ROCCA, Massimo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 88 (2017)

ROCCA, Massimo

Enzo Fimiani

– Nacque a Torino il 26 febbraio 1884, primogenito di Giuseppe e di Teresa Pacchioda, che ebbero la sorella Carolina nel 1888.

Anarchico sin da giovanissimo, nel 1901 subì la prima condanna penale. Nel 1905 si avvicinò agli anarco-individualisti e teorizzò il ‘novatorismo’, corrente anarchica che fondeva culto di minoranze ribelli, superomismo, esaltazione della violenza.

Il termine novatore figurò in tre riviste di riferimento: da allora, a decine si sarebbero contati i periodici di varie tendenze cui egli collaborò. Braccato da prefetture e questure, coinvolto in conduzioni finanziarie sospette di varie testate, seduttore di folle nei comizi, polemista dall’acre virulenza verbale negli articoli, si firmò spesso Libero Tancredi, il più noto dei suoi circa venti pseudonimi. Sempre più provocatorio, spinse al culmine le diatribe a Roma contro chi rischiava di strutturare l’anarchia in partito associandola all’odiato universo legalitario o, tramite il federalismo, al socialismo libertario.

I contrasti da lui seminati sfociarono in rissa contro esponenti federalisti: nel congresso socialista anarchico laziale a Marino, il 29 aprile 1906, venne arrestato per complicità in tentato omicidio, ma prosciolto. La scia negativa di tali fatti e ulteriori dubbi su irregolarità contabili in gestioni di giornali, lo spinsero nel 1908 a emigrare negli Stati Uniti. Qui, specialmente a New York, si fece conoscere come conferenziere aggressivo e intraprese una serie americana del Novatore, che avviò una crociata germanofoba, per il riscatto dei popoli mediterranei.

Tornato in Europa, visse tra Milano e Roma fino alla fine del 1911, a Lugano come tipografo dal 1912 all’estate del 1913 e poi a Zurigo e Basilea con lavori precari. Il 19 novembre 1913 ebbe un figlio da Giuseppina Ressia: di nome Enzo, sarebbe poi stato riconosciuto dal futuro marito di lei, Felice Vialardi.

Assunse posizioni controverse: abbandonò pacifismo e antimilitarismo anarchici per esporsi a favore dell’avventura militare in Libia e di un neonazionalismo proletario opposto a quello, a suo parere sfruttatore, degli Stati tedescofoni e monarchico-clericali; legò con nazionalisti e sindacalisti rivoluzionari, ma si fece ‘liberista-rivoluzionario’, rivalutando il capitalismo; provò invano a riavvicinarsi agli ambienti libertari.

Nel 1914, rientrato in Italia, accostò di nuovo esponenti anarchici favorevoli all’intervento in guerra, ma prese a collaborare con l’Avanti!, organo del socialismo antinterventista, che poi lasciò in agosto per farsi paladino dell’ingresso italiano nel conflitto al fianco della Francia. Il 20 settembre fu tra i firmatari del manifesto contro l’imperialismo austro-tedesco. In ottobre il 5 tenne un comizio a Bologna (ferito da antinterventisti) e il 6 tentò di parlare a testa fasciata, mentre il 7 – intensificatesi le voci sul passaggio di Benito Mussolini all’interventismo – in un suo articolo su Il Resto del carlino lo definì «uomo di paglia», invitandolo con durezza a chiarire i propri intendimenti (cfr. Libero Tancredi, Il direttore de L’Avanti! smascherato. Un uomo di paglia). Lo scritto scatenò polemiche e risposte contrapposte, lacerò i socialisti, palesò la debolezza mussoliniana e ne accelerò la scelta interventista.

A cavallo tra il 1914 e il 1915 incrementò le azioni a favore della guerra, in comizi (coinvolto ancora in una rissa il 21 ottobre a Bologna), sulla stampa (tra le firme del Popolo d’Italia, il nuovo giornale fondato da Mussolini espulso dal Partito socialista), in volumi contraddistinti da violenza verbale. Costituì con altri a Milano il Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista. Si arruolò volontario nella legione garibaldina che combatté per la Francia nelle Argonne. Dopo una degenza in ospedale per malattia, tornò in patria il 18 marzo 1915. Lavorò come tipografo a Milano nelle edizioni Sonzogno per poi, all’ingresso italiano nel conflitto, partire volontario in fanteria il 25 agosto 1915.

Nell’immediato dopoguerra visse prima tra Parigi e Londra come redattore del giornale conservatore La Perseveranza, poi a Milano sposò Veneranda Bona e si avvicinò al fascismo. Nel 1919 fu uomo di fiducia di Mussolini e delle ‘associazioni patriottiche’; nel 1920 si iscrisse ai Fasci di combattimento, entrando nel comitato centrale; nelle elezioni politiche del 15 maggio 1921 si candidò nella lista del Blocco nazionale a Torino, ove era segretario del fascio un suo antico sodale, il tipografo Mario Gioda. Pur non eletto, Rocca contribuì al risultato favorevole ai candidati fascisti. Tra gli stretti collaboratori di Mussolini che, da Milano, guidavano le sorti fasciste, fu protagonista nel congresso di Roma del novembre del 1921, che trasformò il movimento in partito. Eletto nella commissione esecutiva (poi direzione, ove rimase fino al 5 marzo 1923), vide parte delle sue tesi congressuali trovare accoglienza, nell’idea di una ‘destra nazionale’ in grado di ottenere consensi più ampi.

Nel 1922 si fece sempre più liberal-conservatore in politica e liberista in economia, teorizzando un Partito nazionale fascista (PNF) che infondesse spirito nuovo fascista nello Stato liberale e un ritorno alla destra storica risorgimentale modernizzata sul piano tecnocratico. Avvicinatosi alla massoneria, effimero federale di Torino (24 aprile-10 maggio), spinse per un fascismo più moderato (nella crisi del governo guidato da Ivanoe Bonomi in febbraio giudicò prematuro andare al potere). Il 21 febbraio rappresentò la direzione PNF al primo raduno nazionale degli universitari fascisti, perorando stretti rapporti tra GUF (Gruppi Universitari Fascisti) e «gruppi di competenza», previsti dal partito per selezionare militanti esperti in questioni economico-amministrative. Il 13-14 agosto, nella riunione milanese dei vertici del partito, di fronte all’ipotesi di impadronirsi con la forza del potere, incarnò l’ala ‘legalitaria’ e appoggiò il compromesso. Il 19 ottobre, illustrando alla direzione PNF uno statuto per i gruppi di competenza, chiarì che li immaginava come ulteriori mezzi per ricondurre i fascisti al ruolo di tecnici al servizio della legalità nazionale. Se agli inizi di agosto fu tra i capi del comitato d’azione per l’occupazione di Genova, uno degli episodi più gravi di violenza squadrista, a fine mese firmò, con Ottavio Corgini, il nuovo programma economico-finanziario fascista di matrice liberista, vicino alle aspettative dei poteri economici. In novembre non venne cooptato nella presidenza del Consiglio del costituendo governo Mussolini per l’ostracismo dei dirigenti PNF. In dicembre – sull’onda dei ‘fatti di Torino’, duri rigurgiti squadristi a poche settimane dalla presa del potere – lanciò campagne di stampa critiche verso la violenza del fascismo radicale e compì il gesto simbolico di inviare fiori sulla tomba di un comunista ed ex anarchico; il 15, espresse dubbi sulla nascita della milizia fascista nella riunione ristretta indetta da Mussolini a Roma.

Nel 1923 fu membro del Gran consiglio (gennaio-settembre); fugace segretario nazionale aggiunto del PNF (5 marzo-24 aprile); fautore della fusione tra partito fascista e associazione nazionalista; componente di commissioni nominate dal Gran consiglio (marzo-maggio), una incaricata di proporre una riforma elettorale e l’altra di dettare norme su sindacati e tecnocrazia fascisti. In maggio fu relatore di un progetto di riforma costituzionale che creò problemi a Mussolini, costretto a smentire che il fascismo volesse abolire lo Statuto. Da aprile a settembre, fu segretario nazionale dei gruppi di competenza.

Tra settembre e ottobre, alcuni suoi interventi avviarono la polemica ‘revisionista’, crisi interna alle anime del fascismo. Se per revisionisti e bottaiani un partito ormai di governo doveva eliminare l’illegalismo e avere compiti di analisi politico-sociale, Rocca andò oltre: ribadì il superamento dei ‘rassismi’ locali per una visione nazionale e il rinnovamento tecnocratico del fascismo, ma arrivò ad adombrare lo scioglimento del PNF. Le reazioni degli integralisti furono dure. Il 27 settembre la giunta esecutiva del partito, presidente Roberto Farinacci, deliberò la sua espulsione. Mussolini però, nel manovrare le componenti fasciste, ottenne le dimissioni della giunta (trasformata in direttorio) e il 13 ottobre, con voto del Gran consiglio, la commutazione del provvedimento in tre mesi di sospensione. Rocca parve tornare nell’alveo del regime, da pedina della tattica mussoliniana, e in novembre ebbe l’incarico di fondare un quotidiano romano di propaganda.

Nelle elezioni politiche del 6 aprile 1924, escluso in Piemonte, riuscì a candidarsi in Lombardia, eletto per pochi voti di margine. Dal 26 aprile i suoi nuovi interventi sulla stampa per un ritorno alla «normalità» rinfocolarono le polemiche, giunte al culmine ai primi di maggio e divenute anche scontro personale con Farinacci. Rocca respinse la mediazione di Mussolini e il 16 maggio il direttorio lo espulse per la seconda volta dal PNF, invitandolo a dimettersi da deputato. Stavolta, l’interesse del duce fu la ratifica dell’atto. Esploso però in giugno il dramma del delitto Matteotti, non si dimise dalla Camera e criticò il potere fascista. Abbandonato da Giuseppe Bottai, ipotizzò la creazione di fasci autonomi, sondò possibili fronde parlamentari, votò contro il governo in novembre e il 3 gennaio 1925 intervenne nell’Ufficio I della Camera in difesa della libertà del Parlamento.

Risolta la crisi fascista, nel 1925 venne sottoposto a ferrea sorveglianza di polizia e colpito da procedimenti penali. Espatriato in Francia a fine anno, tra continui problemi finanziari scrisse a Parigi su vari giornali, si avvicinò ad ambienti antifascisti in rapporti con esponenti del regime caduti in disgrazia, ma non coltivò relazioni facili con i fuoriusciti. Nel 1926 gli venne ritirato il passaporto in febbraio; il 30 settembre il regio decreto n. 1750 gli tolse la cittadinanza italiana e il 9 novembre la Camera fascistizzata votò la sua decadenza da parlamentare. Il 14 gennaio 1927 venne condannato per diffamazione e corruzione, con mandato di cattura del 10 marzo, pena confermata in appello il 29 novembre.

Contattato dalle polizie politiche del regime già dal settembre del 1927, chiese soldi per accettare di essere informatore segreto in territorio francese a libro paga del fascismo: iniziò a collaborare con Aldo Borella nel marzo del 1929 e ne divenne «subfiduciario» dal gennaio del 1930. Poté lavorare nella tipografia Acrate e ottenne finanziamenti dal regime per la stampa del suo volume del 1930. Recuperò così la cittadinanza (r.d. 17 novembre 1932 n. 1510), il suo nome venne cancellato dalla lista dei sovversivi e il 20 febbraio 1933 fu ritirato il mandato di cattura. Espulso dalla Francia nel gennaio del 1937, rientrò in Italia. Nel febbraio del 1938 si trasferì in Belgio, da dove continuò a lavorare per il fascismo, salendo di grado in dicembre, come confidente «fiduciario» numero 714 a Bruxelles, nome in codice Omero. Vi rimase durante la guerra, fino all’estate del 1943. Intorno al 25 luglio, pubblicò articoli in favore del duce esautorato e il 27 gli scrisse un telegramma di fedeltà. Dopo l’8 settembre riparò in Germania e il 14, da Berlino, si rivolse ancora a Mussolini con una lettera in cui si proponeva come collaboratore. Non venne però aggregato alla Repubblica sociale, benché nel dicembre del 1943 risultasse tra gli informatori stipendiati. Arrestato dagli Alleati il 9 settembre 1944, fu detenuto nei pressi di Anversa e il 22 novembre 1945 condannato dalla magistratura belga a quindici anni di reclusione per collaborazionismo con il nemico, ridotti a 9 nel 1947. In Italia, il suo nome comparve nella lista dei fiduciari OVRA il 2 luglio 1946: opposti ricorsi all’Alto commissariato tra il 1946 e il 1947, ne ottenne la cancellazione il 12 maggio 1948 e in giugno tornò, libero, in Italia.

Continuò a scrivere su molti giornali, dirigendone alcuni. Accostatosi ad ambienti neofascisti, acuì però una visione elitaria e liberal-conservatrice. Pubblicò volumi di memorie e polemiche.

Morì a Salò il 22 maggio 1973.

Opere. L’anarchismo contro l’anarchia: studio critico documentario, Pistoia 1914; Dieci anni di nazionalismo fra i sovversivi d’Italia, 1905-1915, Milano 1918; Idee sul fascismo, Firenze 1924; Le fascisme et l’antifascisme en Italie, Paris 1930; La crisi della civiltà contemporanea, Milano 1949; Come il fascismo divenne una dittatura. Storia interna del fascismo dal 1914 al 1925, Milano 1952.

Fonti e Bibl.: Roma, Archivio Centrale dello Stato: Ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, 1924, bb. 5, 86; ibid., Divisione polizia politica, fascicoli personali, serie A, 1927-44, b. 78; Casellario politico centrale, b. 4362, f. 7886; Servizi informativi speciali, Alto commissariato per i reati fascisti, ricorsi confidenti OVRA, b. 15; Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, RSI, b. 20; Presidenza del consiglio dei ministri, Alto commissariato aggiunto punizione delitti OVRA, b. 13, f. 219; ibid., Commissione esame ricorsi confidenti OVRA, 1946-49, b. 15.

P. Gobetti, Ritratto di Libero Tancredi, in La Rivoluzione liberale, 9 ottobre 1923; R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, Torino 1965, ad ind.; Id., Mussolini il fascista, I, La conquista del potere, 1921-1925, Torino 1966, ad ind.; M. Missori, Gerarchie e statuti del P.N.F., Roma 1986, pp. 267 s.; E. Mana, Origini del fascismo a Torino (1919-1926), in Torino fra liberalismo e fascismo, a cura di U. Levra - N. Tranfaglia, Milano 1987, pp. 266-303, 342-364; E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, 1918-1925, Bologna 1996, ad ind.; S. Lupo, Il fascismo: la politica in un regime totalitario, Roma 2000, ad ind.; A. Luparini, Anarchici di Mussolini. Dalla sinistra al fascismo, tra rivoluzione e revisionismo, Montespertoli 2001, ad ind.; M. Antonioli, Rocca Massimo, in Dizionario biografico degli anarchici italiani, II, Pisa 2004, pp. 438-440; M. Canali, Le spie del regime, Bologna 2004; F. Giulietti, Gli anarchici italiani dalla Grande guerra al fascismo, Milano 2015, ad indicem.

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