VARRONE, Marco Terenzio

Enciclopedia Italiana (1937)

VARRONE, Marco Terenzio (M. Terentius Varro)

Plinio Fraccaro

Principe degli eruditi romani e uno dei più fecondi poligrafi dell'antichità. Nacque a Rieti nel 116 a. C. (perciò detto anche Reatinus) e studiò sotto il grammatico L. Elio Stilone e il filosofo Antioco di Ascalona. Fu triumviro capitale, questore, legato e proquestore di Pompeo nella guerra sertoriana (76 a. C. seg.), tribuno della plebe, pretore (68), legato di Pompeo nella guerra piratica, nella quale ottenne la corona rostrata, uno dei vigintiviri per l'applicazione della legge Giulia agraria (59); infine, legato di Pompeo nella Spagna ulteriore allo scoppio della guerra civile, dovette arrendersi a Cesare (49). Lo ritroviamo in seguito, durante la stessa guerra, a Durazzo con Cicerone e Catone. Dopo Farsaglia, si riconciliò con Cesare, ebbe da lui l'incarico di organizzare pubbliche biblioteche e gli dedicò nel 47 una delle sue opere maggiori, le Antiquitates rerum divinarum. Dopo le idi di marzo, Antonio gli confiscò la sua villa casinate e nel 43 lo proscrisse; Varrone riuscì a stento a fuggire, ma i suoi libri e i suoi scritti andarono in gran parte perduti. Morì nel 27 quasi novantenne. Egli non aveva tempra di uomo d'azione; sostenne magistrature e comandi per dovere di cittadino e per devozione a Pompeo, suo grande amico, contento, quando poteva, di darsi tutto agli studî.

S. Girolamo compose delle opere di Varrone un catalogo che egli dice di avere interrotto a metà circa, e che tuttavia enumera 39 titoli, uno dei quali si riferisce a dieci monografie (libri singulares), così che il totale delle opere sale a 48; aggiungendo altre citazioni, il Ritschl giunse a elencare 74 opere in circa 620 libri. Di quest'immensa produzione, sono giunti a noi solo un'operetta in tre libri sull'agricoltura, neppure un quarto (6 libri, non integri, su 25) dell'opera sulla lingua latina e qualche migliaio di frammenti di varia estensione. Non è possibile recensire in ordine cronologico tutte le opere di V., che passeremo quindi in rassegna per gruppi, avendo riguardo al loro contenuto. Al primo periodo della sua attività letteraria spetta la più importante opera poetica di Varrone, i 150 libri di Saturae Menippeae, composte nello spirito delle satire del cinico Menippo da Gadara (sec. III) e col proposito di ammaestrare scherzando. Cicerone le fa così definire dallo stesso Varrone: "in illis veteribus nostris, quae, Menippum imitati, non interpretati, quadam hilaritate conspersimus, multa admixta ex intima philosophia, multa dicta dialectice" (Acad. post., I, 8). La poesia, in metri svariatissimi, vi si alternava con la prosa. I titoli, spesso arguti, semplici o doppî, in latino o in greco, o misti di greco e latino, sono o proverbî (nescis quid vesper serus vehat; γνῶϑι σεαυτόν), o nomi mitologici (Prometheus liber; Columna Herculis, περὶ δόξης, o alludono ai cinici (Cynicus; Κυνορήτωρ; Ταϕὴ Μενίππον), o all'autore stesso (Marcopolis, περὶ ἀρχῆς), o son di altro genere (Γεροντοδιδάσκαλος; Sexagesis). I titoli (circa 90) e le parecchie centinaia (circa 600) di brevi frammenti a noi giunti ci fanno intravedere lo svariato mondo che si moveva in queste satire e il sano e arguto giudizio dell'autore; di molte possiamo anche vedere o indovinare il contenuto, ma di pochissime ricostruire lo schema.

Sono poi citati 6 libri Pseudotragoediarum, tragedie da lettura, forse a imitazione di tragedie di alcuni cinici; 10 libri Poematum, di brevi poesie, e 4 libri Saturarum, del genere luciliano, se erano distinte dalle menippee. Alcune fonti paiono poi alludere a un poema didascalico di Varrone, sul genere di quello lucreziano; ma è cosa molto dubbia.

Alle satire si collegano per intento e contenuto i 76 libri di Logisiorici, titolo originale, che per alcuni dovrebhe significare trattazioni miste di filosofia (λόγοι) e di esemplificazioni storiche; per altri, dialoghi (λόγοι) le cui conclusioni filosofiche venissero suffragate da un'esposizione storica. Furono scritti da Varrone nell'ultimo periodo della sua vita, ed erano in prosa e di carattere popolare. Il titolo pare fosse sempre formato dal nome di un personaggio scelto in relazione con l'argomento e dall'indicazione del contenuto del logistorico: per es., Catus de liberis educandis; Sisenna, de historia; Atticus, de numeris; Curio, de cultu deorum. Si ricordino gli scritti di Cicerone Cato maior, de senectute; Laelius, de amicitia. Sono giunti a noi neppure un centinaio di frammenti, i più del Catus, nel quale si esaltava la rude e maschia educazione dei gioiinetti di un tempo.

Di V. oratore si citano 22 libri di Orationes, 3 di Suasiones e una Laudatio Porciae. Eqli scrisse inoltre 3 libri De lectionibus, pare sulle recitazioni venute di moda al suo tempo.

Opera singolare, illustrata e in parte poetica, erano le Imagines o Hebdomades, una delle ultime fatiche di V. (compiuta nel 39). Era in 15 libri e conteneva 700 ritratti, di personaggi romani e stranieri, questi soprattutto greci. L'ordinamento dell'opera era regolato dal numero 7, sul quale Varrone dissertava nel libro d'introduzione, secondo le dottrine pitagoree e stoiche; cioè i personaggi erano divisi in 7 categorie (poeti, capitani, ecc.), a ognuna delle quali erano assegnati due libri, uno ai Romani, e uno agli stranieri, in tutto 14, più un libro d'introduzione. I ritratti erano inoltre disposti a gruppi di 7, e di qui il titolo Hebdomades. Sotto ogni ritratto v'era un elogio poetico, alle volte derivato da altri autori, e un'illustrazione in prosa. Dell'opera, V. aveva procurato anche un'edizione ridotta in 4 libri (Epitome imaginum).

La letteratura nazionale fu oggetto da parte di V. di vasti e profondi studî. Il suo interesse si rivolse specialmente al teatro romano e in prima linea a Plauto. Ricordiamo i tre libri De scaenicis originibus, sulle origini del teatro romano; i tre libri De actionibus scaenicis e i tre De actis scaenicis, due opere delle quali è difficile dire in che cosa differissero, ma che certo trattavano le didascalie, documenti capitali per la storia del teatro romano; i tre libri De personis, sulle maschere degli attori; i tre libri De descriptionibus, i quali pare trattassero dei caratteri della commedia (cfr. Cic., Top., 53: descriptio, qualis sit avarus). A Plauto in particolare erano dedicati i cinque libri delle Quaestiones Plautinae, nelle quali specialmente s'illustravano le glossae plautinae, e l'opera De comoediis plautinis, della quale si cita il primo libro e che pare diversa dalla precedente. Varrone distingueva le commedie che per comune consenso erano indubbiamente di Plauto, le 21 commedie dette appunto varronianae, da altre due categorie di commedie, che si potevano rivendicare a Plauto con argomenti storici e stilistici (v. Gellio, III, 3). Ora il corpus delle commedie plautine giunto a noi comprendeva precisamente 21 commedie, che si ridussero a 20 per la perdita della Vidularia, che era ancora compresa nel palinsesto Ambrosiano. L'esatta corrispondenza del numero mostra che a noi sono pervenute le 21 commedie varroniane. Di carattere più teorico erano gli scritti De poematis libri III, una poetica; De compositione saturarum; De poetis (più di un libro), una storia letteraria dei poeti romani, che lasciò tracce importanti nella tradizione sulla più antica letteratura romana; De proprietate scriptorum l. III, che trattava, pare, questioni stilistiche relative a varî autori. Si aggiunga infine l'opera De bibliothecis l. III, che si collegava con l'attività di Varrone come bibliotecario.

Accanto agli studî sulla letteratura, gli studî sulla lingua nazionale. Dei frutti copiosi dell'indagine varroniana in questo campo, sono giunti a noi i libri V-X, cioè 6 dei 25 libri che componevano la principale opera linguistica di Varrone, De lingua latina, alla quale egli attendeva negli anni verso il 44 e che dedicò in parte (libri II-IV) a P. Settimio, suo ex-questore, e il resto a Cicerone. Essa constava di un libro d'introduzione e di tre parti destinate all'etimologia (6 libri), alla declinazione (flessione, 6 libri) e alla composizione (sintassi, 12 libri) delle parole: "omnis operis de lingua latina tres feci partes, primo quemadmodum vocabula imposita essent rebus, secundo quemadmodum ea in casus declinarentur, tertio quemadmodum coniungerentur" (De lingua l., VII, 110). Ciascuna di queste parti generali si suddivideva poi, secondo l'uso varroniano, schematicamente in sezioni minori; per es., nella prima parte: a) libri II-IV de disciplina verborum originis, trattazione generale sull'etimologia; e per ciascun libro: II, quae contra eam dicerentur, III, quae pro ea, IV quae de ea (cfr. V,1); b) libri V-VII, parte speciale sull'etimologia, de verborum originibus, così distinta: V, origines verborum locorum et earum rerum quae in locis esse solent, VI, quibus vocabulis tempora sint notata et eae res quae in temporibus fiunt, VII, de poeticis verborum originibus, trattazione delle espressioni poetiche contrapposte alle prosastiche dei due libri precedenti (De l. l., VI, 97; VII, 119). I libri rimastici ci conservano quindi la parte speciale dell'etimologia e la parte generale della flessione, importante questa seconda per la famosa questione dell'analogia e dell'anomalia nel linguaggio. Varrone si dichiara analogista, ma fa larghe concessioni alla teoria opposta. Le etimologie varroniane, com'è noto, sono spesso per noi puerili; ma la documentazione che egli porge a sostegno delle sue etimologie, ricca di citazioni da antichi poeti e da vetustissimi documenti ufficiali, è preziosa (VI, 86: de censoriis tabulis; VI, 88: in commentariis consularibus; VI, 90: commentarium vetus anquisitionis; e inoltre i libri augurum, i libri pontificii, i libri e i carmina Saliorum, la lista dei sacrarî degli Argei [V, 45], le XII Tavole e altre antiche leggi, ecc.). Le dottrine derivano, per dichiarazione stessa di V., dai filosofi, specialmente stoici, e dai grammatici di Alessandria e di Pergamo: egli cita (VI, 2) Crisippo e Antipatro di Tarso, Aristofane di Bisanzio e Apollodoro. Lo stile è ordinariamente secco, scolastico, e tende a sollevarsi solo nelle introduzioni ai varî libri.

Oltre a un compendio del De lingua latina in 9 libri, conosciamo altre sei opere linguistiche di V.: De sermone latino ad Marcellum libri V (sulla retta pronunzia e scrittura, sulla purezza della lingua, sullo stile, sulla metrica); De similitudine verborum l. III (sull'analogia); De utilitate sermonis (almeno 4 libri, sull'anomalia che dipende dall'utilitas, dalle esigenze pratiche della lingua: De l. l., IX, 48); Περὶ χαρακτήρων (almeno tre libri, forse sulle forme tipiche della composizione verbale); De antiquitate litterarum (almeno due libri, storia dell'alfabeto); De origine linguae latinae l. III.

Ma al centro della produzione varroniana stavano le opere che studiavano le antichità nazionali, in prima linea le famose Antiquitates rerum humanarum et divinarum, in 41 libri. Conosciamo esattamente lo schema di quest'opera da S. Agostino (De civitate Dei, VI, 3). Venivano prima le antichità umane, poi le divine, quod prius extiterint civitates, deinde ab eis res divinae institutae. Alle antiquitates humanae erano assegnati 25 libri; e, secondo il rigoroso schematismo di V., veniva prima un libro introduttivo di carattere generale, quindi gli altri 24 libri divisi in quattro esadi o gruppi di sei libri, che trattavano: de hominibus, cioè qui agant; de locis, cioè ubi agant; de temporibus, cioè quando agant; de rebus, cioè quid agant. Le antiquitates divinae avevano anch'esse un libro introduttivo; poi in cinque triadi si esponevano ea quae diis exhibenda sint. Cioè: 1. qui exhibeant, tre libri de hominibus, il primo dedicato ai pontefici, il secondo agli auguri, il terzo ai quindecemviri sacris faciundis; 2. ubi exhibeant, tre libri de locis, il primo de sacellis, il secondo de sacris aedibus, il terzo de locis religiosis; 3. quando exhibeant, tre libri de temporibus, sui dies festi, il primo de feriis, il secondo de ludis circensibus, il terzo de ludis scaenicis; 4. quid exhibeant, tre libri de sacris, il primo de consecrationibus, il secondo de sacris privatis, il terzo de sacris publicis; 5. quibus exhibeant, tre libri de diis, il primo sugli dii certi, il secondo sugli dii incerti, il terzo sugli dii praecipui atque selecti. Le Antichità divine, dedicate a Cesare pontefice massimo, uscirono nel 47 a. C., le umane qualche anno prima. La materia vi era trattata sistematicamente e insieme storicamente. In quest'opera V. aveva versato tutta la sua scienza, ma anche tutto il suo amore patrio. Cercando di sottrarre gli antichi culti della patria all'oblio (Agostino, De civ. Dei, VI, 2) egli preannunzia e pone le basi della restaurazione augustea. L'opera, celebratissima, fu molto letta e sfruttata nei primi due secoli dopo Cristo; poi essa viene di solito citata di seconda mano, per quanto S. Agostino e Tertulliano abbiano usato ancora direttamente le Antichità divine. La sua perdita fu una iattura gravissima e i frammenti e le citazioni, abbastanza copiosi per alcune parti, sono scarsissimi per altre. Però una buona parte della nostra tradizione erudita sulle antichità romane dipende, direttamente o indirettamente, soprattutto da quest'opera. Facevano corona alle Antiquitates una serie di opere minori. Quattro libri De gente populi Romani, sulle origini del popolo romano perseguite e inquadrate nella più remota antichità greca; V. risaliva al diluvio di Ogige e alle antichissime dinastie di Sicione e di Argo sullo schema cronologico del cronografo Castore di Rodi. L'opera fu direttamente usata da S. Agostino nel libro XVIII De civitate Dei e ne abbiamo un numero abbastanza considerevole di frammenti. A questi libri si collegavano quelli De familiis Troianis, ricerche sulla genealogia delle genti che si dicevano discese da Enea e dai suoi compagni. Un numero discreto di frammenti (circa 120) abbiamo dei quattro libri De vita populi Romani (si confronti il titolo dell'opera di Dicearco Βίος ‛Ελλάδος), dedicati ad Attico, i quali davano un quadro storico della vita romana pubblica e privata. Inoltre: Aetia, cioè αἴτια, causae, titolo preso a prestito da Callimaco, ricerche sulle origini dei riti e costumi; Tribuum liber, citato dallo stesso V. (De l. lat., V, 56), sulle origini dei nomi e sulla fondazione delle tribù romane; Rerum urbanarum libri III, di contenuto incerto. Ed è opportuno ricordare qui anche il commentarium εἰσαγωγικόν, scritto nel 71 per Pompeo, ex quo disceret, quid facere dicereque deberet cum senatum consuleret. Pompeo, eletto console per il 70, era vissuto sempre al campo e non aveva conoscenza alcuna della procedura delle sedute del Senato. Il libro, forse mai pubblicato, andò perduto, ma Varrone ne riassunse il contenuto in una delle epistolicae quaestiones, e da essa Gellio riferì a noi alcuni importanti estratti (XIV, 7 e 8).

Varrone scrisse anche opere propriamente storiche, che non ebbero però grande rinomanza. Sono ricordate: Legationum libri III, cioè, pare, su quello che egli fece come legato di Pompeo; De Pompeio libri III; De sua vita libri III; Annalium libri III, per alcuni una cronaca in forma tabellare, sul genere del liber annalis di Attico, per altri una trattazione cronologica.

Passando ora alle opere di carattere pratico, ricordiamo dapprima una serie di scritti geografici e meteorologici: De ora maritima, di contenuto non chiaro, ma che pare fosse una descrizione delle coste, un itinerario marittimo per i naviganti (si ritiene che il De litoralibus citato da Solino sia la stessa opera); Liber de aestuariis, citato da V. stesso (De lingua l., IX, 96), nel quale si parlava anche di maree; l'Ephemeris navalis, scritta nel 77 per Pompeo che si accingeva a partire per la Spagna, e che conteneva un calendario meteorologico per la navigazione: la stessa cosa erano forse i Libri navales citati da Vegezio, IV, 41. Il frammento di una Ephemeris citato da Prisciano si riferisce al nome Iulius dato al mese Quintile, e non può quindi trattarsi dell'Ephemeris del 77: si congetturò contenesse pronostici per gli agricoltori. I Disciplinarum libri IX erano una enciclopedia delle arti liberali. Le disciplinae trattate erano le seguenti: I. grammatica; II. dialettica; III. retorica; IV. geometria; V. aritmetica; VI. astrologia; VII. musica; VIII. medicina; IX. architettura. Le due ultime discipline furono escluse dal ciclo delle arti liberali alla fine dell'antichità per il loro carattere pratico; le altre sette sono appunto quelle che compongono il noto sistema medievale delle arti del trivio e del quadrivio, sistema che risale quindi a V. L'opera fu largamente usata anche in epoca tarda. Scritti speciali sullo stesso argomento erano: Liber de philosophia, compendiato da S. Agostino, De civ. Dei, XIX,1-3 (fra l'altro V. dimostrava, con le sue divisioni e suddivisioni, la possibilità di 288 soluzioni diverse del problema eudemonologico, de finibus bonorum et malorum); De forma philosophiae l. III, Rhetoricorum libri, almeno tre; De mensuris, di contenuto gromatico; De principiis numerorum libri IX, sulla teoria pitagorica dei numeri.

Dei 15 libri di ius civile non rimane frammento alcuno. I libri De gradibus pare trattassero dei gradi di parentela. I libri delle Epistolicae quaestiones contenevano lettere indirizzate a varî personaggi, che trattavano questioni varie di antichità, di diritto, di grammatica, ecc.; Gellio, (Prefazione, 9), cita il titolo come uno di quelli che si davano ad opere di varietà, come le sue Noctes Atticae. La forma epistolare era forse solo una finzione formale: le citazioni dànno fino a un settimo libro. Sono poi citate epistulae di V. a varî personaggi, raccolte in libri che erano almeno otto, le quali sembra fossero lettere familiari. Inoltre Epistulae latinae, almeno due libri. Non si sa se queste fossero la stessa cosa delle epistulae testé ricordate e se l'aggiunta di latinae debba far supporre una collezione di lettere greche di Varrone.

Rimane infine l'unica opera di V. giunta a noi integra, i Rerum rusticarum libri III, scritti nel 37, a 80 anni. La forma del trattato è il dialogo aristotelico: i tre libri riferiscono tre dialoghi diversi, che s'immaginano tenuti in occasioni distinte. E ogni libro è dedicato a persone diverse; il primo a sua moglie Fundania, che s'era acquistato un fondo e voleva farlo ben coltivare; il secondo al grande allevatore Turranius Niger, il terzo al suo vicino di villa Pinnius. E infatti nel primo si trattava de agri cultura, nel secondo de re pecuaria, nel terzo de villatica pastione (animali da cortile, pesci, ecc.). V. aveva una larga esperienza personale di agricoltura e specialmente di allevamento; raccolse molte notizie e suggerimenti orali da esperti e compulsò infine numerose fonti greche, delle quali enumera una cinquantina (I, 18). La materia del libro è quindi pregevole; lo stile è spesso brioso e s'innalza specialmente nelle belle introduzioni. Ma la tendenza di V. a sistemare la materia in infinite divisioni e suddivisioni si fa sentire anche in questi libri e li appesantisce.

Con varî titoli (sententiae Varronis ad Papinianum Athenis audientem o Sent. Varr. ad Paxianum) ci è stata tramandata una raccolta di circa 150 sentenze attribuite a V. Essa è di origine tarda e non si può dire che tutte le sententiae in essa contenute siano di origine varroniana.

Per l'immensa mole di lavoro compiuto, per l'entusiasmo patriottico e l'elevatissimo sentimento morale che lo animava, per la versatilità che gli permise di passare dalla poesia al diritto, dalla filologia alla filosofia, dall'oratoria al trattato di agricoltura, V. fu un grande. I contemporanei l'ammirarono e Asinio Pollione collocò il suo busto, l'unico di un vivente, nella prima biblioteca pubblica in Roma. Valga per tutti l'ispirato elogio di Cicerone negli Accademici post., I, 9. E i posteri fecero eco sino alla tarda antichità. La filologia e l'antiquaria romana raggiunsero con V. la massima altezza; quelli che vennero dopo di lui, non lo sostituirono, ma solo atteggiarono diversamente la dottrina varroniana. Virgilio per l'Eneide, Ovidio per i Fasti attinsero a V. la materia storica e archeologica dei loro poemi; Verrio Flacco ridusse la dottrina varroniana in forma lessicale, Dionigi d'Alicarnasso, Svetonio, Plinio, Gellio attinsero a lui largamente. Gli nocque lo stile poco attraente, la mole e la pesantezza delle sue opere maggiori, che perciò uscirono presto dalla circolazione e cominciarono a perdersi. Una ripresa della sua fortuna si ebbe coi Padri della Chiesa, che, come S. Agostino, studiarono ancora le sue opere per trarne materia di polemica religiosa. Tuttavia tanta dottrina varroniana pervase tutta l'erudizione antica dopo V., che direttamente o indirettamente, sotto il suo nome o anonima, essa affiora dovunque nella tradizione. I principî e i metodi critici di V. non sono sempre i nostri e noi respingiamo quindi molti dei suoi risultati. Il merito suo, e grandissimo, sta piuttosto nell'immensa mole di fatti e di dati che egli raccolse, e salvò, da documenti e da fonti di ogni specie: senza di lui la nostra conoscenza dell'antichità romana sarebbe molto più imperfetta.

Bibl. e ediz.: Sulla vita, v. G. Boissier, Étude sur la vie et les ouvrages de M. T. Varron, Parigi 1861; C. Cichorius, Römische Studien, Lipsia 1922, p. 189. Sul "catalogo" varroniano, v. F. Ritschl, Die Schriftstellerei des M. T. V., in Opuscula Philologica, III, Lipsia 1877, p. 419. Una raccolta dei frammenti delle opere di V. fu fatta da Ausonio Popma, M. Terenti Varronis operum quae extant nova editio, Leida 1601, riprodotta in De lingua latina libri qui supersunt cum fragmentis eiusdem, Zweibrücken 1788. È quasi universalmente ignorata la raccolta italiana dei fr., tradotti e annotati, di F. Brunetti, che uscì con l'edizione del De lingua lat. di P. Canal, Venezia 1874, raccolta per il suo tempo degna di ogni considerazione e ancora utilissima. La letteratura speciale è copiosissima: v. i resoconti critici di A. Riese, in Philologus, XXVII (1868), p. 286 e di K. Mras in Jahresbericht ü. die Fortschritte d. klass. Altertumswiss., CXLIII (1909), p. 63 e CXCII (1922), p. 64 e la bibliografia in M. Schanz e C. Hosius, Geschichte der röm. Literatur, I, 4ª ed., Monaco 1927, p. 555; H. Dahlmann, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI A (1935), col. 1172. Le principali edizioni e collezioni particolari di fr. sono: A. Riese, M. T. V. saturarum menippearum reliquiae (anche i logistorici, le sententiae, i fr. delle epistulae), Lipsia 1865; F. Bücheler, Petronii saturae. Adiectae sunt Varronis et senecae saturae, 6ª ed. curata da G. Heraeus, Berlino 1922; A. Wilmanns, De M. T. V. libris grammaticis (con raccolta dei fr.), ivi 1864; i fr. grammaticali anche in Grammaticae romanae fragmenta, a cura di G. Funaioli, ivi 1907, p. 179; i libri De l. l., conservati in un codice Laurenziano 51, 10 del sec. XI, furono editi da L. Spengel, Berlino 1826, O. Müller, Lipsia 1833, P. Canal, Venezia 1874 (con traduzione e commento), A. Spengel, Berlino 1885, e infine da G. Götz e F. Schöll, Lipsia 1910 (in appendice i fr. grammaticali); P. Mirsch, De Varronis antiquitatum rerum humanarum libris XXV, in Leipziger Studien, V (1882), p. 1; i fr. delle Antiq. r. div. nell'ediz. dei Fasti di Ovidio di R. Merkel, Berlino 1841, p. cvi; del l. XVI, E. Schwarz, De M. T. V. apud s. patres vestigiis, in Fleckeisens Jahrbücher f. Philol., suppl. XVI (1888); R. Agahd, M. T. V. antiq. r. div. libri I, XIV, XV, XVI, ibid., suppl. XXIV (1898); del l. I anche A. Schmekel, Die Philosophie der mittleren Stoa, Berlino 1892, p. 117; P. Fraccaro, Studi Varroniani, De gente populi romani l. IV, Padova 1907 (i fr. di questa e di altre opere storiche minori anche in H. Peter, Histor. roman. reliquiae, 2ª ed., II, Lipsia 1906, p. 9); H. Kettner, M. T. V. de vita p. R. librorum quae extant, Halle 1863; i libri Rerum rusticarum (trasmessi da copie di un codice fiorentino di S. Marco perduto), edizione di H. Kell, Lipsia 1884-97 (con il libro di Catone) e di G. Götz, 2ª ed., ivi 1929. Trad. italiana di G. Pagani, Venezia 1846; di A. Bartoli, in Collezione romana, Milano 1930.