FARNESE, Mario

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

FARNESE, Mario

Stefano Andretta

Figlio di Bertoldo, duca di Latera e Farnese, e di Giulia Acquaviva, nacque con molta probabilità intorno al 1548 a Latera (prov. di Viterbo). Conformandosi alle tradizioni militari del padre, stipendiario di Carlo V e Filippo Il e membro dell'entourage di Marcantonio Colonna, fu avviato fin da giovane all'esercizio delle armi. Frequentò la corte parmense e, quando Alessandro fu destinato ai Paesi Bassi, si vide affidare il comando di una compagnia di cavalieri conosciuta come la "Favorita", con la quale partecipò alle operazioni militari nelle Fiandre. Nell'agosto 1590 contribuì al tentativo intrapreso da Alessandro Farnese per spezzare l'assedio di Parigi, ormai vicina al crollo.

In un'azione di concerto con il "tercio" di C. Capizucchi, il F. fu incaricato di aggirare le armate dei riformati e di reperire e concentrare vettovaglie nella cittadina di Meaux, in preparazione del tentativo di interrompere il blocco degli approvvigionamenti alla capitale. E non appena, dopo la presa di Saint-Maur e di Charenton, la morsa venne allentata, curò l'invio delle derrate alimentari per via fluviale attraverso la Marna e la Senna.

Il F. in questo periodo si segnalò come subordinato fedele al duca di Parma e come devoto esecutore della strategia familiare: si dimostrò un prezioso informatore di fronte ai manifesti segni di declino, se non di ostilità, che ormai caratterizzavano la fortuna del governatore dei Paesi Bassi presso Filippo II e la corte spagnola. Nel gennaio 1591 ricevette da Alessandro Farnese un'istruzione dettagliata e l'incarico di recarsi a Roma per esercitare le dovute pressioni per la nomina del figlio Odoardo al cardinalato.

Giunto nel febbraio, oltre a questa incombenza risolta a buon fine, il F. si preoccupò in realtà di sondare gli umori dei residenti spagnoli e di penetrare attraverso di loro le intenzioni di Filippo II circa l'intervento armato in Francia. Non mancò di segnalare alla famiglia il clima sempre più sospettoso e inquinato di cui era diretto testimone. Svelò la volontà di addossare tutto l'onere della campagna di Francia ai Farnese e riuscì a scoprire che le manovre in atto per accordare il titolo di luogotenente generale della Chiesa ad Alessandro, dietro la motivazione di opportunità, nascondevano in verità da parte degli Spagnoli l'intenzione di procedere rapidamente ad una sostituzione nel governatorato dei Paesi Bassi. Ciò fu particolarmente chiaro quando gli venne chiesto di approntare o far approntare un conto rigoroso delle spese effettuate con i finanziamenti spediti in Fiandra. Inoltre si premurò di offrire informazioni sui progetti e i preparativi, in uomini e denari, che il papa si apprestava a compiere a sostegno della Lega cattolica nonché dei sordidi intrighi, in sovrapposizione alle intenzioni spagnole allo stesso proposito, che dilaniavano la Curia sulle nomine a generali pontifici di Appio Conti e Pietro Caetani.

Ritornato nel teatro delle operazioni al comando di un distaccamento di truppe, fu vicino ad Alessandro negli ultimi mesi di vita ed ebbe un'apprezzata corrispondenza con la corte parmense e con Ranuccio: in un crescente vuoto di potere nell'aprile 1592 consigliò il duca, la cui salute era in progressivo peggioramento, di rinunciare volontariamente all'incarico e di richiedere il congedo per aprire così la strada a una possibile nomina di Ranuccio in sua vece.

In continuo ed aspro dissidio con Peter Ernst conte di Mansfelt e la sua famiglia che tramavano intensamente per il governatorato, il F. non abbandonò il capezzale di Alessandro Farnese sino alla sua morte (2 dic. 1592). Anzi, a testimonianza della sua fedeltà e della sua ammirazione per il defunto, accusato da Madrid di aver "straccato l'Azienda di sua maestà" e "robbato milioni", il 28 dic. 1592 inviò un lungo rapporto al conte di Fuentes in cui' proclamava l'innocenza, la correttezza e la buona fede dei Farnese, offrendo addirittura indicazioni per consentire una rapida verifica dei mandati e delle libranzas accordati sino alla scomparsa di Alessandro.

Ormai destinato al proseguimento della carriera delle armi, nella congregazione di Francia il nome del F. fu fatto dopo la morte di Appio Conti come possibile luogotenente generale. Tornato a Parma alla fine di gennaio del 1593 e quindi a Roma, come molti altri combattenti della campagna francese, il F., forse in un momento di difficoltà, offrì senza esito i propri servizi e la propria esperienza militare alla Repubblica di Venezia.

Tuttavia, l'esperienza accumulata negli anni di milizia venne apprezzata dal pontefice Clemente VIII che, vieppiù eccitato nella progettazione di una guerra contro i Turchi in Ungheria, considerò il F. come uno degli uomini di fiducia su cui fondare i preparativi delle campagne. L'11 febbr. 1595 lo convocò a Roma per ascoltare la sua opinione sulla imminente spedizione. Interpellato sull'affidamento del comando supremo, il F. sostenne invano la candidatura del duca estense Alfonso II e manifestò francamente al pontefice i suoi dubbi sulla statura militare di Gian Francesco Aldobrandini, "che non ha travagliato in guerra alcuna, se bene il dovriano servire come nipote di Sua Beatitudine" (Ricci, p. 179). Nominato colonnello, il 31 maggio con "un terzo per uno", insieme con Rodolfo Baglioni e Francesco Del Monte, s'impegnò immediatamente nelle leve militari nel Parmense. Nell'agosto 1595, sotto il comando dei nipote del papa, "di poca sodisfattione a tutti", partecipò all'assedio di Strigonia (Esztergom), dove fu ferito. Con la conclusione infelice di questo primo tentativo di resistere all'urto ottomano, al F. fu commesso l'incarico di sovrintendere alla "natione italiana" che, invisa agli Imperiali, era costretta a svernare con scarsissimi sostentamenti da parte dell'imperatore. Si trovò a svolgere mansioni diplomatiche a fianco di quelle propriamente militari: in questo nuovo ruolo, nel gennaio 1596 fu il tramite con la corte imperiale per decidere il rimpatrio di Gian Francesco Aldobrandini. Tornato a Roma nel febbraio, ricevette dal pontefice nel dicembre un'istruzione per recarsi a Praga.

In esse gli veniva raccomandato di spingere Rodolfò II a un'azione più energica e, soprattutto, a fornire un'informazione più puntuale e solerte delle forze armate e dei finanziamenti che era disposto a mettere in campo per la ripresa delle ostilità, e di non concedere assolutamente posti di comando a personale militare eretico. Inoltre, in virtù della sua esperienza personale in Ungheria e per "la finezza del suo giudizio", al F. si chiedeva, concedendogli un ampio mandato di discrezionalità, di occuparsi delle questioni e delle necessità logistico-militari e, particolarmente, di proporre rimedi a quei "disordini purtroppo grandi degl'anni passati" nella direzione della guerra e negli approvvigionamenti. Contestualmente doveva incontrare l'arciduca Massimiliano per convincerlo a rinunciare al titolo di re di Polonia, che costituiva un ostacolo insormontabile per un'alleanza con la Polonia e un suo intervento nella guerra. La missione, in realtà, fu revocata poiché la negoziazione venne portata avanti dal nunzio Cesare Speciano e dallo stesso Gian Francesco Aldobrandini.

Che il credito del F. fosse ormai consolidato fu chiaro però in occasione della devoluzione di Ferrara e della crisi tra Cesare d'Este e Clemente VIII. Sino alla fine del 1597 il F. soggiornò nelle terre di Latera, a Farnese, a Capodimonte nel Viterbese, offrendo consigli sul personale militare e, laddove possibile, tentando di riordinare lo stato delle milizie e la preparazione delle leve militari. Pur dichiaratosi sino alla morte di Alfonso (27 ott. 1597) servitore degli Estensi per gli evidenti timori di Ranuccio Farnese di fronte all'accanimento espansionistico del papa, allo scoppio della contesa egli antepose ai legami parentali e alle preoccupazioni politiche la certezza delle prospettive di una carriera militare ormai molto ben avviata negli ambienti romani.

Nominato generale delle artiglierie, il F. prese quartiere con i 20.000 uomini mobilitati a Faenza. Nel dicembre 1597, a seguito della proclamazione della scomunica e della devoluzione alla S. Sede, fu in continuo movimento tra Rimini, Bologna, Ferrara e Parma per porre rimedio alle manchevolezze e alle negligenze nei distaccamenti militari e per segnalare e sollecitare un adeguato armarnento delle truppe. Nella città occupata di Ferrara venne incaricato di sovrintendere alla cittadella e all'edificazione di un fortilizio militare a simboleggiare la supremazia temporale del pontefice. Non mancò di informare puntualmente la corte romana dei problemi logistici, non ultimi quelli relativi alla qualità e all'inesperienza delle soldatesche arruolate, talvolta "bruttissima gente et che non vi è dentro officiale che vaglia ma quello che è peggio quasi tutti i capitani sono soldati novi et contadini fatti per questi castelli" (Barb. lat. 5864, c. 157v). Probabilmente, preoccupato da motivi di ordine pubblico, accelerò la partenza di Cesare d'Este da Ferrara, avvenuta il 29 genn. 1598, esibendo le prove del tradimento di persone molto vicine al duca ed accrescendone il senso di isolamento. Nello stesso mese rigidissimo, si premurò insieme con l'arcivescovo Giacomo Matteucci di occuparsi della divisione delle artiglierie e delle munizioni ducali di Ferrara, Lugo e Argenta, contribuendo così alla preparazione della convenzione faentina; contemporaneamente represse duramente i saccheggi e le violenze dei soldati, mostrando una certa sensibilità per l'opinione pubblica tanto da sconsigliare a Roma un'entrata troppo pomposa e sproporzionatamente armata del cardinale Aldobrandini nei confronti di una cittadinanza provata dalla vicenda e abbastanza ben disposta ad accettare il dominio ecclesiastico.

Ritornato nelle sue terre, nel settembre 1602 gli venne comunicata la decisione del papa di nominarlo luogotenente generale delle armate pontificie. Non senza qualche renitenza e soltanto dopo aver avuto ampie garanzie per contrastare le maldicenze e le invidie che immancabilmente circondavano l'assegnazione di un incarico che rendeva 3.000 scudi d'oro mensili, il F. nel maggio 1603 si trovava a Ferrara nel nuovo incarico. In un periodo in cui già emergevano crescenti tensioni con la Repubblica di Venezia, poté dispiegare tutte le sue qualità di organizzatore con una pressoché totale discrezionalità per la fiducia indiscussa che riscuoteva dal cardinal Pietro Aldobrandini, legato a lui da "amicitia sostantiale ".

Immediatamente il F. prese le misure idonee alla ricostituzione della soldatesca di presidio a Ferrara e nelle zone confinarie: migliorò sensibilmente la disciplina e la qualità degli effettivi, cercando di evitare gli arruolamenti nelle popolazioni locali, soprattutto di Ravenna, Faenza e Imola "perché sendo quelle città piene di fattioni non stava bene metter l'armi in mano al popolo" (Fondo Borgh., III, 26, c. 589), e dei contadini per la "carestia di lavoratori" nelle campagne coltivabili. Represse duramente le diserzioni e i duelli, riuscendo ad ottenere significativi successi nell'arruolamento di 500 fanti e di un contingente di cavalleria; si fece destinare 2.000 scudi al mese per i lavori di riattamento della fortezza di Ferrara, curo con frequenti sopralluoghi l'efficienza delle fortificazioni e dei porti, sorvegliò le acque del Reno, facendo venire un architetto dalla Fiandra; propose la costruzione di due brigantini per meglio sorvegliare le vie fluviali, ottenne una riforma delle paghe ai soldati e una maggiore puntualità nei pagamenti. Infine, divise il contado ferrarese in quattro circondari militari sotto la responsabilità di quattro capitani sottoposti alla sua diretta sovrintendenza. Informatore e consigliere della Curia, quasi una vera e propria spia sul comportamento delle autorità ecclesiastiche e civili della Legazione, fu impegnato anche a seguire l'andamento delle vicende legate alla minaccia veneziana di operare una deviazione del Po e si avviò effettivamente con un esercito verso i confini del Ferrarese pronto ad intervenire nella Sacca di Goro. Di spirito peraltro pratico e lucido, non tardò a dichiararsi favorevole ad un'intesa amichevole con i Veneziani e alla formazione di una commissione preposta a risolvere la questione del taglio del fiume.

Nel 1606 il papa Paolo V, non pago della sola "guerra dei libri e delle stampe" seguita all'interdetto scagliato contro Venezia, pensò di affidare al F. la responsabilità di un eventuale piano d'attacco militare. Il suo ruolo risultò fondamentale nel riportare la disputa dell'interdetto alla ragionevolezza e all'accordo dell'aprile 1607. Gli ardori del papa si raffreddarono di fronte alle considerazioni scritte del F.: infatti egli riteneva la contingenza non troppo favorevole e la prudenza strategica e tattica indispensabili per non incappare in "speranze misurate più presto coi desiderio che con la ragione" (Fondo Borgh., II, 48, c. 9v).

Dilatandosi al di là degli aspetti puramente militari, il suo scetticismo discendeva dall'impossibilità di costruire una rete di alleanze tale da sostenere una decisione di attacco e di guerra, che comunque avrebbe dovuto essere breve e dimostrativa poiché all'arte diplomatica raffinatissima dei "Venetiani ladri vecchi" non bisognava dare il tempo di esprimersi. Del resto, in un contesto in cui si intrecciavano aspetti politici, giurisdizionali e confessionali gli appariva evidentemente impossibile rivolgersi ai Francesi molto "congionti" a Venezia nelle cose di Stato; inutile risultava invocare l'aiuto dell'imperatore indebitato e impegnato a contrastare gli attacchi dei Turchi; rischiosissimo coinvolgere gli Spagnoli che, interessati perennemente all'ispanizzazione dell'Italia, con un impegno soltanto verbale di approvazione all'azione pontificia, avrebbero potuto godere della conflittualità "perché: all'hora che sarà annihilata la Chiesa et i Venetiani s'arrecarà a lor sicurtà e... facoltà d'accrescere notabilmente il loro stato" (ibid., c. 10v); infine, sarebbe stato inopportuno e problematico chiedere un appoggio ai principi italiani, per la maggior parte preoccupatissimi dall'aggressivitá concreta del pensiero giurisdizionale ecclesiastico. Inoltre enormi si sarebbero dimostrati i costi, i quali vennero valutati approssimativamente in 40.000 scudi a trimestre dal F., e seccamente raddoppiati senza la garanzia di una protezione spagnola nei confini lombardi. Nella sostanza riteneva che non esistesse alcuna probabilità di una riuscita campagna militare contro "i Pantaloni", i quali nonostante "i motivi, le spampanate et l'apparenze... et le proteste d'accender fiamme in Italia, d'unire con heretici et Turchi" (ibid., c. 28) non avevano alcuna intenzione di attaccare lo Stato pontificio e ancor più di alimentare con una guerra offensiva le incertezze e le inquietudini dei sudditi. Certamente influenzandola con il peso della sua esperienza, il F. partecipò regolarmente alla congregazione di Guerra non senza ricordare al papa che, in caso di apertura delle ostilità, doveva trovare "valori, dirigenza, fedeltà, abbondanza, stipendio pronto a i soldati", poteva contare su sudditi fedeli "freschissimi della disciplina militare" accumulata in Fiandra e in Ungheria e nobili romani soliti a "pascolarsi" di "honori".

I preparativi militari di carattere difensivo furono in concreto avviati solo alla fine del 1606 e produssero risultati assai inferiori alle aspettative e alle proposte del F. e di quelle, pur più contenute, del monsignore commissario Giacomo Serra. Sino all'allentamento della crisi, in collaborazione con il cardinale B. Giustiniani, il F. rinforzò i luoghi di frontiera, seguì i movimenti militari veneziani e curò l'invio di spie e agenti pontifici nel territorio della Serenissima. Ogni iniziativa si interruppe quasi del tutto al momento dell'accordo diplomatico tra Venezia e Paolo V. Negli anni seguenti svolse compiti di ordinaria amministrazione, riuscendo, probabilmente con qualche lucro personale, ad introdurre abili armaioli in Tivoli, i quali costruirono ottanta pezzi di artiglieria e rinnovarono l'armamento delle guarnigioni di Castel Sant'Angelo, Ancona e Ravenna.

Nei periodi di licenza e di libertà dai suoi incarichi il F. si recava frequentemente nelle sue terre, a cui prestò sempre cure e attenzioni. Fu oculatissimo nella buona amministrazione dei suoi beni e nell'accrescimento patrimoniale del proprio ramo familiare. Numerosi furono i suol interventi nei consilia di Latera, dove fece istituire il Monte frumentario ed edificare la chiesa parrocchiale, dedicata a S.Clemente (1603). A Farnese restaurò la rocca, finanziò per tre anni la stamperia di Nicolò Mariani (1599-1601); nel 1617 fondò il convento di S. Umano per ifrati minori a cui aveva chiesto una permuta di residenza per consentire l'ingresso nel paese delle ciarisse guidate dalla figlia Isabella, in religione Francesca. Pur appartenendo al ramo più povero dei Farnese, mantenne perennemente un ottimo rapporto con il duca Ranuccio e con il cardinale Odoardo. Ne emulò anche l'atteggiamento mecenatesco, favorendo numerosi artisti, e soprattutto Francesco Mochi che, da alcuni sospettato di essere suo figlio naturale, venne indubbiamente appoggiato e protetto specie all'inizio della sua carriera. Grazie alle insistenti raccomandazioni del F., nel marzo 1603 lo scultore ottenne di eseguire uno degli apostoli (S.Filippo, per la somma di 600 scudi) del duomo di Orvieto. Il F. era proprietario di un palazzo a Parma e di uno a Roma nella centralissima via Giulia che, più tardi nel 1638, verrà rivenduto ai Falconieri Sposatosi nel 1587 con Camilla Meli Lupi nipote di Diofebo marchese di Soragna, poté contare su una dote di 30.000 scudi d'oro e su una progenie numerosa. Probabilmente dopo la morte della moglie nel 1611 contrasse un secondo matrimonio con una Pallavicino.

Morì a Roma il 7 apr. 1619.

Fu autore, secondo il Mandosio, di un Discorso circa l'armare milizie, che dovrebbe trovarsi a Roma nell'Archivio Altieri, ove non è stato sinora possibile accedere.

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