TERZANO, Massimo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TERZANO, Massimo.

Stefano Masi

Nacque a Torino il 23 aprile 1892 in una famiglia di modeste origini. Non ancora quindicenne, cominciò a lavorare da apprendista nelle officine dell’Ambrosio Film. Qui fu allievo del meccanico Angelo Scalenghe, all’epoca tecnico delle macchine da presa, ma destinato ad avere anche molte esperienze come cineoperatore. Lo stabilimento nel quale Terzano si formò era stato aperto dal cavalier Arturo Ambrosio nel quartiere di Vanchiglia e all’epoca era già considerato il più importante studio cinematografico d’Italia. Dalle retrovie Terzano poté seguire anche la lavorazione del primo Gli ultimi giorni di Pompei (1908), una grande produzione fotografata dal pioniere Roberto Omegna.

Nello stesso periodo in cui compiva il suo apprendistato cinematografico nelle fila di quella che era la major del cinema italiano, il giovane Terzano lavorò anche come fotografo ritrattista, attività meglio remunerata in quegli anni, anche perché rapidamente si era conquistato un certo credito presso la clientela della borghesia torinese. Ma il suo interesse per il cinema lo indusse ad abbandonare la ritrattistica da studio per tornare sui set cinematografici. Trovò i suoi spazi nelle produzioni di un’altra compagnia torinese, più piccola, la Gloria Film, fondata da Mario Caserini. Al fianco del regista Giuseppe Pinto, Terzano fotografò i suoi primi film, da I cavalieri delle tenebre (1914) a Ombre umane (1915). Insieme a Scalenghe girò il melodramma In mano al destino (1916), prodotto da un’altra società di Caserini, la Tiber, e interpretato da una delle più amate dive dell’epoca, Lydia Quaranta. Ma era già iniziata la Grande Guerra e il ventiquattrenne Terzano non poté sottrarsi alla chiamata alle armi. Le competenze da operatore di ripresa gli evitarono il mattatoio della prima linea. Fu assegnato al reparto fotografico del Regio esercito: le sue riprese si ritrovano ancor oggi in numerosi documentari bellici dell’epoca.

Finite le ostilità, Terzano ritornò agli stabilimenti torinesi che, concluso il periodo d’oro, già vivevano le prime avvisaglie di una crisi dovuta alla concorrenza dei prodotti americani. Legò in quegli anni il proprio nome ai film del messinese Febo Mari e a quelli di Gustavo Zaremba de Jaracewski, molto attivo nelle fila della Ambrosio Film. Risale a quegli anni l’amicizia con il collega Ubaldo Arata, piemontese come lui, che si stava ugualmente facendo strada sulla scena delle produzioni torinesi. Un rapporto professionale ma anche d’amicizia: al momento della nascita del primo figlio, Terzano – in omaggio al collega – lo chiamò proprio Ubaldo. E Ubaldo Terzano sarà destinato anch’egli a una lunga carriera di operatore, nel dopoguerra, dopo la morte del padre (il nome di Ubaldo Terzano fu legato soprattutto ai fantasy diretti da Mario Bava negli anni Sessanta).

Nei primi anni Venti, insieme ai conterranei Arata e Gallea, Massimo Terzano si affermò come una delle grandi firme della fotografia dell’industria del cinema muto. Ebbe la fortuna di legare il proprio nome al più importante tra gli imprenditori emergenti, il distributore ligure Stefano Pittaluga. Per le sue società, la SASP e la Fert, fotografò i film diretti dal regista Gennaro Righelli e interpretati da Maria Jacobini, da Il viaggio (1921) a La casa sotto la neve (1921).

Mentre molti colleghi emigravano a Parigi e Berlino, Terzano si salvò dalla crisi produttiva che aveva cominciato a falcidiare la produzione nazionale rifugiandosi in grandi documentari legati a viaggi d’esplorazione: fotografò e diresse tre lungometraggi che lo condussero in giro per il mondo, Dall’Italia all’Equatore (1923), Un viaggio da Genova a Valparaiso (1925) e Paradiso bianco (1929), diario della spedizione guidata dal duca Aimone di Spoleto sulle pendici del Karakorum. Tra un viaggio e l’altro fu utilizzato dal tycoon Pittaluga per una serie di fantasiosi racconti d’avventura costruiti attorno al gigante buono Bartolomeo Pagano, in arte Maciste, da Maciste imperatore (1924) a Maciste all’inferno (1925), da Maciste nella gabbia dei leoni (1926) a Il gigante delle Dolomiti (1927), tutti affidati alla regia di Guido Brignone. Terzano fu tra i pochissimi operatori italiani ad attraversare con successo la seconda metà degli anni Venti, quando Mario Almirante gli affidò il compito di fotografare due produzioni importanti come Il carnevale di Venezia (1928) e La compagnia dei matti (1928). Operatore di fiducia del produttore Pittaluga, ne seguì la migrazione da Torino a Roma, dove il coraggioso imprenditore aveva rilevato gli stabilimenti della Cines, la più importante casa di produzione romana.

Ormai affermatosi come il più importante produttore cinematografico italiano, Pittaluga affidò proprio a Terzano e al giovane collega Ubaldo Arata il compito di illuminare il primo lungometraggio sonoro italiano, La canzone dell’amore (1930), diretto da Gennaro Righelli, regista col quale aveva già lavorato all’epoca del muto. Girato tra mille difficoltà tecniche, legate alla primitiva tecnologia sonora che influenzava pesantemente anche il lavoro del reparto fotografia, il film resta una pietra miliare della storia del nostro cinema e un fiore all’occhiello per quanti vi presero parte, anche per Terzano e Arata, che condivisero la responsabilità delle immagini, con un grande uso degli esterni e della luce naturale, rinforzata dai potenti proiettori a carbone dell’epoca.

Spostato a Roma il baricentro delle proprie attività e anche la sua residenza, Terzano fu la punta di diamante del reparto operatori alla Cines-Pittaluga. Toccò proprio a lui il compito di fotografare i film interpretati da una star dell’Italia di quell’epoca, Ettore Petrolini, da Medico per forza (1930) a Cortile (1930). Molto riuscita fu anche la sua rilettura dello stile della commedia brillante, di derivazione tedesca più che hollywoodiana, in La segretaria privata (1931) di Goffredo Alessandrini.

Mentre l’attenzione del regime fascista al cinema cresceva, Massimo Terzano si ritrovò senza l’uomo che da Torino l’aveva spinto a trasferirsi a Roma. Morto prematuramente nel 1931, all’età di soli 44 anni, Stefano Pittaluga lasciò l’impero che stava creando attorno agli stabilimenti della Cines di via Veio, ammodernati con la migliore tecnologia dell’epoca grazie ai finanziamenti erogati dalla Banca commerciale italiana con la garanzia dello Stato. Di quella tecnologia, importata per gran parte dalla Germania, fece tesoro Terzano nei suoi film dei primi anni Trenta, al servizio di uno dei migliori registi dell’epoca, Mario Camerini, ottenendo risultati di notevole impatto nella commedia sentimentale Gli uomini che mascalzoni… (1932), peraltro premiata alla prima Esposizione internazionale d’Arte cinematografica di Venezia e segnalata dalla critica anche fuori dai confini italiani per le sue immagini capaci di cogliere senza sforzo l’autenticità dei protagonisti. Il sodalizio artistico con Camerini produsse altri importanti risultati, sia nel campo del mélo (Come le foglie, 1934), sia in quello della commedia (Il cappello a tre punte, 1934; Darò un milione, 1935).

La nuova direzione della Cines, affidata a Ludovico Toeplitz e allo scrittore Emilio Cecchi, diede fiducia a Terzano che nella prima metà degli anni Trenta fotografò molte altre pellicole che puntavano sui contenuti figurativi dell’immagine, soprattutto la sinfonia visiva di Acciaio (1933), unico lungometraggio a soggetto del cineasta dell’avanguardia tedesca Walter Ruttmann, dove intere sequenze erano costruite sull’elaborazione di motivi ritmici all’interno del fotogramma. Un arabesco di forme e luci. Ma Terzano girò anche film dalla marcata vocazione realista, quali Ragazzo (1933) di Ivo Perilli, dedicato ai protagonisti della Roma minore, e il racconto di guerra Le scarpe al sole (1935) di Marco Elter. La grande perizia tecnica e l’incondizionata stima di Cecchi, eminenza grigia del cinema italiano negli anni del Fascismo, fecero di Terzano uno dei protagonisti della scena cinematografica nazionale, sebbene fosse considerato – e si considerasse lui stesso – un semplice «manovale della luce», come lo definirà il collega piemontese Carlo Nebiolo, sottolineando la sua mancanza di un’educazione scolastica di base.

Lo scrittore e cineasta Mario Soldati, torinese come lui, fornì una colorita descrizione di Terzano in un capitolo del volume 24 ore in uno studio cinematografico (Milano 1935), firmato con lo pseudonimo di Franco Pallavera, ricordando una visita al set del film Figaro e la sua gran giornata (1931), il primo dei tanti film che Terzano aveva illuminato per il regista Camerini.

Al suo sapiente gusto venne affidato il compito di nobilitare le sequenze più importanti di alcune impegnative produzioni a soggetto bellico, che intendevano costruire l’epica del Regime, da Aldebaran (1935) di Alessandro Blasetti a Squadrone bianco (1936) di Augusto Genina, da Il grande appello (1936) di Camerini a Sentinelle di bronzo (1937) di Romolo Marcellini.

Nei neonati stabilimenti di Cinecittà, Terzano si orientò per qualche tempo verso i film operistici, al fianco di cineasti quali Carmine Callone e Amleto Palermi. Onore e vanto della Cinecittà fascista, visse il periodo più felice della sua carriera nei primi anni Quaranta, impegnato occasionalmente anche in Francia, dove fotografò La comédie du bonheur (1940; Ecco la felicità) di Marcel L’Herbier, e in Germania, dove negli studi berlinesi di Temelhof illuminò Unser Fräulein Doktor (1940; La signorina professoressa) diretto dal regista Erich Engel. La Scalera Film gli affidò il compito di fotografare un cast internazione per un kolossal d’avventura ispirato ai romanzi di Emilio Salgari, uscito nelle sale italiane in due parti, Capitan Tempesta (1942) e Il Leone di Damasco (1942), coproduzione italo-spagnola girata a Roma in doppia versione, iniziata dal tedesco Hans Hinrich, passata nelle mani di Corrado D’Errico e condotta a termine da Umberto Scarpelli.

Proprio in quel periodo, nell’Italia dell’economia di guerra e della canzone Se potessi avere mille lire al mese, fece scalpore il passaggio di Terzano dalla Scalera alla Lux con il favoloso stipendio mensile di quindicimila lire.

Marchiati a fuoco da un barocco calligrafismo visuale, gli adattamenti d’origine letteraria della Lux Film di Renato Gualino offrirono a Terzano la definitiva consacrazione. Il suo talento brillò soprattutto in Malombra (1942) di Soldati, Un colpo di pistola (1941) e Zazà (1944) di Renato Castellani, pellicole nelle quali il «manovale della luce» potè esprimere una finezza del chiaroscuro che valorizzava al di là di ogni immaginazione il coltivato gusto scenografico di Gastone Medin e il magico tocco dei costumi di Maria De Matteis. Nel suo lavoro sui primi piani dell’attrice Isa Miranda in Malombra e Zazà egli dimostrò di essere l’unico italiano in grado di competere con lo splendore del coevo bianco e nero hollywoodiano, quello di Stanley Cortez e Gregg Toland, i quali comunque potevano avvalersi di negativi a grana più fine.

Vero animale della luce, aveva un infallibile istinto che gli consentiva di ignorare l’uso dell’esposimetro. Soldati, che orgogliosamente lo definiva «il mio operatore», lo utilizzò in una serie di pellicole d’origine letteraria, dal più realista Tragica notte (1942) fino a Le miserie del signor Travet (1945).

Legato alla parte più nobile del cinema del Ventennio, quella politicamente meno compromessa con le ideologie del fascismo, Terzano uscì indenne dalla brutale cesura della Seconda guerra mondiale. La partecipazione alle riprese del documentario sulla Resistenza Giorni di gloria (1946) di Giuseppe De Santis, Luchino Visconti e Marcello Pagliero gli fornì piena riabilitazione.

Nel dopoguerra ritrovò i suoi registi d’elezione, soprattutto Soldati e Camerini. Poté girare film che finalmente esploravano ambientazioni e temi vietati sotto il Fascismo, come Cronaca nera (1946) di Giorgio Bianchi.

Una fine prematura sottrasse al cinema italiano un talento che certamente avrebbe potuto dare un contributo memorabile anche alla stagione del neorealismo.

Morì a Roma il 18 ottobre 1947, pochi mesi dopo la scomparsa del collega e amico di sempre Ubaldo Arata. Se ne andarono quasi all’unisono due dei maggiori operatori della scuola piemontese di Cinecittà.

Fonti e bibliografia

An., Indiscrezioni, in Cinema, v.s., 1941, n. 128, p. 254; An., Tre ricordi: M. T., in Bianco e Nero, 1948, n. 1, p. 54, S. Masi, M. T., in Dizionario mondiale dei direttori della fotografia, Genova, 2006, t. II, pp. 523-526.

TAG

Direttori della fotografia

Banca commerciale italiana

Seconda guerra mondiale

Goffredo alessandrini

Uomini che mascalzoni