picco massimo e la pressione, di solito compresa tra 300 e 700 kPa, è applicata allo scopo di espellere l’aria intrappolata durante la laminazione, ridurre le dimensioni dei vuoti e compattare il laminato espellendo la resina in eccesso fino a portare le fibre contenute nelle diverse lamine a contatto tra loro. Il principale vantaggio dell’impiego di un’autoclave è l’estrema versatilità, che consente di produrre componenti di forma anche molto complessa senza necessità di stampi costosi. Il processo permette inoltre un controllo accurato della struttura del materiale, in quanto avviene praticamente in assenza di flusso: a meno di effetti di bordo o legati a transizioni di spessore, al termine del ciclo di reticolazione le fibre rimangono perciò nella stessa posizione nella quale erano state deposte durante la laminazione. L’elevata capacità termica dell’autoclave garantisce inoltre una buona stabilità delle condizioni di processo e quindi un buon controllo sull’andamento della reazione di reticolazione. Le principali limitazioni consistono nel costo elevato delle attrezzature (in particolare dell’autoclave) e nella lentezza del ciclo di produzione, caratterizzato da una velocità dell’ordine del kg/h per componenti non troppo complessi.

Avvolgimento

Tale tecnologia può essere impiegata per fabbricare tutte quelle forme che possono essere pensate come rivestite da un filo o da nastro avvolti in strati successivi. I manufatti prodotti trovano impiego in molti settori nell’industria, quali, per es., rotori e alberi di trasmissione, pale eoliche o serbatoi e tubazioni per l’industria chimica o agroalimentare. Il processo consiste in pratica nella deposizione di strati successivi di fibre impregnate di resina su un mandrino posto in rotazione attorno al proprio asse. Le resine utilizzate per impregnare le fibre sono prevalentemente termoindurenti, di solito poliestere o epossidiche, ma esiste anche la possibilità di utilizzare nastri a matrice termoplastica. Alla fase di avvolgimento può in alcuni casi seguire il consolidamento in autoclave, ma più comunemente la polimerizzazione della resina viene fatta avvenire a temperatura e pressione ambiente.

La macchina di avvolgimento, nella sua versione più semplice, consiste in un albero rotante su cui è fissato un mandrino che determina la forma da produrre e in un carrello che guida la deposizione delle fibre traslando con movimento alternato in direzione parallela all’asse di rotazione del mandrino. Agendo sul rapporto tra la velocità di rotazione angolare dell’albero e quella di traslazione del carrello, è possibile controllare la direzione di avvolgimento delle fibre. In questa semplice configurazione l’apparecchiatura presenta soltanto due gradi di libertà, ma per manufatti di forma molto complessa il numero di gradi di libertà delle macchine di avvolgimento può arrivare fino a cinque. Per assicurare che le fibre si dispongano senza ondulazioni e che la direzione di deposizione sia conservata anche durante l’applicazione degli strati successivi, il fascio di fibre viene mantenuto sotto tensione tramite una forza parallela alle fibre e diretta in senso opposto al senso di rotazione del mandrino. Questa forza induce una pressione sulla superficie del mandrino stesso, che è utile per compattare le fibre in direzione dello spessore. Le fibre deposte per avvolgimento sulla superficie del mandrino devono di preferenza appartenere a linee geodetiche, che individuano il percorso più breve da un punto all’altro sulla superficie stessa: questo consente alle fibre di mantenere la tensione di avvolgimento imposta all’atto della deposizione sviluppando forze normali alla superficie, senza che queste ne provochino lo slittamento sulla superficie stessa. Qualora esigenze di progetto impongano alle fibre di essere disposte secondo linee non geodetiche occorre controllare la stabilità dell’avvolgimento, per es. bilanciando la loro tendenza a muoversi trasversalmente con opportune forze di attrito sulla superficie.

Pultrusione

Questa tecnologia è un processo continuo con caratteristiche compatibili con la produzione di serie medio-alte, a basso costo e con buona qualità. Il nome deriva dal termine inglese pultrusion (comp. di to pull «tirare» ed (ex)-trusion «estrusione»): in questo caso il materiale viene tirato e non spinto attraverso l’apparecchiatura come avviene nei processi di estrusione.

La pultrusione è perciò un processo continuo, nel quale il materiale viene trasportato attraverso stadi successivi dell’apparecchiatura, ciascuno dei quali provvede ad assolvere una delle tre fasi principali dell’intero processo di produzione di un materiale composito: impregnazione, formatura e consolidamento. I profili pultrusi sono caratterizzati dall’avere una sezione costante e le fibre orientate prevalentemente in direzione della lunghezza. Nella sua versione per matrici termoindurenti, la più diffusa, l’apparecchiatura preleva i componenti (resina e matrice) per fornire un componente finito, realizzando un ciclo estremamente efficiente in termini di produttività. Le fibre vengono prelevate da un numero di solito molto elevato di rocche e fatte convergere, attraverso una serie di pettini che ne uniformano la disposizione, verso un bagno di resina nel quale avviene l’impregnazione. Il fascio di fibre entra quindi in uno stampo riscaldato, costituito da un condotto moderatamente convergente che presenta la forma della sezione del profilo da produrre, nel quale avviene la reazione di reticolazione della resina. La forza di trascinamento è applicata all’uscita dallo stampo, in quanto il profilo è solido e può essere afferrato da un dispositivo di traino a rulli o a tampone che lo trascina a velocità costante. Se necessario, una sega circolare può tagliare infine il prodotto a misura in corrispondenza della parte terminale della linea di produzione. Oltre alle fibre monodirezionali che costituiscono la maggior parte del rinforzo, prima dell’ingresso nello stampo è possibile aggiungere al profilo in formazione alcuni strati esterni di mat o di tessuto, allo scopo di rinforzare il materiale anche in direzioni diverse da quella di traino. Con speciali apparecchiature è anche possibile la tessitura, l’avvolgimento e l’intreccio di fibre direttamente sulla linea di produzione.

I compositi pultrusi sono leggeri, resistenti alla corrosione e presentano una bassa conduttività elettrica. I pultrusi con fibra di vetro e matrice poliestere godono inoltre di un non trascurabile margine economico su analoghi manufatti estrusi in acciaio o alluminio. I classici manufatti pultrusi sono barre piene, barre a sezione sagomata (ad angolo, a C, a doppia T ecc.), pannelli e piastre. Questi manufatti trovano impiego come componenti strutturali nel settore dei trasporti, canaline passacavi nell’edilizia, tiranti, montanti per scale, canne da pesca, supporti per illuminazione e cartelloni stradali, riser per l’industria petrolifera e così via.

Stampaggio RTM e infusione sottovuoto

Questi processi presentano forti analogie, in quanto in entrambi i casi il materiale di rinforzo (di solito in forma di tessuto) è depositato all’interno di uno stampo che in seguito è sigillato. In una fase successiva si inietta una resina che, con un flusso di percolazione attraverso gli spazi lasciati liberi dal rinforzo, impregna le fibre e poi reticola, di solito a temperatura ambiente. Nel caso dello stampaggio RTM lo stampo viene sigillato facendo uso di un controstampo, mentre nel caso dell’infusione sottovuoto si confeziona un sacco da vuoto con modalità analoghe a quelle per lo stampaggio in autoclave. La scelta dell’uno o dell’altro processo è di solito determinata dalle dimensioni del manufatto e dalla serie che si prevede di produrre. Tali tecnologie permettono un eccellente controllo sulla distribuzione delle fibre con tempi di ciclo molto contenuti se confrontati con quelli richiesti dallo stampaggio in autoclave o dall’avvolgimento. Gli stampi sono relativamente economici in quanto il processo dà luogo a basse pressioni di spinta ed è possibile produrre parti di forma anche complessa con struttura multistrato ibrida, a sandwich o con inserti metallici. Nel caso dello stampaggio RTM, inoltre, si ottiene una buona finitura superficiale su entrambi i lati.

Applicazioni

I materiali compositi strutturali hanno sperimentato un’iniziale espansione legata prevalentemente al settore aerospaziale tra gli anni Cinquanta e Sessanta del 20° sec., a cui è seguita una progressiva diversificazione delle applicazioni, grazie soprattutto allo sviluppo di nuove fibre di rinforzo e di nuove resine. Gli altri principali campi applicativi sono rappresentati dalla nautica, dall’automobile, dall’edilizia, dall’energia e dallo sport. Il mercato globale dei materiali compositi è uno dei più dinamici, con oltre 15 miliardi di euro di fatturato (2009) e un tasso di crescita secondo soltanto all’informatica e alle telecomunicazioni. Si prevede che la crescita della domanda di compositi non subirà un rallentamento significativo almeno fino al 2015.

Dopo il contributo fondamentale allo sviluppo dei velivoli militari con tecnologia stealth (invisibili ai radar) a partire dagli anni Ottanta, la più importante applicazione dei materiali compositi nel settore aerospaziale è stata sviluppata dalla Boeing company per un nuovo velivolo passeggeri (787 Dreamliner) interamente basato su strutture primarie in materiale composito con fibre di carbonio ad alta resistenza, che ha superato nel giugno del 2010 una nuova fase di prove di criticità (intermediate gauntlet testing) in vista del primo volo. Tale scelta consente un significativo risparmio di peso con conseguenti riduzione dei consumi di carburante (circa il 20%) e aumento della distanza di volo senza scalo rispetto agli attuali velivoli di linea. La struttura risulta inoltre più resistente e affidabile nel tempo rispetto alle strutture metalliche tradizionali, per cui si prevede anche una riduzione degli interventi di manutenzione e di riparazione dei velivoli. Il rivoluzionario progetto ha visto il coinvolgimento dell’Alenia Aeronautica come partner strategico, in quanto le due sezioni centrali della fusoliera e i timoni di coda sono in produzione presso i moderni impianti dell’azienda in Puglia. Anche altri produttori (Airbus, Embraer e Bombardier) hanno annunciato un crescente impiego di materiali compositi avanzati sui prossimi velivoli passeggeri.

Il settore della riparazione e dell’adeguamento sismico delle costruzioni è divenuto negli ultimi decenni uno dei più importanti mercati mondiali dei materiali compositi, che possono essere utilizzati in sostituzione dell’acciaio sia come armatura interna nel calcestruzzo sia come armatura esterna per tutti i materiali da costruzione (calcestruzzo, muratura, acciaio, legno ecc.) con notevoli vantaggi di semplicità degli interventi e di maggiore durata in ambienti aggressivi dal punto di vista della corrosione. Attualmente l’applicazione più diffusa è quella dei compositi con fibra di carbonio a matrice epossidica per la riabilitazione di strutture in calcestruzzo armato. In Italia, il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) si è fatto promotore di un ampio e ambizioso progetto prenormativo teso a sviluppare linee guida per la progettazione, l’esecuzione e il collaudo degli interventi di riabilitazione strutturale con i materiali compositi nel settore delle costruzioni, in modo da fornire al progettista, all’applicatore e al collaudatore gli strumenti per operare correttamente il rinforzo a flessione e a taglio di travi e pareti, nonché il confinamento delle colonne, mediante l’applicazione di lamine di materiale composito sulle superfici esterne. Le linee guida sviluppate in quest’ambito sono state recepite nel luglio 2009 dal Consiglio superiore dei lavori pubblici e sono pertanto diventate parte integrante delle norme tecniche delle costruzioni italiane (d.m. 14 genn. 2008). Anche l’uso di barre in materiale composito in sostituzione di quelle usuali in acciaio per la realizzazione di elementi strutturali in calcestruzzo costituisce una pratica diffusa in molti Paesi. Non ultima, la caratteristica di trasparenza magnetica delle barre in composito viene apprezzata nella realizzazione di sale ospedaliere al fine di evitare interferenze con le attrezzature per la risonanza magnetica e la diagnostica per immagini. La sempre maggiore diffusione di questi materiali nel settore delle costruzioni rende oggi i progettisti così sicuri da realizzare anche strutture innovative interamente costituite da materiali compositi, quali ponti pedonali e travature reticolari.

Nel settore degli autoveicoli, le prime applicazioni dei compositi risalgono ai primi anni Cinquanta. Gli obiettivi principali sono stati fin dall’inizio legati a una riduzione della massa con maggiore libertà della forma, semplificazione delle operazioni di manutenzione e riduzione dei costi rispetto ai materiali tradizionali. La necessità di contenere la massa degli autoveicoli rimane di estrema attualità, in quanto a partire dagli anni Ottanta questa caratteristica è andata stabilmente incrementando per l’aumento delle dotazioni di sicurezza attiva e passiva, degli equipaggiamenti di bordo e dei dispositivi antinquinamento. Analisti qualificati prevedono che l’impiego dei materiali compositi nell’industria automobilistica sia destinato a un significativo sviluppo anche oltre il 2015. Con tali materiali si realizzano parti di carrozzeria (paraurti, cofano, portellone e strutture di fissaggio per tetti trasparenti), parti semistrutturali degli interni (per es., i pedali della frizione e dell’acceleratore, i pannelli delle porte, questi ultimi anche con fibre naturali) e componenti sottocofano (anche per temperature elevate) per un totale di oltre 500.000 Mt/anno di componenti prodotti. Il tipo di composito più impiegato è la vetroresina, anche se nel settore delle autovetture sportive prodotte in serie limitata (supercars) si fa un uso molto esteso dei compositi avanzati prevalentemente con fibra continua di carbonio. Peraltro, uno dei più alti tassi di sviluppo di queste applicazioni nel comparto automobilistico è stato riscontrato nella produzione di parti di carrozzeria personalizzate (car tuning).

Tra i settori nei quali si prevede un grande impulso all’impiego dei materiali compositi è in primo piano quello dell’energia, insieme agli ambiti affini al miglioramento della qualità della vita (sicurezza, scienze della vita e tutela dell’ambiente). Nei primi anni del 21° sec. si è assistito a un forte incremento degli investimenti per lo sfruttamento delle fonti energetiche alternative ai combustibili fossili. Particolarmente significativi in tal senso sono i dati provenienti dal comparto dell’energia eolica, che nel 2009 in Europa ha conseguito una quota del 39% su tutte le nuove installazioni, seguito dal gas (26%) e dal solare fotovoltaico (16%), con un incremento annuo di oltre 10 GW a fronte dei circa 160 GW complessivi attualmente installati a livello mondiale. I compositi sono i principali materiali impiegati nella costruzione di pale eoliche di grandi dimensioni, talvolta in combinazione con legno e leghe leggere. Il tipo di composito più comune è la vetroresina, ma la spinta continua verso un aumento delle dimensioni (in special modo per le installazioni off-shore) sta aprendo la strada all’impiego di fibre più pregiate, quali carbonio e arammide. L’incremento di massa della pale, infatti, è funzione non lineare della loro lunghezza e può portare alla considerevole riduzione dell’efficacia delle turbine, in particolare per diametri superiori a 100 metri.

I materiali compositi infine costituiscono da molti anni un’importante componente strutturale di buona parte delle attrezzature per numerose attività sportive (sci, racchette da tennis, mazze da golf, biciclette ecc.). L’atleta disabile Oscar Pistorius, che ha subito un’amputazione bilaterale degli arti inferiori, ha raggiunto traguardi sportivi straordinari grazie a protesi in fibra di carbonio così efficienti da costringere la Federazione internazionale di atletica leggera (IAAF, International Association of Athletics Federations) a declinare la sua richiesta di partecipare alle Olimpiadi di Pechino (2008) per gareggiare con atleti normodotati, sostenendo che ‘le sue gambe non tradizionali’ potessero avvantaggiarlo. La strada per una nuova era di sport bionici sembra così aperta grazie all’adozione dei materiali compositi. Questi sono largamente impiegati anche per la fabbricazione di attrezzature sportive più complesse, quali imbarcazioni, velivoli e vetture da competizione. Nella nautica da diporto, per es., la maggior parte delle imbarcazioni a vela e a motore viene quasi interamente costruita con compositi in fibra di vetro. Nel settore del windsurf la percentuale di compositi impiegati raggiunge pressoché il 100%. Per competizioni estreme, come il caso dell’America’s cup, le imbarcazioni sono costruite interamente con compositi avanzati in fibre di carbonio o arammidiche facendo uso di tecnologie di derivazione aeronautica: non solo lo scafo, il timone e l’albero, ma anche le sartie e i rinforzi delle vele sono realizzati con questi materiali. Anche le vetture di Formula 1, al pari di quelle appartenenti alle altre classi da competizione automobilistica e motociclistica, beneficiano ampiamente dei vantaggi assicurati dai materiali compositi in termini sia di leggerezza sia di rigidità torsionale e flessionale, per cui l’intero telaio, la carrozzeria, le appendici aerodinamiche e anche alcuni componenti del motore sono realizzati in questi materiali.

Una delle sfide più importanti che i materiali compositi si troveranno ad affrontare nel prossimo futuro non riguarda, tuttavia, soltanto i loro sviluppi applicativi, ma anche l’impatto sull’ambiente. Pur essendo il loro indice di sostenibilità ambientale più vantaggioso nella maggior parte delle applicazioni rispetto a quello dei materiali tradizionali, essi presentano problemi di emissioni nel processo produttivo e limitate possibilità di riciclo a fine vita; la ricerca è quindi costantemente impegnata per fornire nuove soluzioni che garantiscano un maggiore equilibrio tra la loro performance tecnologica e la compatibilità ambientale.

Bibliografia

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