MATEMATICA

Enciclopedia Italiana (1934)

MATEMATICA

Federico Enriques

Matematica, o matematiche (gr. τὰ μαϑηματικά da μάϑημα "insegnamento") significa originariamente "disciplina" o "scienza razionale". Questo significato conferirono alla parola i filosofi della scuola italica, fondata da Pitagora (prima del 500 a. C.), che pose la scienza dei numeri a base di ogni conoscenza della natura.

Sommario. - Storia: 1. La matematica come scienza razionale (p. 547); 2. Matematiche preelleniche (p. 547); 3. Sviluppo delle matematiche presso i Greci (p. 547); 4. Le opere classiche (p. 547); 5. Sviluppi ulteriori e decadenza nel periodo ellenistico (p. 547); 6. Trasmissione attraverso i Romani (p. 548); 7. Alto Medioevo (p. 548); 8. Le matematiche indiane (p. 548); 9. Gli Arabi (p. 548); 10. Risveglio dell'Occidente (p. 549); 11. Il Rinascimento e gli algebristi italiani (p. 549); 12. Analisi infinitesimale e meccanica (p. 549); 13. Meccanicismo e fisico-matematica (p. 550); 14. La matematica pura nel sec. XIX (p. 550); 15. Classificazione attuale dei rami delle matematiche (p. 550). - Valore delle matematiche: 16. Che cosa è la matematica? (p. 550); 17. Significato degli enti matematici (p. 550); 18. Le matematiche nella cultura (p. 551); 19. Matematiche ed arte (p. 551). - Psicologia: 20. La mente dei matematici (p. 552); 21. Distrazioni celebri (p. 552); 22. Logica e intuizione (p. 552); 23. Diverse attitudini del pensiero matematico (p. 552); 24. La scoperta (p. 553); 25. Insegnamento (p. 553). - Bibliografia (p. 554).

Storia

1. La matematica come scienza razionale. - I numeri (interi) erano considerati dai pitagorici, in una maniera più concreta di quel che facciamo oggi, come "numeri figurati", ossia come gruppi di punti aventi un certo ordine e una certa configurazione geometrica (p. es. numeri quadrati o rettangolari o triangolari, ecc.); e così pare che, almeno inizialmente, i numeri rappresentassero per loro la vera struttura della materia (composta di monadi o punti materiali). Questa rappresentazione aveva per i pitagorici non solo un valore fisico, ma anche geometrico, pensandosi le linee, le superficie, ecc., come composte di "punti" (minimi di estensione), sicché ne derivava immediatamente la misura e quindi la similitudine delle figure, ecc. Solo la scoperta delle grandezze incommensurabili doveva correggere questa veduta e condurre (attraverso la critica degli eleati, Parmenide e Zenone) alla concezione razionale degli enti geometrici. La spiegazione delle "cose" coi numeri prese quindi per i pitagorici posteriori un significato analogico e simbolico, intinto del misticismo che, fin da principio, si trova mescolato alle speculazioni della scuola. Filolao, un secolo dopo Pitagora, diceva che "ogni cosa conosciuta possiede un numero e nulla possiamo comprendere o conoscere senza questo" (in Diels, fr. 4).

In coerenza con tali concetti, i pitagorici svolsero rapidamente, nel corso d'un secolo e mezzo, l'aritmetica e la geometria, e si accinsero a costituire un corpo di scienza che comprendeva: 1. l'aritmetica, 2. la musica, come studio dei rapporti fra numeri (poiché essi avevano scoperto fin da principio le leggi numeriche dell'armonia); 3. la geometria piana, intesa da principio come misura della Terra (geodesia); 4. la sferica, preludio della geometria solida e soprattutto introduzione all'astronomia. Questa classificazione delle scienze matematiche - aritmetica, musica, geometria, astronomia - si ritrova presso Platone, e poi nel tirocinio scolastico del Medioevo sotto il nome di Quadrivio, in contrapposto al Trivio (grammatica, rettorica e dialettica). Platone tuttavia ha conferito a quelle scienze - in specie all'aritmetica e alla geometria - un senso teorico che si distacca dalle applicazioni

La scienza dei numeri - dice la Repubblica (525 c) - si deve insegnare ai futuri reggitori della città "non alla volgare maniera, occupandosene a scopo di compravendita come mercanti e rivenditori, ma in guisa che l'intelligenza loro possa contemplare la natura dei numeri", poiché questo insegnamento "innalza l'anima, e la obbliga a ragionare intorno ai numeri considerati in sé, non accettando di ragionare se altri ricorra a numeri associati a corpi visibili e tangibili". E della geometria si avverte che "questa scienza è tutto il contrario di quanto parrebbe dalla terminologia usata da coloro che la professano. È una terminologia troppo ridicola e misera; poiché, quasi si trattasse di pratica e di scopo pratico, essi parlano sempre di quadrare, di prolungare una retta, di aggiungere, e di altre operazioni simili. Mentre invece tutta la scienza si coltiva a scopo di conoscere" (Rep., 527 a, b).

Fuori del modello matematico - e anzi delle matematiche pure - Platone non concepisce che vi sia vera scienza, ma soltanto una conoscenza verosimile, come si dà della fisica nel Timeo. A imitazione delle matematiche anche si costruisce la teoria delle specie o idee, che deve comprendere la classificazione degli esseri organici, la quale rimane, nel suo concetto, classificazione statica dei tipi generali, e del resto non si vede spiegarsi che più tardi in una conoscenza naturalistica concreta.

Invece Aristotele, reagendo contro la filosofia matematica, rivendica come scienza indipendente, non solo la fisica (di cui, per verità, porge uno sviluppo non troppo felice), sì anche la scienza naturale, in specie la zoologia, rivendicandone la bellezza e la dignità in un passo celebre, ove richiama e invoca il detto di Eraclito "anche qui sono gli Dei".

Del resto è un portato dei tempi e dell'evoluzione scientifica raggiunta nel sec. IV a. C., che le scienze particolari tendano ad assumere fisionomia distinta e a staccarsi dalla filosofia, la quale, nei secoli successivi, si rivolgerà esclusivamente al fine morale di prescrivere all'uomo una regola di vita e un ideale della condotta.

2. Matematiche preelleniche. - Per misurare i progressi conseguiti dai Greci nelle matematiche propriamente dette, converrebbe possedere un'esatta notizia delle conoscenze precedenti che essi possono avere apprese dai popoli vicini. Ma questa storia rimane ancora oscura e piena di dubbî. I Greci stessi si professano debitori ai popoli orientali dei principî della loro scienza: la geometria, secondo Erodoto, sarebbe sorta in Egitto dai bisogni del catasto, e dagli Egiziani l'avrebbe appresa Talete di Mileto, portandola in Grecia; l'aritmetica sarebbe venuta dai Fenici.

Certo è che presso i Babilonesi e gli Assiri da una parte, e d'altra parte presso gli Egiziani, s'incontrano vestigia antichissime d'una scienza matematica, intorno a cui gl i studî più recenti ci hanno portato nuovi documenti. Da alcune tavolette, che risalgono a 2500 e forse a più di 3000 anni a. C., abbiamo testimonianza di un'agrimensura catastale che già a quell'epoca si sarebbe trovata presso i popoli della Mesopotamia. Tavolette della 1ª dinastia babilonese ci dànno poi il calcolo della diagonale del rettangolo in funzione dei lati, e così sembrano indicare una certa conoscenza della relazione fra i quadrati dei lati, che costituisce il teorema di Pitagora. Altre tavolette; più recentemente scoperte dal Neugebauer, mostrerebbero presso i Babilonesi il possesso di regole per la risoluzione delle equazioni di 2° grado a due incognite. E d'altra parte il cosiddetto papiro di Mosca interpretato dallo Struve, darebbe notizia di antichissime conoscenze geometriche presso gli Egiziani: si avrebbero i volumi del tronco di piramide e della sfera. Questi scandagli della scienza orientalistica fanno supporre un periodo di cultura scientifica dei Babilonesi e degli Egiziani, che dovrebbe risalire al 2000 a. C. e più oltre; al quale seguirebbe poi un'età di decadenza in cui si sarebbero conservate solo alcune regole pratiche di calcolo o di misura; p. es. le regole pesanti dell'aritmetica egiziana che ritroviamo in documenti più recenti. Questo doveva essere da lungo tempo lo stadio della cultura orientale con cui i Greci vennero a contatto.

3. Sviluppo delle matematiche presso i Greci. - In confronto delle matematiche preelleniche, almeno di quelle che i popoli orientali possedevano nei secoli VII e VI a. C., i Greci recano subito uno spirito nuovo, poiché essi, in specie con la scuola pitagorica (in un senso lato che comprende anche gli eleati) conferiscono alle matematiche un senso razionale, svolgendone l'insegnamento in forma deduttiva.

Verso il 400 a. C. i pitagorici avevano sviluppato, non solo le proprietà fondamentali e anche molte proprietà curiose dell'aritmetica, ma anche le nozioni sulle figure, sulla loro similitudine e sulle trasformazioni delle aree, che formano l'oggetto della geometria elementare, e contengono insomma (sotto veste geometrica) la teoria delle equazioni di 1° e 2° grado. E poiché si era allargato e approfondito lo studio delle grandezze incommensurabili, che dapprima erano sembrate costituire una scandalosa eccezione, la dottrina generale delle grandezze e dei loro rapporti. in luogo di quella dei numeri (razionali), veniva ad apparire come organo delle matematiche, più generale dell'aritmetica.

La sistemazione di codesta dottrina, per opera di Eudosso di Cnido, fa parte del movimento critico intorno ai concetti e ai principî, che occupa il sec. IV a. C.; dove soprattutto si tratta di dar forma rigorosa ai primi ragionamenti infinitesimali che si erano affacciati già con gli argomenti di Zenone di Elea, e poi nelle valutazioni dell'area del cerchio (Ippocrate di Chio, circa 450 a. C.) e del volume della piramide (Democrito, circa 460-360 a. C.). Eudosso riesce infatti a definire rigorosamente il "rapporto" di due grandezze (comunque commensurabili o incommensurabili), a giustificare le operazioni sui rapporti (teoria delle proporzioni) e infine anche a stabilire uno schema logico rigoroso per il confronto di aree e volumi, che è il cosiddetto metodo di esaustione (v. integrale, calcolo).

4. Le opere classiche. - Da tutta questa critica, attraverso una successione di trattati di cui ci resta soltanto il nome, esce fuori la grande opera di esposizione e sistemazione della geometria, e anzi della matematica, antica: gli Elementi d'Euclide (circa 300 a. C.), dove in particolare il libro V (teoria delle grandezze e dei rapporti) appare come organo generale della scienza, al posto che è occupato oggi dalla nostra analisi.

Accanto alla sistemazione delle matematiche elementari, il sec. III a. C. vede pure fiorire quegl'indirizzi di ricerca superiore che già il secolo precedente aveva iniziato: la teoria delle coniche, di cui ci è dato un trattato organico da Apollonio di Perga, e l'analisi infinitesimale (ricerca delle aree e dei volumi, poi dei momenti statici) nell'opera del maggior genio matematico dell'antichità, che fu Archimede di Siracusa. Così alla fine del sec. III si raccolgono i frutti maturi di tutto il lavoro costruttivo delle matematiche greche: una ben fondata aritmetica e geometria elementare, e accanto a queste una statica, che già aveva avuto qualche sviluppo ai tempi di Aristotele, e che riceve una trattazione approfondita appunto da Archimede. Ed è notevole che nella mente del grande siracusano si congiungano il culto estetico del rigore e della pura teoria (cioè l'ideale platonico) e il possesso più vasto e fruttuoso delle applicazioni, per cui egli è passato alla storia come ingegnere de re Gelone, e soprattutto come inventore di straordinarî ordigni guerreschi nella difesa della sua città, assediata dai Romani.

5. Sviluppi ulteriori e decadenza nel periodo ellenistico. - I secoli successivi dell'epoca ellenistica hanno aggiunto alle conoscenze matematiche alcuni risultati, interessanti di per sé o per i germi che vi si contengono della scienza futura, ma non hanno dato opere comparabili a quelle classiche di Euclide, Archimede e Apollonio, sopra nominate. Sia perché decada nelle menti l'ideale classico, sia per le più forti esigenze della vita pratica, la scienza si volge ora di più verso le applicazioni, così, p. es., nell'opera di Erone il meccanico, come negli studî suggeriti dall'astronomia d'Ipparco (sec. II d. C.) e poi di Claudio Tolomeo: dai quali esce - in particolare - una trigonometria; cioè il calcolo delle corde degli archi circolari, e il lemma di Tolomeo che dà per esse il teorema d'addizione. Nuovi problemi spuntano nella teoria degl'isoperimetri, che risale a Zenodoro (sec. I a. C.) e si ritrova in Pappo (sec. III d. C.), e poi in un frutto tardivo del genio greco che è l'aritmetica di Diofanto (sec. III d. C.), ove si tratta della risoluzione delle equazioni in numeri razionali, in guisa da porre i principî dell'analisi indeterminata e della nostra teoria dei numeri.

Attraverso gli sviluppi delle matematiche ellenistiche si possono anche riconoscere i progressi realizzati dai Greci nell'esecuzione delle operazioni del calcolo aritmetico (p. es., nell'estrazione delle radici, ecc.), che del resto erano già maneggiate con abilità da Archimede. Ma, accanto a questo indirizzo pratico, gli ultimi secoli videro una decadenza dell'intelletto matematico e anche un ritorno alla mistica dei numeri, massimamente sviluppata dai neopitagorici e dai neoplatonici (Nicomaco, sec. II d. C.; Teone alessandrino, sec. IV; Proclo, sec. V).

In codesti circoli filosofici (che si trovarono in contrasto col cristianesimo) si sviluppò sempre più una mentalità cabalistica e mistica, e fu coltivata l'astrologia, insieme con le pratiche alchemiche, associate a uno spirito teurgico e magico. A queste circostanze verosimilmente si deve che il nome generico "matematici" venga quind'innanzi a designare una classe di cabalisti, indovini o magi, che è fatta oggetto di dispregio, di terrore e di persecuzioni. "Il buon cristiano - dice S. Agostino - deve guardarsi dai matematici e da tutti coloro che si danno alle empie divinazioni, soprattutto quando le loro previsioni sono vere, per paura che codesta gente, d'accordo coi demoni, inganni il suo spirito e stringa la sua persona nei lacci d'un patto diabolico" (De Genesi ad litteram, II, 17, 37). Il significato dispregiativo fu conservato al nome di "matematici" nel Medioevo, mentre in realtà le scienze del quadrivio discendevano, nei primi secoli di questa età, al più basso livello.

6. Trasmissione attraverso i Romani. - Già la letteratura scientifica che rimane in possesso del Medioevo a tramandare l'antica cultura appare estremamente esigua. Perduta l'intelligenza della lingua greca, rimanevano, infatti, come documenti della matematica soltanto i meschini compendî contenuti nelle enciclopedie della bassa latinità, fra cui era tenuta come oracolo l'opera di Marciano Capella (verso la metà del secolo V) Le nozze di Mercurio con la filologia. Infatti i Romani non hanno mai avuto interesse speculativo per le matematiche; la geometria, p. es., era da loro considerata per le sue applicazioni all'agrimensura, e in questo senso coltivata dai cosiddetti gromatici. Solo alla fine dell'epoca romana - cioè sotto il regno di Teodorico - Manlio Severino Boezio (480-524) diede alcune traduzioni latine degli Elementi d'Euclide, dell'aritmetica e della musica di Nicomaco; e di queste traduzioni esistono dei sunti nelle Saeculares Lectiones di Aurelio Cassiodoro (490-580).

7. Alto Medioevo. - Quelle che abbiamo nominate sono le povere fonti della scienza matematica per l'alto Medioevo. Da Cassiodoro, attraverso Isidoro di Siviglia (morto nel 636), attinge i Compendî Beda Venerabile di York (673-735), le cui preoccupazioni didattiche si palesano nello studio del "calcolo digitale" da lui studiato come mezzo per agevolare le operazioni sui numeri, e che d'altra parte mette a prova le sue conoscenze aritmetiche nei problemi del calendario, collegati all'interesse della chiesa per la determinazione delle feste mobili. Dalla scuola di York esce poi Alcuino (726-804), che Carlomagno conduce con sé a Parigi per fondarvi l'Accademia Palatina. Il quale, oltre a proseguire le ricerche sul calendario, ha lasciato delle esercitazioni di aritmetica ad acuendos iuvenes: una raccolta di questioni curiose e divertenti, che sono state tramandate fino a riapparire nei libri più recenti su tale argomento.

Ma il movimento intellettuale dell'accademia carolingia si spegne presto (con Scoto Eriugena) e per ritrovare qualcosa di notevole nelle matematiche bisogna arrivare a Gerberto (papa Silvestro II, 999-1003), il quale lavora alla trasformazione dei calcoli numerici sull'abaco in una maniera che rivela una prima influenza del sistema di numerazione indiano che (secondo una tradizione peraltro un po' discussa) egli avrebbe appreso dagli Arabi, studiando presso di loro a Siviglia e a Cordova. Sennonché agli abacisti, discepoli di Gerberto, si dovevano contrapporre i cosiddetti algoritmisti, mercanti, specialmente italiani, che nei loro rapporti con il mondo orientale avevano appreso il vero senso pratico di codesto sistema, non solo come modo di scrivere i numeri più alti tenendo conto del valore di posizione delle 9 cifre significative e introducendo lo zero, sì anche come sistema per eseguire i calcoli, appunto sui numeri scritti, anziché sul modello materiale dell'abaco (v. numerazione).

Gerberto si è occupato anche di geometria: risale a lui una notevole definizione degli angoli (v. angolo). Ma quanto più si apprezzi l'intelligenza personale che qui si dispiega, tanto più significante è la constatazione del basso grado a cui era discesa nella sua epoca l'intelligenza delle cose geometriche in generale, quale si rivela dall'esame dell'opera di Gerberto stesso e dei suoi discepoli. Infatti gli enunciati d'Euclide, di cui pure erano in possesso, erano divenuti per loro inintelligibili, sicché, p. es., si domandavano che cosa volesse dire il teorema che la somma degli angoli intemi d'un triangolo è eguale a due retti, e se angolo "interno" significasse "acuto". In generale le proposizioni dei geometri apparivano come regole pratiche, desunte e verificate dall'esperienza, senza alcuna cura del rigore: così, p. es. si prendeva per il rapporto della diagonale al lato del quadrato, indifferentemente 7/5 o 12/7.

Il risveglio dello spirito scientifico, e con esso della civiltà occidentale, è suscitato anzitutto dai più intimi contatti con il mondo arabo, che si stabiliscono per mezzo delle crociate.

Attraverso gli Arabi tornano all'Europa i primi testi della scienza e della cultura greca e si risuscita l'interesse filosofico dell'Occidente cristiano; onde poi nuovi testi e documenti si ritroveranno, particolarmente in Italia, conservati nelle biblioteche dei monaci, ad accendere la fiamma del Rinascimento.

8. Le matematiche indiane. - Mentre la tradizione della scienza e del pensiero greco si erano andate sempre più affievolendo in Europa, un'altra gente, con uno spirito nuovo, ne aveva raccolta l'eredità e, aggiungendovi gl'insegnamenti di diversi popoli orientali con cui si trovava a contatto, veniva a riportarla all'Occidente, ponendosi così come intermediaria fra la cultura classica e il mondo moderno. Per apprezzare il contributo che gli Arabi hanno recato, in tal guisa, alla nostra scienza, convien dire qualcosa delle matematiche indiane, che, accanto alle greche, costituiscono una fonte del loro sapere.

All'epoca in cui le matematiche indiane esercitano un'influenza sul pensiero arabo, gl'Indiani sono ben lungi dal presentare uno sviluppo autonomo della scienza, poiché hanno subito l'influsso dell'ellenismo portato dalle armi di Alessandro il Macedone. Riesce quindi assai difficile distinguere ciò che essi possono offrire di originale (da riattaccare all'epoca prepitagorica) e ciò che è invece elemento importato dai Greci e assimilato. Ma, per valutare l'influenza indiana sull'indirizzo della cultura, basta rilevare che la scienza greca fu elaborata dagl'Indiani secondo uno spirito affatto diverso dal rigore classico, sviluppando il calcolo approssimato e perfezionandone i metodi.

Presso gl'Indiani, come si è accennato, nasce il sistema di numerazione decimale che permette di scrivere i numeri, comunque alti, mediante 9 cifre e lo zero, attribuendo alle cifre stesse un valore di posizione. L'antichità classica ci offre un solo precedente teorico di codesto sistema, cioè il metodo immaginato da Archimede, nell'Arenario, per scrivere appunto i numeri più grandi. Ma qui non si tratta tanto d'invenzione teorica, bensì di mezzo pratico per eseguire i calcoli sui numeri scritti, anziché sulle immagini di essi (quali sono fornite dagli abaci). E ognuno comprende come l'adozione di un tal mezzo porti a educare la facoltà stessa del calcolo numerico, e quindi a renderne fruttuose le applicazioni.

Il sistema di numerazione decimale s'incontra già in un trattatello indiano, Sūrya Siddhānta, del sec. IV o V dell'era volgare, e non sembra molto anteriore. Gli sviluppi matematici degl'Indiani sono generalmente incorporati in lavori di astronomi, come Āryabhata (nato nel 176 d. C.) e Brahmagupta (nato nel 598). Più tardi Bhāskāra Cārya (nato nel 1114) ci dà un trattato di aritmetica, intitolato Līlilāvati, cioè "la Bella" (forse la Bella Scienza, ovvero la Bella Figliuola che egli avrebbe voluto consolare da un dispiacere con le esercitazioni sui numeri), e un trattato sul calcolo delle radici, Vijaganita, che è, in sostanza, una teoria delle equazioni di 1° e 2° grado, non più sotto forma geometrica come nelle opere classiche dei Greci, ma proprio come equazioni fra numeri, cioè un'algebra. Invero il modo di trattare le matematiche presso gl'Indiani si distingue da quello dei Greci perché, mancando ogni scrupolo di rigore e prevalendo invece l'interesse pratico, essi lavorano in genere sui numeri anziché sulle grandezze geometriche, senza arrestarsi di fronte agli irrazionali, che calcolano regolarmente in via approssimata. Con questo spirito appunto sviluppano il calcolo dei radicali e il trattamento delle equazioni, in una forma che sembra riattaccarsi a Diofanto. Inoltre, procedendo nel senso d'uno sviluppo formale, di cui qui si trova solo un primo spunto, usano dei numeri negativi, interpretandoli, p. es., come debiti di fronte a crediti, e arrivando a riconoscere le due radici di un quadrato e quindi di un'equazione di 2° grado. Procedono del pari nella trigonometria, sostituendo al calcolo delle corde degli archi circolari, d'Ipparco e di Tolomeo, quello delle loro metà (i seni).

9. Gli Arabi. - Le principali circostanze esterne che accompagnano il fiorire della cultura araba sono ben note. Accesi dalla parola di Maometto (ègira 622) gli Arabi erompono come forza travolgente dalla loro patria d'origine, invadono la Siria, l'Egitto e la Mesopotamia, poi percorrono come una scia di fuoco la costa settentrionale dell'Africa, varcano lo stretto di Gibilterra, dilagando nella Spagna e minacciano la Francia, arrestati nella loro marcia trionfale da Carlo Martello, con la battaglia di Poitiers (732). Ripiegati nella Spagna e soprattutto nelle provincie meridionali, ove si conservarono fino al 1492, gli Arabi estesero tuttavia il loro dominio sulle coste e nelle isole del Mediterraneo.

Diverse razze, che si fondono e si affratellano ai conquistatori nell'Islām, portano all'originario nucleo guerriero gli elementi residui di una soggiacente cultura ellenistica. I primi insegnamenti sono raccolti dall'ambiente persiano che aveva ospitato gli eretici cristiani seguaci del vescovo di Costantinopoli, Nestorio (condannato nel 451), e poi i filosofi della scuola d'Atene, chiusa da Giustiniano nel 529.

Lo studio delle matematiche presso gli Arabi incomincia sotto gli ‛Abbāsidi, a Baghdād da essi fondata (762). Quivi furono tradotti gli Elementi d'Euclide e la Sintassi di Tolomeo, poi Diofanto, Erone, Archimede, Apollonio, ecc. Nello stesso tempo s'incominciarono a tradurre le opere astronomiche degl'Indiani, da cui gli Arabi appresero il modo di calcolo, utile per le relazioni commerciali.

Sebbene gli Arabi si considerino soprattutto scolari dei Greci e, avendone bene compreso le esigenze scientifiche, rifiutino le parti deboli delle matematiche indiane, la loro produzione, che procede nel senso delle tarde opere ellenistiche, sembra ritrarre qualcosa anche dello spirito pratico indiano.

Qualunque sia il giudizio sull'originalità del loro pensiero, essi ci porgono una sintesi delle matematiche dei due popoli, che ha esercitato sull'indirizzo delle matematiche europee il più forte impulso.

Fra i più noti matematici arabi, che sono generalmente anche astronomi, ricordiamo alcuni nomi: al-Khuwārizmī, che il califfo al-Ma'mūn (sec. IX d. C.) incaricò di traduzioni d'opere greche e della misura del grado terrestre, e poi Abū'l-Wafā' al-Būzagiānī nella seconda metà del del sec. X, al-Karkhī (o più esattamente al-Karagī) e an-Nasawī verso il 1000, tutti viventi a Baghdād, ove, pur dopo la conquista dei Mongoli (1256), s'incontra il celebre astronomo e matematico, Naṣīr ad-Dīn atrūsī. Ma anche fuori di questo centro, la cultura araba fiorisce, dall'Egitto alla Spagna, e basti citare due nomi famosi del sec. XI: il cosiddetto Geber, astronomo di Siviglia, e il celebre matematico e poeta filosofo ‛Omar Khayyām.

Dal nome al-Khuwārizmī deriva anzitutto il termine "algoritmo" (che noi adoperiamo per indicare in generale ogni procedimento di calcolo, ma che fu usato dapprima per designare il calcolo col sistema di numerazione indo-arabo), perché la traduzione latina di un suo trattato d'aritmetica cominciava con le parole Dixit Algorithmi. Ancora un trattato sulle equazioni dello stesso autore ha dato nome alla nostra Algebra, perché esso portava come titolo Kitāb al-giabr wa l-muqābalah, queste due parole designando le operazioni di trasporto dei termini d'un'equazione da un membro a un altro, ottenute rispettivamente per somma e per sottrazione.

10. Risveglio dell'Occidente. - Fra i mercanti italiani che commerciavano col Levante gli Arabi non tardarono a trovare discepoli che presto dovevano superarli. Intorno al 1200, Leonardo di Pisa, detto il Fibonacci, come impiegato delìa città, ebbe a visitare l'Egitto, la Siria, la Grecia e la Sicilia, ed ebbe modo così di spingere avanti la sua educazione matematica. Nel suo Liber Abaci (1202) con abilità superiore raccoglie ed espone l'aritmetica araba, volgarizzando il sistema di numerazione basato sulla posizione delle cifre. E tratta poi delle equazioni di 1° e 2° grado, seguendo al-Khuwārizmī. Ma egli aggiunge a ciò anche dei contributi originali, e in ispecie dispiega il suo genio in questioni di analisi diofantea e nel calcolo approssimato delle radici di equazioni d'ordine superiore, precorrendo i metodi di risoluzione di F. Viète e di I. Newton. D'altra parte la sua chiara comprensione dei concetti e dei metodi geometrici appare dalle dimostrazioni che accompagnano gli enunciati del Liber Abaci, e nel libro Practica geometriae. Infine la profondità dei suoi studî e del suo pensiero si può forse misurare nel miglior modo dal fatto che egli riconobbe non potersi in generale esprimere una radice cubica mediante gl'irrazionali formati di radici quadratiche sovrapposte, che sono classificati nel libro X di Euclide.

Accadde al lavoro del Fibonacci ciò che troppo spesso tocca in sorte a coloro che si sollevano sul proprio ambiente e sulla propria epoca: esso non trovò, per molto tempo, una comprensione adeguata.

Invero, una larga volgarizzazione dei principî e dei metodi, che figurano in Leonardo, si fa in Italia soltanto tre secoli dopo, con l'opera di Luca Paciolo, che fu stampata a Venezia nel 1494, e costituì il punto di partenza comune per i grandi matematici innovatori del secolo seguente.

Frattanto però le matematiche avevano penetrato anche i circoli ecclesiastici della cultura europea. Citiamo (verso il 1200) Giordano Nemorario (da identificarsi, forse, con Giordano di Sassonia, primo generale dei domenicani, dopo S. Domenico), il quale pure attinge a fonti arabe e, se non rivela l'alto senso matematico di Leonardo, offre tuttavia una nuova idea (pare attinta ad Aristotele), cioè di rappresentare i numeri mediante lettere. E ricordiamo ancora gli studî di ottica di Vitellione (o Witelo, sec. XIII), in cui s'incontrano difficili problemi geometrici attinenti alle coniche (per cui egli cita Apollonio), i poi la traduzione di Euclide di Campano e le questioni sulla continuitȧ e l'angolo di contingenza, cui dà luogo la prop. X, 1. In particolare nella scuola di Parigi s'incontrano idee matematiche che precorrono i nuovi sviluppi della scienza e che dovevano maturare assai più tardi. N. Oresme (circa 1323-82), segnando la latitudine e la longitudine dei punti nel piano, a somiglianza della sfera terrestre, viene a introdurre le coordinate, nella forma che daranno poi il Descartes e il Fermat. Lo stesso matematico ha pure l'idea degli esponenti frazionarî, che riappaiono più tardi, insieme ai negativi, nell'opera di N. Chuquet (1484), precorreme la scoperta dei logaritmi. Infine G. Peuerbach (1423-61) e specialmente il suo discepolo Johann Müller, detto Regiomontano (1436-76), volgarizzano e spingono avanti la trigonometria di Tolomeo e degli Arabi.

11. Il Rinascimento e gli algebristi italiani. - Il Rinascimento italiano del sec. XV doveva educare naturalmente l'interesse e lo spirito delle matematiche, perché la stessa arte classica prende norma da un ideale matematico, di proponione e di misura. L'alleanza delle matematiche con la pittura si vede in noti artisti di quell'epoca; e ne sono testimonianza i trattati di prospettiva di Leon Battista Alberti e di Piero della Francesca. Così non appare fuori della tradizione l'interesse che alla matematica (specie alla meccanica) rivolge Leonardo da Vinci nel secolo seguente.

Il Cinquecento italiano, saturo di cultura classica, raccoglie i frutti di una lunga maturazione delle idee, con le scoperte dei grandi algebristi, appartenenti in massima parte alla scuola bolognese. Scipione dal Ferro, Nicolò Tartaglia, Gerolamo Cardano, Ludovico Ferrari e Raffaele Bombelli superano per la prima volta i limiti della scienza greca, con la risoluzione e la teoria delle equazioni di 3° e 4° grado (v. algebra). La posizione stessa di questo problema (la risoluzione per radicali) si può dire preparata dagli sviluppi dell'aritmetica calcolante degli Arabi, se pure l'idea che conduce al successo si riattacchi al libro X di Euclide e a un'accennata ricerca di Leonardo Fibonacci, secondo la congettura suggestiva di E. Bortolotti e di G. Vacca. Qui è interessante vedere come lo spirito di quell'aritmetica venga, per così dire, sublimato, in un alto problema teorico. A ogni modo è significativo che, pur nell'ambiente d'imitazione dei modelli classici, che è il nostro Rinascimento, il primo grande progresso delle matematiche appartenga all'algebra, e, per quanto spiegato in rapporto alla geometria, non rivesta la forma geometrica. In tal guisa si annunzia, fin dall'alba dell'epoca moderna, il carattere delle matematiche che diverrà dominante, anche in seguito alla costruzione della geometria analitica: cioè la veduta dell'algebra e dell'analisi come organo generale della scienza, che offre un linguaggio comune a tutti i problemi matematici.

Alle scoperte degli algebristi italiani del Cinquecento segue un rapido sviluppo dell'algebra nella scuola francese. F. Viète (1540-1603) e poi R. Descartes perfezionano l'uso del simbolismo, fino a condurlo press'a poco all'attuale. D'altra parte il Viète chiarisce e approfondisce il senso dei numeri immaginarî (v. immaginario) che il Bombelli aveva introdotto (sotto il nome di quantità silvestri) in relazione al caso irreducibile dell'equazione cubica, mentre il Descartes (1637), e indipendentemente il Fermat, costruiscono la geometria analitica. Quind'innanzi i progressi dell'algebra condurranno a riconoscere il teorema fondamentale che ogni equazione di grado n ha n radici (teorema cui si dà spesso il nome di D'Alembert, ma che soltanto più tardi fu ben dimostrato dal Gauss, 1799), l'espressione delle funzioni simmetriche delle radici per i coefficienti (Newton, op. post. 1707), ecc. I tentativi per la risoluzione delle equazioni di grado superiore al quarto, attraverso gli studî di G.-L. Lagrange, P. Ruffini e N. Abel, metteranno capo a riconoscere l'impossibilità di una risoluzione generale per radicali, e sboccheranno quindi nella teoria di É. Galois (v. algebra, nn. 48-59).

12. Analisi infinitesimale e meccanica. - Ora, accanto ai progressi dell'algebra, conviene segnalare lo sviluppo di un nuovo ordine di problemi, che dà luogo all'analisi infinitesimale.

A dir vero le idee che qui entrano in giuoco non si possono dire nuove, poiché già s'incontrano nelle ricerche degli antichi e massime di Archimede; dal quale prendono lo spunto Luca Valerio, Galileo e B. Cavalieri. Ma nuovo è il fatto che tali considerazioni vengano legate ai problemi del moto, come già appare in Galileo; e questa è anche una circostanza decisiva per l'orientamento della scienza.

Sul terreno della geometria, l'analisi infinitesimale sorge da due problemi fondamentali: cioè il problema dell'area racchiusa da una curva e il problema della tangente: il primo dei quali - già trattato da Archimede - riceve impulso dalla geometria degli indivisibili di B. Cavalieri, dando luogo al concetto d'integrale (v. integrale, calcolo), mentre l'altro (che si riattacca a certe osservazioni di Pappo) nasce dalla ricerca dei massimi e minimi delle funzioni, per opera del Fermat, e conduce alle derivate (flussioni, velocità, ecc.; v. differenziale, calcolo).

Questi due ordini di considerazioni, che in principio appaiono indipendenti, sono in realtà legati dal teorema fondamentale che "l'integrazione è l'operazione inversa della derivazione". Ed è degno di nota che un primo caso di questo teorema (in rapporto ai diagrammi) appaia già negli studî di Galileo sul moto dei proiettili. Altri casi particolari s'incontrano in Cartesio e nel Fermat; ma più ampia consapevolezza del fatto mostra E. Torricelli e, dopo di lui, J. Barrow, il maestro di Newton. Infine la cosa emerge in tutta la sua luce per Newton stesso e per il Leibniz, i quali - capovolgendo l'ordine classico della ricerca - insegnano a riguardare come calcolo diretto il calcolo delle derivate o dei differenziali e come inverso il calcolo integrale (v. integrale, calcolo; infinitesimale, analisi).

La fondazione del calcolo, per opera di questi due matematici, e massime di Newton, è legata ai problemi della dinamica, la quale in specie conferisce il loro più vasto significato alle equazioni differenziali. Questo è un ordine di problemi affatto nuovo rispetto all'algebra. Invero, nelle equazioni algebriche (o anche analitiche) si tratta di determinare i valori d'una quantità numerica incognita, che debba soddisfare a una certa eguaglianza condizionale. Invece le equazioni differenziali significano condizioni a cui deve soddisfare una funzione o una curva (v. equazioni, nn. 3, 4): per esempio nel caso in cui si cerchi la cosiddetta curva d'inseguimento del cane che rincorre un uomo, dirigendogi, in ogni istante, verso la posizione da esso occupata (v. inseguimento, curva di), ovvero quando si cerchi la traiettoria di un proiettile lanciato in una certa direzione con una certa velocità, tenendo conto della gravità che modifica a ogni istante la direzione e la grandezza di tale velocità.

13. Meccanicismo e fisico-matematica. - La teoria della gravitazione di Newton (v. gravitazione) offrì ai matematici posteriori il campo di elaborazione della teoria delle equazioni differenziali. I più grandi analisti del sec. XVIII - da Eulero al Clairaut, al D'Alembert, al Lagrange e al Laplace - spesero in questa ricerca gran parte delle loro forze poderose. Nasceva d'altronde, o rinasceva, l'antico disegno democriteo di spiegare il mondo, con tutti i suoi fenomeni, come una gran macchina. Il secolo XVII aveva affermato solo la possibilità di una siffatta spiegazione meccanica. B. Pascal poteva appagarsi di accogliere quest'idea cartesiana: "Il faut dire en gros; cela se fait par figure et mouvements - car cela est vrai. Mais de dire quels et composer la machine, cela est ridicule... (Pensées, in Œuvres, I, 99).

Ma quello che poteva apparire sogno o utopia nel sistema delle ipotesi di Descartes, diventa concreto programma di lavoro dopo la scoperta di Newton: il meccanismo universale potrebbe essere appunto un meccanismo newtoniano, cioè un sistema di punti materiali che si attraggono o si respingono secondo forze centrali. Si può dire che questo programma soggiace, più o meno consapevolmente, a tutte le ricerche della fisico-matematica, nei secoli XVIII e XIX.

La matematica (e per essa l'analisi) torna così ad apparire organo generale della scienza fisica; e sebbene i progressi ulteriori abbiano sconfitto, in un certo senso, il meccanicismo, si può ben dire che la matematica stessa ha assolto qui il suo compito e che la matematizzazione della scienza, lungi dal seguire le sorti dell'ipotesi meccanica, è proceduta sempre: più avanti (v. meccanicismo).

14. La matematica pura nel sec. XIX. - Ora lo straordinario sviluppo della meccanica e della fisico-matematica, nel sec. XVIII, riesce a dominare talmente la ricerca matematica, che lo scopo stesso di essa sembra legato alle sue applicazioni. Non è già che le matematiche pure subiscano un arresto; ma le applicazioni attraggono sempre il loro maggior interesse. Lo stesso Newton, avendo scoperto i procedimenti del calcolo infinitesimale, non aveva voluto esporli di per sé, quasi come giuochi o esercizî geometrici, e aveva aspettato a mostrarli come istrumenti fecondi nello studio della dinamica celeste. Più tardi questa mentalità è apertamente confessata da J.-B. Fourier, cui si riferisce una nota lettera di C. G. J. Jacobi ad A.-M. Legendre (2 luglio 1830): "M. Poisson n'aurait pas dû reproduire dans son rapport une phrase peu adroite du feu M. Fourier, où ce dernier nous fait des reproches, à Abel et à moi, de ne pas nous être occupés de préférance du mouvement de la chaleur. Il est vrai que M. Fourier avait l'opinion que le but des mathématiques était l'utilité publique et l'explication des phénomènes naturels; mais un philosophe comme lui aurait dû savoir que le but unique de la science c'est l'honneur de l'esprit humain et que sous ce titre une question de nombres vaut autant qu'une question du système du monde...".

Per contro nel sec. XIX, i numerosi problemi che il pensiero matematico aveva elaborato secondo la tradizione o che affiorano da tutte le parti della fisico-matematica, vengono a maturità in un rigoglio di ricerche, come oggetto di studio interessante di per sé; e si ha così il secolo delle matematiche pure. Non è possibile qui render conto dei nuovi sviluppi realizzati in quest'epoca vicina alla nostra e proseguiti in più sensi dagli studiosi contemporanei: essi portano - da una parte - la differenziazione di varî indirizzi o rami della scienza, spesso inintelligibili ai cultori di un altro ramo, e d'altra parte raccostamenti d'idee o tentativi d'unificazione, per cui gl'indirizzi più importanti si scoprono solidali. Per altre notizie sui rami differenziati delle matematiche v. le rispettive voci.

15. Classificazione attuale dei rami delle matematiche. - Qui ci limiteremo a riferire la partizione attuale delle matematiche come si rileva, p. es., dall'Encyclopädie der mathematischen Wissenschaften mit Einschluss ihrer Anwendungen, opera intrapresa dai principî del secolo con la collaborazione di matematici di tutto il mondo, sotto l'influenza direttiva di F. Klein.

Matematiche pure: Aritmetica (teoria dei numeri, analisi combinatoria, teoria dei numeri a più unità, teoria degl'insiemi, gruppi finiti), Algebra (corpi algebrici, teoria delle forme invariantive, teoria della risolubilità secondo Galois), Calcolo delle probabilità e Matematiche statistiche, Calcolo delle differenze, Calcolo differenziale e integrale, Funzioni di variabili reali (serie trigonometriche, di funzioni sferiche, cilindriche, ecc.), Funzioni di variabili complesse (funzioni algebriche e loro integrali, funzioni ellittiche e automorfe), Equazioni differenziali e a derivate parziali, Gruppi continui di trasformazioni, Calcolo delle variazioni, Calcolo funzionale, Equazioni integrali e integrodifferenziali, Geometria elementare, Geometria non-euclidea e assiomatica, Geometria proiettiva e descrittiva, Topologia, Geometria algebrica (curve, superficie, trasformazioni, Geometria numerativa, ecc.), Geometria differenziale.

Matematiche applicate: Meccanica, Fisica, Geodesia, Astronomia.

Valore delle matematiche

16. Che cos'è la matematica? - La domanda di definire l'oggetto della scienza matematica in generale, distinguendola dalle altre scienze, ha ricevuto, nella storia, diverse risposte. Per il Descartes "toutes les sciences, qui ont pour but la recherche de l'ordre et de la mesure se rapportent aux mathématiques" (Règles pour la directíon de l'esprit, trad. fr. dalle Œuvres, X, 339). Il Leibniz (in Math. Schriften, ed. Gerhardt III, 53) dice: "Mathesis universalis est scientia de quantitate in universum, seu de ratione aestimandi... hinc fit ut mathesis universalis sit scientia de mensurae repetitione seu de numero". B. Bolzano (in Paradoxien des Unendlichen, Lipsia 1857) definisce le matematiche come "scienza delle grandezze", dando il nome di grandezze a una qualsiasi classe di enti per cui si abbiano i concetti di eguaglianza, diseguaglianza e somma, coi relativi postulati caratteristici. Tali definizioni non comprenderebbero, p. es., nelle matematiche, la geometria proiettiva e la topologia, o almeno questi rami della scienza vi si farebbero rientrare solo in via indiretta e in rapporto con un metodo di trattazione che non è il loro proprio. Ma il significato di esse sta nel giudizio valutativo che implicitamente contengono; per il Descartes e il Leibniz, subordinazione della geometria alla scienza del numero. In generale questo è il valore di simili definizioni; p. es., quando F. Klein definisce la geometria come studio delle proprietà rispetto a un certo gruppo di trasformazioni (v. geometria, n. 31), egli non fa che segnare un criterio di valutazione e di confronto dei varî indirizzi geometrici.

In luogo di cercare una definizione delle matematiche secondo il loro oggetto, i logici-matematici più recenti si sono attaccati alla forma logica che la scienza è capace di rivestire nelle trattazioni più compiute. E così si è riusciti a definire le matematiche come lo studio dei sistemi ipotetico-deduttivi di proposizioni. Appunto a questo concetto si riduce la definizione paradossale di B. Russell "le matematiche sono quella scienza in cui non si sa di che cosa si parla e non si sa se quello che si dice sia vero". Si afferma nella prima parte che i concetti primitivi della scienza sono assunti senza definizione, enunciando e postulando solo i loro rapporti logici (v. definizione; logica matematica); e nella seconda che ogni indagine sulla realtà o meno dei postulati trascende la conoscenza matematica, rispetto a cui i postulati figurano come ipotesi arbitrarie, soggette solo a essere non-contraddittorie.

Ma chi guardi, oltre la forma, il contenuto della scienza non sarà pago di simili definizioni logico-formali. Esse hanno un duplice inconveniente; da una parte escludono dalle matematiche i più bei frutti dell'ingegno intuitivo; d'altra parte, se si realizzasse, p. es., l'idea del Leibniz, di ridurre in sistema logico il Corpus iuris, farebbero figurare anche il diritto come una scienza matematica.

Pertanto la definizione più obiettiva e completa delle matematiche rimane quella estensiva che si trae, senza ambiguità, dal suo sviluppo storico, che innanzi abbiamo tracciato nelle sue grandi linee. Del resto la questione non ha per le matematiche l'importanza che assume, ad es., per la filosofia, dove le molteplici discussioni al riguardo riflettono le discordi vedute filosofiche degli autori, che già nel concetto stesso della loro attività si vogliono far prevalere.

17. Significato degli enti matematici. - Il vero problema del valore delle matematiche non è tanto un problema di definizione, in cui si cerchi di delimitare l'attività matematica di fronte ad altre attività scientifiche, ma piuttosto è ricerca del significato degli enti matematici.

Si è accennato che per i primi studiosi, in specie per i Pitagorici più antichi, il numero, il punto, la linea, la superficie, ecc., sono veri oggetti materiali. Ma con la critica della teoria delle monadi (n. 1) il pensiero si solleva - nella scuola eleatica - al concetto razionale di codesti enti: così il vero punto non sarà più un granellino di sabbia, di piccola o minima estensione, bensì un segno, qualcosa d'inesteso che Euclide definirà (I, Term. 1) come "ciò che non ha parti"; la linea diverrà pura lunghezza senz'altre dimensioni, la superficie sarà privata di spessore, ecc. A sua volta il numero, sciogliendosi dall'associazione col gruppo di punti, apparirà nel suo senso puramente astratto.

Allora che realtà si può concedere a codesti enti? Se essi non corrispondono più a nulla che esista in senso corporeo, che valore può riconoscersi allo studio di queste finzioni?

Tali domande dividono, fin dal tempo dei Greci, le mentalità opposte dei razionalisti e degli empiristi. La tesi di questi fu sostenuta nella Grecia del sec. V a. C. dai sofisti. Protagora non conferiva realtà che alle cose sensibili; perciò delle linee diceva che nessuna di esse è perfettamente retta e curva" e che un cerchio ha comune con la tangente non un solo punto, ma un piccolo tratto di linea. Per contro dalle scuole dei matematici razionalisti (nuovi circoli di pitagorici, Democrito) è sorta la veduta opposta, che ha trovato la più alta espressione nella teoria delle idee di Platone: le forme matematiche (schemi, idee) hanno una propria esistenza, non in senso corporeo, ma come realtà intelligibile che il pensiero ci fa conoscere, di fronte a cui la realtà sensibile è solo un'ombra.

La controversia medievale fra realisti e nominalisti riproduce queste posizioni contrastanti, non mai definitivamente conciliate. E vero che la critica psicologica a partire da Abelardo e, nei tempi moderni, con Locke, Berkeley e Hume, ha dimostrato come le idee generali si formino, nella nostra mente, per associazione e astrazione dalle immagini sensibili; ma resta sempre meraviglioso che queste formazioni matematiche valgano a rappresentare in un ordine così perfetto i fenomeni della natura. "La filosofia - dice Galileo (Opere, VI, 232) - è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola...".

Quest'ordine matematico della natura, il Descartes e il Leibniz, dopo Galileo, lo vedono come ordine divino delle cose. Kant lo attribuisce all'attività della mente che ordina il caos dei dati sensibili, secondo le proprie intuizioni necessarie; e nondimeno giudica che la possibilità dell'esperienza in generale (da lui concepita in senso assoluto) conferisca realtà ai giudizî sintetici a priori che esprimerebbero codeste intuizioni.

I più recenti logici matematici, inispecie B. Russell, tornano, in qualche modo, alla posizione del realismo leibniziano, guardando nelle matematiche alla struttura logica e ritenendo la logica stessa come un sistema di relazioni fra enti intelligibili, cui viene subordinato il mondo delle cose sensibili.

Riflesso di un ordine esteriore o della stessa attività della nostra mente che elabora le immagini sensibili, il regno delle verità matematiche non cessa di apparire al pensiero come qualcosa di dato e non di artificialmente costruito; e così viene sentito anche dai matematici che accolgono le dottrine empiriche e risolvono in questo senso il problema dello spazio (v. geometria: n. 10). Perciò i matematici parlano sempre di scoprire anziché d'inventare. Qualcuno - come C. Hermite - vuol fare assomigliare il lavoro matematico al lavoro di classificazione e di descrizione del naturalista. Altri confessa di non poter contemplare l'armonia sempre più ricca di significato che si svela negli enti matematici, senza provare un turbamento mistico. La storia dell'antico misticismo pitagorico ci ammaestra sufficientemente su questo aspetto delle menti matematiche.

Infine tutti i cultori delle matematiche vi scorgono riposte bellezze. E già Platone decantava le armonie ideali, leggi di proporzione e di numero, assai più belle delle "meraviglie del Cielo, che sono nel regno del visibile". Questo valore estetico prende la più grande importanza agli occhi di quei pensatori che ritengono le matematiche essere, non tanto una scienza, quanto una creazione dello spirito umano, del tipo dell'arte.

18. Le matematiche nella cultura. - Comunque i filosofi vogliano risolvere il problema del significato degli enti matematici, rimane il fatto che le matematiche hanno dominato, traverso la storia delle età più fruttuose, lo sviluppo della scienza. Se il programma della spiegazione meccanica del mondo doveva cedere ai giorni nostri, dopo due secoli di tentativi, a una nuova impostazione del problema fisico, conviene riconoscere che il nuovo indirizzo in tanto ha trionfato in quanto ha consentito una più larga matematizzazione delle scienze, scoprendo fin nell'intima natura dell'atomo un meraviglioso ordine pitagorico, e così riconducendo in principio anche la chimica sotto il segno delle matematiche.

L'influenza delle matematiche su tutti i rami della tecnica è troppo evidente. Ma non si può nemmeno negare che le idee suggerite dalle matematiche o da pensatori matematici abbiano esercitato il più forte impulso sul movimento del pensiero filosofico, sia in senso idealistico (Platone, Descartes, Leibniz), sia in senso opposto, come si vede nel creatore del positivismo, A. Comte. Talune fra le più gigantesche costruzioni metafisiche confessano apertamente l'ideale della forma matematica a cui s'ispirano: p. es., l'Ethica ordine geometrico demonstrata di Spinoza. La Critica della Ragion pura di Kant prende le mosse dalla confutazione della metafisica che s'ispira appunto a questo ideale matematico. E in generale l'avversione che, da molte parti, si è sollevata contro questo o quell'influsso della mentalità matematica nella filosofia, attesta indirettamente l'importanza storica di tali influssi.

Le ragioni della ripugnanza o dell'antipatia spiegata da alcuni pensatori contro le matematiche hanno interesse per chiarire le tendenze dello spirito matematico e il suo significato nella cultura. Queste ragioni sono in parte attinenti alla diversa psicologia degli uomini; alle fantasie romantiche o sentimentali non solo riesce dura la disciplina del pensiero matematico, ma gli stessi suoi oggetti sembrano senza colore. Diceva G. B. Vico "alle menti già dalla metafisica fatte universali non riesce agevole codesto studio proprio degli ingegni minuti". Ma egli non aveva soltanto dei motivi psicologici per avversare la filosofia cartesiana. Lo stesso si può dire dell'opposizione che il concetto matematico della scienza ha suscitato all'epoca del romanticismo tedesco, nelle polemiche di Goethe o di Hegel contro Newton. E del resto Aristotele, che non fu certo un romantico, ebbe già a spiegare un atteggiamento simile, opponendo al regno astratto e statico delle idee matematiche la ricchezza del concreto, della qualità e della vita.

Al pensiero matematico e alle mentalità che vi si conformano si rimprovera, nell'ordine speculativo, il rigido determinismo che esclude la visione del fine, della libertà e della spontaneità; e nell'ordine pratico (morale, politico, ecc.) la concezione della verità come universale e immobile, che contrasta con la varietà, mutabile nel luogo e nel tempo, dell'esperienza storica. Appunto questa mentalità si riconosce negli enciclopedisti francesi del sec. XVIII; e contro di essa si volge il movimento della romantica, avvalorando, in confronto della matematica, la veduta storica.

L'opposizione fra matematismo e storicismo non è priva di fondamento. Tuttavia essa appare superabile e conciliabile. Certo, nei pensatori matematici, si trova talvolta una profonda comprensione della storia. Il positivismo del Comte ha pure la sua base in una concezione storica, che si svolge poi in alcuni discepoli come P. Tannery. E un alto senso storico si vede, p. es., negli studî di storia delle matematiche di H. G. Zeuthen e di F. Klein, o in quelli dell'astronomo G. V. Schiaparelli.

19. Matematiche e arte. - L'influenza del pensiero matematico non si spiega soltanto sulla filosofia, bensì anche sulle arti. Evidentemente su alcune di queste reagiscono le conoscenze tecniche, in stretto rapporto con le conoscenze matematiche; così la prospettiva sulla pittura, e la statica sull'architettura. Ma oltre l'influenza tecnica ce n'è un'altra, più intima, che gl'ideali matematici esercitano sul gusto e sui criterî proprî dell'arte. L'arte classica è governata in ultima analisi, dall'ideale della proporzione e della misura (si pensi, p. es., alla razionalità architettonica), che trascorre talvolta nel freddo convenzionalismo accademico, ma solo quando si vuol continuare come regola ciò che fu, nella sua fioritura, espressione di un particolar senso della bellezza, intesa come superamento delle passioni in una disciplina armonizzatrice. Naturalmente l'intromissione riflessa di criterî matematici pregiudica l'arte quando essi vengono sovrapposti dal di fuori; e già nell'antica Grecia se ne hanno esempî caratteristici. Citiamo Ippodamo di Mileto, l'ingegnere imbevuto delle idee pitagoriche, che disegnò il tipo della città geometrica con strade diritte intersecantisi perpendicolarmente, mentre portava il suo concetto dell'aritmetica nello schema di costituzione della polis a base ternaria, che sarà poi imitato da Dicearco; e ancora Policleto, l'autore del "canone" artistico basato sulle proporzioni del corpo umano, del quale non si vede scossa la dominazione (sostituendo alla proporzione vera l'apparente) se non da Lisippo, all'epoca alessandrina.

Ma perfino gli errori rivelano il significato dell'influsso delle matematiche sull'arte: i criteri matematici s'impongono naturalmente all'artista in quanto il suo mondo fantastico rifletta il disegno di una natura ordinata secondo leggi matematiche. In questo senso i poliedri regolari, che porgono gli elementi del Cosmo nel Timeo platonico, vi hanno insieme compito di bellezza.

Tali intuizioni risorgono negli animi del Rinascimento, con la filosofia neopitagorica e neoplatonica, e porgono i motivi della pittura di Masaccio e dei maestri del nostro Quattrocento: l'ordine prospettico, la proporzione e la misura delle linee e delle superficie, realizzate secondo fisse regole geometriche.

Gli artisti di quell'epoca e del secolo successivo - da Lorenzo Ghiberti a Paolo Uccello, a Leonardo da Vinci, a Alberto Dürer - s'innalzano, così, dall'opera d'arte alla ricerca della "divina proporzione", contemplando in essa la bellezza eterna e la verità universale.

La stilizzazione della pittura e dell'architettura - dominata dai precetti di Vitruvio - viene descritta in maniera profonda e suggestiva, da Leonardo Olschki, in un articolo Der geometrische Geist in Literatur und Kunst (in Deutsche Vierteljahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, VIII, 3), che dimostra anche l'influenza dello spirito matematico sullo sviluppo della lingua e della prosa, e in particolare sulla letteratura francese, fino a Voltaire e al rifiorire dei motivi classici, di là dalla reazione romantica, in alcuni letterati contemporanei, come Paul Valéry.

Psicologia

20. La mente dei matematici. - Nelle scuole i ragazzi che mostrano un certo talento per le matematiche non sono sempre i più intelligenti; ve ne sono alcuni, un po' timidi e impacciati, chiusi in sé stessi, che non hanno interesse per nulla fuori dei loro calcoli o delle loro figure. Allora i compagni richiamano volentieri l'antico adagio "mathematicus purus, purus asinus". In sostanza il giudizio si può far risalire ad Aristotele: un uomo stupido - egli dice - può eccellere nella geometria, come accadde a Ippocrate di Chio, che - dapprima commerciante - per goffaggine e stoltezza perse il suo danaro, facendosi frodare dai ricevitori della dogana di Bisanzio (Mor. Eudem., VII, 14 [5]). Però i tipi puri non sono grandi matematici. L'ingegno matematico un po' alto richiede, invero, una somma di doti che conferiscono a chi lo possiede una larga versatilità, anzi la potenza di approfondire diversi campi dello scibile. Vi sono matematici che non solo riescono a dominare altri rami di scienza teorica o eccellono nel possesso di una tecnica, ma sono a un tempo filosofi, o giuristi o medici o artisti o scrittori di stile meraviglioso, come Galileo e B. Pascal; talvolta anche poeti.

Le attitudini pratiche si trovano disegualmente ripartite fra i matematici. Nell'antichità molti ebbero uffici politici nella loro città, come Archita di Taranto che fu sette volte stratega e capo del governo dei Tarantini.

Napoleone, che apprezzava le matematiche ("il progresso degli studî matematici è strettamente congiunto con la prosperità dello stato") ebbe a chiamare al governo il Laplace, ma dopo pochi giorni rinviò il suo ministro, colmandolo d'onori, con questa annotazione: "Cet homme portait dans les affaires publiques l'esprit des infiniment petits". Però non si affogavano egualmente nelle minuzie Gaspard Monge e Lazare Carnot: il primo è creatore della scuola politecnica di Parigi, ispirata al più alto senso pratico, che ha dato alla Francia i suoi strateghi e alcuni dei più celebri matematici; il secondo, fiero giacobino nel periodo rivoluzionario, durante le ore tragiche della Convenzione, salvò la patria dall'assalto di fuori, meritando di essere chiamato "l'organizzatore della vittoria".

21. Distrazioni celebri. - Piuttosto che l'abito a chiudersi e isolarsi in un campo ristretto, si può riconoscere ai matematici, almeno con una certa frequenza, un altro carattere che di solito viene loro attribuito: la distrazione. Il ritratto che Platone ci dà dell'astronomo, il quale, guardando il cielo, cade nel pozzo che non vede ai suoi piedi, conviene a più d'un matematico. Di Archimede racconta Plutarco che "senza posa attratto dalla geometria, come da sirena domestica, dimenticava di bere e di mangiare, e trascurava la sua persona; portato talvolta di peso dai familiari al bagno o alla stufa, disegnava figure geometriche nella cenere, oppure sul proprio corpo unto d'olio tracciava linee col dito: a tal punto lo possedeva il furor delle muse". Ed è rimasto celebre l'aneddoto che - avendo scoperto il principio dell'equilibrio idrostatico mentre meditava nel bagno su un problema della corona del re - uscì fuori ignudo, gridando "εὕρηκα, εὕρηκα" (ho trovato!). Aneddoti divertenti di questo genere si raccontano anche di molti matematici moderni. A. M. Ampère, volendo cuocere un uovo nel giusto tempo, butta nell'acqua bollente l'orologio e aspetta con l'uovo in mano. H. Poincaré, passeggiando per le vie di Parigi, si accorge, un giorno, di tenere nelle mani una gabbia di uccelli, presa distrattamente dal banco di un venditore ambulante.

Ma la distrazione non è, infine, che un segno dell'estrema concentrazione di pensiero che richiede ai matematici l'esercizio della loro attività; e si spiega dunque come grado più intenso di un fenomeno comune.

22. Logica e intuizione. - Per capire qualcosa della mente matematica, bisogna analizzarne gli elementi. Il primo che colpisce subito è la facoltà logica, non dico la grande logica degli spiriti superiori (che esprime l'attività unificatrice del pensiero), bensì la logica minuta, che procede con rigore impeccabile nei suoi passaggi, e sa inibire nell'astrazione ogni motivo perturbatore del ragionamento, e lavora soltanto su idee chiare e ben definite. Il possesso di questa logica, almeno fino a un certo punto, costituisce l'esigenza pregiudiziale per una mente che voglia comprendere o fare della matematica; ma conferisce a questa non l'arte, sibbene soltanto "lo fren dell'arte". Intanto però, proprio questa esigenza allontana menti diverse in cui la facoltà logica è meno sviluppata, ovvero è sottoposta ad altre facoltà. Ci sono alcuni per cui le associazioni sentimentali sono inseparabili da ogni momento del pensiero, e che perciò ripugnano dall'astrazione: sono, p. es., quelli che rifiutano di ragionare sull'homo oeconomicus di Adamo Smith, parendo loro che un uomo il quale obbedisca a motivi soltanto economici debba esser ritenuto, non già come il tipo dei rapporti economici, ma piuttosto come un mostro, da mettere al bando dell'umanità. Costoro, evidentemente, non potranno mai fare della matematica. Altri sono respinti dalla minuzia del ragionamento che sembra soffermarsi su particolari insignificanti; altri pure dalla fervida fantasia sono portati ad amare il chiaroscuro o addirittura le ombre popolate d'immagini fuggenti, invece che le idee chiare e lucide. In generale tutte queste differenze si legano a ragioni affettive, ma, dalla maggior parte delle menti bene conformate, la logica è sufficientemente posseduta per congentire la comprensione delle matematiche e il loro apprendimento, almeno fino ad un certo grado.

Però, come si è detto, la sola logica non fa mente matematica. Chiunque abbia la minima disposizione speciale a questi studî, la rivela con l'interesse appassionato per i numeri o per le figure. Davanti a un problema egli ha la rivelazione del suo talento o del suo genio, che è essenzialmente intuitivo. Si tratta di un'intuizione sui generis, che può paragonarsi alla poesia o alla musica. Poeta o musico o matematico, nel significato più alto della parola, si nasce soltanto, non si diviene; ma l'educazione vale a svolgere notevolmente e a disciplinare, nel senso più utile, la nativa attitudine.

Non si deve confondere l'intuizione matematica, in nessuno dei suoi aspetti di cui si parla più innanzi, con l'abilità dei calcolatori, che eseguiscono a memoria i calcoli più laboriosi. Questa è una attitudine d'ordine assolutamente inferiore, che taluno ritiene di trovare anche nei cavalli di Eberfeld. La maggior parte dei matematici non ha per il calcolo numerico alcuna disposizione particolare, sebbene essa s'incontri in qualcuno, come A. Cauchy, che riuscì a superare nella gara il calcolatore Mondeux, usando tuttavia formule ignote al suo competitore.

L'intuizione matematica non differisce qualitativamente da quella che si dispiega nelle altre attività scientifiche d'ordine teorico, e difficilmente potrebbe disgiungersi dallo spirito della grande logica unificatrice. Solo l'esercizio unilaterale di essa dà talvolta ai matematici alcuni caratteri per cui essi vengono distinti, non vantaggiosamente, dagli altri uomini. B. Pascal ha posto qui la distinzione fondamentale fra "l'esprit géométrique" e "l'esprit de finesse"; col primo egli intende lo spirito logico un po' gretto, senza sentimento di umanità, e così Pascal geometra calunnia un pochino la geometria. Ma è certo che lo spirito umanistico della cultura non può essere acquisito dal matematico col puro esercizio della sua attività professionale.

23. Diverse attitudini del pensiero matematico. - Nel lavoro matematico si riconoscono diversi indirizzi, che sono in qualche rapporto coi diversi rami della scienza, e che rivelano attitudini diverse dello spirito. Alcuni matematici eccellono per il senso del simbolismo e delle analogie formali, attraverso le quali indovinano spesso le verità più riposte. Altri posseggono una comprensione più sintetica dei problemi, geometrici o meccanici o fisici, che soggiacciono al calcolo; sia che ricorrano a una vera visione immaginativa dell'oggetto, sia che adoperino una forma d'intuizione più astratta, come accade in alcuni rami più recenti della geometria (per esempio nella geometria degli spazî a più dimensioni). Il senso del simbolismo e l'abilità algoritmica può associarsi d'altronde a un'alta visione o intuizione, siccome accade in alcuni dei grandi matematici. I due diversi atteggiamenti mentali solo in parte corrispondono ai campi di studio (del resto strettamente connessi) che si distinguono come analisi e geometria; se i sintetici intuitivi si vogliono designare come "geometri", bisogna attribuire a questa classe alcuni fra i maggiori studiosi che abbian fatto progredire l'analisi (p. es., la teoria delle funzioni o dei gruppi, ecc.), quali B. Riemann, S. Lie e H. Poincaré.

Le diverse attitudini dello spirito matematico si trovano press'a poco egualmente distribuite fra i popoli della cultura europea. I quali contribuiscono del pari egualmente ai diversi rami delle matematiche. Se, in qualche periodo, accade che taluno di essi coltivi di preferenza un ramo o un indirizzo degli studî matematici, ciò sembra derivare da differenze occasionali o di tradizione dell'insegnamento, piuttosto che di razza. Tentativi di stabilire distinzioni al riguardo non sono riusciti. Così nel periodo più vicino a noi, si vede in Germania coltivata più che altrove l'aritmetica superiore (teoria dei corpi di numeri), in Francia la teoria qualitativa delle funzioni, in Italia la geometria; ma non bisogna dimenticare che lo studio delle funzioni, iniziato col sec. XIX da A.-L. Cauchy, era passato poi in Germania nelle scuole di B. Riemann e di C. Weierstrass, e che la geometria, rinnovata da Francesi ai principî del secolo, ebbe poi la sua maggior fioritura in Germania e in Inghilterra, prima di trovare il suo centro proprio nella scuola italiana di Luigi Cremona. Nemmeno si può riconoscere alcuna differenza caratteristica nel lavoro dei matematici ebrei: s'incontrano fra loro degli spiriti eminentemente analitici come G. Jacobi, apostoli dell'aritmetismo come L. Kronecker, geometri nettamente sintetici, come M. Nöther e C. Segre e anche spiriti essenzialmente filosofici, come A. Einstein.

Qui si può osservare (con il Klein) che la continuazione di un indirizzo della scienza e il suo progresso ulteriore appaiono spesso legati al passaggio da una scuola a un'altra, e dall'uno all'altro paese; pare che un nuovo terreno di cultura delle dottrine permetta agli antichi semi di gettare nuovi germogli.

24. La scoperta. - Diceva Cicerone, nel De Oratore, secondo Democrito e Platone "poetam bonum neminem sine inflammatione animorum existere posse et sine quodam adflatu quasi furoris" In un certo senso questo è vero anche per quei poeti che sono i matematici. Certo chi è pratico delle equazioni di secondo grado può adoperarle per sciogliere sistematicamente qualunque problema di quell'ordine che gli venga proposto. E così chi è pratico dei metodi superiori dell'analisi può egualmente sciogliere ogni problema che importi il semplice uso di essi. Ma in questi casi, se pure occorra uno sforzo di applicazione e magari faticosi sviluppi, si può dire che il matematico cerca ciò che già, in qualche modo, anticipatamente conosce. Egli è qui un versificatore e non un poeta. Invece la vera ricerca (sforzo di creazione poetica) è quella in cui la domanda si presenta come nuova, senza che sia segnata la via della risposta. Allora lo studioso chiede ansiosamente un'idea che valga a ravvicinare l'ignoto al già noto; cerca talvolta per giorni o, a ripetuti intervalli, per mesi e per anni, finché venga un'ora in cui l'idea si palesa, spesso a un tratto, come luce sfolgorante o come lumicino acceso nella notte che incoraggia ad avanzare di un passo, e promette vicina una luce più grande. È il momento della grazia, in cui lo scopritore apre l'animo alla gioia di una rivelazione quasi divina.

Tutti i matematici che hanno descritto il cammino delle loro scoperte parlano, a tale riguardo, un linguaggio simile. Dice il Jacobi: "Crescunt disciplinae lentae tardeque; per varios errores sero pervenitur ad veritatem. Omnia praeparata esse debent diuturno et assiduo labore ad introitum veritatis novae. Iam illa certo temporis momento divina quadam necessitate coacta emerget".

Il racconto interessante che Poincaré ci dà di alcune sue scoperte in Science et méthode, suona nello stesso senso. Già l'allievo, del resto, cui si propone un problema di geometria elementare, e che fatica sulla risoluzione finché non sorga nella sua mente l'idea che scioglie la difficoltà, conosce pure qualcosa del travaglio e della gioia di una prorompente scoperta matematica. Anche negli altri campi della scienza e della speculazione la verità si discopre, dopo un lavoro preparatorio, in forma di luce improvvisa. Solo che nella riflessione matematica vi è spesso una tensione maggiore, specie quando la difficoltà si presenti al pensiero nella forma angosciosa del paradosso o della contraddizione, a cui segue allora una illuminazione rivelatrice più subitanea.

Ma il momento intuitivo della scoperta non esaurisce la produzione scientifica: per il matematico occorre dimostrare la tesi conquistata o divinata, cimentandola con una critica rigorosa; e quì interviene essenzialmente la facoltà logica. Nell'esecuzione di questo lavoro si palesano le differenze degl'ingegni individuali. Ci sono temperamenti classici che dànno la sistemazione più compiuta delle cose. Altri piuttosto romantici lasciano in generale qualche lacuna; dialettici amanti della generalità astratta e formale sottilizzano sui punti più minuti e falliscono talvolta in malo modo; spiriti induttivi si affidano di preferenza ad esempî concreti e - se pure non raggiungano sempre il rigore perfetto - si preservano in tal guisa dagli errori più gravi. La natura e l'occasione dell'errore è quasi sempre un segno rivelatore della psicologia del matematico, ricco d'insegnamenti e di significato.

25. Insegnamento. - Nella fase attuale della civiltà il possesso di una certa cultura mätematica è richiesto come strumento da un largo numero di uomini, per molteplici rami dell'attività civile e militare.

Da ciò, e dalle difficoltà che spesso s'incontrano negli allievi, trae importanza il problema dell'insegnamento delle matematiche. Ma, a prescindere dalle applicazioni tecniche, l'educazione matematica ha anche un cospicuo valore formativo - specialmente se associata a studî di altra natura - tanto da apparire un complemento, o meglio una parte essenziale, dell'istruzione classica. Abbiamo citato alcuni passi di Platone che afferma esplicitamente tale valore educativo (n. 1), e si può dire che appunto a questo filosofo le matematiche debbono il posto che tradizionalmente tengono nell'insegnamento. È stato poi generalmente riconosciuto che esse promuovono uno sviluppo più largo e potente di tutte le facoltà intellettuali.

Anzi il valore formativo delle matematiche si palesa non soltanto nell'elevamento e nel potenziamento delle intelligenze che, attraverso l'istruzione classica, vogliono abilitarsi ai più alti studî, bensì anche nei primi gradi di educazione dell'infanzia e delle classi popolari. E ciò tiene in parte alla circostanza che l'intelligenza matematica è assai precoce.

Due pedagogisti soprattutto hanno lavorato a portare le conoscenze matematiche nell'educazione del fanciullo, come elemento del suo sviluppo intellettuale: E. Pestalozzi (1746-1827) e F. Fröbel (1782-1852). Il primo ammaestra "come Gertrude insegna ai suoi figliuoli" inculcando loro di buon'ora la consapevolezza dei rapporti di numero e di misura, che essi debbono apprendere presto e con chiarezza. Il secondo, già nei suoi primi doni, e negli esercizî dei suoi giardini, offre ai fanciulli la visione delle figure geometriche e delle loro simmetrie, sotto la forma del giuoco, con una progressione metodica che risponde a un preciso disegno educativo.

Del resto, quando si tratta di educazione dell'infanzia o d'insegnamento popolare, l'indirizzo formativo non può dissociarsi da quello utilitario, che crea, con l'interesse, le condizioni di accoglimento delle cose insegnate. Da questo punto di vista si deve apprezzare tutto ciò che è stato fatto, fin dai tempi del Rinascimento, per agevolare l'istruzione dei tecnici e dei pittori: la geometria pratica di approssimazione svolta a questo scopo da Luca Paciuolo, riprendendo le antiche costruzioni babilonesi-egiziane che si basano sull'esagono regolare; e poi la prospettiva di Leon Battista Alberti (1404-1472) e di Piero della Francesca (1420-1492); e tutto lo sviluppo della matematica fuori della scuola che è caratteristico del nostro Cinquecento e di cui siano informati dalla lettura delle Vite del Vasari. Per esempio, si apprende di qui come il Brunelleschi, pur essendo privo di educazione letteraria, abbia imparato tuttavia gli elementi della matematica dalla pratica dell'esperienza, alla quale attinge anche Leonardo da Vinci.

La straordinaria importanza che la matematica è venuta acquistando attraverso il Rinascimento, ha prodotto il bisogno di una larga volgarizzazione di essa nel sec. XVIII. A questo movimento si collega il lavoro dei geometri francesi di quell'epoca e degli inizî del secolo XIX, per rendere accessibile a più vasti circoli la geometria, che - negli Elementi d'Euclide - presenta allo studio qualche difficoltà. Citiamo a tale riguardo A. Clairaut, che dà, p. es., il volume del prisma triplo di quello della piramide di egual base ed altezza, riferendosi al caso del cubo, il quale, per proiezione dal centro, viene decomposto in 6 piramidi di egual base e di metà altezza. Anche la vasta opera didattica di A.-M. Legendre, che pur si volge a un insegnamento di grado più elevato, risponde - almeno in parte - ai medesimi scopi, sicché ai libri di geometria elementare dell'autore toccò, ai suoi tempi, un'immensa diffusione, tanto in Francia quanto in Italia. Più tardi però questi libri sollevarono diverse critiche, non solo perché in alcuni punti la trattazione soddisfa meno al rigore (mentre, a dir vero, in altri punti, e in specie nella geometria solida, l'autore supera e completa Euclide), ma anche per il metodo seguito, che riduce in genere le questioni geometriche alla misura e quindi al loro aspetto algebrico; si è osservato che l'insegnamento geometrico viene così a perdere valore, come mezzo educativo dell'intuizione.

Appunto per questo motivo i matematici che hanno cooperato a restaurare la scuola media in Italia, dopo la formazione del regno - E. Betti, F. Brioschi e L. Cremona - hanno bandito da questa scuola (o almeno dall'istituto classico) il Legendre e altri libri fatti a sua somiglianza, per riportarvi il metodo di Euclide. In principio anzi furono adottati, come testo, proprio gli Elementi del geometra alessandrino, che contemporaneamente conservavano anche il loro posto tradizionale nell'insegnamento dell'Inghilterra. Poi si sono scritti in Italia libri che tendono a conservare i pregi del modello greco, perfezionando da un lato il sistema logico e d'altro lato illustrandolo con osservazioni intuitive.

Frattanto però si delineava in altri paesi un movimento, che in Germania ha trovato un propulsore in F. Klein, per l'introduzione di metodi più intuitivi ed empirici, facilitando l'apprendimento della parte elementare classica della geometria e per contro spingendo avanti lo studio più generale delle proprietà geometriche che dischiudono la veduta dell'analisi infinitesimale. In Italia l'insegnamento intuitivo si è adottato nei primi anni della scuola come avviamento allo studio razionale, e l'ordine d'idee kleiniane - per quel che concerne un insegnamento più elevato - ha avuto un principio di attuazione nel programma del liceo moderno e nei libri che per esso furono pubblicati. Nell'ordine odierno della scuola media, in seguito alla riforma Gentile, l'insegnamento della geometria elementare secondo l'indirizzo classico è conservato appunto all'istituto classico; mentre l'anzidetto programma del liceo moderno (derivata, integrale, ecc.) ispira il nuovo programma del liceo scientifico; tuttavia nel senso di un maggior rigore logico.

Ci limiteremo ad aggiungere che tali questioni didattiche hanno dato luogo a larghi studî e discussioni per opera di una "Commissione internazionale per la riforma dell'insegnamento delle matematiche", istituita nel Congresso di Roma (1908), che ha pubblicato sull'argomento molti volumi, e ha per organo L'Enseignement mathematique di H. Fehr a Ginevra.

D'altra parte i problemi attinenti alle matematiche elementari in rapporto agli sviluppi superiori della scienza, e quindi anche i diversi assetti delle teorie che formano oggetto dell'insegnamento, sono stati studiati nella raccolta delle Questioni riguardanti le matematiche elementari coordinate da F. Enriques (3ª ed. in 4 voll., Bologna 1924-27; trad. ted. della 1ª ediz., Lipsia 1907-1908). La loro trattazione, connessa con la storia e la filosofia della scienza, viene proseguita nel Periodico di Matematiche (serie IV) che si pubblica a Bologna, a cominciare dal 1921.

Bibliografia

Le questioni generali attinenti alla matematica - al suo significato, al posto che ha nella cultura ecc. - si trovano esposte in un volume della raccolta enciclopedica Die Kultur der Gegenwart, parte 3ª, cap. 1° (articoli di H.G. Zeuthen, A. Voss, H. E. Timerding); vedi anche A. Voss, Über das Wesen der Mathematik, 3ª ed., Lipsia 1913; Th. Yourdain, The Nature of Mathematics, 1919; H. Wieleitner, Der Gegenstand der Mathematik im Lichte ihrer Entwicklung, Lipsia e Berlino 1925. - Un'esposizione volgarizzata della matematica, che si solleva ai più alti concetti in forma non tecnica e suggestiva è data da W. Clifford, Il senso comune nelle scienze esatte, trad. it. di G. A. Maggi, Milano 1886.

Per i rapporti fra matematiche e filosofia, teoria della conoscenza matematica, ecc.: H. Poincaré, Science et hypothèse, La valeur de la science, Science et méthode, Parigi 1904-1908; F. Enriques, Problemi della scienza, 3ª ed., Bologna 1923 (trad. ted., ingl., e franc. in due volumi); id., Per la storia della logica, Bologna 1922 (trad. franc., ingl. e ted.); O. Hölder, Anschauung und Denken, in Mathematik, Lipsia 1900; E. Mach, Irrtum und Wahrheit, Lipsia 1905; P. Boutroux, Les principes de l'Analyse mathématique, exposé historique et critique, Parigi 1919; v. altresì gli articoli di H. Weil nel Handbuch der Philosophie, Monaco e Berlino 1926. - Per orientarsi nella matematica e prepararsi alla lettura delle opere originali, si hanno trattati che vanno dai libri per le scuole primarie, ai testi per le scuole medie, ai trattati scolastici universitarî sulle materie del nostro primo biennio (analisi algebrica e infinitesimale, geometria analitica, proiettiva e descrittiva, meccanica razionale), fino ai rami differenziati delle matematiche superiori. V. anche le voci matematiche principali. Inoltre un'esposizione sintetica degli aquisti fatti nelle varie teorie è offerta dalla citata Encyclopädie der mathematischen Wissenschaften, ecc., di cui fu interrotta con la guerra mondiale la redazione francese. In Francia si è iniziata, in un suo luogo, una serie di Mémorials, però meno completa. Un Repertorio di matematiche superiori assai utile, sebbene di proporzioni più ristrette, è quello di E. Pascal (Milano, 1898-900; 2ª ed.), ripreso e rinnovato in tedesco da P. Epstein e H. E. Timerding, con la collaborazione di altri matematici, sotto il titolo di Repertorium der höheren Mathematik (Lipsia, 2ª ed. iniziata nel 1910).

I contributi originali dei matematici vengono esposti di solito, per così dire giorno per giorno, negli atti delle accademie scientifiche, nei giornali o riviste all'uopo dedicate. Per informarsi del movimento, in ogni ordine di questioni, il matematico dispone oggi di alcuni organi speciali: Jahrbuch über die Fortschritte der Mathematik (Berlino 1868 segg.); Revue semestrielle des publications mathématiques (Amsterdam 1893 segg.); Centralblatt für Mathematik (Berlino). - Chi vuole apprendere in modo vivo lo sviluppo delle matematiche deve studiare, in prima linea, le opere originali dei grandi matematici, le quali si trovano, di regola, raccolte in apposite edizioni, con l'epistolario, note, ecc. Ricordiamo anche, J. C. Poggendorff's biographisch-literarisches Handwörterbuch für Mathematik, ecc. (Lipsia-Berlino 1863-1925, voll. 5). - Tratti e aneddoti in W. Ahrens, Scherz und Ernst in der Mathematik, Lipsia 1904.

Storie delle matematiche: J. F. Montucla, Histoire des mathématiques, Parigi 1802; G. Libri, Histoire des sciences mathématiques en Italie, Parigi 1838-1941; M. Cantor, Vorlesungen über Geschichte der Mathematik, 2ª ed., voll. 4, Lipsia 1894-1907; 4ª ed., I, 1922; G. Enestrom, Bibliotheca mathematica, Lipsia 1900-1913; J. Th. Merz, A History of the European Thought in the XIX Century, Edimburgo 1913; H. G. Zeuthen, Geschichte der mathematischen Wissenschaften im XVI. und XVII. Jahrhundert, Lipsia 1903; G. Loria, Storia delle matematiche, voll. 2, Torino 1931; E. Bortolotti, Studi e ricerche sulla storia delle matematiche in Italia nei secoli XVI e XVII, Bologna 1928. Per le storie delle matematiche antiche cfr. geometria. Ricordiamo infine, per la storia delle matematiche elementari J. Tropfke, Geschichte der Elementar-Mathematik, Berlino e Lipsia 1923; e la collezione Per la storia e la filosofia delle matematiche edita a Bologna. - Per lo sviluppo delle matematiche contemporanee in Italia: F. Enriques, Gli studi matematici in Italia, in Leonardo, Roma 1928.

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