DELLA TORRE, Martino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 37 (1989)

DELLA TORRE, Martino

Giuliana L. Fantoni

Figlio di Jacopo e quindi nipote di Iacopo di Martino detto il Gigante, conte di Valsassina, nacque all'inizio del secolo XIII. Suo zio Pagano era stato capo a Milano della Credenza di S. Ambrogio.

Le notizie che si hanno di lui sono scarsissime fino al 1247, quando la Credenza di S. Ambrogio, pur continuando ad eleggere come sempre i propri consoli, lo scelse quale capo, dandogli il titolo di anziano, anche in ricordo dello zio Pagano, morto nel 1241. Il D. riprese e proseguì, senza tuttavia completarla, l'opera già iniziata da quello, la redazione, cioè, del catasto delle terre, strumento divenuto ormai indispensabile per una più equa ripartizione dei tributi tra i cittadini. Podestà di Lodi nel 1252, il D. emerge in chiara luce a partire dal 1256.

Egli fino ad allora aveva partecipato alla vita pubblica con atteggiamento tale da riuscire a guadagnarsi la fiducia incondizionata del popolo milanese, al punto che quest'ultimo riteneva la presenza del D. l'unica in grado di garantirgli protezione. Era stato quello un periodo molto travagliato per la vita di Milano; tra gli altri, non ultimo per risonanza e per complicazioni a livello internazionale, si era verificato l'episodio dell'assassinio del frate domenicano Pietro da Verona (1252), poi s.Pietro Martire, fatto questo che aveva riportato alla luce il problema degli eretici in citta, non solo dal punto di vista della salvaguardia dei contenuti della dottrina, ma anche come presenza inquietante nella compagine sociale. Ma soprattutto il rapido succedersi e modificarsi delle alleanze delle grandi famiglie rendeva sempre più instabile e precario l'ordinamento comunale e sempre più inadeguate le magistrature consolari che vi presiedevano. Proprio questa situazione di crisi chiaramente avvertita dai ceti dirigenti, suscitava nei capi il timore dei prevalere dell'uno sull'altro, favorendo quindi un antagonismo tra fazioni e tra famiglie. Nel 1256 mentre i nobili, guidati dall'arcivescovo Leone da Perego, avevano indicato come loro podestà Paolo da Soresina, appartenente ad una famiglia che ai tempi di Pagano Della Torre si era schierata al suo fianco con i popolari, questi ultimi scelsero il D. quale capo, dandogli il titolo di podestà della Credenza di S. Ambrogio. Nello stesso anno, egli era stato nominato anche senatore di Roma, carica alla quale rinunciò e che in sua vece fu affidata al podestà milanese Emanuele de' Maggi, che in tal modo lasciò vacante la suprema magistratura cittadina. Sulla scelta del nuovo podestà ripresero le lotte intestine: alla fine la designazione venne demandata a quattro religiosi, l'abate del monastero di Chiaravalle, il priore di S. Eustorgio, il padre guardiano dei frati minori e il generale degli umiliati, i quali scelsero Enrico Sacco da Lodi. Ma l'anno successivo si riaccesero nuove e ancor più sanguinose lotte fra le fazioni. I popolari presero a pretesto l'uccisione di uno di loro compiuta proditoriamente dal nobile Guglielmo da Landriano nel territorio dei Seprio e, guidati dal D., posero l'assedio a Fagnano, mentre i nobili, al seguito dell'arcivescovo, entrarono nel castello dei Seprio.

Lo scontro fu sfavorevole al D., in quanto i suoi nemici poterono contare sull'ospitalità loro accordata dalla città di Varese e sull'aiuto armato dei Comaschi. Il D. fu costretto a ritornare verso Milano, da dove fece giungere il carroccio, facendo così intendere di essere pronto a scendere in guerra aperta. S'interposero però i legati di Brescia, Bergamo, Crema, Novara, Pavia e Lucca che, proponendo di rimettere la soluzione della controversia al papa Alessandro IV, evitarono lo scontro finale. Alla fine di agosto venne raggiunto a Parabiago un accordo tra le parti su un testo redatto da esponenti delle due fazioni, accordo che fu poi approvato dal pontefice. L'intesa venne forinalmente approvata con il trattato, noto come pace di S. Ambrogio perché stipulato in quella basilica il 4 apr. 1258-, in cui si stabiliva che le cariche pubbliche cittadine dovevano essere equamente ripartite tra le due fazioni, si rinnovava la pace con le città di Como e Novara e si permetteva al D. e a quei nobili, che si erano schierati col partito avverso, di riprendere i posti precedentemente ricoperti, dietro pagamento del fodro. Nel frattempo i capipartito avevano cercato di consolidare la pacificazione attraverso il matrimonio tra il D. e una sorella di Paolo da Soresina. Ma, in conseguenza di tale matrimonio, il Soresina divenne sospetto alla fazione ghibellina, tanto che venne allontanato dalla vita pubblica e poi fu tenuto prigioniero a Legnano da parte dei suoi stessi amici: una volta tornato libero, Paolo decise di riavvicinarsi politicamente al cognato.

Sempre nel 1258 scoppiò a Como una lotta tra le fazioni cittadine, quella nobiliare, guidata dai Rusconi, e quella popolare diretta dai Vittani. Il D. contribuì in modo determinante alla vittoria di quest'ultima e ricevette la carica di podestà che divise con gli altri due già prima esistenti.

Il quadro politico della Lombardia appare caratterizzato in questi anni da una serie di lotte tra famiglie per il controllo territoriale dell'area padana, lotte che passavano all'interno degli schieramenti ghibellino e guelfò, dando vita a contrasti e ad. alleanze di tipo nuovo. Nel campo ghibellino lottavano tra di loro il marchese Oberto Pelavicino, Buoso da Novara ed Ezzelino da Romano, mentre il D., guelfò, si avvicinava al Pelavicino. In questo quadro politico incerto e complesso si riaprì nel 1259 a Milano la lotta per le cariche cittadine.

Il 30 marzo 1259 i popolari milanesi si riunirono nella chiesa di S. Tecla per eleggere l'anziano del Popolo. La società della Credenza di S. Ambrogio, che era la più numerosa, riuscì ad imporre il D. sul candidato della società della Motta, Azzolino Marcellino. Ma appena il D. e i suoi seguaci, dopo il giuramento, si furono allontanati dal tempio, la Motta nominò Azzolino Marcellino. Questi, comunque, pochi giorni dopo rimase ucciso in un tumulto di piazza: sparito il rivale, il 24 aprile il D. fu proclamato solennemente anziano e signore del Popolo di Milano. La Motta tuttavia non accettò la nomina e avanzò la candidatura di Guglielmo da Soresina. Il legato pontificio, Enrico da Susa, dal 1250 arcivescovo di Embrun, tentò, allora, di risolvere la questione decretando il bando sia del D. sia del Soresina. Il D. non accettò la decisione e, radunati i suoi seguaci sotto le mu ra della città, con un colpo di mano rientrò in armi a Milano. Qui ebbe facilmente ragione del podestà Baldo Ghiringhelli e divenne di fatto signore della città. Giungeva così a maturazione il lungo processo di presa di potere iniziato dal D. nel 1247; il decennio intercorso era stato caratterizzato dalla costituzione di un regime progressivamente accentuato in senso pratico, per cui gran parte dell'amministrazione della città era passata dalle mani dei milites in quella dei populares.

Il primo provvedimento preso dal D. fu il bando di Guglielmo da Soresina e dei seguaci di quest'ultimo, che cercarono aiuto presso Ezzelino da Romano, al quale promisero in cambio il dominio su Milano. In Lombardia, perciò, la situazione si era fatta tale che i contrasti cittadini avevano assunto le dimensioni di guerra generalizzata. Ezzelino aveva posto l'assedio al castello di Orzinuovi e contro di lui mossero Oberto Pelavicino, Buoso da Dovara e le città di Cremona, Ferrara, Mantova. Stretta alleanza tra di loro, chiesero l'aiuto del D. che subito si armò. Appena il D. ebbe lasciata la città, Ezzelino, al cui fianco si erano appunto posti i fuorusciti milanesi. tentò di sorprendere Milano incustodita; ma il D., avvertito del pericolo dai Bergamaschi, riuscì a ritornare indietro in tempo per organizzare la difesa. Ezzelino tentò, senza successo, di occupare Monza, incendiò il castello di Trezzo, occupò Vimercate, e si garantì il controllo del ponte sull'Adda a Cassano, che però poco dopo gli fu tolto dalle truppe del Pelavicino. del Dovara e dell'Estense. L'accerchiamento di Ezzelino fu completato dalle truppe al comando del D. che occuparono saldamente Sesto e Monza e, dopo avere costretto il nemico a disperati tentativi per aprirsi una via di salvezza, lo sconfissero; Ezzelino gravemente ferito, cadde prigioniero e morì nella rocca di Soncino, dove era stato trasportato (1259).

Il D., rafforzato al potere dal successo militare, si avvicinò al Pelavicino, che era ormai il maggior condottiero dell'area padana, per evitare che i fuorusciti milanesi facessero lega con lui. Lo chiamò allora a Milano e stipulò con lui un contratto di cinque anni con cui gli affidava il capitanato generale. La sua alleanza politica col Pelav icino, ghibellino e che per giunta aveva fama di essere protettore di eretici, fu vista con sospetto dalla Curia romana. Del resto, non mancavano i contrasti anche tra i due signori, entrambi ambiziosi e spregiudicati. Il Pelavicino cercò di mettere in crisi il potere del D. in seno alla stessa Credenza di S.Ambrogio, e di sottrargli la signoria di Lodi che gli si era sottomessa all'indomani della vittoria di Cassano e lo aveva nominato podestà. Le manovre del Pelavicino ai danni del D. non ebbero, però, alcun risultato, in quanto questi seppe salvaguardare il proprio potere. Tuttavia il marchese approfittò del prestigio e dell'autorità derivantigli dalla carica di capitano generale di Milano, per rafforzare e ampliare la propria sfera di egemonia politica: già signore di Cremona, lo divenne anche di Brescia, Piacenza, Pavia, Alessandria, Tortona, Bobbio e Pontremoli.

Proseguivano intanto i tentativi dei fuorusciti milanesi per abbattere il potere del D., ma si conclusero tutti con degli insuccessi. A Piacenza, poiché era sorta una controversia tra intrinseci ed estrinseci tra cui il Pelavicino, il D. e Buoso da Dovara furono chiamati quali arbitri per dirimere la questione; ma, data l'ostinazione dei cittadini, non si giunse ad un accordo. La questione venne poi risolta dal marchese Pelavicino, il quale intervenne in armi cacciando gli avversari e con essi i fuorusciti milanesi che li avevano appoggiati e sobillati. Questi trovarono allora rifugio a Bergamo, e da qui attaccarono il contado milanese. Pronta fu la risposta della città minacciata: sotto la guida del podestà, Guglielmo Pelavicino, imparentato con Oberto, i Milanesi dapprima chiesero conto di tale comportamento ai Bergamaschi e poi, insieme con le truppe di Cremona, Brescia e Novara, assediarono il castello di Tabiago, in Brianza, dove gli esuli avevano trovato rifugio. Il castello fu distrutto e gli assediati sopravvissuti furono imprigionati: il D., con un gesto teso ad accrescere la propria popolarità, fece a tutti grazia della vita.

Rimaneva ancora insoluta la questione riguardante la nomina dell'arcivescovo di Milano. Infatti, da quando Leone da Perego era morto nel 1257 a Legnano, la cattedra di S. Ambrogio era rimasta vacante, né gli ecclesiastici, che avrebbero dovuto procedere all'elezione, erano riusciti a raggiungere un accordo. I candidati erano due: Rainiondo Della Torre, figlio di Pagano e cugino del D., arciprete di Monza, la cui elezione era caldamente appoggiata dalla parte popolare, e Francesco da Settala, gradito ai nobili. Coi ritiro della candidatura deciso da quest'ultimo nel 1262, pareva che la questione fosse risolta; ma, poiché la sede era vacante da troppi anni, la decisione era diventata di competenza della S. Sede. In tale momento e in tale situazione si inserisce il soggiorno a Milano del cardinale Ottaviano degli Ubaldini e del suo seguito, del quale faceva parte Ottone Visconti. Il cardinale rientrava a Roma da una legazione svolta in Francia, e si fermò a Milano presso il monastero di S. Ambrogio.

Secondo il racconto delle cronache (per tutti si veda G. Giulini, p. 549), il cardinale, avendo visto che nel tesoro della basilica si conservava un rubino di rara bellezza, volle entrarne in possesso. I canonici della basilica si rivolsero allora al D. il quale si recò con ricco corteo dal cardinale e gli comunicò di esser venuto per scortarlo fino alle porte della città, avendo appreso della sua decisione di lasciare Milano. L'Ubaldini fu costretto a subire l'affronto, ma si vendicò sollecitando il papa Urbano IV a nominare arcivescovo di Milano Ottone Visconti. Questi, arcidiacono della Chiesa ambrosiana, canonico di S. Ambrogio, canonico della chiesa di, Desio, apparteneva ad una famiglia che, sebbene non particolarmente ricca, era nelle file di quella nobiltà irriducibilmente ostile al R; era inoltre da molti anni familiare dell'Ubaldini che aveva accompagnato in più di una legazione.

In realtà, tra Milano e la S. Sede esisteva un contrasto di carattere prettamente politico. Il D., che dominava in città, costituiva una grave preoccupazione per la Curia pontificia, sia a causa della sua amicizia col Pelavicino, sia per le sue mire di supremazia sulle città padane; ed è chiaro che il suo potere sarebbe stato seriza dubbio rafforzato dalla presenza sul soglio di S. Ambrogio di suo cugino Raimondo. I motivi della nomina papale di Ottone Visconti ad arcivescovo di Milano (1261),nomina che giunse da Montefiascone il 22 luglio 1262, vanno dunque ricercati nel tentativo del pontefice di contenere la potenza torriana che era in preoccupante espansione (negli stessi giorni, Raimondo Della Torre veniva elevato alla cattedra vescovile di Como).

Immediata fu la reazione del D. che, insieme col Pelavicino, occupò le terre e i beni dell'arcivescovato per costringere il papa a modificare la propria scelta. Questi, però, non solo non recedette dalla posizione assunta, ma di fronte al persistere della ribellione dei D. e del suo alleato, che non intendevano lasciare i territori occupati, lanciò l'interdetto su Milano. L'11 febbr. 1263, infatti, il D., suo fratello Filippo, e altri importanti cittadini furono raggiunti da scomunica perché seguaci di re Manfredi - che si presentava come il campione del ghibellinismo italiano - e del Pelavicino. Il provvedimento papale sembrò non intimorire il D., ancora una volta impegnato nel reprimere i tentativi di ribellione dei fuorusciti: per sottrarre loro ogni possibilità di difesa fece distruggere le fortificazioni di Gallarate e di Brivio nonché la torre di Mozzate.

All'inizio del 1263 Ottone Visconti, per ordine del papa, partì da Roma per cercare di prendere possesso del proprio arcivescovato e col seguito di un buon numero di milanesi esuli, entrò ad Arona il 10 aprile dello stesso anno. Appresa questa notizia, il D. e il Pelavicino corsero in armi verso la rocca per riportarla sotto il dominio di Milano. La resistenza opposta dal Visconti durò un mese; alla fine Ottone fu costretto a fuggire, il castello fu distrutto e medesima sorte subirono le rocche di Angera e di Brebbia, entrambe dell'arcivescovato di Milano.

Nel giugno di quell'anno, il D. divenne anche podestà di Novara, dove la fazione guelfa aveva avuto il sopravvento ed aveva costretto i ghibellini all'esilio, ponendo così termine alle lunghe lotte di parte che avevano insanguinato la città. Fu questo l'ultimo successo del D.: il 7 novembre egli, mentre si trovava a Lodi, cadde gravemente malato. Comprendendo di essere prossimo alla morte, chiese ed ottenne che il fratello Filippo gli succedesse nella carica. Morì probabilmente il 20 nov. 1263, come si legge sull'epitaffio che sovrasta la sua tomba nell'abbazia di Chiaravalle, dove già erano stati sepolti suo padre e Pagano.

Il D. fu certamente il personaggio più significativo della famiglia e con lui la signoria torriana raggiunse il suo maggior fulgore. Uomo politico di notevole capacità e di sottile intuito, non mancava di determinatezza nelle decisioni, né di spregiudicatezza negli atteggiamenti. Non godette del medesimo affetto popolare che aveva invece saputo conquistarsi Pagano, né risulta che lo abbia ricercato in egual misura; egli, piuttosto, si presentò a tutti, amici o nemici che fossero, profondamente conscio dell'autorità e del prestigio che gli derivavano dall'essere di fatto signore di Milano.

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