MASCHERA

Enciclopedia Italiana (1934)

MASCHERA

George MONTANDON
Giovanni PATRONI
Giovanna DOMPE'
Nicola FESTA
Alberto MANZI
Guido BARGELLINI
G. Co.
*
Marcello MUCCIOLI

(prob. dall'arabo maskharah "caricatura, beffa"; fr. masque; sp. máscara; ted. Maske; ingl. mask).

Sommario: Etnografia (p. 481); Maschere rituali, teatrali, decorative, da guerra e da travestimento: Antichità (p. 483); Medioevo ed età moderna (p. 485); Oriente (p. 486). - Le maschere come tipi fissi: Antichità (p. 487); Oriente (p. 487); Le maschere nella Commedia dell'arte e oggi (p. 487). - Maschere sportive e professionali moderne (p. 488). - Maschere antigas (p. 489).

Etnografia.

La maschera, nel senso ristretto e abituale della parola è un finto volto che viene posto sul viso allo scopo di non essere riconosciuti. In etnologia la parola maschera viene estesa inoltre ad indicare un travestimento che ricopra l'intero corpo, anche se la faccia resta in tutto o in parte scoperta, e anche a fantocci, di qualsiasi forma e grandezza, non destinati a coprire la persona.

Secondo la loro funzione, le maschere possono essere divise in tre grandi gruppi: maschere rituali, da guerra e da spettacolo. Tali categorie comprendono tuttavia elementi assai diversi e restano, comunque, molte forme di transizione difficilmente classificabili. Alcuni autori (R. Andree, C. M. Pleyte) distinguono, nelle maschere rituali, maschere del culto, maschere da sepoltura per i morti e maschere di giustizia. Fra le prime sono le bambole che vengono messe accanto alla testa del malato per esorcizzarlo e per far passare lo spirito maligno in esse; le maschere da sepoltura vengono applicate sulla faccia del morto per permettere a questo di restare in comunicazione con i vivi. Esempio tipico delle maschere di giustizia sono poi quelle della società segreta del Duk-duk nella Nuova Britannia (Melanesia), perché nel periodo durante il quale i membri di questa associazione assumono il travestimento abituale (corto mantello di foglie, collare, maschera per il viso e un'alta acconciatura per la testa), insieme con gli esercizi rituali, essi esercitano una sorveglianza poliziesca sull'intera popolazione. Nella stessa categoria, considerando lo scopo della maschera, dovremo comprendere i fantocci posti a protezione dei dominî e delle proprietà, destinati a colpire "simpaticamente" chi attenti alla proprietà stessa, fantocci che devono probabilmente essere messi in rapporto genetico con i comuni spauracchi.

Ma un fondo rituale e magico non può essere escluso in nessuno di questi casi, e nemmeno in quello delle maschere da guerra e da parata. Qualche autore (W. H. Dall) ha pensato che la maschera, in genere, fosse in origine un oggetto di difesa o di protezione materiale, ma l'ipotesi è inaccettabile, sebbene in Europa nel Medioevo e anche di recente nel Giappone, fossero usate con tale scopo delle maschere che facevano parte dell'armatura. Presso le popolazioni di cultura inferiore le maschere da guerra a scopo protettivo son rare; sono state segnalate in Africa presso gli Ababua del medio Congo e nell'isola di Nias (Insulindia). La funzione magica è però sempre evidente: sono spesso usate solamente nelle cerimonie che precedono l'entrata in guerra, o hanno essenzialmente lo scopo di atterrire il nemico. Alcune maschere da guerra dei Daiaki di Borneo mostrano chiaramente di non avere scopo di difesa: esse rappresentano infatti facce orribili, che hanno però la forma di caschi o cuffie e vengono portate sul capo: non proteggono quindi il viso ma spaventano il nemico. La maschera da guerra, del resto, si può ritenere logicamente derivata dalla pittura del viso e del corpo, la quale non può avere alcuno scopo se non quello di protezione magica.

Le maschere da spettacolo sono d'origine più recente e d'uso popolare, come quelle che talvolta i Malesi portano per la strada per burlarsi degli stranieri rappresentando Cinesi, Arabi, Europei. Risalendo la storia, troviamo le maschere da teatro obbligatorie nell'antica tragedia greca. Anche nelle Isole della Sonda fino al sec. XVIII non solo gli attori erano mascherati ma non parlavano: ad essi era riservata la mimica mentre un lettore leggeva la parte. In una fase più antica le maschere da spettacolo comprendono anche le maschere da danza: e ci si presentano con ciò tutte le possibili forme di transizione fra gli spettacoli e i divertimenti profani ed i riti del culto. Ogni maschera è dunque in origine rituale.

Riguardo alla forma le maschere sono state raggruppate in tre tipi (Dall): il primo è costituito dalla maschera propriamente detta, che ricopre la faccia ed è generalmente fornita di aperture per la bocca e gli occhi; il secondo tipo è quello che viene portato al di sopra o al di sotto del viso e manca per lo più di fori; il terzo tipo rassomiglia al primo ma non viene portato indosso e manca di fori. Questa distinzione eccessivamente formale separa tuttavia oggetti geneticamente parenti e soprattutto non aiuta a distinguere l'enorme diversità delle forme nel riguardo dei particolari. Il sistema migliore, dal punto di vista delle parentele culturali, consiste nel basarsi sulla forma senza però seguire un criterio classificatorio troppo rigido. Il raggruppamento potrà essere fatto secondo l'importanza che nelle diverse località possono avere raggiunto, o il materiale di cui è fatta la maschera, o l'essere rappresentato, o i particolari della sua costruzione. Con l'analisi della distribuzione e della localizzazione di questi diversi elementi si verranno a determinare dei dominî nei quali prevale, p. es., la maschera fatta di erbe attaccate, o quella di erbe intrecciate o di legno, oppure la maschera a testa di animale o a testa umana, o di teste sovrapposte; oppure con la bocca quadrata, a occhi o tubolari, o incavati, ecc. Non si dovrà trascurare nemmeno il significato della maschera, nel determinare delle parentele, ma esso darà in genere la prevalenza alle forme, tanto più che per molti oggetti il significato rimane nascosto.

Poiché la maschera ha una tale diffusione sulla terra che poche sono le regioni dove essa è ignorata, viene fatto di domandarsi se essa, anziché avere avuto un solo focolare d'origine, sia stata concepita in molti punti della terra. La diversità delle sue forme e il semplice ragionamento deporrebbero in favore di un'origine multipla. La scuola geografico-storica l'attribuisce tuttavia a una determinata cultura: al ciclo culturale delle due classi chiamato talvolta anche ciclo delle maschere (v. culturali, cicli). Da un esame dei fatti generali nei diversi continenti risulta quanto segue.

Noi riconosciamo nell'Africa due regioni nelle quali predomina la maschera di fibre vegetali: nella parte centrale dell'Africa meridionale con lunghi corpetti di fibre verticali che ricoprono tutto il corpo; nella Senegambia e nelle regioni vicine del Sudan e dell'Alta Guinea, con vere e proprie maschere di fibre vegetali intrecciate. Nel territorio interposto fra queste due regioni, pur non mancando la maschera di fibra vegetale predomina quella di legno. Ma tanto le maschere quanto le società segrete, che appaiono svilupparsi di pari passo, appartengono soprattutto alle popolazioni della foresta guineo-congolese e alle loro vicine: questa doppia manifestazione culturale è anzi esuberante fra le dette popolazioni. Ebbene, questo dominio geografico corrisponde in Africa a quello di un amalgama delle culture oceaniche delle due classi e dell'arco.

Nell'Asia, la maschera ha minore importanza che nell'Africa centrale e occidentale. La troviamo ancora in uso specialmente nell'Indonesia sia come oggetto rituale di popolazioni inferiori, sia come maschera da teatro nei gruppi a cultura più elevata quali i Giavanesi. Tuttavia non v'è regione dell'Asia dove la maschera sia del tutto ignorata.

Le tre regioni dell'Oceania sono lontane dal presentare un aspetto uniforme. Nell'Australia non si conoscono che le forme più semplici e primitive di mascheratura, la pittura del corpo e i travestimenti di pelli e frasche usati a scopo rituale o di caccia. Più notevole è il fatto che nella Polinesia, dove altri elementi culturali hanno avuto sviluppo avanzatissimo, si ignori del tutto, fra l'altro, anche la maschera. Nella Melanesia, invece, non solo la maschera è conosciuta ma vi ha un uso così intenso che la regione può considerarsi il dominio tipico di essa. L'uso della maschera non è del resto uniformemente diffuso in tutta la regione e il suo sviluppo aiuta precisamente a delimitare il territorio di prevalenza della cultura delle due classi, cioè la Nuova Guinea orientale, la Nuova Bretagna, le Isole Salomone (specialmente quelle settentrionali) e le Nuove Ebridi, nelle quali ultime la cultura delle due classi si unisce a quella dell'arco. Nelle regioni dell'Australia in cui si presenta la cultura delle due classi, cioè sulla costa orientale e nel suo retroterra, le maschere non accompagnano gli altri elementi di tale cultura.

La maschera più interessante della Melanesia è la maschera-cranio. I cranî usati a tale scopo, dissotterrati dopo qualche mese dal seppellimento, vengono completamente liberati delle parti molli e quindi ricoperti di un grosso strato di argilla e resina che riproduce le fattezze del viso: sulla faccia vengono praticate delle pitture che richiamano i tatuaggi; una capigliatura artificiale è attaccata al cranio. La cura quasi amorosa con la quale vengono modellate queste teste sembra mostrare che si tratti di cranî di parenti e non di cranî di nemici. Alcune di queste teste sono conservate intere, eventualmente, in un recipiente di legno o di pietra modellato a faccia umana (v. cranio, XI, p. 792 seg.); altre, alle quali viene tolta la parte occipitale, sono usate come vere maschere e con tale funzione sono tenute in mano oppure munite di una bacchetta trasversale che viene serrata fra i denti. L'uso delle maschere e la rispettosa conservazione dei cranî si presentano dunque insieme nella cultura delle due classi, mentre quest'ultima usanza degenera nella caccia ai cranî nella cultura successiva, quella dell'arco. Altre maschere interessanti da menzionare per la Melanesia sono quelle intrecciate riproducenti una testa di echidna (Nuova Guinea), quelle il cui cimiero ricorda i caschi a chenille, quelli lavorati a traforo in maniera così fine che la loro fabbricazione necessita dei mesi o tanto voluminose e pesanti che chi le porta è costretto a restare seduto senza potersi muovere (tutte queste ultime della Nuova Irlanda).

Oltre che nell'Africa guineo-congolese e nella Melanesia l'uso della maschera è molto sviluppato in alcune regioni dell'America. Considerata nel suo insieme, in relazione all'intensità e allo sviluppo di tale elemento, risulta che l'America del Nord ha la prevalenza su quella del Sud, come d'altronde tutta la cultura delle due classi ha un'estensione maggiore nella prima, contrariamente a quanto avviene per la cultura dell'arco. La regione atlantica dell'America settentrionale è relativamente povera di maschere, mentre la zona del Pacifico e soprattutto all'incirca la costa della Colombia inglese, ne presenta in esuberanza. La cultura dei Pueblos ne fa pure un uso intenso. Alcune maschere del NO. sono caratterizzate dall'avere dei pezzi articolati, p. es. la mascella inferiore mobile; altre sono doppie, cioè la maschera esterna a faccia animale si può abbassare e lascia vedere una seconda maschera a faccia umana.

Poiché la cultura dell'America nord-occidentale presenta diverse corrispondenze con le culture melanesiane si potrebbe ritenere che le maschere e le società segrete della Melanesia e della Columbia Britannica avessero origine comune. Ma c'è un ostacolo nel fatto che le maschere mancano nella Polinesia, che costituisce il territorio geografico intermedio, mentre è molto difficile ammettere, sia il passaggio dall'Asia meridionale per la Via dello Stretto di Bering, sia quello diretto dalla Melanesia: questo, in ogni modo, sarebbe da prospettarsi in un periodo anteriore alla diffusione dei Polinesiani. È da notare anche che gli Eschimesi hanno maschere che si riconoscono spesso per la loro forma più o meno rettangolare, tanto nel contorno generale quanto nel dettaglio della faccia: la maschera è tuttavia assai meno usata fra gli Eschimesi orientaJi che fra gli occidentali i quali presentano molte affinità, somatiche e culturali, con gl'Indiani. È probabile che da questi sia venuta loro anche la maschera. Bisogna forse ammettere in definitiva che le analogie relative all'uso della maschera nelle tre regioni: Africa guineo-congolese, Melanesia, varî distretti dell'America del N. e del S., siano il prodotto di fattori che si completano invece di escludersi: certe condizioni ambientali simili, migrazione di taluni elementi culturali, sviluppo sul posto di elementi immigrati e di elementi autoctoni. La risposta al problema delle connessioni posto dallo studio delle maschere rientra d'altronde, allo stato attuale delle conoscenze, nel problema dell'analogia dei cicli culturali nei diversi continenti.

Bibl.: Varî articoli di diversi autori sulle maschere dell'antico Messico (in spagnolo e in inglese), in Mexican Folkways, V, 3, Messico 1929; R. Andree, Ethnographische Parallelen und Vergleiche, II, pp. 107-165, Lipsia 1889; W. H. Dall, On Masks, Labrets and certain aboriginal Customs with an Inquiry into the bearing of their geographical Distribution, in Third annual Report of the Bureau of Ethnology, 1881-82, pp. 67-202; L. Frobenius, Die Masken und Geheimbünde Afrikas, in Abhandl. der kaiserl. Leopoldinisch-Carolinischen deutschen Akad. der Naturfroscher, LXXIV (1898), pp. 1-278; F. von Luschan, Zur Ethnographie der Kaiserin-Augusta-Flusses, in Baessler-Archiv, I; A. B. Meyer e R. Parkinson, Schnitzereien und Masken vom Bismarckarchipel und Neuguinea, in Publ. aus dem könig-ethnogr. Museum zu Dresden, X, 1895; C. M. Pleyte, Indonesische Masken, in Globus, LXI, 1892; M. C. Stevenson, Zuni ancestral Gods and Masks, in Amer. Anthropologist, II, 1898.

Maschere rituali, teatrali, decorative, da guerra e da travestimento.

Antichità. - Nonostante l'opinione di alcuni etnografi è da credere che il concetto della maschera non si possa né debba ridurre - come si è già accennato (v. sopra, Etnografia) - a quello di celare il vero essere o personalità a scopo di protezione, e che maschere di culto non siano soltanto quelle portate da uomini nel compimento di riti magici. La maschera ha anche il fine di rappresentare con la maggior cura ed efficacia, in origine magico-religiosa, l'essenza divina o demoniaca; discende dal concetto che la testa sia la parte più importante del corpo, nella quale si concentra il potere dell'essere, e, specialmente nell'antropomorfismo o in un iniziale avvicinamento alla forma umana, che della testa a sua volta la faccia sia la parte più importante, sì da essere di per sé oggetto di culto. Una maschera applicata a un albero sacro, a un palo o ad una trave diviene un idolo semi-antropomorfo. Di qui pure derivano le statue di culto acrolite, nelle quali le estremità, e principalmente la testa erano di pietra", e il resto di materie deperibili; talora le teste sono piatte, sì che ben possono dirsi maschere, come nella era arcaica di Olimpia, o, in età più tarda, sono cave e lavorate solo nella parte anteriore, sono cioè maschere vere e proprie. Questa cura nel rappresentare la faccia della divinità si conserva principalmente in due tecniche artistiche, che entrambe dànno luogo alla produzione di vere maschere: quella delle statue di culto criselefantine, che ci ha lasciato qualche rara maschera d'avorio e ci fa intendere come dovessero apparire quelle, certo composte di più pezzi, che si applicavano ai colossi; e la tecnica delle terrecotte. In queste ultime la rappresentazione è ridotta all'essenziale, cioè la metà della testa, e talora del busto, che contiene la faccia della divinità; dallo scavo di Olinto Excavations at Olinthus, IV, 1931) sappiamo che queste maschere erano oggetto di culto, ed erano tenute nelle case o donate ad un tempio, e si sospendevano per due fori praticati nella parte superiore; non erano dunque oggetti fabbricati per le tombe, benché, naturalmente, si potessero porre anche in esse, come se ne sono trovate non di rado in tombe etrusche, sarde e puniche. In queste ultime si sono rinvenute mascherette dipinte su tondi convessi, tolti al guscio di uova di struzzo, e rappresentanti la faccia di una divinità muliebre della vita e della morte (Tanit). Sebbene l'uso di maschere di culto risalga per l'età classica a periodi assai arcaici, l'origine ne è preistorica e anteriore all'antropomorfismo, essendo in tal caso considerata come "faccia" della divinità la superficie dell'oggetto divino, specialmente poi se questo, di forma rotonda, si prestava ad essere assimilato a una testa, anche senza la particolare intenzione di attribuire ad esso forma umana. In questo senso le più antiche maschere di culto sono i dischi solari e lunari dell'Egitto, dell'Asia e della preistoria europea, nella quale, fin dalle più antiche età dei metalli, troviamo dischi d'oro o di rame montati su carretti sacri e rappresentanti il Sole, che è una "faccia". Lo stesso accadeva nell'antica civiltà peruviana degl'Inca, mentre presso gli Aztechi del Messico, in occasione di sventure, epidemie, ecc., venivano apposte agl'idoli maschere di pietra, non certo per nasconderne il potere, ma per esprimerlo meglio, variandolo secondo le circostanze. Mezzo di espressione e non di nascondimento è anche presso i popoli antichi, quando vengono messe a contributo varie nature, il variare quella della testa (divinità egizie a testa di animale, aquile leontocefale, tori androcefali e grifi asiani, sirene mediterranee, ecc.). Infine il camuffarsi da satiri e menadi, praticato dagli adepti della religione orfica era mosso non già dal desiderio di nascondere la propria personalità, bensì da quello di assimilarsi ai tiasoti; ché tali si sperava di diventare definitivamente dopo la morte.

Generalmente si riconosce oggi nel Gorgoneion una maschera usata fin dall'epoca preellenica o preclassica, in rituali di esorcismo o simili, nei quali era ritenuto opportuno lo spaventare i demoni maligni con un'orribile faccia: in ciò si ha analogia, non identità con l'uso dei selvaggi, presso i quali tali oggetti sono accaparrati da caste sacerdotali e da società segrete.

I Micenei usavano, talora almeno, maschere funebri; e celebri sono quelle di lamina d'oro trovate dallo Schliemann nelle tombe a fossa dell'acropoli di Micene. Anche in questo caso gli etnografi vollero spiegarne l'uso mediante il concetto che si dovessero ingannare i demoni custodi dell'oltretomba o spaventarli, affinché lasciassero passare il morto. Tali ragioni furono invero addotte dagli abitanti delle isole Aleutine, che appongono maschere sul viso dei loro morti, all'esploratore Pinard; ma esse non calzano per le maschere micenee, che non risulta se si trovassero sul viso o fossero applicate alla cassa funebre, come nell'analogo rito egizio; in ogni modo esse non solo non hanno nulla di spaventevole, ma sono ritratti, sia pure schematici, espressioni e non camuffamenti di una personalità; perciò nei loro moventi psicologici si avvicinerebbero piuttosto al rito egizio, anche se collocate sulla faccia. Non sostanzialmente diverso è il movente originario dei "canopi" etruschi: la maschera o testa applicata al vaso cinerario vuol esprimere e conservare la personalità del morto, per le stesse ragioni che hanno spinto gli uomini di varie genti ed età a conservare le fattezze dei loro morti, in statue funebri, stele e sarcofagi figurati, ecc. La maschera di cera (?) trovata in una tomba di Cuma al posto della testa d'uno scheletro (v. IX, tav. CCXV) è un cimelio raro e di non facile spiegazione in tutti i particolari, ma certo accenna a conservazione di normali lineamenti e non a camuffamenti. Un procedimento speciale era quello di prendere la naschera, ossia l'impronta della faccia, sopra i cadaveri, a scopo ritrattistico, come si fa ancora. La tradizione greca attribuisce questa "invenzione" o "scoperta" allo scultore Lisistrato (fine del sec. IV a. C.); pare ch'egli levasse maschere di gesso, dalle quali poi traeva teste di cera da tradursi nell'opera definitiva. Ma anche qui forse "scoperta" o invenzione" valgono "applicazione" o "largo uso" di cosa già trovata altrove, perché sembra che in Egitto tale procedimento fosse in uso fin dall'antico impero ed è, per lo meno a Tell-el-‛Amārnah, (XVIII dinastia) largamente esemplificato. Si pensa che questa tecnica, venuta a Roma, dove era antico uso di conservare le imagines maiorum, vi avesse fortuna e determinasse alcuni caratteri del ritratto romano; si è fatta (da C. Anti) l'ipotesi che provenisse dall'Egitto per mezzo dei sacerdoti isiaci e per la via della Campania. Anche a Lisistrato essa poté pervenire dalla stessa fonte.

Le maschere del teatro antico non si possono separare da quelle del culto, poiché ne sono una semplice varietà.

Cerimonia religiosa è in principio presso varî popoli la rappresentazione scenica, come del pari altri spettacoli, ludi, ecc. Non sostanzialmente diversa doveva essere in ciò l'Italia antica, ma più particolareggiate notizie abbiamo per la Grecia, dove il più antico ed illustre teatro stabile dell'età classica, quello di Atene, faceva parte di un santuario; dove dai cori e dalle danze primitive delle Dionisie in cui interveniva il sacro caprone (τράγος), o attori così camuffati si svolse la tragedia, ben presto seguita dalla commedia o dal dramma satiresco; e dove lo stesso uso delle maschere sceniche ha i suoi precedenti nel camuffarsi di questi rozzi attori e cantori.

Tali primitivi mezzi di espressione furono però sostituiti col tempo da maschere fabbricate appositamente; e poiché sappiamo che vere maschere esistevano e si usavano fin da età preellenica per scopi magico-religiosi, dovremo correggere la tradizione che parla d'invenzione delle maschere sceniche da parte di autori tragici, intendendo invenzione per applicazione: la maschera cioè dalle processioni sacre fu trasferita al teatro. Un indizio di tale trasferimento si ha nell'esclusione delle donne dalla recitazione teatrale, la quale esclusione da un lato continuava quella in uso nelle mascherate sacre, dall'altro rendeva più che mai necessario l'uso delle maschere. Le maschere sceniche coprivano il capo dell'attore e avevano per lo più una grande apertura boccale imbutiforme che fungeva da risuonatore della voce (onde i Latini dissero la maschera persona da personare).

Fu Tespi l'autore drammatico che introdusse le prime maschere, e più tardi Cherilo le migliorò, fino ad un tipo abbastanza perfezionato in lino, che, variamente dipinto, riusciva a rappresentare con una certa efficacia i diversi caratteri umani. Se Tespi introdusse nel teatro la maschera tragica, s'ignora il nome dell'inventore della maschera comica, la quale, tuttavia, per le molte rappresentazioni figurate che se ne conservano, appare meglio documentata. In genere, le maschere erano bianche per le donne e piuttosto brune per gli uomini, e tutte erano per questo o quel particolare abbastanza caratteristiche, così da esprimere questo o quello stato d'animo. Ad esempio, Cratino rappresentava Pericle ἀνελκταῖς ὀϕρύσι σεμνόν "austero in viso per le sopracciglia contratte": il che vuol dire che Pericle compariva sulla scena con una maschera nella quale ira contractis superciliis ostenditur, per adoperare le parole di Quintiliano. La tristezza, invece, e l'abbattimento erano rappresentati altrimenti: tristitia deductis superciliis ostenditur.

Questo dimostra anche che gli stessi personaggi non comparivano sempre sulla scena con la stessa maschera, ma con maschere diverse a seconda dello stato d'animo ch'essi dovessero esprimere. Certo, nell'Edipo re di Sofocle, Edipo, divenuto cieco, nell'ultima parte del dramma non poteva venire sulla scena con la stessa maschera che aveva tenuto nella parte precedente quando cieco non era. Un altro particolare caratteristico delle maschere erano i capelli: il giovanotto intraprendente nella commedia era cresputo o biondo, il servo di solito aveva capelli rossi, il cuoco era calvo e rosso o anche bruno e mezzo calvo, i vecchi erano calvi ma con barba più o meno lunga. Anche il naso era un segno caratteristico: per esempio, il parassita aveva naso e orecchi deformi, il naso schiacciato o curvato all'insù esprimeva mollezza, quello a becco d'aquila sfrontatezza. La maschera, dunque, opera di artisti provetti e abilissimi, aveva una grande importanza per la riuscita del dramma: essa doveva interpretare la parte del personaggio e rendere facile al pubblico l'intelligenza del dramma. Ecco perché in un famoso rilievo, che si conserva nel Museo Laterano, Menandro è rappresentato al lavoro con una maschera nella mano sinistra e altre due sul tavolo. Possiamo facilmente supporre che gli autori si preoccupassero essi stessi di dare agli artisti le indicazioni necessarie per creare le maschere di questo o quel personaggio, così come certamente essi s'interessavano dell'abbigliamento e degli abiti degli attori: una cortigiana compariva sulla scena riccamente vestita con gioielli e oro, una matrona doveva essere meno sfarzosa e più composta, una fanciulla ancor più dimessa. Gli σκευοποιοί, ossia coloro che preparavano le maschere, lavoravano di plastica, e però di mano in mano che la plastica fece progressi si giunse, da un tipo freddo di maschera, a un tipo patetico e realistico, ch'è proprio del tempo ellenistico e coincide perfettamente e naturalmente con le tendenze di quel secolo e con quella ricerca del carattere che s'afferma nell'opera di Teofrasto e dei peripatetici e nel dramma contemporaneo. Rappresentazioni figurate, numerose e interessanti, e l'Onomasticon di Giulio Polluce intorno alle diverse personae c'informano abbastanza bene dei diversi tipi di maschera, sicché possiamo dire di possedere tutta una serie, per quanto incompleta, di documenti, e una ricca nomenclatura in proposito. I tipi erano molti, c'era il giovanotto biondo e l'altro più biondo ancora, c'era il bruno e il pallido, il cresputo e l'alquanto cresputo. C'erano la vecchietta mondana e la casalinga, il vecchio dalla barba a cuneo e l'altro dalla barba folta, il magro e il grasso; e soprattutto la maschera esprimeva le caratteristiche del corpo e dell'animo, oltre che con le sopracciglia e col naso e con i capelli, nell'atteggiamento della bocca e delle labbra. Il teatro romano si provvide presto di maschere, sfruttando l'esperienza del teatro greco e senza rinunziare agl'insegnamenti della fabula atellana e di altre rappresentazioni italiche. Festo c'informa dell'attività del poeta Nevio in questo campo: personata fabula quaedam Naevi inscribitur.

Le maschere, aiutate in ciò dal loro significato apotropaico, assunsero anche valore decorativo come ornamento di elementi architettonici e di molti oggetti (v. mascherone). Le maschere di divinità appese per due fori nei santuarî come ex voto diventano nelle case anche ornamenti e si confondono con gli oscilla. Ma le maschere sceniche che si trovano agli angoli del coperchio dei sarcofagi pagani romano-imperiali devono essere interpretate non come pura decorazione, perché la maschera, già elemento importante del culto dionisiaco, aveva tratto da questo sia il significato apotropaico, sia quello di simbolo dell'oltretomba.

Di maschere da guerra non si può parlare per l'antichità classica se non considerando le maschere decorative che talvolta ornavano i copricapi da combattimento; o gli stessi elmi quando assumevano fogge che li assimilavano alle maschere. Circa le prime è chiaro che l'intenzione decorativa ha trasceso completamente lo scopo primitivo d'incutere rispetto o paura all'avversario. Delle seconde abbiamo varî esempî intorno ai quali si accesero discussioni, riuscendo difficile stabilire se si trattasse di elmi da parata o di vere e proprie armature da combattimento. I più noti sono: un casco a visiera della balaustra di Pergamo, alcuni elmi della valle renana (Wildberg, dintorni di Magonza, Gräfenhausen, ecc.), il casco di Heddernheim presso Francoforte sul Meno, ecc. Nascondevano completamente il volto, come è noto, gli elmi adoperati dai gladiatori, le cui visiere erano spesso composte di quattro placche: le due inferiori massicce, le due superiori forate per rendere possibile la vista, e si aprivano orizzontalmente, cioè in senso contrario alle visiere degli elmi medievali.

Medioevo ed età moderna. - L'uso pagano delle maschere continuò nelle mascherate (v.) del Medioevo, come le famose Feste dei pazzi. Queste davano spesso origine a scandali, per la libertà del travestimento, giustificando così la violenta opposizione dei Padri della chiesa. Questi si. rifacevano del resto alla Bibbia, che considera abbominio lo scambio di costumi tra i sessi (Deuter., XXII, 15). L'opposizione fu ribadita dai concilî, a cominciare da quello di Laodicea (320), e da molti Brevi pontifici.

La maschera passò quindi nel costume sia particolare di determinate persone (esecutori di giustizia, specie in Inghilterra, membri di società segrete, del Consiglio dei Dieci, del tribunale dell'Inquisizione) o di determinate occasioni (feste di carnevale o altre), sia generale. Il centro di diffusione di questo uso fu Venezia, dove la maschera daterebbe dalla conquista del Levante: se ne fa la prima menzione in una legge del 1295 che proibisce ai mascherati di giocare alle uova (cioè di lanciare gusci d'uova ripieni d'acqua). L'uso degenerò presto in abuso: un'altra legge del 1339 rinforzava le proibizioni vietando sotto pene severissime di travestirsi in modo disonesto, di portare barba o capelli finti o di camuffarsi con tinture il viso nei giorni proibiti, come pure di entrare mascherati nelle chiese e nei monasteri. Portare la maschera era divenuta infatti una vera mania, tanto che i fabbricanti di maschere formarono un ramo speciale dell'"arte" dei pittori.

Le maschere da principio si facevano proprio a forma di volto, fissate in bocca con un cordoncino terminante con un bottone di vetro o legate dietro la testa, di cera, poi di cartone dipinto, di seta o di lino, finché furono sostituite dalle mezze mascherette di seta o di velluto, di solito nere ("morettine"), d'invenzione veneziana.

L'uso della maschera come accessorio dell'abbigliamento divenne generale nel Rinascimento e si propagò dall'Italia - centri di produzione Venezia e Bologna - a tutta l'Europa, specialmente in Francia alla corte dei Valois, dove era riservata ai nobili, e in Inghilterra, aiutato dal diffondersi della commedia italiana; questo malgrado il rinnovarsi periodico delle proibizioni legali sia di portare la maschera sia di fabbricarne, provocate dagl'intrighi e dai delitti che essa spesso favoriva.

Il Settecento veneziano condusse la moda della maschera al delirio; la portavano tutti, vecchi e giovani, patrizî e plebei, ricchi e poveri, persino le mamme col bimbo in collo, le serve per andare a fare la spesa, gl'inservienti dei teatri (il nome è rimasto), i mendicanti. Il tipo più elegante era la "bautta" (v.).

Qualche galante inventò la maschera-ritratto che, contraffacendo sembianze gradite, serviva a trarre in inganno le donne, uso represso da varie ordinanze a Venezia, a Milano e altrove.

Il monopolio della produzione passava intanto alla Francia per opera però di un italiano, certo Marassi, il quale nel 1799 fondava a Parigi un'azienda che divenne celeberrima.

L'Ottocento vide scomparire l'uso della maschera nella moda e lo conservò soltanto per i balli mascherati e i festeggiamenti di carnevale; ora anche questi sono quasi completamente decaduti.

Non è cessato invece l'uso delle "maschere di bellezza" per conservare la carnagione, da portarsi la notte imbottite di cosmetici, vecchie quanto il mondo, da quelle antiche di tela con farina di fave, "alcioneo" (prodotto di certi uccelli), grasso di pecora, bianco d'uovo, miele, olio e simili, fino a quelle modernissime di gomma e di plastilina.

Per le visiere degli elmi medievali, nelle loro varie forme v. armi; elmo, ecc. L'invenzione delle armi da fuoco ha reso inefficienti le maschere da combattimento, e oggi queste si limitano alle maschere antigas (v. appresso).

Oriente. - Nell'Estremo Oriente, a parte la maschera metallica (cinese, t'ieh-men; giapponese, kanamen) facente parte del corredo dell'antico uomo d'arme, il quale la usava per proteggere il viso, la maschera nel senso comune (cinese, chia-men; giapponese, kamen, cioè faccia posticcia o falsa) appare fin dai tempi più remoti connessa con le credenze e le usanze religiose. È opinione, infatti ch'essa risalga agli antichi esorcisti (fang-hsiang) della dinastia cinese dei Chou (1050-256 a. C.), i quali solevano imbacuccarsi in pelli d'orso provviste di quattro occhi d'oro durante le loro pratiche per scacciare le influenze maligne e scongiurare mali; da tali pratiche, in seguito, sviluppandosi, entrò come accessorio in molte danze e pantomime a carattere religioso. Dalla Cina il loro uso penetrò con le danze stesse in Giappone, forse col buddhismo nel sec. VI, e vi subì un'evoluzione tutta particolare, specialmente artistica. Notizie dell'uso di maschere (chiamate col nome generico di gi-gaku-men) nelle antiche danze giaptionesi (bu-gaku, gi-gaku, saru-gaku, ecc.) ci sono state tramandate in molti scritti e, a differenza della Cina che ne conserva il solo ricordo, molti templi del Giappone (Nara, Kyōto, ecc.) custodiscono tuttora numerosi esemplari di tali antiche maschere, risalenti ai secoli IX, X e XI, fatte in minima parte di legno (le più recenti), in molto maggior copia, invece, col processo detto kanshitsu, cioè con più strati di tela sovrapposti e incollati e verniciati, infine, con lacca. Queste maschere sono caratterizzate dalla deformazione dei tratti umani e dalla potenza d'espressione e di fantasia che da esse traspare, oltre che dalle dimensioni esagerate dovute al fatto ch'esse coprivano buona parte della testa. Più tardi, sviluppatosi il dramma lirico o (v. giappone: Letteratura) da queste danze, la maschera entrò nel teatro, ma il suo uso restò limitato al protagonista (shite) e ai suoi assistenti (tsure o tomo) e per di più solo a una parte dei . L'elevazione a vera forma d'arte di questo, portò anche a una notevole evoluzione artistica della maschera, la cui scultura ebbe maestri e scuole (Deme, Sankōbō, ecc.) di grande fama. La maschera da si differenzia dalle precedenti per le dimensioni minori, coprendo essa solo la faccia, e per un maggiore rispetto della fisionomia umana (ad eccezione di quelle rappresentanti esseri soprannaturali o demoni, nelle quali tutti i tratti sono esagerati o deformati); essa è, inoltre, di legno e ha la bocca larga e aperta, per permettere il libero passaggio alla voce dell'attore, fornita di denti che imprimono all'insieme un realismo impressionante. I varî tipi di maschere da hanno un nome che solo raramente è quello del personaggio che debbono rappresentare.

Bibl.: M. Bieber, s. v. Masken, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIV, col. 2070 segg.; M. Sand, Masques et bouffons, Parigi 1859; W. Dall, Masks, Labrets and Certain Aboriginal Customs, Washington 1885; R. Andrée, Die Masken in der Völkerk., Brunswick 1886; J. Lorrain, Hist. des masques, Parigi 1900; A. Bastian, Uber Masken und Maskereien, in Zeitschr. für Völkerspsychol., XIV (1882); C. Robert, Die Masken der neurenttischen Komödie, Halle 1911; F. Karpf, Über Tiermasken, in Wörter und Sachen, V, Heidelberg 1913.

Le maschere come tipi fissi.

Antichità. - Maschere nel senso specifico di tipi fissi si ritrovano nell'antica atellana italica. Ma l'atellana subì influssi dei fliaci (v.) e dei mimi, dalla Magna Grecia, dalla Sicilia, e poi sboccò essa stessa nell'exodium, farsa letteraria; quindi può darsi che qualche maschera dell'atellana sia da cercare fra i tipi (senza la maschera) di generi affini, e attraverso tradizioni popolari giunga fino alla Commedia dell'arte. Non a torto il Dieterich aggiungeva alle quattro maschere fondamentali Cicirrus "il Galletto"; e forse si potrà aggiungere Sannio "lo Zanni", Stupidus "lo Zuccone", che si presenta capite raso, e Manducus, che ricorda Γνάϑων. Comunque, emergono più distinte dagli scarsi dati e, come peculiari dell'atellana, si vedono agire continuatamente nell'opera di Pomponio e di Novio, le quattro "macchiette" di cui diremo. I loro nomi secondo il Lattes rivelerebbero origine etrusca: opinione che con troppa fretta è stata abbandonata, laddove occorreva modificarla e intenderla storicamente. Gli Etruschi, quali mediatori, giacché, almeno in parte, si tratta di nomi greci, sono meno fantastici di certe etimologie come Dossennus da dossum = dorsum, col tacito supposto che "spallato" e "gobbo" siano tutt'uno. Ecco in breve le note caratteristiche legate ai singoli nomi. Maccus "il Grullo" ha il suo corrispondente in Μακκώ "la Grulla"; l'origine greca è confermata dal verbo μακκοᾶν usato da Aristofane. Maccus miles "Marmittone", Maccus virgo, lo scemo che si crede una zitella, e Macci gemini "i babbei gemelli" sono titoli di Pomponio. Bucco è "il Paffutone" a cui le gote tonde e rubiconde dànno l'aspetto di un sonatore di trombetta; egli la suona infatti, magari alla maniera di Barbariccia, voglia o non voglia, perché la sua faccia è fatta apposta per prendere gli schiaffi, e più questi sono sonori e più si accompagnano con la trombetta, più si sbellica dalle risa quel pubblico dell'atellana, più rozzo certo di quello davanti al quale ha oggi fortuna un discendente di Bucco, il clown. Prova ne sia che salpitta o salapitta non è solo il sonatore di trombetta (σαλπιγκτής), ma anche il "ceffone" che gli tocca. Pappus è greco (gli Osci lo chiamavano Casnar), ma in suolo italico passa tra le voci infantili e si avvicina al pappo e alla pappa, che fa per gli sdentati grandi e piccoli; così "il Nonno" diviene "il Barbogio", comico per i suoi acciacchi (Hirnea Pappi) e per le sue velleità giovanili (Sponsa Pappi) e politiche (Pappus praeteritus, cioè "bocciato" nei comizî). Dossennus sembra essere "il Dottore" uno che sa tutto e su tutto trova da ridire; arrogante e pettegolo, e caro al pubblico per le trovate e le arguzie. Alla volgarità dei motteggi, non alla voracità deve riferirsi la tanto discussa allusione di Orazio Ep., II, 1, 173; e in Varrone, De l. l., VII, 95, il testo è guasto, sicché è per lo meno prematuro identificare Dossennus con Manducus. La ghiottoneria è abbastanza diffusa specialmente fra cotali persone volgari; ma non è una buona ragione per confonderle tra loro. Anche Bucco è stato preso per un "mangione", a torto.

Oriente. - Una maschera può considerarsi il Qaragőz, tipo d'ingenuo balordo e il suo compagno, lo scaltro Ḥāggi Ivaz (pron. popolare Hagivat) del teatro popolare turco, ancora non del tutto estinto. In Cina e in Giappone i varî generi teatrali possiedono personaggi fissi, ma ad essi non corrispondono caratteri psicologici determinati.

Le maschere nella Commedia dell'arte e oggi. - La maschera nella commedia, come è stato detto altrove (v. commedia dell'arte) non ha origini, se non indirette, nel teatro greco e nel teatro latino: essa è nata, o rinata, rudimentalmente nelle scene improvvisate dei santimbanchi e in quelle delle feste carnascialesche.

In queste, comparivano nelle scene e nelle farse "figure tipiche", come Ambrogio, Biagio e la Comare nella Farsa del Bracco e del Milanese, nelle quali dominava il dialetto, preludendo ai tipi della commedia rusticale. Sulla fine del Quattro e nei primi del Cinquecento i dilettanti che si fanno attori e gli attori che vengono dal mimo prendono nomi d'arte: così Zanetti diventaVerzi, Castagnola Bilora, Alvarotto Menato, ecc. Il nome loro non rimane a lungo in queste farse o nel teatro popolare. Vi s'incide invece quello di Ruzzante (Beolco), che alla futura Commedia dell'arte porta un contributo di "tipi" e di "figure".

Parte di codesti tipi, figure e maschere (per es. il Pedante, il Parassito, i Servi, un "militare" che diventerà poi il Capitano, ecc.) derivano da figure e motivi della commedia classica. Altre invece sono state più o meno create dai "buffoni di corte" che sovrappongono comicamente le abitudini dei cortigiani alle consuetudini plebee: in questo periodo compaiono il Burchiella (Antonio da Molino) che impersona lo Stradioto, parlante veneto, greco e schiavone; il Cimadoo (Valerio Zuccato) figlio di Zanne Polo, che parla bergamasco. Alla Giudecca, a Venezia, si forma un centro di vita dei commedianti, e sorge quel primo dialogo che animerà la Commedia dell'arte.

È l'incontro del Servo e del Padrone. A Venezia il Servo lo dànno le vallate Camune e Orobie: essere rozzo, semplice, volgare che il popolo deride, spassandosi alle sue spalle, e che nelle scene e nelle farse di piazza prende il nome di Zane o Zanne. È l'abbreviativo di Giovanni, e non ripete affatto quello dei classici Sanniones. Il Padrone è il cittadino di antica e nobile famiglia, custode della tradizione, ma gretto: non lo illumina più la gloria dei Veneziani conquistatori, ma dagl'inferiori e dai forestieri si fa però chiamare il Magnifico. Contrasto di classe, di ragione, di merito col poveraccio sceso dalla montagna per vendere il suo carbone, la cui polvere gli sporca gli abiti e gli annerisce il volto. La burla che li unisce segna una certa concordia e familiarità. Fuori di Venezia il duetto comico conserva la sua vivacità e attira simpatie vive. Lo provano le mascherate di Zanni e di Magnifici fatte a Firenze. Il Magnifico veste, con caricatura, l'abito dell'aristocratico veneto; lo Zanni indossa un camiciotto bianco di fatica, fermato alla cintola da una corda: panni da gamba larghi e rimboccati alla caviglia; viso sporco, barbaccia incolta, cappellaccio a larga tesa rivoltata all'indietro sulla fronte. Anche questo servo prende un nome: Arlechin Batocio (dal bastone o "batocchio" che porta alla cintola). Quale comico ha assunto questo nome? La tradizione crede indicarlo in Zan Ganassa. Certo Zan Ganassa al suo ritorno dalla Spagna e da Parigi introduce nelle scene un altro Zanni, pazzo, intrigante, non cattivo, che è il vero motore dell'azione scenica. Questo Secondo Zanni, che poi diventa Primo, lo si fa originario di Bergamo, o di Brescia, se n'attribuisce la prima incarnazione ad Antonio da Molino: Brighella. Esso si trasformerà con i suoi maggiori interpreti anche in Burattino, Flautino, Trivellino, ecc. E dalla variante "Sbriganti" usciranno Sganarello, Mascarillo, Frontino. Parla un miscuglio di dialetti: e, a preferenza, il veneziano. Negli scenarî di Orlando di Lasso vi sono altri tre "servitori" ma non si affermano. Il Magnifico negli scenarî del Seicento si trasforma in Pantalone, pur conservando spesso l'appellativo. Nel 1716 muta costume: calzoni corti, calze rosse e zimarra nera; grasso, avaro, beffato, assume un cognome: Dei Bisognosi e con il Goldoni il suo fare burbero si addolcisce, diviene rustica bonarietà.

La fortuna delle maschere ne provoca delle nuove: a Bologna spunta il Dottore (già affacciatosi in Orlando di Lasso, e in scenarî e commedie classiche, con il Pedante), e prende il nome di Graziano Balanzon Lanternone, Brentino, ecc. Nello scenario di Orlando di Lasso c'è il Capitano che si vuole abbia il suo motivo iniziale nel Bravo delle sacre rappresentazioni. Nel sec. XV è un poco di tutte le provincie italiane: poi diventa tipo meridionale, caricatura del soldato in genere, e di quello spagnolo in special modo. Sono così fermate le quattro maschere che Goldoni adotterà e rimarranno le "classiche" della commedia: Pantalone, Dottor, Arlechin, Brighella.

Accanto ad esse si fa largo la Servetta che sta fra il tipo fisso e la maschera: ha maggiore libertà del primo: non ha il costume, né la fisionomia costante, né la libertà delle movenze delle maschere. In qualche cosa può ricordare un poco la vecchia "megera" della commedia classica; ma è assai più fine, briosa: è impertinente, ciarliera, seducente: insomma, è giovane; qualche volta vera Zagna, degna di Arlecchino e Brighella. Favorisce gli amori, burla i vecchi: piena di cuore e di grazia, Corallina ne dà il tipo completo. A Firenze, donde la si fa provenire, ha qualche volta un nome proprio come la Ciancera. Tipi fissi veri e proprî sono gli Innamorati, intorno ai quali s'impernia la vicenda scenica. Anche essi prendono dei nomi d'arte; i più celebri sono: Leandro (B. Ricci e Pilastri), Curzio (D. Negri), Cintio (A. Fidenzi), Lelio (S. Marchetti), Florindo (Parrino), Lavinia (la Antonazzoni), Flavia (la Garavini-Luciani), Isabella (Andreini). Si ripete anche in Francia il nome dell'attrice dato a una parte; non per la creazione del tipo, ma per l'interpretazione di tipi similari di varî autori.

Le maschere meridionali vennero più tardi delle lombarde. I buffoni napoletani rappresentavano la libera, veemente, ardita vivacità della origine popolaresca. È la flessibilità e l'agilità pazza di Ciccio Sgarra e di Colla Francesco - seminudi, sguaiati, col mantelletto a sbrendoli e lo spadone al fianco, con pennacchietti e un gesticolare furioso -; è il Ciurlo dai gesti di paura dinnanzi a un Zanni Fritello che, voltandogli le spalle si mette in guardia col pistolese di legno; sono il suonatore Razullo e il danzatore Cucurucu. Nei "balli di Sfessania" sfilano Trastullo, Meo Squaquera, ecc. Quando i "comici lombardi" scesero a Napoli sentirono la fresca vivacità di quella buffoneria e la assorbirono, soprattutto quei buffoni che diventarono comici: tra i primi Ambrogio Buonomo, Coviello, e Andrea Calcese detto Ciuccio, Pulcinella o Policinella. Policinella fu raccolto nel popolo da Silvio Fiorillo (celebre poi anche come Capitan Matamoros) e perfezionato dal Calcese e figurò come Secondo Zanni. M. Fracanzani lo portò in Francia (1685), donde passò anche altrove, come in Inghilterra. Le provincie meridionali furono fertili nei Capitani; goffi e strabici come Mala Grazia e Bellavista, macilenti come Sgangherato, galanti come Cerimonio, con deformità come Giangurgolo (Giovanni dalla gola piena), ecc. Ebbero celebrità Garavini come Cap. Rinoceronte; G. A. Fiala come Cap. Sbranaleoni; Mondoro (empirico nato a Milano) come Capitan Rodomonte, e con lui, a Parigi il suo compare Tabarino, pure nato in Italia e che ha lasciato il suo nome popolare. (Un Tabarino, rappresentante un antico negoziante ritiratosi dal commercio, c'era sul teatro a Bologna nel sec. XVIII).

A Parigi riforma il tipo di capitano e gli dà un'impronta sua Tiberio Fiorilli con Scaramuccia. Scenicamente e artisticamente i "capitani" resistono fino a quando resistono coloro che modificano, dando ad essi nuova espressione e più attuale satira, il vecchio carattere. Poi scompaiono col tipo che li ha originati, come, del resto, le altre maschere, il cui contenuto si va esaurendo in novità e originalità. Nicolò Barbieri, sotto il nome di Beltrame, interpreta il Primo Zanni. Scapino (o Scappino: da scappare) è una maschera bolognese interpretata da Dionigi da Milano nel 1630: nome e tipo passano alla posterità con Molière e Régnard: ne interpretò il tipo Francesco Gabrielli, sostituendo alla virtuosità della mimica quella musicale. In fondo è una derivazione del Brighella, e del Brighella riadottò il costume il bolognese Bissoni nel 1716 a Parigi. Verso la fine del secolo scompare sotto il nome di Frontino. Vi è Tartaglia creato nel 1680 da Riccoboni: tipo di domestico, di birro, di giudice, di notaio; porta grandi occhiali. Lo riformò Fiorelli nel 1780. Carlo Cantù come Buffetto fu Primo Zanni e introdusse nelle commedie dei frammenti musicali. Francesco Mozzana è Truffaldino; G. C. Torri, Zaccagnino. Verso la metà del Settecento la Commedia dell'arte perde il suo fascino. Con Gian Placido Adriani non è ancora una sfrenata bizzaria di lazzi e capriole; ma non è più l'antica unità armonica tra autori e attori. Non vi sono più tipi nuovi. Non si creano più tipi fissi con caratteri ben distinti. La tragedia urbana e il dramma lacrimoso e soprattutto la riforma goldoniana, riducono la parte delle maschere a brevi battute, dove è permesso senza dubbio il "soggetto", ma breve, e non sempre intonato all'ambiente. Alle maschere si sostituiscono i "ruoli"; e negli elenchi delle compagnie troviamo l'indicazione dei tipi ormai umanizzati, come: Primo vecchio (Pantalone), Secondo vecchio (Dottore), Primo Zanni (Brighella o altra maschera del genere), Secondo Zanni (Arlecchino o altra maschera comica). Pochi anni dopo, ai primi dell'Ottocento, il nuovo repertorio impone nuove modificazioni: Caratterista serio, Caratterista buffo, Servitori di raggiro.

Tuttavia, nella commedia, più vivace e popolaresca, le antiche maschere sono sostituite da nuovi "caratteri"; i quali sono regionali. Nell'abito rappresentano "un tempo"; nel "soggetto" che aggiungono alla battuta scritta, una regione; ripetono e rafforzano la satira, di carattere politico e d'ironia regionale. Aspirano in un primo momento alla "libertà", e poco dopo vi aggiungono la "indipendenza della patria italiana". Abbiamo così la trasformazione del Beltramino in Meneghino, passato dalla letteratura dialettale al teatro, a Milano; Stenterello in Toscana; Gironi prima e poi Gianduia in Piemonte e in parte della Liguria; Gioppino (che da un antico affresco si vorrebbe far risalire al Cinquecento, ma che è un tipo moderno) a Bergamo; Sandron a Modena e nell'Emilia. A Bologna al Dottor Balanzon, che rimane come maschera locale, si aggiungono Persuttein, Fasulein e per qualche tempo anche uno Stenterello. A Roma si affermano Meo Patacca, Marco Pepe, Rugantino. Nel Veneto vive, con Luigi Duse, Zacometo. A Napoli, dove resiste Pulcinella che viene fino a noi col grande attore Petito, sorge Don Fastidio; e il Capitano si trasforma in Guappo. Edoardo Scarpetta dà vita a una comicissima e assai popolaresca caricatura locale, Don Felice Sciosciammocca: tipo, o macchietta, locale che può avere il suo riscontro in Tecoppa, Massinelli, ecc., di Edoardo Ferravilla. Ultima giunta, e popolare ora fra i bambini italiani, è la maschera del Signor Bonaventura, creata prima in un giornaletto infantile (Il corriere dei piccoli), poi sulle scene dal poeta, disegnatore e attore Sergio Tofano.

"Maschera" in gergo teatrale, indica anche gl'inservienti che agli ingressi del teatro, ritirano i biglietti d'entrata.

V. tavv. CVII-CXII.

Bibl.: E. Lattes, in Riv. di st. ant., II (1896), p. 5; F. Graziani, in Riv. di filol., XXIV (1896), p. 388; F. Skutsch, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 1609; M. Schanz, Gesch. der Röm. Litt., I, ii, p. 5; F. Leo, Gesch. der röm. Lit., I, Berlino 1913, p. 371. V. anche la bibl. della voce commedia dell'arte.

Maschere sportive e professionali moderne.

Maschere sportive. - Le maschere da scherma proteggono il volto negli assalti, sia di spada o di fioretto, sia di sciabola; la difesa del viso è data da un reticolo metallico incurvato; nelle maschere da sciabola i lati del capo e le orecchie sono protetti mediante imbottiture. Nell'esercizio di altri sport violenti, come il rugby o il base-ball, vengono pure adoperate maschere di cuoio a protezione del volto.

Maschere professionali. - L'uso di particolari maschere protettive è inerente all'esercizio di talune professioni o attività. Si hanno così maschere per apicoltori (talora con protezione totale del capo e del collo), per fabbro ferraio, per operai adibiti al maneggio di sostanze esplosive, infiammabili o suscettibili di produrre emanazioni venefiche. Sono chiamati altresì maschere taluni apparecchi adoperati nella macellazione dei bovini.

Maschere antigas.

Le maschere antigas sono apparecchi destinati a filtrare l'aria che un soldato respira, neutralizzando e trattenendo le sostanze aggressive contenute nell'atmosfera. Nella guerra mondiale furono il più comune mezzo di difesa individuale dai gas asfissianti.

Le prime maschere furono distribuite d'urgenza ai soldati degli eserciti alleati dopo l'attacco d'Ypres del 22 aprile 1915, in cui i Tedeschi usarono il cloro come asfissiante. Esse consistevano in uno strato di cotone avvolto in un velo di mussola oppure in diversi strati di garza, che al momento del bisogno dovevano essere imbevuti con una soluzione acquosa glicerinica di tiosolfato e carbonato sodico (destinati a neutralizzare il cloro). Il soldato doveva poi con una mano tenere la maschera aderente alla bocca. Questo primitivo sistema difensivo fu in seguito perfezionato, sia aggiungendo alla mascheretta di garza due nastri per legarla dietro alla testa e tenerla ferma alla bocca (fig. 1), sia dandole una forma tale da farla restare più che fosse possibile aderente al viso, facendo chiusura fra il naso, le guance e la gola. Con successivi perfezionamenti delle mascherette di garza si giunse in Francia alla maschera polivalente formata da 40 strati di garza imbevuti con dicerse sostanze neutralizzanti e capaci quindi di trattenere diverse sostanze aggressive. Questi strati formavano un ampio cuscinetto che con elastici e nastri si cercava di tenere aderente al viso più che fosse possibile. Per difendersi dai lacrimogeni furono usati prima gli occhiali di celluloide o di cellofane con orlo gommato, poi si fecero maschere più grandi con occhiali di cellofane saldati alle maschere stesse, le quali chiudevano la faccia del soldato aderendo alla fronte, alle guance e alla gola. Anche in Italia furono per lungo tempo usate le maschere polivalenti con occhiali separati o con occhiali saldati, simili a quelle francesi (fig. 2).

Mentre in Francia e in Italia si andava perfezionando la maschera polivalente, gl'Inglesi usarono per qualche tempo un cappuccio di flanella imbevuta di sostanze capaci di fissare i gas asfissianti e lacrimogeni. Il cappuccio che chiudeva tutta la testa veniva legato alla gola ed era fornito, in corrispondenza degli occhi, di due occhiali di celluloide; all'apparecchio si aggiunse poi un tubo con valvola adattabile alla bocca per emettere l'aria espirata (fig. 3). Questa cuffia in cui veniva chiusa la testa del soldato produceva però troppo caldo, disturbava il senso dell'orientamento e perciò fu presto abbandonata.

I Tedeschi, dopo le prime maschere improvvisate con strati di mussola o di ovatta imbevuti di tiosolfato, adottarono un tipo di maschera che già in tempo di pace era usato nelle fabbriche di prodotti chimici. Consisteva essenzialmente in una maschera vera e propria fatta di stoffa gommata e impermeabilizzata oppure di pelle di capretto. In corrispondenza degli occhi, essa era provgvista di occhiali di celluloide salddati alla stoffa e in corrispondenza della bocca portava avvitata la scatola-filtro cioè una scatola metallica contenente le sostanze destinate a purificare l'aria dai composti aggressivi che vi erano contenuti (fig. 4).

La maschera tedesca più o meno modificata fu poi adottata da tutti i belligeranti. Un'importante modificazione fu l'adattamento alle maschere di un sistema di valvole destinate a far uscire l'aria espirata senza farla passare di nuovo attraverso la scatola-filtro: così si poté impedire che l'anidride carbonica contenuta nell'aria emessa con la respirazione alterasse le sostanze neutralizzanti contenute nella scatola. Un'altra modificazione consisté nel separare dalla maschera vera e propria la scatola filtro, troppo pesante e incomoda. Questa veniva appesa al collo sul petto del soldato, mentre restava congiunta con un tubo flessibile alla maschera in corrispondenza della bocca. In un tipo di maschera francese (respiratore Tissot), la scatola filtro era adattata alle spalle del soldato come uno zaino (fig. 5). Nell'ultimo anno della guerra tutti usavano maschere di questo tipo. In Italia fu adottata la maschera inglese (fig. 6). Anche nel dopoguerra tutti gli eserciti si sono dedicati a migliorare ancora le maschere di questo tipo, cercando di renderle più comode, più forti e più sicure; un esempio di queste è la maschera italiana, modello Penna (fig. 7).

Le maschere impiegate in tempo di guerra non furono perfezionate soltanto nella forma: subirono modificazioni e perfezionamenti anche per le sostanze destinate a trattenere le sostanze aggressive presenti nell'aria.

Mentre le prime mascherette di garza soltanto al momento del bisogno venivano imbevute con soluzione acquosa glicerinica di tiosolfato e carbonato di sodio (capaci di neutralizzare il cloro), le maschere polivalenti erano formate da diversi strati di garza imbevuti prima con sostanze diverse capaci di neutralizzare varî aggressivi: alcuni strati erano imbevuti con una soluzione alcalina di solfofenato o di solfanilato di sodio (adatto a trattenere il fosgene), altri con ricinoleato di sodio (per trattenere i composti alogenati lacrimogeni), altri con acetato o carbonato basico di nichel (per fissare l'acido cianidrico). Le scatole-filtro delle maschere del tipo tedesco erano riempite invece con diversi materiali granulati e porosi, disposti in più strati distinti (fig. 9): nelle prime maschere tedesche per es. uno strato era formato da granuli di pomice imbevuta con soluzione di urotropina (per fissare il fosgene) e un altro strato era costituito da carbone di legna granulato.

Di mano in mano che furono impiegate nuove sostanze aggressive, variò il contenuto delle scatole-filtro. Per fissare l'acido cianidrico si mescolò al carbone un po' di ossido di mercurio in polvere oppure sali complessi di zinco, per neutralizzare i vapori d'iprite si aggiunse un po' di permanganato insieme con calce sodata; quando si cominciarono a usare le arsine si aggiunsero, fra uno strato e l'altro delle scatole-filtro, tamponi di ovatta compressa o fogli di cartone di cellulosa, destinati a filtrare meccanicamente queste sostanze, che hanno la caratteristica di restare sospese nell'aria sotto forma di particelle solide minutissime. La sostanza però che diede i migliori risultati per il riempimento delle scatole-filtro fu il carbone vegetale attivato in modo speciale e poi granulato. Il carbone così preparato è capace di adsorbire fisicamente tutte le sostanze aggressive, anche quelle (come la cloropicrina e il bromoacetone) che sono fissate con difficoltà dai reattivi chimici. Per difendersi dall'ossido di carbonio che si forma nell'esplosione di molti esplosivi ed è pericoloso soprattutto quando lo scoppio avviene in ambienti chiusi, si usano maschere speciali che nelle scatole-filtro contengono una miscela di ossidi di rame, cobalto e argento insieme con biossido di manganese. Questa miscela (chiamata hopcalite) esercita, in assenza di umidità, un'azione catalitica per cui anche a temperatura ordinaria l'ossido di carbonio viene ossidato dall'ossigeno per formare anidride carbonica.

Le maschere antigas sono efficaci nei casi comuni: si dimostrano insufficienti quando vengono usate a lungo senza ricambiare la scatola-filtro o quando la concentrazione dell'aggressivo nell'aria è molto forte. Più sicuri sotto questo punto di vista sono gli autoprotettori, apparecchi del tipo delle maschere i quali sono forniti di una bombola di ossigeno compresso che è quello che viene usato per la respirazione, senza bisogno di filtrare l'aria circostante carica di sostanze aggressive. Il più noto di questi respiratori autoprotettori è l'apparecchio di Draeger che fu impiegato in tempo di guerra (fig. 8). Sono però sempre apparecchi troppo pesanti, costosi e molto delicati che soltanto in casi speciali possono trovare un utile impiego.

In tempo di guerra si fecero anche maschere per i cavalli e per i cani, le quali furono usate con buoni risultati (figg. 10-11).

L'importanza dell'uso di maschere e di altri mezzi antigas è enorme. Si calcola che mentre nel primo attacco di Ypres gli alleati ebbero il 35% di morti per gas asfissianti, alla fine della guerra essi non ne ebbero più del 2%.

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