Cicerone, Marco Tullio

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Cicerone, Marco Tullio

Fausto Pagnotta

Scrittore e oratore latino, nato ad Arpino nel 106 a.C. da agiata famiglia equestre, ebbe una profonda conoscenza del diritto, della retorica e della filosofia che fu alla base del suo impegno forense e politico (console nel 63 a.C.) come di quello letterario. Dopo la formazione del secondo triumvirato nell’autunno del 43 a.C., C., a causa dell’opposizione a Marco Antonio, venne inserito nelle liste di proscrizione e, raggiunto da sicari, trovò la morte il 7 dicembre nei pressi di Formia.

Per gli umanisti della seconda metà del Trecento e di tutto il Quattrocento C. fu modello di stile letterario e oratorio, e simbolo di sapienza civile e di equilibrio tra vita contemplativa e vita attiva. Nel 15° sec. erano note le opere retoriche De inventione, De oratore, De optimo genere oratorum, Orator, Brutus, Topica, Partitiones oratoriae; era conosciuto un buon numero di orazioni tra cui quelle In Verrem, In Catilinam, le ‘cesariane’ Pro Marcello, Pro Ligario, Pro rege Deiotaro e le Philippicae; le opere filosofiche e politiche divulgate erano il Somnium Scipionis del De re publica, il De legibus, i Paradoxa Stoicorum, il De finibus bonorum et malorum, il De natura deorum, le Tusculanae disputationes, il Cato Maior de senectute, il De divinatione, il De fato, il Laelius de amicitia, il De officiis; dell’epistolario si conoscevano le raccolte Epistulae ad Atticum, ad Quintum fratrem, ad M. Brutum, ad familiares (cfr. R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne’ secoli XIV e XV, ed. anast. a cura di E. Garin, 2 voll., 1967; C. Bec, Les livres des Florentins (1413-1608), 1984; Cicerone nella tradizione europea. Dalla tarda antichità al Settecento, a cura di E. Narducci, 2006; Manoscritti e lettori di Cicerone tra Medioevo e Umanesimo, a cura di P. De Paolis, 2012). In particolare, nella cultura fiorentina del primo Quattrocento e nella sua filiazione oligarchica, alternativa al platonismo mediceo, occupa una posizione centrale il De officiis, «la Bibbia dell’Umanesimo civile», secondo la definizione di Roberto Cardini (Mosaici, 1990, p. 25).

Nelle opere machiavelliane, la presenza di C. è significativa nel Principe e nei Discorsi. In Principe v 9, M. scrive che «nelle repubbliche è maggior vita, maggiore odio, più desiderio di vendetta: né gli lascia [...] riposare la memoria della antiqua libertà» (cfr. anche Discorsi II ii 25), concetto affine a De officiis 2, 24: Acriores autem morsus sunt intermissae libertatis quam retentae («Più pungenti sono invero i morsi della libertà perduta che quelli della libertà conservata»). Poco prima C. osservava:

Omnium autem rerum nec aptius est quicquam ad opes tuendas ac tenendas quam diligi nec alienius quam timeri

Di tutte le cose nessuna è invero più adatta a difendere e a mantenere il potere che l’essere amato e nessuna è più contraria che l’essere temuto (2, 23).

Risulta evidente la differenza con la tesi machiavelliana che per il principe «è molto più sicuro essere temuto che amato» (Principe xvii 9).

Per la considerazione sul danno che deriva dal «volersi mantenere [...] el nome di liberale» (Principe xvi 2) si può rinviare a De officiis 1, 42-44 e 2, 52-55 (cfr. Il principe, ed. L.A. Burd, 1891 e Il principe, a cura di M. Martelli, 2006). In effetti in De officiis 2, 52 si legge:

largitioque, quae fit ex re familiari, fontem ipsum benignitatis exhaurit. Ita benignitate benignitas tollitur

e la elargizione, che deriva dal proprio patrimonio, esaurisce la fonte stessa della generosità. Così la generosità si distrugge con la generosità,

e M. ricalca questo passo ammonendo che «non ci è cosa che consumi sé stessa quanto la liberalità [...] e diventi o povero e contennendo o, per fuggire la povertà, rapace e odioso» (Principe xvi 18; cfr. Principe xvi 3); anche in De officiis 2, 54, C. fa osservare che multi enim patrimonia effuderunt inconsulte largiendo («molti uomini hanno dilapidato i loro patrimoni con elargizioni inconsulte»), elargizioni alle quali sequuntur [...] rapinae («seguono [...] le rapine»). Se C. suggerisce di esercitare con prudenza la beneficientia (2, 54) ed evitare il sospetto di avarizia (2, 58), M. invita il principe a non curarsi di essere ritenuto «misero: perché questo è uno di quelli vizi che lo fanno regnare» (Principe xvi 11; cfr. Principe xvi 19).

Così la celebre massima contenuta in Principe xviii 2-4

e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con le leggi; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dell’uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo

è una ripresa quasi verbale di De officiis 1, 34 dove C. afferma:

Nam cum sint duo genera decertandi, unum per disceptationem, alterum per vim, cumque illud proprium sit hominis, hoc beluarum, confugiendum est ad posterius, si uti non licet superiore

Infatti poiché due sono i modi di combattere, l’uno per mezzo della discussione, l’altro per mezzo della forza, e poiché il primo è proprio dell’uomo mentre il secondo è delle bestie, bisogna ricorrere a quest’ultimo se non si può fare uso del primo.

L’immagine della volpe e del leone, che in Principe xviii 7 subito segue per rappresentare la forza e l’astuzia di cui il principe deve sapersi servire, è ben attestata nella tradizione letteraria, da Plutarco (→) Lisandro 7, 6 e Silla 28, 6, a Dante, Inf. XXVII 7475, ma in M. si deve supporre anzitutto il ricordo di De officiis 1, 41. Tuttavia, se C. afferma

Cum autem duobus modis, id est aut vi aut fraude, fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur: utrumque homine alienissimum, sed fraus odio digna maiore

Poiché invero si commette ingiustizia in due modi, cioè o con la violenza o con la frode, la frode sembra propria di una piccola volpe astuta, la violenza del leone: entrambi i modi sono del tutto estranei alla natura dell’uomo, ma la frode è degna di maggior disprezzo,

M. giunge a una conclusione ben diversa: «Sendo dunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione».

Per M. necessaria a governare è «la prudenza» che «consiste in sapere conoscere le qualità delli inconvenienti e pigliare el men tristo per buono» (Principe xxi 24; cfr. anche Discorsi I vi 20-22, I xxxviii 5; Mandragola III i), un’espressione che richiama De officiis 3, 3 dove si legge che è necessario ex malis eligere minima («fra i mali scegliere i minori»; cfr. Il principe, ed. L. A. Burd, cit.). La prudenza come capacità di scelta si identifica nell’uomo come esercizio di quel «libero arbitrio» che gli permette di governare «la metà» delle sue azioni, sottraendole almeno in parte all’arbitrio della fortuna (Principe xxv 4); M. oppone tale concezione a quei «molti» che «hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate da la fortuna e da Dio» (Principe xxv 1). A riscontro di questo passo sono state addotte numerose fonti classiche (cfr. Il principe, ed. L.A. Burd, cit.), tra cui le Tusculanae disputationes 5, 25, dove, citando dal Καλλισθένης ἢ περὶ πένθους di Teofrasto un verso di Cheremone (A. Nauk, Tragicorum Graecorum fragmenta, 18892, fr. 2), C. scrive: Vitam regit fortuna, non sapientia («La fortuna governa la vita, non la sapienza»). La stessa opera ciceroniana propone il detto proverbiale Fortis [...] fortuna adiuvat («La fortuna [...] aiuta i forti», 2, 11), consonante all’osservazione di M., per cui la fortuna «è amica de’ giovani, perché [...] con più audacia la comandano» (Principe xxv 27).

Nei Discorsi si trovano vari riferimenti espliciti a Cicerone. In I iv 10 si legge: «Li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedano quando da uomo degno di fede è detto loro il vero», che richiama il paragrafo 95 del Laelius de amicitia in cui C. afferma:

Contio, quae ex imperitissimis constat, tamen iudicare solet, quid intersit inter popularem, id est adsentatorem et levem civem, et inter constantem et severum et gravem

L’assemblea popolare, che è formata da uomini molto inesperti, è pur capace di giudicare quale differenza ci sia tra un demagogo, cioè un cittadino adulatore e superficiale, e un cittadino coerente, serio, ponderato.

In Discorsi I xxxiii 13, in un parallelo tra Cosimo de’ Medici e Cesare, M. scrive: «Questo medesimo intervenne a Roma con Cesare [...] di che fa testimone Cicerone, dicendo che Pompeio aveva tardi cominciato a temere Cesare»; la notizia si trova in Epistulae ad familiares 16, 11, 3, dove si legge che Pompeo Caesarem sero coepit timere («incominciò tardi a temere Cesare»). C. è esempio negativo di prudenza politica in Discorsi I lii 12-16, per il suo tentativo di portare dalla parte del senato e della libertas repubblicana Ottaviano, figlio adottivo di Cesare, contro l’esercito, già cesariano, di Marco Antonio (cfr. Philippicae 5, 34; 42-43), senza considerare la possibilità di un’alleanza tra Antonio e Ottaviano che, realizzatasi, fu fatale alla Repubblica e allo stesso Cicerone. Quale vittima dell’incostanza della fortuna, C. è menzionato nel capitolo “Di Fortuna”, vv. 187-89. Echi da C. possono essere nella lettera a Francesco Vettori del 29 aprile 1513 (minuta) la citazione di un verso neviano dall’Hector proficiscens (O. Ribbeck, Tragicorum Romanorum fragmenta, in Scaenicae Romanorum poesis fragmenta, 1° vol., 18973, fr. 2) presente in Tusculanae disputationes 4, 67, e nella lettera a Francesco Guicciardini del 4 aprile 1526 la menzione scherzosa del filosofo greco Formione che voleva dare consigli militari ad Annibale, episodio che si trova in De oratore 2, 75-76.

C. e M. elaborano due concezioni ben diverse della natura umana: per C. peculiare dell’uomo è la ratio che si manifesta con l’eloquentia, il ius aequabile (cfr. De inventione 1, 2), la consapevolezza storica (cfr. De oratore 2, 35; De officiis 1, 11), la filosofia (cfr., per es., De legibus, Hortensius, De finibus bonorum et malorum, Tusculanae disputationes, De officiis), ciò che consente all’uomo di emanciparsi dalla sua origine ferina (cfr. De inventione 1, 2). M. considera gli uomini nella prospettiva del loro agire nelle «cose del mondo» (Principe xxv 1), che li mostra «più proni al male che al bene» (Discorsi I ix 8; cfr. Principe xvii 10-11). Sbagliano coloro che credono che essi «fussero variati [...] da quello ch’egli erano anticamente»; perciò si deve acquisire, se si vuole agire efficacemente nel mondo della politica, «la cognizione delle istorie» (Discorsi, proemio B 7; cfr. anche Principe, dedica 2). In questo senso, M. riprende l’antica massima sulla storia ‘maestra di vita’ (per cui cfr. De oratore 2, 35 e De officiis 1, 11, oltre a Polibio, Storie I, 1, 1-2, e Livio, Praefatio agli Ab urbe condita libri).

Anche nei riferimenti all’opera di C. è dato riscontrare come «nei confronti delle sue ‘fonti’, ossia dei luoghi classici», M. procedesse «consapevolmente rovesciando l’iter concettuale» di quel che leggeva (Sasso 1987-1997, 4° vol., p. 149). M. dunque, pur attingendo dalle opere di C. significativi spunti di riflessione, si è rapportato a esse in modo autonomo e critico.

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Rhetorica ad herennium

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