MARCHE

Enciclopedia Italiana (1934)

MARCHE (A. T., 24-25-26 bis)

Ettore RICCI
Ugo RELLINI
Giuseppe CASTELLANI
Raffaele CORSO
Giovanni CROCIONI
Luigi SERRA

Le Marche, tra le regioni o compartimenti del regno d'Italia, rappresentano con la loro nettissima, pressoché geometrica determinatezza e unità oro-morfologica, idrografica e litoranea la regione cui compete, per antonomasia, l'appellativo di medio-adriatica. Giacché essa, in quella sua determinatezza e unità, viene poi a disporsi equabilmente intorno al roccioso gomito orientale della Penisola, intorno, cioè, al Conero (m. 572), estrema proiezione orientale litoranea del fascio eteromorfo di corrugamento secondario e terziario, che forma il saldo scheletro dell'Italia adriatico-centrale. Onde, quel gomito e rilievo, che, pur nella sua limitata estensione ed altezza, riassume tutta la genesi e la litologia della regione, cosicché deve considerarsi quale baricentro fisico di essa, risulta, ad un tempo, baricentro storico-economico del medio Adriatico, nel passato e nel presente.

La regione marchigiana (per il significato del nome marca, marche, v. marca; marche: Storia) viene definita o integrata, sulla netta base fisico-morfologica presente, soltanto dopo il Mille. Né le Marche italiche d'oggi corrispondono alla quinta delle undici regioni di Augusto, cioè al Picenum, che conservò i limiti romani fino allo scorcio del sec. V d. C.: e non vi corrispondono, perché il Piceno romano si estendeva molto più verso S., al di là del Tronto, per confinare con la IV regione augustea (Sabina-Samnium); mentre molto meno si estendeva a N., per arrestarsi ancor prima dell'Esino, dacché la VI regione augustea - Umbria - prolungata, con evidente criterio etnico, fino al litorale della via Flaminia, ricopriva quasi tutte le Marche a N. del Conero e il Montefeltro. Nel sec. IV e V d. C., la sorgente divisione ecclesiastica d'Italia, per diocesi aggruppate in provincie, ci darà, poi, un Picenum et Flaminia con capitale Ravenna e un Picenum suburbicarium, con capitale Spoleto; e, tre secoli dopo, Paolo Diacono, nelle provincie d'Italia, ci indicherà un Picenus, compreso tra la Flaminia a N. e il Samnium a S., invero assai meno diverso dalle Marche attuali, ma ancora più esteso di esse verso mezzogiorno. Infine, alla metà del Trecento, le Marche riceveranno un'assoluta definizione politico-amministrativa e poleografica nelle Costitutiones Aegidianae (1357), o nel Liber Costitutionum Sancte Matris Ecclesie, il quale elenca, per la prima volta, la quasi totalità degli attuali comuni della regione. Di questo elenco emerge subito l'importanza geografica, nel senso più lato del termine, in quanto esso si presta, attraverso sei secoli di vita o d'evoluzione regionale, a immediate considerazioni di carattere morfologico, demografico, economico e toponimico. Il numero grande d'insediamenti di lieve entità - comuni - elencati tra le civitates mediocres, parvae, minores, e mantenutosi affatto invariato nei secoli, dice chiaro dell'influenza, in modo assoluto o prevalente, della morfologia caratteristica delle Marche sugl'insediamenti stessi.

La regione è alta, movimentata, fratta, in ogni sua parte, dalle alpine nevose vette interne dei Sibillini, dai poderosi massicci appenninici del Catria, del Nerone, del Montefeltro, dai balconi subappenninici o pliocenici immediatamente affacciati all'Adriatico, con mancanza assoluta d'una vera piana o interna o litoranea: una tale morfologia ha ostacolato, sempre, la formazione di grossi nuclei umani, cosicché, ancor oggi, le Marche, tra le 18 regioni del regno, presentano, in unione a un'economia prettamente agricola, una delle più alte medie di popolazione sparsa. E, similmente, nel Trecento come oggi, per le evidenti ragioni morfo-topografiche enunciate fin dal principio, l'unico, antichissimo insediamento d'una qualche entità, il maggiore sempre della regione, è quello imperniato o legato al baricentro del Piceno - Ancona - peraltro ancor lontano dai centomila abitanti malgrado le multiple e notevoli aggregazioni recenti (popolazione legale, al 21 aprile 1931, 83.288 ab.).

Non sono indicati nell'elenco egidiano alcuni pochi nuclei elevati a dignità di "comune" soltanto nei secoli successivi, tra i "castelli" e le "ville" ("villa" è, ancor oggi, nelle Marche, l'appellativo delle grandi frazioni; ad es. Villa Potenza, Villa Strada, ecc.) del contado delle civitates maiores o magnae, o per notevole incremento di popolazione, o per grande distanza dalla città, cui appartenevano. Né vi possono essere elencati i giovanissimi comuni litoranei del medio Adriatico derivati, nella seconda metà del sec. XIX, da modestissime marine o modestissimi "porti" in breve sviluppatisi, allora, nella tangenza della maggiore linea ferroviaria d'Italia - la linea Brindisi-Modane; la quale, per 170 km., s'adagia sul litorale piceno. Tale fu l'origine recentissima dei comuni di Falconara Marittima (ora aggregata ad Ancona), di Porto Recanati, di Porto Civitanova, di Porto San Giorgio, di Grottammare, di Cupra Marittima, di San Benedetto del Tronto. L'elenco si presta, infine, attraverso i sei secoli d'evoluzione regionale, a molti raffronti demografici: ad es., sull'estremo spopolamento e la decadenza di Senigallia, classificata in esso alla pari del remoto, alpestre, piccolissimo Montemonaco della Sibilla - conferma evidente di quanto poco prima aveva scritto Dante -; come si presta a nuovo richiamo degli elementi morfologici e storici, già esposti, volendo dare un'interpretazione dell'odierna importanza civica e consistenza demografica della bella città adriatica (censimento del 21 aprile 1931: Senigallia, popolazione legale 26.347 ab.; Montemonaco, 1851 ab.).

Le divisioni amministrative, fiscali, giudiziarie, ecc., delle Marche sotto il lunghissimo dominio pontificio, quasi esattamente negli attuali limiti (con il territorio di Gubbio in più, e quello di Visso in meno) sono oggetto di studio storico; nel primo Regno Italico esse furono divise in 3 dipartimenti - del Metauro, del Musone e del Tronto -; dal regno d'Italia (1860) in 4 provincie, due a N. del Conero (Pesaro e Urbino, Ancona) e due a S. (Macerata e Ascoli Piceno). Di queste 4 provincie marchigiane, sotto l'aspetto etnico, le due a N., hanno tonalità umbra e gallica, le due a S., tonalità sabina e picena (ancora umbra, nel Camerinese); e tutte e quattro, come fu detto, gravitano sopra il maggior nucleo urbano regionale, Ancona, di tonalità etnica eclettica e sintetica, con qualche sfumatura veneta, giuntale dal mare aperto e nelle secolari lotte.

Descrizione corografica e morfologia. - Le Marche, nel loro prevalente sviluppo longitudinale, da nord a sud (la loro lunghezza meridiana è circa quadrupla della larghezza), sviluppo di cui sono riflesso i più che 160 km. di litorale, pressoché egualmente distribuiti sopra e sotto il Conero, s'addossano, con il lato maggiore del loro perimetro rettangolare opposto al litoraneo, cioè con tutto l'alto e montano lato occidentale, ai pendii appenninici tirrenici delle sorgive toscane, umbre e abruzzesi del Tevere. Le acque di esse, disseminate su tanta originaria lunghezza, convergono e confluiscono alfine, oltre le gole di Narni e sotto Orte, nel maggiore e storico fiume dell'Italia peninsulare.

Al contrario, le acque sorgive di quello stesso maggior lato montano, orientali o adriatiche, si dividono nei dieci corsi maggiori e nei tre minori, di fiumi-torrenti marchigiani, quasi affatto paralleli e di alveo e di bacino; esempio tipico questo di numeroso fascio di "gemini fluviali", i quali poi proprio con i loro bacini, dalla Marecchia al Metauro all'Esino, dal Chienti al Potenza - i due "gemini" perfetti - al Tronto, formano il corpo della regione. La quale, infine, in una definizione storico-amministrativa, risulta quale la regione o il compartimento del regno d'Italia confinante, nel suo grande sviluppo longitudinale e nella sua inclinazione da NO. a SE., a oriente con l'Adriatico, a occidente con la Toscana e l'Umbria (e ora, con un piccolo tratto del Lazio) e l'Abruzzo, a settentrione con San Marino e l'Emilia, a mezzogiorno ancora con l'Abruzzo. L'area delle Marche, nella cifra ufficiale, è di kmq. 9690,88; essa è attraversata dal meridiano di i° (a oriente dell'iniziale di Romamonte Mario) e dal parallelo 43° (lat. N.).

Circa la morfologia regionale è da dire che essa si presenta affatto distinta da quella delle regioni contermini - Emilia, Toscana, Umbria e Abruzzo -: e una tale morfologia, propria delle Marche, può dedursi dalla stessa definizione regionale data sopra. Sono esse una regione eminentemente alta, così da avere, con la Liguria e gli Abruzzi, un primo posto relativamente all'altezza media; mancano d'una vera pianura (o centrale, o laterale): la isoipsa di maggiore sviluppo è quella dei m. 500 s. m., che è base altimetrica dello zoccolo dei rilievi che separano, nelle Marche, il versante adriatico dal tirrenico. Quei rilievi, al disopra di detto zoccolo, presentano un minimo di elevazione in corrispondenza dell'Aesis (bacino medio e inferiore dell'Esino); che, per questo, risente un qualche influsso del clima tirrenico a temperare quello adriatico predominante nel paese: presentano, invece, un massimo d'elevazione in corrispondenza dei Sibillini i quali, nel Quaternario antico, furono sede d'un discreto fenomeno glaciale. Di tale fenomeno, testimonianze e tracce evidenti sono negli anfiteatri sorgivi, volti o aperti a nord, dell'Aso, con il laghetto glaciale di Pilato, al piede del Vettore (m. 2478), e del Tenna, al piede del Monte Priore (m. 2334). Nei Sibillini, ancora oggi, si ha un massimo di precipitazione nevosa regionale, come si hanno dei minimi termici, dai 2000 m. alle cime, dai − 20° a − 25°. L'ingente massa nevosa, dato il ripido pendio della catena (quello umbro o tirrenico è molto più dolce) può alimentare, nel contrasto dei venti adriatici, o grecali o sciroccali, delle piccole valanghe: disastrosa riuscì quella di scorrimento del 21 febbraio 1930, che investì la Villa di Mezzo di Bolognola (m: 1070), il più alto comune piceno, dove si ebbero 19 morti e molti feriti. Altra valanga da ricordare, pure nei Sibillini, è quella di Montegallo (Vettore), del 17 febbraio 1929, che investì un mulino, uccidendo due persone.

Il fascio eteromorfo di corrugamento proprio all'Italia centrale, dà nelle Marche due rughe maggiori: una più interna od occidentale (umbro-marchigiana), detta del Catria (m. 1702); una più esterna od orientale, interamente compresa nella regione, detta del San Vicino (m. 1485), la quale, a sud, tiene luogo d'entrambe e dà gli alpestri Sibillini, la più netta o definita sezione di tutto il sistema appenninico. Essi, serrati a guisa di dentata muraglia, con pochi altissimi e disagevoli colli, senza vie, con altezza media alquanto superiore ai 2100 m., culminano nel Vettore (m. 2478), la più elevata vetta della regione. Le due rughe ricordate sono quasi parallele e, tra esse, s'avvalla la sinclinale regionale, detta Camertina, dominata, nella testata sud, da Camerino, e avente nel centro Fabriano.

Le sorgive dei corsi maggiori del fascio fluviale regionale sono nella ruga interna (del Catria); onde, le loro acque debbono, per giungere all'Adriatico, fare breccia attraverso la ruga esterna (del San Vicino), che resta, così, solcata da profonde, lunghe gole, d'orrida bellezza (alcune di straordinaria importanza storica), dirette, come quei corsi, da SO. a NE. Sono le gole del Metauro (il "Furlo" con la galleria stradale etrusco-romana; il forum), dell'Esino o della "Rossa" (e di Serra San Quirico), del Potenza (gole di Pioraco e di San Severino), del Chienti (di Belforte), del Tronto (di Arquata). Le sorgive dei corsi minori sono, invece, nel versante esterno della ruga del San Vicino (del Musone, ad es.). A completare, poi, la morfologia regionale intervengono una ruga minore, più a oriente di quella del San Vicino, la breve boscosa ruga cingolana (culminante nel monte Acuto, m. 824); e un'altra, ancor minore, quella del Conero (m. 572), a immediato dominio del litorale, sprofondatasi parzialmente, per faglia, nel mare, onde la costa del gomito d'Italia risultà alta e portuosa, con qualche insidia di scogli dovuta a quello sprofondamento. E infine, a nord, la ruga, prevalentemente eocenica e aberrante, cioè non più diretta, come tutte le altre, secondo l'asse della Penisola, ma pressoché normale a detto asse, la quale darà il Montefeltro e San Marino.

Tutte le rughe normali, formanti il saldo "scheletro" delle Marche, sono calcaree e secondarie (mesozoiche), giuraliassiche in alto, cretaciche più in basso; soltanto verticalmente e in "faglia" appariscono, qua e là, le assise più antiche o del Triassico con le dolomie. A dare, poi, il "corpo" alla regione, s'addossarono, successivamente, all'esterno dello scheletro - verso oriente, cioè - e nelle sinclinali, con degradazione altimetrica fino a giungere al litorale: i depositi eocenici (il calcare nummulitico); miocenici, con salde arenarie ceneri e, qua e là, con la tipica cimosa gessifera del basso Appennino (Belforte del Chienti; Camerano del Conero) non priva di zolfo (Sassoferrato, Bellisio, Cingoli) e di fossili (il caratteristico "Lebias crassicauda" del Senigalliese e di Ostra); e, infine, in una cimosa affatto litoranea, larga dai 15 ai 25 km., si hanno le argille turchinicce (soggette a frane) e i sabbioni gialli del Pliocene.

L'azione poderosa delle acque fluviali torrentizie e quella di lavaggio delle precipitazioni, degradando e solcando gli antichi depositi marini, in specie i miocenici e i pliocenici meno coerenti, plasmarono una tipica successione di rilievi collinosi, lineari, paralleli tra loro, discendenti, dall'interno verso il mare, dai 600/500 m. d'altitudine ai 100 m., rilievi interposti tra corso e corso e, così, nella loro direzione generale da SO. a NE., quasi normali alle rughe calcaree scheletriche.

Infine, la lenta deposizione fluviale, specie nei corsi medî e inferiori, diede una successione di piane quaternarie o alluvionali, spesso lateralmente terrazzate, strette e lunghe, fertilissime (granifere), pure dirette da SO. a NE.; e l'ancor più lenta deposizione deltale, nel Quaternario recente e nell'attuale, diede delle più larghe piane, imbutiformi o triangolari, con base sul lido, ove l'erosione e la deposizione marina e la corrente adriatica radente (da N. a S.) e i bradisismi le fusero con una lunghissima e sottile striscia piana litoranea, assai meno fertile o arida per eccesso di salsedine.

Le Marche sono "terra giovine" e d'una genesi uniforme e unitaria, rispecchiata nella regolarità del loro perimetro e della loro forma; non risultano, cioè, da una cementazione tardiva di frammenti d'ogni età e più o meno grandi, come accade per la regione che è bisecata dagli stessi paralleli (42° e 43° lat. N.) nell'altro versante, il tirrenico - la Toscana -, la quale pur tanto le somiglia antropicamente (Leopardi). Nelle Marche non si hanno che formazioni secondarie recenti (giuraliassiche e successive) e terziarie e lievi deposizioni quaternarie; il secondario antico (il Triassico) appare solo in faglia e mancano le formazioni paleozoiche.

In relazione a età e litologia, sono la "speleologia marchigiana" il "carsismo" e i "sismi". Le Marche hanno molte grotte, importanti per la preistoria per la loro bellezza e grandezza (grotta di Frasassi-bacino d'Esino; grotte del bacino sorgivo del Potenza, di S. Severino; quelle ricordate d'Acquasanta, ecc.). Fenomeni carsici notevoli ed evidenti si hanno nei bacini sorgivi di Chienti e Potenza e nel rovescio del Vettore (Castelluccio). I sismi, i più d'evidente natura tettonica, presentano maggior frequenza e intensità nella nota sinclinale (Camerino-Urbino), intorno al Catria e al Nerone (Cagli), al Conero e nelle sorgive tiberine del monte Bove (Nera-Visso): meno chiara è la natura della zona sismica litoranea Senigallia-Fano-Pesaro.

Clima. - Il clima delle Marche, negli elementi meteorologici basali, il termico e lo ietografico, presenta differenze notevoli a seconda che si considera, al solito, la sezione del paese a N. o a S. del "gomito" del Conero: e la differenza deriva, soprattutto, dall'orientamento nettamente e repentinamente diverso delle loro corrispondenti linee costiere. Quella a N., inclinata verso ponente di circa 500 rispetto al meridiano, riceve, per incidenza quasi normale, i venti freddi di NE. (grecali o balcanici); mentre quella a S. inclinata verso ponente di appena 20°, riceve per incidenza quasi tangenziale i venti caldo-umidi di SE. (gli sciroccali). Ma altro notevole elemento determinante del clima regionale, è quello già noto morfologico e altimetrico, per cui, con evidente regolarità, si sale dal livello del mare ad altitudini di 500, 1000, 1500, 2000 e prossime ai 2500 metri.

Così, può concludersi, in generale, che la metà N. abbia clima più freddo e più asciutto; la metà S. più caldo e più umido; e in base all'elemento morfologico-altimetrico, si può, invece, dividere la regione in tre zone o fasce longitudinali - l'esterna o litoranea, comprendente i balconi collinosi affacciati sul mare e le piane deltali inferiori, avente media termica annua intorno ai 14°,4 - la mediana o collinosa con media intorno ai 13°,5 - l'interna o montana con media intorno agli 11°,7 (la quale ultima è un po' più bassa di quella del Piemonte, 11°,8, che rappresenta la minima regionale d'Italia). Nella fascia interna la media delle minime è − 10°,3, delle massime 36°,4; nella mediana di − 6°,5 e 38°,3; nella esterna di − 5°,4 e 37°,8.

Le isoterme delle Marche, secondo il fatto generale valevole per tutta l'Italia centrale, sono, a parità di latitudine, alquanto più basse di quelle tirreniche. L'escursione termica annua (differenza tra la media del gennaio e quella del luglio) va dai 18° della fascia interna ai 20° dell'estema (in qualche stazione di fondovalle s'approssima ai 21°): le precipitazioni, invece, aumentano dall'esterno (litorale) all'interno (Appennino), cioè con l'incremento dell'altitudine (Ancona, a m. 106, media annua intorno ai 700 mm.; Macerata, a m. 320, intorno agli 850 mm.; Urbino, a m. 452, e Camerino, a m. 666, superano i 1000 mm.). La frequenza dei giorni nevosi è la maggiore regionale dopo quella dell'Abruzzo. Ma, soprattutto, e sempre in relazione al noto orientamento costiero, alla disarticolazione del Conero, e al prevalere, nell'annata, dei venti o del. i° quadrante o del 20°, si verificano nelle Marche: un'estrema variabilità nell'estate (l'inverno, in generale, è freddo e alquanto umido) e un'estrema variabilità nella quantità di precipitazione annua. A Macerata (m. 320) in un quarantennio d' osservazione vennero notati un minimo di mm. 497 (nel 1913) e un massimo di mm. 1692 (nel 1897), anno in cui in un sol mese (ottobre) la precipitazione fu di mm. 936, cioè già superiore alla media normale della stazione (mm. 858): a Iesi minimi e massimi di mm. 569 e mm. 1390; a Fabriano di mm. 547 e 1213; a Camerino di mm. 678 e 1216.

Tutto questo ha, nelle Marche, eminentemente agricole, il più grande riflesso sulle vicende agrarie, sul regime fluviale, sul rendimento degl'impianti idroelettrici. Come pure, dato il carattere economico regionale ora ricordato, si accenni che temperature anche molto basse, dovute a venti da NE. a NO., secchi, non dànno brinate né danneggiano le colture più delicate, quali l'ulivo; laddove temperature meno basse, in dicembre, gennaio, specie febbraio, dovute a venti di O., SO., S., umidi, per avere strisciato sulle groppe nevose dei Sibillini, producono il gelo e brinate dannose.

Flora e fauna. - Flora e fauna regionali rientrano, per tanta parte, nelle italiane proprie o peninsulari, con qualche insinuazione però di quelle di transizione o padane, e pure delle alpine, a causa dell'unità comune del versante (adriatico) e dell'altimetria picena.

Muovendo dal mare lungo il cammino ascendente d'un corso, dopo gli eringi, le euforbie, le rugole, i tamarici della spiaggia, si ritrovano, sui primi rilievi, gli arbusti e le sempreverdi proprî della flora peninsulare (versante S. o di Sirolo-Numana nel Conero; ulivi e lauri dei colli Lauretani); il cipresso - presso il lauro e il rosmarino - sta vigile accanto a ogni casa colonica. Una "riviera", con clima assai dolce, si muove da Grottammare e, dopo S. Benedetto, s'insinua nel corso deltale e inferiore del Tronto e in essa la vegetazione acquista un qualche carattere subtropicale (citronee fiorenti): essa è già annunciata più a N. dai floridi frutteti di Porto Civitanova. Ma, ove si salga ai 1000 m. (al Petrano di Cagli), ai 1500 o poco più (Pennino, Nerone, Catria, Carpegna), una vegetazione spontanea prativa, con meravigliosa fioritura in primavera inoltrata, ha già carattere prealpino. Infine, nei Sibillini, intorno e sopra ai 2000 m., il carattere di quella è già di flora alpina, con la nota prevalenza di cariofillee, genzianacee e, soprattutto, di asteriacee - moltissime officinali - nelle quali non manca la stella alpina (il Leontopodium alpinum). Essenza boschiva inferiore è il castagno (alto Potenza); segue il faggio (M. Strega); ma nella denudata o calva montagna, che attende la sua redenzione, prospererebbero ottimamente le conifere alpine (le due Abies soprattutto, la pectinata e la excelsa), come da evidente esperienza dell'ultimo settantennio (nel M. Igno camerinese). Limite altimetrico degno di nota è quello dell'ulivo (a S. del Conero), che s'arresta ai 600 m.; altro limite notevole è quello di 800 m. per la vite, il quale è lo stesso del nordico Piemonte.

Circa la fauna, si ricorda, dapprima, la particolare ricchezza dell'avifauna picena (specie di uccelli stazionarie; di passo regolare, irregolare; avventizie) ricchezza che trova la sua ragione nella postura medio-adriatica della regione entro il ponte peninsulare gettato tra il sistema alpino e la media Europa, da un lato, e l'Africa libica e atlantica dall'altro, e ancora nella prossimità della Penisola Balcanica. Dei Mammiferi, l'orso è scomparso da quasi un secolo; persiste numeroso il lupo, che, nelle vicende d'inverni più o meno crudi e nevosi, si sposta variamente a cavaliere dei due versanti appenninici, il marchigiano e l'umbro, della ruga principale o del Catria e dei Sibillini; i mustelidi della fauna italica (eccetto l'ermellino) e gl'insettivori sono tutti rappresentati; frequenti sono le volpi e il tasso, come pure le lontre (specie nel Potenza e nel Chienti); il moscardino (Myoxus avellanarius), delle prealpi veronesi e trentine, si trova nei boschi di Cingoli e altrove e il ghiro nella bella selva della badia di Fiastra, sotto Urbisaglia. Dei Rettili ricorderemo la vipera, frequente dappertutto nell'alta e nuda e assolata montagna; particolarmente ricca e bella è, infine, la fauna di Lepidotteri dei Sibillini.

Popolazione e centri abitati. - Anche nell'etnica regionale si riafferma l'elemento morfologico noto, onde la lunga regione picena resta divisa in due sezioni o metà distinte, l'una a N., l'altra a S. del Conero: quella umbro-gallica; questa sabino-picena. La popolazione della sezione nord ha media d'indice cefalico maggiore (84-85,6), quella della sezione sud, minore (83,1-83,2); le due provincie settentrionali dànno una statura media e una percentuale di tipo biondo un po' superiori a quelle delle due meridionali.

In campo puramente demografico e per l'ultimo cinquantennio (1881-1931), si trova che la popolazione delle Marche, da circa 940.000 ab. nel 1881 (dens. 97 ab. per kmq.) raggiunge il milione alla fine del secolo XIX e, nel censimento del 1901 (9-10 febbr.), lo supera, con 1.060.755 ab. (dens. 109); nei censimenti successivi, del 1911 (10-11 giugno) si hanno ab. 1.088.875 (densità 112) e del 1921 (i° dicembre) ab.1.148.296 (dens. 119). Infine, nel censimento ultimo (21 aprile 1931) si hanno 1.239.863 ab. per la popolazione residente (legale) e 1.217.746 per la presente; si ha quindi su una superficie di 9690,88 kmq. una densità di 126 ab. per kmq., un po' inferiore a quella del regno (ab. per kmq. 133). Peraltro, la densità regionale di 126 è da considerarsi altissima, pensando che le Marche, eminentemente agricole, mancano di un grande centro urbano, prossimo o superiore ai centomila abitanti e che esse hanno un altissimo "per mille" di popolazione sparsa.

Si noti, ora: 1. che le Marche hanno oggi una media di popolazione sparsa assai più che doppia (503,9) della media del regno (214,2); 2. che, occupando, nel censimento 1921, il 3° posto tra le 18 regioni del regno (534,8), dopo l'Emilia (548,7) e l'Umbria (541,6), nel censimento ultimo (1931) sono salite al 2° posto, essendo l'Emilia discesa enormemente (450,5); 3. che, essendo nel decennio 1921-31, il decennio dell'"urbanesimo", l'Umbria discesa da 541,6 a 506,3, avendo cioè perduto il 35,3‰, le Marche sono discese da 534,8 a 503,9, e hanno così perduto soltanto il 30,9‰.

I risultati definitivi del censimento 1931, per provincie, sono:

I comuni marchigiani, che erano 248 alla fine del sec. XIX e 254 fino al 1927, ora sono ridotti, per aggregazioni, a 229; così la media di popolazione del comune piceno risulta di 5317 abitanti, mentre le medie delle singole provincie sono le seguenti:

Le medie di popolazione crescono regolarmente con il diminuire dell'altitudine media delle varie provincie. Il comune più popoloso è la capitale regionale, Ancona (pop. leg. 83.288 ab.; pres. 84.390); il meno, Bolognola (pop. leg. 336 ab.; pres. 255), che è anche il più alto (m. 1070) della regione.

Le densità delle singole provincie nella loro variazione decennale sono:

Da esse risulta, che il valore medio regionale (nel 1931), di 126, deriva da valori medî provinciali assai lontani tra loro; e inoltre, che le densità e gl'incrementi maggiori si verificano nelle due provincie (Ancona, Ascoli Piceno) di maggiore sviluppo costiero (di area cuneiforme con base sul mare), e le densità e gl'incrementi minori nelle due provincie (Pesaro-Urbino e Macerata) di minore sviluppo costiero (di area cuneiforme con base sull'Appennino).

La massima densità si raggiunge al cuneo dell'Esino inferiore-deltale, con base Ancona-Fiumesino e vertice Iesi (densità circa 400); mentre la più vasta area con densità minore di 40 abitanti per kmq. si ha nella zona del Montefeltro intorno al Carpegna (m. 1415); le minori densità assolute s'incontrano nei Sibillini. Il comune di massima densità, 1008 ab. per kmq., è S. Benedetto del Tronto (pop. leg. 13.819, resid. 13.685; superf. kmq. 13,72), posto all'estremo meridionale della florida "riviera" già citata per dolcissimo clima, ed esso è pure il maggiore centro peschereccio del medio Adriatico; il comune di minima densità, 13 ab. per kmq., è Bolognola, nel cuore dei Sibillini, a m. 1070 di altitudine (pop. leg. 336, resid. 255; sup. kmq. 25,60).

Migrazioni. - La migrazione interna, intesa nel senso più lato, ha meta quasi unica Roma: quella delle classi colte o borghesi, per ragioni di studio, professione e interessi; quella della nobiltà, per ragioni auliche e di godimento; e, così, quella dell'artigianato, dei commercianti-produttori (negozianti di carni suine confezionate; fornai; negozianti di cappelli di treccia; di vini) e della laboriosissima gente campagnola, che, dai tempi protostorici, ha dato al Lazio e all'Agro Romano pastori e agricoltori. Solo in tempo recente, cioè dal mezzo del secolo XIX, la già ricordata grande via ferrata d'Italia, la Brindisi-Modane, ha stimolato e favorito rapporti notevoli e d'ogni genere, con l'Abruzzo e le Puglie, al S.; con l'Emilia e la Lombardia, al N.

L'emigrazione esterna ha, nella regione, in aderenza al fenomeno generale o del regno considerato soprattutto nel cinquantennio 1876-1925, una curva di uniforme ascesa fino allo scorcio del sec. XIX; poi, presenta un rapidissimo incremento nel quinquennio 1901-1905, con un "massimo" nel 1905; indi, una regolare discesa (1906-10), e, infine, un nuovo rapidissimo aumento nell'immediato anteguerra (1911-15). Mentre, così, nel 1894, l'emigrazione marchigiana (transoceanica) era di soli 2714 individui, nel 1905 la cifra complessiva saliva a 31.919 (di fronte a quella totale del regno di 726.331), nella quale, 21.131 erano gli emigranti transoceanici (in grande prevalenza diretti all'Argentina) e 10.788 per l'Europa centrale e il bacino mediterraneo. In quell'anno di "massimo", le Marche diedero 2922 emigranti per 100.000 ab.; media notevolmente superiore a quella del regno (2161): e la metà regionale, a S. del Conero, contribuì nel fenomeno con medie triple di quelle della metà settentrionale. Si noti, inoltre, che mentre la corrente migratoria sud si volge di preferenza all'America Meridionale (Argentina), e, in minor grado, alla Settentrionale, la corrente migratoria nord (provincie d'Ancona e di Pesaro e Urbino) preferisce l'Europa centrale. Nel dopoguerra, l'andamento del fenomeno è, nelle Marche, come ovunque, ogni anno più profondamente influenzato da interferenze politiche esterne - divieti o limitazioni o contingentamenti - e nazionali, economiche, dall'altezza dei noli, ecc. In tale recente periodo si ebbe un massimo regionale nel 1923, con 10.264 emigranti transoceanici (Argentina) e 4313 per l'Europa centrale (prevalentemente per la Francia); nel 1924 già si verifica una notevole flessione (emigranti 6850 e 4552), che s'accentua ognora più in seguito.

Condizioni economiche. - L'economia regionale è, in misura prevalente, agricola; ogni diversa manifestazione del lavoro nelle Marche non può avere e non ha che un'importanza secondaria.

Risorse minerarie. - La ricchezza mineraria o del sottosuolo è minima nelle Marche. Si riduce, cioè, agli zolfi del Sassoferrato (Bellisio): qua e là affiorano calcari scistosi bituminosi, non utilizzati o non utilizzabili. Così, meglio che il sottosuolo, è il terreno affiorante che offre materia prima o materiali da costruzione: i gessi miocenici che dànno immediato materiale costruttivo (per stipiti, gradini, ecc.) o suscettibile di confezione (forni da gesso da presa), a Belforte del Chienti, a Camerano del Conero, nel Senigalliese, ecc.; i calcari più varî che dànno, pure, largo materiale costruttivo e per forni da calce e da cemento (tra i calcari ha speciale nome il travertino ascolano); le argille turchinicce del pliocene che vengono cotte per stoviglie e laterizi. Moltissime sono le fornaci d'ottimi mattoni nella fascia litoranea; e gli artigiani marchigiani sono apprezzatissimi in lavoro di muratura "in cotto". Notevole, in relazione all'età e alla litologia regionale, è il numero delle sorgenti termali e minerali; saline, ferruginose, solforose, salso-iodiche. Sono celebri e utilizzate terapeuticamente, dalle età più remote, le termali sulfuree (temp. 37°) d'Acquasanta del Tronto, usate pure nei loro fanghi e per l'essudazione (grotte sudorifere); le salsoiodiche (temp. 15°) dell'Aspio, al piede del Conero, e quelle di Penna S. Giovanni.

Pesca. - La produzione dell'attività peschereccia viene per importanza subito dopo la produzione agricola, sebbene a notevole distanza. La pesca si esercita lungo tutti i 174 chilometri, dalla foce del Tavollo, ancoraggio di Cattolica, a quella del Tronto (Porto d'Ascoli). Le barche da pesca, le paranze, hanno vele dipinte o emblemate e vanno accoppiate. Il centro e la flottiglia più importanti sono quelli di S. Benedetto, donde partono, ora, anche per la pesca al largo, navicelle con motori. Il prodotto della pesca del medio Adriatico serve al consumo locale, dell'interno regionale ed è largamente esportato nell'Italia Settentrionale, nell'Umbria e a Roma. Manifestazione significativa dell'importanza della pesca per le Marche fu la prima fiera adriatica della pesca (Ancona, settembre e ottobre 1933), in 60 apposite stanze e in un Aquarium centrale, dove erano visibili tutte le specie di pesci dell'Adriatico e le specie l'acqua dolce dei fiumi e laghi alpini.

Agricoltura. - La produzione regionale preminente è quella agricola, finalità economica della grandissima maggioranza della popolazione picena e materia e oggetto degli scambî con il resto d'Italia e con l'estero.

Oggi l'estensione dedicata al frumento è maggiore della quarta parte dell'area totale, intorno, cioè, ai 2700 kmq. (ett. 270.000), e, considerati il granoturco e le graminacee minori, si giunge a un'estensione notevolmente superiore al terzo: l'area dedicata al granoturco si può ritenere la quarta parte di quella dedicata al frumento.

Il quadro riassuntivo precedente dà il prodotto medio annuo per le principali cotture; di alcune si dà, pure, la superficie media: i valori sono tratti da oltre un sessantennio di vita agricola picena, applicando i coefficienti d'incremento produttivo da ritenersi consolidati in virtù dei grandi progressi verificatisi nella preparazione meccanica e chimica del suolo, nella selezione del seme e nei metodi di semina, nella difesa dalle malattie, ecc. Sono da aggiungere, ancora, i prodotti della coltura del tabacco, dell'orto; del pometo e del giardino: i quali nel sessantennio ebbero un grande incremento e sono suscettibili d'uno molto maggiore. Il tabacco é coltivato nell'Esino inferiore (Anconitano) e nell'Ascolano, ortaggi copiosi e squisiti sono dati dalle piane fanese e iesina (specie cavolfiori, già oggetto di larga esportazione nell'Europa centrale), dalle maceratesi (cardi); frutti superbi si hanno dallo Iesino, da Macerata, da Porto Civitanova e dal litorale ascolano; fiori splendidi e robuste essenze ornamentali si hanno da Macerata e da Ancona. Notevole sviluppo, con esiti redditizî assai incerti, ha avuto, nell'ultimo ventennio, la coltura specializzata del pomodoro da conserva.

Il prodotto principale, il frumento, nel sessantennio considerato è stato in continuo progresso; con un gradiente lento, ma costante, dalla produzione media di q. 8,70 per ettaro (1870), si è saliti a quella di q. 11,80 (1925), corrispondente alla media di q. 300 per kmq. dell'area totale delle Marche; media regionale quasi doppia di quella del regno. La produzione massima, con il concorso di condizioni meteorologiche favorevolissime, si ebbe nel 1925, in q. 3.274.051. La produzione media al presente si può ritenere quasi consolidata in 3.000.000 di q.; dei quali 1.800.000 sono consumati nella regione e 1.200.000 vengono esportati (esportazione massima dalla provincia di Macerata, con media di q. 350.000; quasi eguali quelle delle altre 3 provincie). È così che "le Marche dànno a tutta Italia il pane per sette giorni abbondanti all'anno". Il valore dell'esportazione regionale, nel 1933 si poteva calcolare intorno ai cento milioni di lire. Zone granifere per eccellenza sono: le piane dell'Esino, le Osimane e le Maceratesi del Chienti e Potenza.

Si noti, infine, il notevolissimo incremento, nel sessantennio, della produzione foraggera, dovuta: all'introduzione dell'erba medica nelle sterili terre, le "crete" prima incolte; alle buone rotazioni; al crescente uso dei concimi fosfatici (il consumo generale dei concimi chimici nell'ultimo ventennio è triplicato). Relativo a cioè l'incremento notevole del patrimonio zootecnico, specie bovino, associato a ulteriore miglioramento della già buona razza marchigiana; ottimo è il prodotto suino largamente esportato in Emilia o confezionato sul luogo (Fabriano); notevolissima la produzione di cortile e d'aia, con esportazione ingente di uova per l'interno e, nell'anteguerra, per l'estero (Inghilterra). La "transumanza pastorizia" (greggi di ovini) marchigiana, non per tratturi, ma per storiche strade, lunghe in media dai 250 ai 300 km., nella sua vicenda semestrale dai paesi e dai pascoli dei Sibillini (prov. di Macerata e Ascoli) all'Agro Romano, è non solo tra le più antiche, ma la più tenace, importante e meglio organizzata d' Italia. Notevole nelle Marche la produzione di carne ovina (abbacchî) consumata a Roma, quella della lana, e di piccoli formaggi secchi nel Montefeltro, nell'Urbinate, nel Vissano e nell'Ascolano, oggetto d'esportazione.

Il contratto agrario dominante, in modo assoluto, nelle Marche, è quello della "mezzadria"; nel rapporto. percentuale della popolazione rurale si ha: il 60% di mezzadri (cifra ancora più alta di quelle della Toscana e dell'Umbria); il 12% di piccoli proprietarî; il 20% di braccianti (i "casanolanti"); l'8% di ceti agricoli secondarî.

Industria. - In primo luogo, quella della carta bambacina e a mano, che nasce, subito dopo il Mille, primamente in Europa, nella sinclinale camertina, ricca d'acque correnti, a Fabriano e a Pioraco e, tuttora, mantiene, attraverso i secoli, un primato in tutto il mondo per qualità e resistenza, per insuperata bellezza e perfezione di "filigrane". L'industria della carta per uso del commercio (e della cartapaglia) fiorisce pure a Iesi, Tolentino, Ascoli. Si ricordino, nella grande industria, quelle del carburo e dei grandi elettrodi di carbonio (Ascoli), delle costruzioni navali e dei mobili (Ancona), dei carri ferroviarî (Porto Civitanova), delle conce dei cuoi (Matelica), la solfifera già ricordata e quella delle dure arenarie mioceniche lavorate per ottimi selciati, dei cementi, dei cicli (Tolentino), dei fiammiferi di legno.

Tra le industrie di sapore regionale o caratteristiche si citano: quelle della confezione di scarpe estive o bianche, dei cappelli di paglia di alcuni aggruppamenti di paesetti collinosi della Fermana, dei merletti (Offida) al tombolo, delle sedie ordinarie (Civitanova e Porto), tutte quante esercitate in "casa" con organizzazione di lavoro familiare; delle maioliche artistiche (Pesaro, Recanati), delle pipe e dei pettini (Recanati, Loreto), delle grandi ulive in salamoia e dei fichi mandorlati e pressati (Ascolano). Industrie relativamente recenti (dalla seconda metà del secolo XIX), nelle quali le Marche, per insuperata perfezione o precisione del prodotto, hanno conquistato un primato, sono quelle del seme di bachi preparato con rigidi criterî scientifici (Ascoli, Offida), delle armoniche (Castelfidardo, Macerata), degli strumenti a fiato (Macerata), delle fusioni in bronzo e di campane (Fermo), dei cuoi bulinati o pressati, ispirati alla migliore tradizione artistica classica o italiana (Tolentino).

L'arte della stampa o industria tipografica, di antichissima tradizione (edizioni iesine), è tuttora esercitata con nobiltà di carattere a Cingoli, a Recanati, a Tolentino, a Macerata (donde uscirono la monumentale edizione nazionale delle "Opere geografiche" dell'apostolo della Cina, il padre Matteo Ricci, e la storia della maggiore biblioteca picena, la comunale locale), a Pesaro, a Fermo, ad Ascoli.

I centri principali commerciali sono Ascoli, Fabriano, Iesi e, in primissimo luogo, Ancona, sede antichissima (come Senigallia) di una laboriosissima colonia semitico-italica.

Vie di comunicazione. - Dalla morfologia e dalla genetica regionale, quale sopra è stata delineata, deriva in modo evidente che la regione "all'esterno" dovesse e debba gravitare, quasi unicamente, su Roma: sia col suo baricentro, Ancona, sia con le sue due grandi sezioni a N. e a S. del Conero. Antiche, storiche, comode e belle strade, movendosi dal litorale e risalendo le valli e superando l'Appennino, raggiunto l'altissimo bacino orientale del Tevere, tutte convergono a Roma: tali la Flaminia o del Metauro, per il Furlo e la Scheggia; la Clementina o dell'Esino, per la Rossa e Fossato; la Lauretana o Gregoriana o del Chienti, per Colfiorito; la Chiento-Nerina, per il colle d'Appennino; la Salaria o del Tronto, per la gola di Arquata; e altre ancora.

Le grandi linee ferroviarie peninsulari, o trasverse: la Ancona-Falconara-Fabriano-Fossato-Roma, la Porto Civitanova-Macerata-Albacina e l'attesa ancora (elettrificata) S. Benedetto del Tronto-Ascoli, tutte dal litorale medio-adriatico, convergono o convergeranno, anch'esse, a Roma.

Circa le altre strade regionali, il loro carattere e il loro ufficio, bisogna premettere un cenno di poleografia picena.

In virtù di una morfologia e di una genetica del paese, che ci sono già note, noi ritroviamo: degl'insediamenti antichissimi, allineati da SO. a NE., lungo il fondo valle dei dieci corsi maggiori (e dei minori), e, tra essi, tipici quelli sorti all'inizio del corso medio, cioè allo sbocco esterno delle gole ricordate (Ascoli, Tolentino, San Severino, Fossombrone); degl'insediamenti per lo più antichi, allineati, da SE. a NO. (piceni, gallici, greco-siculi, etruschi, romani, medievali o italici recentissimi), lungo i 170 km. del litorale, o sopra i balconi subappenninici che s'affacciano immediatamente sul litorale stesso (Fermo, Recanati, Osimo); degl'insediamenti lineari, in genere dell'alto Medioevo o d'intorno il Mille, anch'essi, come i primi, disposti da SO. a NE., ma lungo e sopra le creste o i crinali delle colline separanti i corsi regionali; infine, degl'insediamenti preromani, umbri, camerti, ecc., allineati nella grande sinclinale camertina, quasi da S. a N., quali Camerino, Matelica, Fabriano, Sassoferrato, Cagli, che sono così le città più interne della regione.

Questo premesso, è chiaro che in adesione (nella sinclinale e nel litorale) della morfologia e in rapporto a tale poleografia, le strade prettamente marchigiane dovessero riuscire dirette secondo l'asse peninsulare, da SO.. a NE.; e, cioè, la litoranea o aprutina; le minori interne da alveo ad alveo, da crinale a crinale collinoso e, per conseguenza, successione di contropendenze e di serpentine. Nella stessa direzione assile, o quasi, si sviluppava, in tempi lontanissimi, la strada di fondo della sinclinale camertina, che era seguita, o sarà seguita, da presso, dalla via ferrata longitudinale interna, non ancora completata, da Ascoli a Camerino, a Fabriano, a Sassoferrato, a Urbino e a S. Arcangelo di Romagna.

Premesse queste notizie di carattere regionale, si osserverà che all'antica e magnifica rete di rotabili, con sviluppo di circa 3500 chilometri, onde la regione ha un primato nel regno per densità di sviluppo relativa alla superficie, non corrisponde affatto lo sviluppo della rete ferroviaria statale, inferiore ai 600 km. (562 di ferrovia ordinaria e piccole linee elettriche), per cui le Marche vengono a trovarsi al terz'ultimo posto nel regno (e dopo la Lucania e la Sardegna), con densità di sviluppo di km. 5,8 per 100 kmq. (media del regno km. 6,9). Sull'area totale della regione, appena 3300 kmq. di essa, cioè il 35%, hanno ferrovia a distanze medie dai 0 ai 5 km.; e ben 2800 kmq., cioè il 30%, hanno la linea più prossima a distanza dai 15 ai 35 km. o maggiore.

Di linee ferroviarie, oltre le due maggiori trasversali per Roma, già note, e la "sinclinale" camertina, vi sono le brevi prettamente locali, risalenti le valli del Metauro (Fano-Fermignano), del Tenna (Porto S. Giorgio-Fermo-Amandola) e del Tronto (S. Benedetto, P. d'Ascoli-Ascoli). A trazione elettrica sono: la ferrovia Castelraimondo-Camerino e i tram Porto Civitanova-Civitanova, e Falconara-Ancona. A supplire a tale deficienza, è intervenuta, nello scorcio del sec. XIX, l'iniziativa privata, suscitando uno sviluppo di autolinee tra i più densi del regno: si dà, quale es., Macerata, da cui irradiano 15 linee per le provincie e regioni prossime, e ancora Ascoli, da cui parte la più lunga autolinea d'Italia (l'Ascoli-Roma).

Porti. - Circa gli approdi si ricordano, a N. del Conero, gli antichi porto-canali di Pesaro, Fano, Senigallia, mentre a S. sono "marine", impropriamente dette "porti", propaggini, in basso, sulla sponda adriatica, dei prossimi alti balconi urbani dominanti il più vasto orizzonte di mare. Quelle marine sorsero, nell'inizio, soprattutto a servizio di quei balconi, se anche, con l'andare dei secoli, e rapidissimamente, dopo il 1850-60 e la costruzione della ferrovia litoranea, esse siano divenute grossi nuclei umani e nuovi fiorenti comuni. Tali sono, a sud del porticello naturale di Numana, Porto Recanati, Porto Potenza Picena, Porto Civitanova, Porto S. Elpidio, Porto S. Giorgio, S. Benedetto.

In dette marine o porti, l'approdo delle paranze da pesca e dei barconi (da 100 a 150 tonn.), già attivamente commercianti con la sponda dalmata, riesce faticosissimo in quanto fatto ad argano e a braccia e pericolosissimo nelle mareggiate adriatiche, frequenti, repentine e furiose. Così l'aspirazione marina, regionale, è quella di avere porti-rifugio, dove ora sono le marine: la costruzione di uno è iniziata a P. Civitanova. Ma il Porto per antonomasia, marchigiano, il gran porto naturale del medio Adriatico, è Ancona.

Si rimanda per quinto alla voce ancona (III, p. 151 segg.), limitandoci qui ad aggiornare i dati in detta voce registrati in base alle statistiche del 1927-28. Nel 1931 Ancona è al terzo posto tra i sei porti italiani dell'Adriatico, dopo Venezia e Trieste, con un totale di circa 618.000 tonn. (meno della quarta parte rispetto a Venezia; e la quarta esatta, rispetto a Trieste) e prima di Fiume (discesa a meno di 500.000 tonn); seguono Bari e Brindisi. Fra tutti i porti del regno quello d'Ancona ha, così, oggi, il nono posto (tra Palermo e Catania). Le cifre per detto anno (1931), per esso, sono:

Dal quadro apparisce il grande squilibrio, comune a tutti i porti adriatici del regno, tra sbarco e imbarco, essendo, nel caso d'Ancona, la merce imbarcata, cioè prodotta, comunque, nel hinterland attuale del porto, appena un decimo del totale: le condizioni d'Ancima, sotto tale aspetto, sono le più accentuate dopo il "massimo" di Brindisi, che è pure quello di tutti i porti italiani.

Al termine della visione geografica delle Marche, si ricorda una importantissima storica rappresentazione topografica della regione medio-adriatica, cioè quella che sotto il nome "Piceno" è nella galleria delle carte geografiche al Vaticano.

Bibl.: Per gli aspetti morfologici e antropici generali e particolari: A. Zuccagni Orlandini, Corografia fisico-storica e statistica dell'Italia e sue isole, Firenze 1835-1842, 12 voll. e 5 Atlanti (la parte relativa allo Stato Romano e alle Marche; e, per l'Atlante, v. appresso); id., in Atlante geografico degli stati italiani, Firenze 1844, I, con la grande carta in 15 fogli; interessante, per le Marche, la carta II; nella Terra di Giovanni Marinelli, v.: P. Sensini, Compartimento della Marca, pp. 986-1032, cap. VIII del vol. IV (Italia), Milano; Crocioni, Le Marche: letteratura, arte e storia, Città di Castello 1914 (con molte illustrazioni); Studi marchigiani, Macerata 1907. La regione è considerata sotto tutti gli aspetti in memorie particolari, di F. Porena, G. Gigli, L. Colini Baldeschi, F. Torraca, A. Piersantelli, G. Cantalamessa, G. Benadduci, L. Andrich, M. Santoni, E. Sergiacomi, F. Gresti, C. Rosa, A. Marinai, E. Ricci, e altri); E. Dehò, Paesi marchigiani, Pescara 1910; L. Serra, Itinerario artistico delle Marche, Roma 1921; E. Ricci, Le Marche o il Piceno. Saggio di monografia fisica e antropica d'una regione d'Italia, Torino 1927 e 1928 (pp. 240, con molte illustr. e carte).

Circa la flora e la fauna delle Marche: V. Gasparini, Avifauna marchigiana, Fano 1894 (dà alle Marche 286 specie, di cui 81 accidentali o avventizie); L. Paolucci, Flora marchigiana, Pescara 1891, dove si ha l'Elenco bibliografico piceno, relativo alle pp. VIII-IX, e nel testo è "la revisione sistematica e descrittiva delle piante fanerogame spontanee nella regione dele Marche, ecc.".

Quanto all'etnografia e toponomastica: R. Foglietti, Saggio sui nomi locali del Piceno, 1ª parte: Principi e conclusioni, Macerata 1880; E. Bocci, Della demopsicologia umbro-picena. Saggio, Sanseverino 1903; I. Ciavarini Doni, Le Marche e i Marchigiani, Ancona 1874; id., Studio sull'indole dei Marchigiani, Ancona 1873; C. Giuliozzi, Etnografia umbro-sabina della Marca maceratese, Osimo 1925.

Circa l'analisi corografica: F. Coletti, Industria armentizia, ecc. nelle provincie ex-pontificie, Macerata 1896; Annali di statistica (industr.), Min. agric., ind. e comm., Roma, Ancona (fasc. III, 1886); Pesaro e Urbino (fasc. XXXIV, 1891); Ascoli Piceno (fasc. XLI, 1892); Macerata (fasc. XLII, 1892); V. Vitali Rosati, L'Agricoltura nelle Marche, prima e dopo la guerra, Fermo 1924; L. Franciosa, Rapporti fra proprietà, impresa e mano d'opera, in Agricoltura italiana, XI, Marche, Roma 1931 (IX, pubbl. dell'Ist. naz. di econ. agraria).

Istruzione: A. Stoppoloni, L'istruzione pubblica nella prov. d'Ancona, ecc. dal 1808 al 1911, Fabriano 1912.

Circa le ferrovie, strade, ecc.: E. Ricci, Il problema ferroviario nelle Marche, Macerata 1910.

Tra le moltissime pubblicazioni periodiche, passate o in corso, si citano anche: Istituto marchigiano di scienze, lettere ed arti (sede Ancona), Atti e memorie dal 1925 in poi; R. Deputazione di storia patria per le Marche (sede Ancona), Atti e memorie; Archivio storico per le Marche e per l'Umbria, diretto da Milziade Santoni, G. Mazzatinti, U. Faloci-Pulignani, Foligno 1884 (35; Atti della Società storico-archeologica delle Marche (sede in Fermo), I, Rocca S. Casciano 1875; Archivio storico marchigiano, dir. da Cesare Rosa, I, fasc. 4, Ancona 1879; Rivista delle Marche e dell'Umbria, anno I, fasc. 7, Ancona 1865, 1866; Rivista marchigiana di scienze lettere e arti, fasc. 5, Ancona 1871; Le Marche, rivista mensile diretta da G. Grimaldi, Fano 1902; L'Esposizione marchigiana, diretta da S. Spadoni, Macerata 1904-06.

Circa la cartografia regionale: O. Marinelli, Primi materiali per la storia della cartografia marchigiana, in Rivista geogr. ital., Firenze 1900 (nn. 6 e 7).

Circa la bibliografia regionale si ricordano: G. Castelli, Appunti di bibliografia marchigiana, Bologna 1883; Biblioteca picena, Osimo 1790.

Preistoria.

Le Marche hanno un'importanza grandissima nel quadro generale della preistoria della penisola, per la larga copia dei materiali venuti in luce, per le stazioni riconosciute, per i problemi sollevati e per recenti constatazioni che recano contributi utili alla loro soluzione. Anche le Marche dovettero essere abitate dall'uomo nell'era geologica passata, benché la documentazione sicura dell'associazione della fauna estinta ai suoi relitti non si sia ancora avuta in questa regione. Si possono tuttavia indicare due località, che hanno fornito resti fossili di animali rarissimi in Italia, il Mammut a Figura di Tiberio e il colossale cervide, il Megacero d'Irlanda (Euriceros), presso S. Lorenzo nella valle del Cesano, che pare fossero associati a strumenti di tecnica moustériana. Questa industria litica è diffusa nelle Marche, ma se ne ignora lo strato originario.

Sono anche diffusi nelle Marche i grandi e tipici amigdaloidi silicei, che la maggior parte dei dotti considera di età più antica dell'industria di Le Moustier. Luoghi di rinvenimenti sporadici di amigdaloidi sono: Visso e Sanseverino (Macerata); Castagne Coperte (Ascoli Piceno); Tolentino; la valle del Cesano, Arcignano (Fabriano); Matelica; Nidastore; Certopiano (Arcevia). Peraltro, la maggior parte di questi esemplari si è perduta, tranne alcuni, bellissimi e tipici, nel museo di Ancona e nel Museo Pigorini di Roma.

In alcune caverne, ad esempio in quelle del Vernino e del Prete nella Marca alta di Ancona, si è scoperta un'industria silicea di strette lame ben tagliate e di altri oggetti derivati dalle lame, che ha l'aspetto della cultura detta grimaldiana, specifica dell'Italia nel quaternario superiore, alla quale viene da molti attribuita un'origine africana collegandola con la cultura detta capsiana, scoperta nei dintorni di Tunisi e diffusa in Italia dalla Sicilia alla Liguria, in modo chiaro. Ma per le dette caverne marchigiane occorre sospendere il giudizio di età, perché da un lato manca l'associazione con la fauna quaternaria, dall'altro si osserva che codesta industria litica discende ampiamente in depositi che sono certo di epoca posteriore, e ciò avviene non nelle Marche soltanto.

Armi e strumenti di pietra di età neolitica ed eneolitica sono diffusi in quantità veramente straordinaria per gran parte delle Marche. Tra le regioni che ne offrono maggiore copia ricordiamo la valle del Misa; le colline da Pesaro a Orciano; il territorio attorno ad Ascoli; quello di S. Severino e di Ripatransone.

Si conoscono parecchie stazioni di questa età. Forse le più antiche sono quelle di S. Biagio di Fano, di Torre di Beregna e di Serra Petrona nel Camerinese; di Offida, di Rosora sull'Esino; di S. Fortunato presso Sassoferrato e di Cantiano presso Cagli, nella Marca alta di Ancona, di Monte Colombo presso Numana, alle quali se ne potrebbero aggiungere molte altre meno certe.

Si riscontrò in alcuni casi che si trattava di villaggi in cui il fondo delle capanne era alquanto infossato nel terreno, come quelle scoperte per la prima volta nella valle della Vibrata; in altri casi invece le capanne erano a fior di terra e quindi le loro tracce non erano più distinte, ma si confondevano insieme.

La ceramica, sempre rozzissima, non presenta le impressioni fatte sull'argilla ancora molle e distribuite per tutta la superficie del vaso, come avviene nella vasaria dell'Italia meridionale adriatica. Tuttavia questa varietà caratteristica s'incontra anche nella stazione di Monte Colombo presso Numana, che è forse per ora uno dei termini più settentrionali.

Ricchissima è la produzione di armi o strumenti silicei lavorati col ritocco, talora molto accurato, della tecnica neolitica. Sono, il più spesso, lame, coltelli, punteruoli, raschiatoi; non mancano le cuspidi per le frecce con alette e peduncolo, che divengono più abbondanti, insieme con i grandi e bellissimi pugnali e giavellotti, nell'età seguente, specie nel primo periodo del bronzo, in cui questa industria persiste. In alcune di queste stazioni si nota il perdurare di fogge più antiche. Abbondantissime sono le accette levigate di pietra verde serpentinoide, i martelli o mazzuoli forati, talora di rocce granitoidi o porfiroidi, che dovevano venire importate. Non è improbabile che per la loro perforazione si adoperasse la rena terebrante, ricca di granuli di minerali duri, che talvolta le burrasche gettano a spiaggia in qualche luogo delle rive adriatiche.

In alcune di queste stazioni si ha qualche traccia della ceramica giallastra chiara, a superficie terrosa, che si svilupperà poi largamente accanto a quella cromica primitiva in stazioni eneolitiche tipo Ripoli.

Si deve tuttavia dire che, benché i materiali di tipo neolitico siano straordinariamente abbondanti e non manchino notizie di trovamenti e di stazioni, ricerche rigorosamente scientifiche sulla base stratigrafica non si hanno ancora.

La civiltà del bronzo è attestata nelle Marche da una copiosa serie di stazioni d'importanza fondamentale, villaggi a fondi di Capanna, sepolcreti, caverne. È in essa possibile distinguere due facies successive.

Nella facies anteriore si ha una produzione litica enome, nella quale appaiono largamente fogge di tecnica arcaica, che taluni autori credono reminiscenza o persistenza di tempi anteriori. Gli esploratori videro semre uscire a centinaia dalle capanne più antiche le belle cuspidi e i pugnali di tipo solutréano, i raschiatoi scheggiati come quelli moustériani, le fogge amigdaloidi appiattite che arieggiano quelle paleolitiche, pur restandone diverse. Nella produzione vascolare, in mezzo alla ceramica rozza dei grandissimi pithoi e delle idrie, adoperati per conservare l'acqua o le provvigioni, che hanno per solo ornato i cordoni plastici lisci o in vario modo improntati, appaiono i vasi buccheroidi, sempre fatti a mano, nero-lucidi, con l'ansa lunata caratteristica. Ma questa ha ancora foggia semplice a corna di lumaca. La decorazione incisa manca o è rarissima.

Appartengono alla prima fase le stazioni di Nidastore sul Cesano; dell'Arceviese, di cui più ricordata è quella delle Conelle; di Sassoferrato; di Fabriano-Miliani; alcune del Sanseverinese.

La seconda fase ha produzione litica scarsa e insignificante. Assai più ricca e svariata è l'arte figulina.

È il trionfo, sui vasi buccheroidi, della decorazione incisa, la quale veniva riempita di pasta bianca, producendo un risalto apprezzato, specialmente sulle elegantissime capeduncole mono-ansate. Caratteristiche le catene di rombi, le fasce spirali ricorrenti o meandriformi, riempite di puntini. In queste capeduncole e nei grandi scodelloni, di straordinaria varietà e ricchezza sono le anse, quali non si avvertono in nessun'altra regione italica per queste età. Le une ci presentano i gradi di evoluzione dalla primitiva ansa a linguetta alla forma complessa e magnifica dell'ansa specifica di Fabriano, larga, forata, con ampie falcature laterali e riccapiente incisa. Le altre appartengono alle anse lunate o cornute, variamente foggiate, con le branche talora terminate a testa stilizzata di volatile.

Abbondanti sono pure i bronzi: spilloni, pugnali, come quelli dei terramaricoli, con lame foliate e manico incavato per ricevere un intarsio di osso decorato a cerchielli; rotelle usate per teste di aghi crinali; fibule ad arco di violino e ad arco alto, semplice.

Le genti di quest'età amavano adornarsi con collane fatte di conchiglie forate e di grani fittili diversi. Le capanne erano grandi e comode: le maggiori sono quelle di Filottrano.

Spettano alla seconda fase: S. Paolina (Filottrano); Spineto; Pieve Torina; caverna di Frasassi (in parte); Fabriano, fondo Pallottelli; villaggi di Sanseverino (in parte).

Presso alcuni di questi villaggi furono scoperti sepolcreti, che, per presentarsi nello stesso modo, furono ad essi attribuiti.

I morti erano deposti supini, con le braccia ravvicinate ai fianchi, senza corredo, come in altri sepolcreti coevi, ad esempio Toscanella Imolese e Latronico in provincia di Salerno. Per le Marche, possiamo citare il sepolcreto dipendente dalla stazione importantissima di Filottrano; il sepolcreto presso Grotta Moniche nella Gola del Sentino e numerosissime sepolture nella famosa caverna di Frasassi, in cui l'età del bronzo era più largamente sviluppata.

Queste genti praticarono l'agricoltura, come dimostrano le numerose zappe costruite con corna cervine. Lavorarono anche largamente l'osso, specialmente per farne manici per i punteruoli di bronzo o teste di aghi crinali, decorandoli a cerchielli con uno stile che perdurò nei tempi seguenti.

Tra gli oggetti che indicano una certa comodità di vita si possono ricordare frammenti di fornelli rinvenuti in copia in tutte le stazioni, e vasi singolari con un'ansa canaliculata (becco-ansa) che doveva servire a contenere speciali liquidi, che non si dovevano sprecare.

Si deve qui avvertire che l'abitato presso l'imbocco a monte della Gola del Sentino, nel Pianello di Genga, non è affatto una terramara, come si era creduto, vedendo in esso una prova del passaggio delle genti, ritenute italiche, uscite dalle terramare padane, per disperdersi, al chiudersi del secondo millennio, per tutta l'Italia. L'idea di una terramara era sorta per l'esistenza di cocci con l'ansa lunata e per l'immediata vicinanza dell'abitato al sepolcreto di combusti, divenuto famoso col nome del Pianello. Scavi recenti hanno dimostrato che codesto abitato non ha nulla di comune con le terramare. Nello spessore di otto metri si sono trovati quattro strati archeologici separati da strati sterili. I due strati più profondi appartengono all'età della pietra finale, con la stessa facies del villaggio Argentini, trovato pure nella stessa località del Pianello, e della vasta stazione di Ripoli, nella valle della Vibrata. I due strati più alti ci rappresentano i relitti di villaggi dell'età enea analoghi a quelli dell'Arceviese.

Nelle Marche non si hanno per le prime età idoli od oggetti che si possano collegare con pratiche rituali, a eccezione, forse, di alcune piramidette fittili, decorate, e con una piccola nicchia in cui si collocava qualche cosa che ignoriamo, ma che doveva accrescerne il valore. Anche si può ricordare qualche maialetto fittile, o qualche grande corno fittile, oggetti per vero rari.

La grande caverna di Frasassi fu probabilmente una caverna sacra, che più tardi il culto cristiano santificò erigendo entro l'atrio maestoso due tempietti alla Vergine.

Il periodo di trapasso fra l'età del bronzo e quella del ferro, ha lasciato nelle Marche tracce chiare di notevole significato: e anzitutto il ripostiglio di pugnali enei di Ripatransone e il sepolcreto di combusti del Pianello di Genga, nell'Alta Marca di Ancona.

Specialmente il ripostiglio tocca l'età del ferro come avviene di altri della penisola, e ci presenta in copia pugnali enei con lama larga, foliata, costolata, e manico massiccio, che hanno riscontro in un esemplare materano (Parco dei Monaci), inesattamente dapprima riferito alla pura età del bronzo.

Il sepolcreto del Pianello ha una grande importanza non solo perché, insieme con la pretesa e inesistente terramara prossima, si collegò al sepolcreto di combusti di Timmari, nel Materano, e alla pretesa, ma non dimostrata, terramara di Taranto, ritenendo così di avere documentato la discesa dei terramaricoli italici, ma anche perché se ne fece il tipo di una speciale civiltà.

Ne fu segnalata la scoperta nel 1910. Due anni più tardi, l'apertura della strada Genga-S. Vittore avendo incontrato altre urne, un esteso scavo fu fatto dalla Soprintendenza di Ancona recuperando parecchie centinaia di urne di combusti. Queste erano coperte da una ciotola a guisa di coperchio, talora constipate, e protette da una lastra calcarea di sfaldatura.

Esse erano state seppellite entro i resti del villaggio più antico, del tipo delle Conelle, cioè della prima fase enea, che da questo poggio si stendeva per la bassura del Pianello. Tra le urne, e specialmente negli spazî liberi da esse, apparivano i residui ben noti della cultura più antica. D'altra parte le urne, le ciotole che loro servivano di coperchio, gli oggetti personali del morto, accennano chiaramente a un'età più tarda che avvicina quella del ferro. Una constatazione interessante consiste nel rilevare che le urne sono di tre tipi: cilindroidi; olle basse e panciute; biconiche, cioè di foggia villanoviana arcaica. Anche nelle due prime categorie si hanno forme che preannunziano la villanoviana. Si riceve pertanto l'impressione di una rapida evoluzione. Le ciotole hanno spesso l'orlo "a turbante", che nelle regioni transadriatiche si sviluppa nel primo periodo del ferro. Tra gli oggetti si notano grani di vetro, per collane; fibule di varia foggia; aghi crinali di bronzo; teste di aghi crinali e pettini di osso decorati a cerchielli. Certi fittili hanno riscontro con altri usciti da un vasto abitato diffuso nella prossima Gola del Sentino, non ancora sistematicamente scavato.

All'età del ferro spetta tutta una serie numerosa di necropoli, distribuite per gran parte della sponda media dell'Adriatico a partire da Novilara verso un confine meno preciso a sud, che in parte corrisponde col Picenum romano. In queste necropoli si ritenne di dovere riconoscere i resti antichissimi dei Piceni. Esse ci rivelano una civiltà splendida, specialmente per la copia dei bronzi e per la varietà e bellezza degli ornamenti, tra cui si nota la profusione dell'ambra, in noduli anche grossi, mirabilmente scolpiti.

Queste necropoli picene sono: nella provincia di Pesaro: Novilara, S. Lorenzo in Campo, Fano, Fossombmne, S. Ippolito, S. Costanzo; nella provincia di Ancona: Ancona, Monteroberto, Fabriano, Numana, Corinaldo. Sassoferrato, Gallignano, Camerano, Osimo, Paderno di Filottrano; nella provincia di Macerata: Tolentino, Apiro, Montecassiano, Recanati, Rotacupa, Potenza Picena, S. Ginesio, Penna S. Giovanni; nella provincia di Ascoli: Ascoli, Fermo, Belmonte, Cupra Marittima, Sant'Elpidio a mare, Montegiorgio, Rapagnano, Lapedona, Torre di Palme, Amandola, Montelparo, Monterubbiano, Montefiore sull'Aso, Massignano, Montedinove, Cossignano, Ripatransone, Grottammare, Castignano, Offida, Acquaviva Picena, Castorano, Colli del Tronto, Spinetoli, Paggese, Mozzano, Castel Trosino, Rocca di Morro, Marino, Corropoli, Controguerra; si legano alle predette quelle della provincia di Teramo: Teramo, S. Egidio sulla Vibrata, Campli, Tortoreto, Basciano, Atri, Penne.

Le tombe sono fosse, quasi sempre rettangolari, sprovviste di tumulo: a Tolentino, tre erano racchiuse entro grandi circoli di pietre. Molto di rado le sepolture ebbero un certo ordine, tenendo distinte quelle degli uomini dalle femminili e da quelle dei ragazzi. Spesso, fra tombe ricche, altre ne erano frammiste senza corredo o poverissime. Per lo più, almeno in quelle meno antiche, è disteso sul fondo uno strato di sabbia o di ghiaia, come si usò nell'Istria. Il morto era deposto rannicchiato; a Tolentino, disteso. Sotto la testa, lo scheletro ha una pietra. Il corredo funebre può essere disposto senza ordine, oppure (Novilara, sepolcreto Servici) sopra una banchina tutto intorno al morto. Per lo più le tombe non hanno un segno esteriore per indicarle. Alle volte (Novilara-Servici) stele primitive sono cippi trapezoidali, o rozze pietre (Tolentino), o anche due pietre rozze, l'una alla testa, l'altra ai piedi del morto (valle del Tronto).

Importantissime sono tre stele di Novilara con incisioni, rappresentanti lotte di uomini tra loro o con animali, e iscrizioni, cui si legano altre pietre inscritte di Acquaviva (Cupra Marittima), di Castignano (Offida), S. Omero (Nereto), Belante (Teramo), di Ortona e un'altra ancora della provincia di Aquila. In generale, si ammette che le iscrizioni appartengano al gruppo detto umbro-sabellico, ma la loro decifrazione è discussa. Da molti si ritiene che l'alfabeto sia corinzio-corcirese, o calcidico. Altri vi vede affinità formali con l'illirico, ma non si parla di un contenuto illirico. Nelle tombe maschili i vasi, di argilla o di bronzo, sono più numerosi che nelle femminili, sempre specialmente aggruppati ai piedi. Sopra lo scheletro, con le ruote presso la testa, si trovò talora il carro di guerra. Lungo il fianco destro lo scheletro aveva, di ferro, una lancia, una fibula, una testa di mazza. Sui femori, un pugnale di ferro, e presso il ginocchio destro una piccola terracotta raffigurante un galletto. Ai piedi, un elmo e i gambali di bronzo, tre lance, due coltelli, di cui uno lunato, forse un rasoio, l'altro a lama diritta, una creagra, frammenti di sandali di ferro e tripodi di ferro. Inoltre due vasi di bronzo, due di terracotta, parecchi minori d'impasto e di bucchero e un grande piatto con gli avanzi del silicernium, cioè del pasto funebre.

Nelle tombe femminili, oltre ai vasi d'argilla e di bronzo deposti in disordine, ma specialmente presso i piedi, si trova una stragrande quantità di oggetti d'ornamento. Sulla testa, diademi di bronzo o di perline d'ambra: da presso, gli orecchini; sul collo, torques bronzee e collane di varie specie, che talvolta giungevano al petto e reggevano pettorali e ricchi pendagli: armille, anelli, fibule in numero così grande da coprire quasi la parte superiore dello scheletro, fermate evidentemente al mantello. Specialmente nelle tombe di Cupra Marittima e di Belmonte, si trovarono, sul petto o sul bacino; grandi e pesanti anelli con nodi di bronzo, dei quali è sconosciuto l'uso. Hanno talvolta 20 cm. di diametro e più di due chilogr. di peso.

Degne della maggiore attenzione sono due tombe, che i corredi di ornamenti ricchissimi e sontuosi dimostravano femminili, nelle quali si trovarono inoltre il carro guerresco, lance e mazze. Si è creduto di vedere in tali donne amazzoni o "guidatrici di schiere", altri invece ha sospettato che potessero essere le mogli di capi guerrieri.

Certo, la civiltà picena fu guerriera. Lo attesta la copia delle armi recuperate. Gli elmi hanno parecchie varietà: l'elmo aulopida o corinzio; l'elmo greco a calotta sferica o carenata; l'elmo hallstattiano a cappello con tesa, talora piatta e larga. Essi sono sormontati da una Nike schematica, e sono talvolta giganteschi. Formidabile doveva apparire l'aspetto del guerriero. Tra le spade, anch'esse di bronzo, notevoli quelle dette ad antenne dalla forma dell'impugnatura, grandi talora come gli spadoni medievali, adoperati a due mani. Lance a cannone, pili quadrangolari e rotondi, sono comunissimi. Rara l'ascia, più rara la bipenne di ferro forse spettante ai capi. Frequenti i cosiddetti "rasoi" di bronzo o di ferro, lunati.

Straordinaria l'abbondanza e la varietà delle fibule: qualche tomba ne ha dato un centinaio. Ve ne hanno, di bronzo o di ferro, che raggiungono 40 cm. di lunghezza: esse dovevano servire soltanto nelle parate, o erano fabbricate per uso sepolcrale.

I vasi sovrabbondano nei corredi maschili. Quelli di ceramica si distinguono in due categorie: indigeni e importati. Tra i primi stanno quelli di bucchero nero o di terra rossastra, che per le fogge e le anse continuano la tradizione della produzione locale dell'età enea. Predominano le coppe con piede alto; le ollette coniche con bugnette; gli askoi; le tazze; i cantari; le kylikes; le oinochoai; gli skyphoi. Le anse sono spesso lunate, talora molto complesse, o con apici revoluti. Nel materiale importato si notano crateri pugliesi con bocca a imbuto; vasi protocorinzî e corinzî, kylikes e lekythoi del sec. V a. C.

Tombe femminili di Belmonte Piceno hanno restituito frammenti di stoffa con ornamenti metallici: spettano al pallio in cui il cadavere era ravvolto: vi erano cuciti a centinaia bottoni di bronzo, di vetro, di ambra, di avorio. Col capo adorno del diadema, col manto e con i pettorali di bronzo stracarichi d'ornamenti, le matrone dovevano avere aspetto fastoso.

Mentre larghe conoscenze emergono dall'indagine delle necropoli, scarse sono le notizie degli abitati. Meglio conosciute sono le capanne scoperte presso Urbino, a S. Marino, scavate con cura nel bisciaro in forma di cavità emisferica, col diametro di m. 2 e la profondità massima di m. 1,70. Dovevano avere intorno un muretto di grossi blocchi calcarei rozzamente squadrati per sorreggere il tetto. Non dovevano pertanto essere molto diverse da quelle neolitiche. Tracce di capanne, che invece dovevano essere erette a fior di terra, apparvero a Monteroberto e a Belmonte Piceno. La stazione di S. Marino è una "gradina", come altre indicate per le Marche, purtroppo non esplorate.

La cronologia ha dato luogo, come di solito, a controversie: riportiamo qui quella di recente proposta dal Dumitrescu, benché non esente anch'essa da riserve: sec. XI (?)-X: tracce sporadiche di Ascoli Piceno e dintorni; sec. IX: inizio delle necropoli di Fermo, Novilara-Molaroni, Ancona e Monteroberto; sec. VIII: sviluppo delle necropoli di Fermo, Novilara-Molaroni, Ancona, Monteroberto, inizio della necropoli di S. Costanzo; sec. VII: Fermo, Novilara-Servici, Ancona, S. Costanzo, Cupra Marittima, Atri-Colli della Giustizia, inizio delle necropoli di Numana, Belmonte, Offida, Spinetoli, Montegiorgio; sec. VI: Fermo, Novilara-Servici, Ancona, S. Costanzo, Cuprenses, Atri-Petrara, Belmonte Piceno, Numana, Tolentino, Offida, Spinetoli, Montegiorgio; sec. V: Belmonte, Numana, Cuprenses, Tolentino, Offida, Spinetoli, Atri-Petrara (?), Montegiorgio; sec. IV: Numana, Ancona (?).

Per la civiltà gallica, che ha lasciato tracce nel territorio da Pesaro ad Ancona, v. gallica, civiltà.

Bibl.: G. A. Colini, Scoperte archeol. del dott. C. Rosa, ecc., in Bull. Pal. Ital., 1906; U. Rellini, Osservazioni e ricerche su l'etnogr. preist. delle Marche, in Atti soc. d. naturalisti e matem. (XLV), Modena 1912; id., Nuove ricerche al Pianello di Genga e nella Gola del Sentino, in Not. sc., 1931; id., Le stazioni enee d. Marche di fase seriore e la civiltà italica, in Mem. Accad. Lincei, 1932; id., Ricerche stratigrafiche nell'abitato preistorico d. Pianello di Genga, in Bull. Associazione internaz. studi mediterranei, 1933; G. A. Colini, Necrop. d. Pianello di Genga e l'orig. della civ. del ferro in Italia, in Bull. Paletn. It., 1914; E. Brizio, Sepolcreto Gallico di Monteforteno (Staz. del per. neolitico), in Mon. Ant. Lincei, IX, 1899; id., Epoca preistorica, in Storia d'Italia, Milano 1898; id., La necrop. di Novilara presso Pesaro, in Mon. Ant. Lincei, 1895; P. Orsi, Ancora a proposito di una situla calcidese, in Bull. Paletn. It., 1913; V. Dumitrescu, L'età del ferro nel Piceno fino all'invas. dei Galli Senoni, Bucarest 1929; U. Rellini, Vestigia dell'età del ferro presso Urbino, in Bullett. Paletn. It., 1906.

Storia.

Il territorio della regione marchigiana, più esteso di quello presente, ebbe unità amministrativa fin dai tempi costantiniani, e forse anche prima, perché il Piceno e la Flaminia avevano un correttore comune. Durante le invasioni barbariche, questa unità venne a scindersi, a seconda del prevalere dell'uno o dell'altro degl'invasori. Questo non impedì ai Goti e poi ai Longobardi di occuparne, per un tempo più o meno lungo, alcune parti. Si tentò di ricomporre con la formazione delle due Pentapoli, di cui non conosciamo veramente la costituzione, ma sappiamo che erano soggette all'Impero d'Oriente e, per esso, all'esarcato di Ravenna. Parve che l'unità fosse di nuovo raggiunta quando Pipino e poi Carlo Magno, cacciati del tutto i Longobardi, ne fecero donazione alla Chiesa (752 e 774). Il carattere mistico religioso delle popolazioni marchigiane, che risale a origini antichissime (basta ricordare i Fana, i boschi sacri, le stipi votive e la tradizione sabellica, mai tramontata per tanto volgere di secoli), aveva trovato subito nuovo indirizzo nella religione cristiana, il quale fece sì che, durante l'oscuro periodo delle invasioni barbariche, i vescovi e le abbazie fossero quasi le sole autorità riconosciute dalle popolazioni e assommassero in sé anche i poteri civili. Alle abbazie specialmente si deve se le terre non rimasero incolte del tutto, perché, con le numerose dipendenze, castelli, corti e masse, avevano in mano pressoché tutte le popolazioni rurali. Questo prevalere delle autorità ecclesiastiche fu certamente una delle ragioni che indusse Pipino a farne donazione alla Chiesa, la quale però non poté avvalersene subito e costituire fino da allora uno stato che la rendesse effettiva.

Con i Longobardi infatti e con i Franchi, era sorto un altro elemento dissolvente, il feudalesimo. Succeduti ai Carolingi gl'imperatori di stirpe tedesca (961), comincia ad affacciarsi il nuovo nome di Marca dal germanico mark "confine", che sostituirà gli antichi. Pare che il primo ricordo del nuovo nome sia quello della Marca di Lamerino, avulsa dal territorio del ducato longobardo di Spoleto, col quale segnava il confine dell'autorità imperiale. Venne poi la Marca di Fermo, confine col regno meridionale, che si fuse poi con la Marca di Ancona quando anche questa, più o meno nominalmente, venne incorporata nell'impero. Oltre alle potenti famiglie feudali che venivano affermandosi, sorsero anche, a scalzare l'autorità dei vescovi e a menomare i possedimenti di essi e dei monasteri, i comuni. La storia dell'epoca comunale delle Marche non è abbastanza conosciuta, perché vennero dispersi quasi tutti i documenti relativi ad essa. Tuttavia gli studî del Filippini, del Luzzatto e di altri ci illuminano non poco su alcune fasi assai interessanti, quali le strette relazioni che si annodano fra esse e Venezia, e le lotte fra nobili e popolani. Particolare importanza, entro il cerchio dei minori comuni marchigiani, quali Fabriano, Matelica, Osimo, ecc., assunse Ancona, che ebbe una notevole attività levantina, tenne testa a Venezia, resisté vittoriosamente al Barbarossa. Dante, che descrisse i confini della regione "il paese che siede tra Romagna e quel di Carlo" e dell'unito Montefeltro "i monti intra Urbino e'l giogo di che Tever si disserra", ricordò cittadini illustri e fatti tragici marchigiani di quest'epoca che fu la sua. La vita religiosa ebbe allora nuovo alimento con la tradizione riguardante la Santa Casa di Loreto (v. loreto), con l'avvento del francescanesimo, con la diffusione locale delle famiglie religiose dei francescani e dei do. menicani, le quali ebbero larga parte nella vita artistica della regione dove sorsero grandiosi templi e conventi, e anche nell'amministrazione civile, perché, quasi dovunque, erano loro affidati molti uffici, fra cui la custodia dei più gelosi e importanti documenti dei comuni.

Contemporaneamente ai comuni, come abbiamo detto, si affermavano alcune grandi famiglie feudali, anche in virtù delle podesterie esercitate. La più antica è quella dei Montefeltto, che dalle povere e nude rocche dei suoi monti estese il proprio dominio a Gubbio, Urbino, Cagli e Fossombrone. I signori di Varano si fecero padroni di Camerino e di molti altri luoghi, ma con maggiori contrasti e quindi con minore durata. Di origine non marchigiana, ma molto vicina a quella dei Feltreschi, i Malatesta misero saldo piede nelle Marche e in un certo momento la loro preponderanza andava da Pesaro a Osimo, e anche Ancona venne tentata e posseduta, sebbene per breve tempo.

La S. Sede però non aveva mai rinunziato a esercitare il dominio che le derivava dalla donazione e mandava a intervalli i suoi legati che non tralasciavano occasione di riaffermare o ricordare tale diritto. Quindi lotte e accordi con l'autorità imperiale e con i comuni, con i feudatarî, con i signorotti che nel '200 e '300 anche nelle Marche pullulavano da tutte le parti e coi quali, spesso, si ricorse alla concessione del vicariato pontificio, perché rimanesse almeno salva la posizione giuridica della S. Sede. Ma a metà del '300 si ebbe, da parte dei papi, un grande sforzo di rivendicazione, in Romagna e nelle Marche, preludente al ritorno della S. Sede in Roma: e fu con la legazione del cardinale Egidio Albornoz. Egli riuscì a ricondurre alla diretta dipendenza della Chiesa città e castelli, togliendoli, quando fu poss. bile, a chi ne aveva usurpato il dominio o anche accordandosi con essi. Dell'Albornoz stato ecclesiastico, conosciuto col nome di Constitutiones Aegidianae, che egli fece approvare nel parlamento generale degli stati della Chiesa tenuto a Fano nel 1357. Così ebbero sanzione anche i dominî usurpati o tenuti dai feudatarî, che divennero vicarî della Chiesa. Contro questi però, e contro i comuni rimasti indipendenti, l'autorità pontificia continuò e proseguì più o meno alacremente, a seconda delle circostanze e profittando di tutte le occasioni, l'opera iniziata dall'Albornoz, finché riuscì a ristabilire dovunque la propria supremazia. Non mancarono per altro fenomeni passeggieri di nuove signorie, come quella di Francesco Sforza (1433-1444) che riuscì a padroneggiare quasi tutta la Marca; ma per breve tempo: solo a Pesaro poté affermarsi col fratello Alessandro e durare. Con la caduta dello Sforza, molte delle piccole signorie e dei comuni da lui acquistati tornarono alla Chiesa e nel 1463 anche Sigismondo Malatesta, dopo un lungo assedio dell'esercito ecclesiastico, perdette Fano, ultimo possedimento della sua famiglia nelle Marche. Ormai le istituzioni comunali e le piccole signorie non potevano durare più a lungo contro la pressione dello stato più grande che si veniva formando e che profittava appunto delle discordie e delle gelosie di esse per affermarsi sempre più saldamente. Agl'inizî del sec. XVI, Cesare Borgia, tentando più vasta impresa di quella di Francesco Sforza, non farà che agevolare l'opera accentratrice della Chiesa, togliendo di mezzo una quantità di altri piccoli signori, i cui dominî ricadranno ad essa, quando il Valentino dovrà troncare a mezzo l'opera iniziata. Poco dopo (1532), anche il comune di Ancona cade per opera del cardinale Benedetto Accolti; più tardi la signoria di Camerino deve cedere a Paolo III Farnese che ne forma un ducato per il nipote Ottavio, sinché nel 1545 Camerino passava alla diretta dipendenza della Chiesa. Così, alla metà circa del sec. XVI, non restava fuori del diretto dominio della Chiesa che il ducato di Urbino con Pesaro e Senigallia: ma anche questo nel 1631 tornerà alla Chiesa con l'estinguersi della dinastia dei Della Rovere.

Da allora, tutte le Marche divennero provincie dello stato ecclesiastico, che conservò le antiche divisioni territoriali, finché l'invasione francese diede luogo ad avvenimenti di varia natura, di cui alcuni possono riconoscersi effetto del fermentare delle nuove idee di libertà e di nazionalità che trovarono fautori e sostenitori specialmente nelle città, altri invece dello spirito religioso delle popolazioni rurali. Dopo il trattato di Tolentino (10 febbraio 1797), si proclama la repubblica in Ancona, cui fanno seguito Pesaro, Fano, Senigallia e Ascoli, aggregate poi tutte alla repubblica romana (1798-1799). Una violenta insurrezione rurale, appoggiata dalle armi austro-russo-turche, riesce a cacciare dalle Marche i Francesi che però le ricuperano poco dopo, così che vennero riunite (1808-1813) al primo regno d'Italia. Gioacchino Murat (1814-1815) nelle Marche concepì il famoso proclama di Rimini e pose il quartiere generale delle truppe che dovevano attuare il suo sogno troppo rapidamente tramontato con la sconfitta subita alla Rancia (5 maggio 1815). L'Austria vittoriosa restìtuisce le Marche al pontefice; ma il seme dell'unità era gettato e nel segreto della carboneria e delle cospirazioni fruttò tentativi generosi, ma vani, culminati nelle rivolte del 1831 e del 1848-1849 e in quelle parziali del 1859, finché, maturati i tempi, le truppe del regno subalpino le occuparono nel 1860.

Bibl.: A. Alessandrini, I fatti politici delle Marche dal gennaio 1859 al plebiscito, Ancona 1867 e Macerata 1910; Archivio storico marchigiano, diretto da C. Rosa, Ancona 1879; Archivio storico per le Marche e per l'Umbria, diretto da M. Santoni e G. Mazzatinti, Foligno 1884-89; Atti della Società storico-archeologica delle Marche in Fermo, Fermo 1877; Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le provincie delle Marche, Ancona 1895-1931; C. Ciavarini, Collezione di documenti storici antichi inediti ed editi rari delle città e terre marchigiane, ecc., Ancona 1870-1884; G. Colucci, Delle antichità picene, Fermo 1786-1797; P. Compagnoni, La Regia Picena, Macerata 1661; Costituzioni Egidiane dell'anno MCCCLVII, a cura di P. Sella, Roma 1912 (cfr. G. Ermini, I parlamenti nello stato della Chiesa anteriormente alle costituzioni egidiane, Roma 1931; F. Filippini, Il cardinale Egidio Albornoz, Roma 1933. V. anche albornoz); G. Finali, Le Marche: ricordanze del 1859, Ancona 1896; F. M. Gaspari, Lo stato geografico della Marca d'Ancona, Roma 1726; A. Gogna, Le Marche nella storia del Risorgimento d'Italia 1848-70, Macearta 1905; M. Leopardi, Series rectorum Marchiae Anconitanae, Recanati 1824; Le Marche illustrate nella storia, nelle lettere e nelle arti, Fano 1901-1905, Senigallia 1906; F. Pamphili, Picenum hoc est de Piceni quae Anconitana vulgo Marchia nominatur et nobilitate et laudibus, ecc., Macerata 1575; Il Raffaello, Urbino 1869-1882 e 1897; E. Ricci, Marche, Torino 1929; Rivista delle Marche e dell'Umbria, diretta da G. A. Gabrielli, Ancona 1865-1868; Rivista misena, diretta da A. Margutti, Senigallia 1878-1882; Nuova rivista misena, dir. da A. Anselmi, Arcevia 1888-1897; Rivista picena, Camerino 1882-1883; Rivista urbinate di scienze, lettere ed arti, Urbino 1868-1870; D. Spadoni, Sètte, cospirazioni e cospiratori nello stato pontificio all'indomani della restaurazione, Roma-Torino 1904; Studia picena, Fano 1925-1932; L. Valerio, Le Marche dal 15 settembre 1860 al 18 gennaio 1861, relazione al ministro dell'Interno, Milano 1861.

Folklore.

Cerimonie e riti vari per origini e caratteri, spesso risalenti a remoti culti agrarî, s'incontrano nelle feste popolari: tra questi, la "processione dei covoni e delle canestrelle" in onore della Vergine, a raccolto finito. A Ripatransone, nell'ottava di Pasqua, ha luogo il "cavallo di fuoco": un uomo con la faccia e il petto coperti di pelli e con un sellino di legno, da cui scoppiano razzi, sul dorso, si caccia nella folla in tumulto. A Monterubbiano, il "caccio della pica": un albero, fra i rami del quale è legato questo uccello, si porta in giro per l'abitato. Riti singolari si hanno nella ricorrenza dell'Ascensione: i fanciulli fanno la "corsa dei bacherozzoli" (scarabei), di cui ciascuno porta sul dorso un moccoletto acceso; i pellegrini che s'avviano sul monte di S. Polisia recano dei sassi: giunti alla sommità, li buttano nella gola omonima, tendendo l'orecchio a sentire il rumore del telaio d'oro della santa. Oggetti rituali sono nella solennità di S. Floriano (4 maggio) le campanelle di terracotta; in quella di S. Emidio (5 Agosto) i ceppi benedetti di basilico, che i devoti portano sul petto, al fianco, sull'orecchio, in mano, insieme con i lanternoni di carta; in quella di S. Ciriaco (4 maggio), i pezzetti di giunco che si distribuiscono nella chiesa ai fedeli. Non vanno dimenticati il "ballo dell'insegna" (v. danza, XII, p. 368) in onore di S. Fortunato a Faleronie; e il tatuaggio con i segni della Passione, l'immagine della Madonna ecc., in uso fra i visitatori della Santa Casa di Loreto.

Tra i riti nuziali, notevoli il trasporto sul carro della "camera della sposa" (corredo) e la "scampanata" (v. batterella) per i vedovi; tra quelli funebri, l'uso dei "piagnoni" che seguono il feretro.

Come nella Sicilia, anche nelle Marche si vedono i carretti dipinti e istoriati con figure sacre e profane; e sul mare, poi, grandi vele a tinte rosse e gialle e con emblemi simbolici.

La tradizione del popolo è ricca di canti di tutti i generi (lirici, epici agiografici, rituali come i Maggi e le Pasquelle, agresti come quelli della mietitura; intonati sia a solo (a vocetta), sia in coro a due (a batocco); e di leggende magiche, sacre, storiche, romanzesche e facete: Totila sconfitto, Guerino il Meschino, Orlando e i Paladini, Pilato, il Lago di Averno, la Sibilla, Cecco d'Ascoli, ecc. Numerose sono le leggende topiche, che si riferiscono alle impronte maravigliose di esseri soprannaturali.

Bibl.: C. Pigorini-Beri, Costumi e superstizioni dell'Appennino marchigiano, Città di Castello 1889; L. Mannocchi, Feste, costumanze, superstizioni del circondario di Fermo, Fermo 1921; D. Spadoni, Alcune costumanze e curiosità storiche marchigiane, Palermo 1899; G. Vitaletti, Dolce terra di Marca, Milano s.a.; Catalogo della mostra di etnografia italiana, Bergamo 1911.

Dialetti.

Sul territorio marchigiano, lungo e stretto, fra il monte e il mare, non è parlato un solo dialetto, ma tre varietà dialettali per lo meno: una centrale, diffusa in gran parte delle provincie di Ancona e Macerata e in un tratto di quella di Ascoli, una settentrionale (gallo-piceno), propaggine del romagnolo, e una meridionale (prov. di Ascoli), propaggine dell'abruzzese. Stante il graduale attenuarsi dei caratteri così dei dialetti abruzzesi come dei romagnoli, a mano a mano che essi s'inoltrano verso il centro della regione, sì può parlare, ancorché con poca precisione, di un fondamentale dialetto marchigiano, del quale, peraltro, non è agevole fissare le caratteristiche peculiari.

Fonetica. - Vocalismo. - La metafonesi esercita la sua azione su tutto il territorio, ma in grado diverso e con diverse manifestazioni; più fievole, nei dialetti settentrionali. In buona parte della prov. di Ancona opera solo per -i su é??? e ọ???, ma per -i e -u su ê e ó???; per -i e -u in ogni caso, quasi in tutto il resto della regione.

Il vocalismo giunge a esiti diversi, secondo che si tratti di dialetti settentrionali, centrali o meridionali.

é???. Esito odierno, fondamentale, é???, che, però, giunge ad ei (reite, neive) a Monteprandone, ad ai (naira, maila) a Montalto, ad oi (roine, soite) a Force, e ad a (male, pare) a Campofilone.

ó???. Esito fondamentale ó???, che suona ó??? a Porto S. Giorgio (òre, fiòre, cròce), é??? a Pedaso e Cupra Marittima (créce, fiére, ghérbe "volpe"), a a Grottammare (sale, vace, name).

ê. Esito fondamentale ê, che si allarga ad à a Porto S. Giorgio (ba "bene", prago, tampo), si scioglie in ei a Grottammare (deice, teipede), in ai a S. Benedetto (daice, taine), e si stringe ad é??? a Pedaso, Cupra Marittima, ecc. (, , ).

ó??? suona ó???, meno che a Porto S. Giorgio e a S. Benedetto, ove s'incammina verso a, cui giunge a Grottammare (bave, care, marte).

á conserva generalmente il suono, ma si restringe ad ä nel mezzogiorno (gätte), ad ǫ in Grottammare (lo, quo, more), come giunge ad ę nel territorio gallo-piceno (ospedèl, "fare", caschèd, e anche sènta, quèlca, ecc.).

i (da ī) si conserva; ma suona é??? in fmali dei gallo-piceni (, ché, acsé), e ei o ij in dialetti meridional;

u (da ū) pure si conserva; ma passa ad ó??? (, pió, virtó) nei gallopiceni, e ad ou a Grottammare (louce, moure, fouma).

Le vocali atone cadono frequentemente se postoniche, e anche se protoniche, nei dialetti gallo-piceni; si modificano invece variamente in altri territori. Caratteristiche sono le riduzioni assimilate di proparossitoni, prevalenti nell'ascolano: tombela, popele, nuvela (pl. nuvele), vescheve (pl. vischeve), di fronte ai maceratesi populu, vescuvu, sorece (pl. surici); solutu, soliti, solata, solete; arnaca, femmana; arburu, arbiri, ecculu, ecchili, ecc. A Campofilone: cirisciu, cirisci di fronte a cerescia.

Le finali cadono nei dialetti gallo-piceni, tranne quando le preceda vocale o sonante, nel qual caso scadono a ə (sanguə, diavlə); l'-a invece scade sempre a ə. L'esito -u, di non sicura identificazione, caratterizza un forte gruppo di dialetti centro-meridionali delle provincie di Macerata, Ascoli e Ancona (zittu; issu). Notevoli certe concordanze desinenziali antiche: reformagiuni facti; milli anni; aviti diti "avete detto", ecc.

Consonantismo. - j, del pari che ge, gi, dj, nei dialetti meridionali suona j (jonta, jovene, jente, jurne), anche se interno (leje, imajene); nel maceratese e nel fermano gghj (gghió, gghioenotti; ogghi, piogghia); nei centrali e nei gallo-piceni ǵ (già, gioentù).

lj e llj passano a j, quasi dappertutto e in tutti i casi, ma non senza qualche deviazione (ascol. megghje).

l ora scompare (atro, muto, ota), ora passa a r (cargiu, farge; ardu, murdu) con digradamento della sorda seguente; ora ad n (antro, monto); ora raggiunge altre risultanze (Ascoli: addre, vodda; dogge, fagge); oćću e ćäve di Porto S. Giorgio (da oclu, clave) sono isolati. Ben note le assimilazioni ld in ll (callo, callaro) e di nl in nn (n nibbro "un libro", n ninzuolo "un lenzuolo"), che sono analoghe a quelle di mb e nv in mm (commatte, mmidia, mmece "in vece"), di nd in nn (granne, comanno). Si noti anche la digradazione di nc a ng (biango, mango, polanga).

s. È sorda sempre, meno nei gallo-piceni; passa a sc, quando è seguita da vocale sottile (scì, sciguro); ha suono schiacciato nel sanginesino (acquisctu).

r. Sporadicamente passa a l (almae "ormai", scialpa, svaliata), cade nei gallo-piceni ć'vèa, foltèa (da lat. -aria).

t. Cade nei participî passati del cingolano (magnàu), del camerinese (venùi), del sansev. (gastigào); digrada nello iesino (udo, dide, stado), come nell'antico (aiudà, vertude).

Allo stesso modo la gutturale, che cade nel grottam. (neò da necar), nell'ascol. (fatià), nel fabr. (bottìa, sbrià), digrada nello ies. (amigo, giogà, salvadigo), e a S. Benedetto scompare (la abbia, la rotta, la atta), se iniziale preceduta da articolo.

Nei dialetti gallo-piceni le continue ed esplosive amano geminarsi, se postoniche, scempiarsi, se protoniche; nei proparassitoni degli altri dialetti la consonante immediatamente successiva all'accento si gemina. In Ancona si sdoppiano le geminate, mentre nella sua campagna si geminano le scempie. La r si sdoppia per lo meno da Macerata al confine dei gallo-piceni.

Morfologia. - Articolo. - Si riduce a l nell'arcev. (ma riman lo davanti a r: lo ruoso "il rosmarino", lo rosario); da el antico passa a er nel fabr., ecc. A Cingoli, Serra S. Quirico, ecc., e, u, a; a Recanati, Apiro, ecc., ro, ru, ra.

Nome. - Molti plurali in -a (prata, molina); molti gli antichi in -ora (pràtora, àcora); qualche nominativo (peco, rèdeta).

Grande ricchezza e varietà di suffissi tonici e atoni.

Numerali. - Antico: taddoe "tutt'e due"; odierno dammidò "ambedue"; treni masch., trene femm.; sia "sei" è di tutte le Marche.

Pronomi. - Personali antichi: eo, ejo, je, jeje; meve, teve; odierno nu, nua; vu, vua; lue, lia, lora (ancon. lori). Nel sangin. pensolu, dormilu "egli pensò, dormì".

Possessivi. - Mia, tua, sua d'ogni genere e numero. Comuni i tipi pàtremo, sòrema, fràteto, nònneso.

Dimostrativi: tustue, -ia, -ora "cotestui"; quesso, -a "codesto"; sto, sta; llu lla "quello-a", del fermano, ecc., più gli esiti abruzzesi dell'ascolano, e gallo-piceno del pesarese. Memorabile altrei femm. di "altrui" in rima nel v. 47 della canzone di Messer Osmano.

Indefiniti. - Arcev. chieja, calchieglia; chinca; grantanto "molto"; quèlle "qualche cosa", anniquèlle "ogni cosa".

Verbo. - La coniugazione è ricchissima di forme sia etimologiche sia analogiche. Notevoli soprattutto le prime pl. in -a: chiamama, potema, vulima; chiamamma, ecc., chiamarema, ecc.; gl'infiniti gallo-piceni in -a (veda, cora, resista); le forme fujà, fuggià, fugghià, che non escludono fugge; lo scambio, nei dialetti meridionali, degli ausiliari essere e avere; l'imperativo arcev. esse "sii", il cong. scito sia"; ei e i "sei" (lat. es), di Mogliano, Cingoli, ecc.

Avverbî. - Caratteristici: gli antichi janata (enata, anata, gianata, janajanata) "ora"; nuntostu "subito, in un tosto"; assea "ora"; i moderni pesso, appesso (puissu, ecc.) "dopo, dietro" (lat. apud ipsu-); daséché "da quando"; ecco "qui", esso "costì", ello "lì" e gl'innumerevoli derivati (miecco, miesso, miello; mecchì, mellì, ecc.); e poi micquà, millà ecc., tulì, tulà, ecc., tucht, tuquà, ecc., i corrispondenti in -itta (chitta, litta, macchitta, malitta, ecc.), e cento altre forme analoghe; collì "perché" (propriamente "che vuol dire"); a tumelae "alla buona"; rastune, raastune "a zonzo"; vista la presente "subito", ecc., di chiara formazione.

Preposizioni. - Int, nte, ntù (ntet ntul, ntela, ecc.), di tutto il territorio marchigiano; m e me, ora prefisso (m'a me, mecquì, ecc.), ora preposizione (me lu pettu): ristretto, nel primo uso, al territorio gallo-piceno, nel secondo esteso sino a Macerata, Camerino, ecc.; sa "con", dai gallo-piceni sino ad Ancona e oltre Osimo.

Sintassi. - La 3ª persona singolare è usata sempre anche per la 3ª plur.; al complemento oggetto di persona viene premessa la preposizione a (chiamà a uno). Frequenti le locuzioni l'omo dice, l'omo fa per "uno dice, fa"; e anche dice per "si dice". Discordanze ancora in uso: maledetto le spie! quant'è vero i sante.

Bibl.: Oltre le opere di carattere generale: G. I. Ascoli, Arch. gl., II, pp. 444 segg., e VIII, p. 117; W. Meyer-Lübke, Italienische Grammatik, Lipsia 1890; G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1916; F. D'Ovidio e W. Meyer-Lübke, Die italienische Sprache, nel Grundriss del Gröber e la Crestomazia di E. Monaci, sono da vedere: A. Neumann von Spallart, Lur Chaarakteristik des Dialektes der Marche, in Zeitschrift für romanische Philologie, XXVIII, e Weitere Beiträge zur Charakteristik des Dial. der Marche, in Beihelfte z. Zeitschrift für rom. Phil., XI (1907); G. Crocioni, Lo studio sul dialetto marchigiano di A. Neumann-Spallart, in Studj romanzi, III; id., Il dialetto di Arcevia, Roma 1906; id., l'Intervenuta ridicolosa, commedia in dialetto di Cingoli (1606), con uno studio sul dialetto, in Studi di filol. romanza, IX; R. Gatti, Il dialetto di Iesi, Halle 1910; G. Malagoli, Dialettologia marchigiana, in Marche, n. s., IX (1910).

Mancando ancora un vocabolario che abbracci tutti i dial. marchigiani, si vedano la Raccolta di voci romane e marchiane (Osimo 1768, rist. Roma 1932); il Vocabolario metaurense di E. Conti, Cagli 1898; il Vocabolarietto anconitano-italiano di L. Sotti (Ginevra 1929), e il lessico nel Dial. di Arcevia di G. Crocioni, pp. 67-104.

Letteratura dialettale.

Dopo la letteratura in volgare, dalle origini al'400, ricca e importante, dopo la popolareggiante, fiorita sino oltre il'500, nella quale si segnalarono, fra tanti altri, Benedetto da Cingoli detto il Piceno, e Baldassarre degli Alessandri da Sassoferrato detto Olimpo, i cui scritti numerosissimi e spesso geniali, ininterrottamente ristampati, fino a pochi decennî fa circolavano ancora tra il popolo, ebbe inizio, intorno al '300, la poesia dialettale, non più interrotta e oggi in grande fioritura. Prologhi, intermezzi e commedie di Fr. D. Borrocci, di Macerata (secoli XVI-XVII), ottave, in dialetto di Macerata e Cingoli, in lode di belle donne, alla maniera della Nencia da Barberino e della Beca di Dicomano, conchiuse con un poemetto (Ghiorghietta) in dialetto di Camerino (sec. XVIII), un'anonima commedia, La Renza, in dialetto di Urbino (secolo XVII), egloghe e intermezzi di Francesco Cesari in dialetto di Arcevia (sec. XVIII), due vigorosi dialoghi di Vittorio Tamburini, in dialetto di Mogliano (fine del sec. XVIII o principio del XIX), rime diverse di Fr. Saverio Bernetti di Fermo (morto nel 1802), sono i componimenti più notevoli anteriori all'800; intorno alla metà di quel secolo alcuni poeti pregevolissimi (Germano Sassaroli di Filottrano, G. B. Ripamonti di Mogliano, G. Mancioli di Macerata, G. B. Tamanti di Fermo) trattarono con spirito diverso e anche contrario fatti e personaggi del Risorgimento.

Nella seconda metà dell'800 si segnalarono Alfonso Leopardi di Caldarola, arguto e originale, il conte Augusto Mazzagalli, di Recanati, felice rappresentatore di popolani, Angelo Borgianelli Spina di Monte Lupone, assai fecondo; Filippo Pio Massi di S. Elpidio, fecondo ma non sempre limpido, Giacomo Magagnini di Iesi, lepidissimo, il conte Luigi Nardini di Urbino, assai vario, Giulio Grimaldi di Fano, più arguto e geniale di tutti; e Odoardo Giansanti di Pesaro (Pasqualon), diverso da tutti, perché popolaresco e non di scuola, assai fecondo.

Tra i viventi, numerosissimi, vanno ricordati Bice Piacentini di S. Benedetto del Tronto, concettosa e geniale, Duilio Scandali di Ancona, fecondo, vario e compiuto, seguito da Palermo Giangiacomi, pure di Ancona, gustoso e interessante, Mario Affede, di Macerata, intuitivo e sentimentale, Giuseppe Procaccini, di Corridonia, assai fecondo, Vincenzo Boldrini, di Matelica, affettuoso e scherzoso, Costantino Costantini, di Osimo, originale ma un po' ermetico, Benedetto Barbalarga, pure di Osimo, arguto e concettoso, Luigi Mannocchi di Petritoli, pungente, assai esperto di folklore, Elia Bonci di Cupramontana, affettuoso e bonario, Vincenzo Belli, di Amandola, spontaneo e veristico, Francesco Bonelli, di Montegallo, piuttosto lirico, Luigi Capogrossi Colognesi, di Cupramontana, assai lepido, e molti altri.

Nota precipua della poesia dialettale marchigiana, ora nella sua massima fioritura, lo scherzo e la satira; frequenti tuttavia le espressioni dei sentimenti più varî e più nobili.

Bibl.: G. Crocioni, La poesia dialettale marchigiana, I, Saggio storico-critico, con bibliografia e con testi dialettali sino a tutto il sec. XVIII; II, I poeti dei secoli XIX e XX, con note, bibliografie e lessico, Fabriano 1934.

Arte.

Resti d'un edificio greco, in cui si deve probabilmente riconoscere il tempio di Venere Euplea, sono stati rinvenuti di recente ad Ancona sotto la cattedrale di S. Ciriaco. Questi e i numerosi vasi greci dati dalle necropoli di Ancona, Numana, Belmonte, ecc. sono la testimonianza dei rapporti politici e commerciali fra le Marche e il mondo ellenico. Più copiosi sono i monumenti romani. Gruppi cospicui di rovine sono quelli di Urbisaglia e di Falerone, l'antica Faleria o Falerio Picenus, della quale rimangono il teatro, l'anfiteatro, le terme, oltre a iscrizioni, sculture, ecc.; altri gruppi meno notevoli si hanno a Ostra Vetere (antica Ostra), nei pressi di Macerata (antica Helvia Recina), e di Porto Recanati (antica Potentia). Tra i monumenti isolati tengono il primo posto l'arco di Traiano ad Ancona e quello di Augusto a Fano; si possono ricordare poi le grandi sostruzioni, forse del Campidoglio, il cosiddetto tempio di Vesta e la Porta Gemina ad Ascoli, le mura di Osimo, l'anfiteatro di Ancona e quello dell'antica Suasa presso Castelleone di Suasa. Di opere stradali, che in ogni regione sono tra le più insigni lasciate dai Romani, le Marche vantano il traforo del Passo del Furlo, i ponti sul Metauro, presso Fossombrone, di Traiano e di Diocleziano, quello detto Marmone, restaurato da Augusto, presso Pioraco, quelli di Ascoli, ecc.

Le Marche hanno notevole importanza nel quadro dell'arte italiana, benché non presentino un proprio, organico svolgimento artistico e non abbiano grandi centri di creazione e d'irradiamento.

Furono aperte a svariate correnti, all'importazione di opere d'ogni provenienza, anche d'oltralpe e d'oltremare, e questo, se conferisce una mirabile varietà e ricchezza al loro patrimonio artistico, contamina e sopraffà l'opera locale, per modo che soltanto i temperamenti meglio dotati riescono ad affrancarsi da ogni imitazione, o almeno a mantenere, sotto il suo gravame, qualche lineamento della loro personalità. Ma nell'architettura romanica, nella pittura dei secoli XIV e XV, nelle opere militari, per ricordare soltanto i movimenti di più ampia linea, le Marche ebbero un'attività la cui conoscenza e valutazione, insieme a quella di numerose manifestazioni isolate, sono indispensabili per intendere e definire compiutamente la fisionomia dell'arte italiana. Alla quale esse diedero talune tra le figure sovrane che segnano i culmini della sua potenza, da Gentile da Fabriano a Bramante, a Raffaello.

Nel periodo paleo-cristiano l'arte segue, come dovunque in Italia, gl'impulsi che vengono da Roma, da Bisanzio, da Ravenna e dai minori centri orientali. Le opere superstiti sono, però, poche, e staccate le une dalle altre, come fogli dispersi d'un grande libro. La manifestazione più ricca è rappresentata dai sarcofagi, nei quali i due indirizzi principali, romano e bizantino, si rispecchiano in varie forme, in varî schemi figurativi (sarcofagi nel duomo d'Ancona, in S. Francesco di Urbino, nel duomo di Fermo, in S. Catervo di Tolentino, nel duomo di Osimo, ecc.).

L'architettura non ha di sicuro che gli elementi costruttivi scoperti sotto S. Maria della Piazza ad Ancona, riferibili a una Chiesa del sec. V rifabbricata nel sec. VI. Questa chiesa, caratteristica soprattutto per grandiosità di forme e per la planimetria a tre navi e a due absidi, è anche interessante per i litostrati frammentarî che l'adornano. Quelli che appartengono alla prima fase della fabbrica si ricollegano alla tradizione classica, e sono più fini nella tecnica di quelli sovrapposti circa un secolo dopo, a piccole tessere, con effetti coloristici brillanti, secondo schemi che si riscontrano in certi mosaici di Aquileia. Al medesimo dominio artistico fanno capo i motivi e la colorazione del litostrato del sec. VI, all'ambito cioè artistico di Ravenna, con molti partiti di provenienza romana, però in modulazioni proprie dell'arte bizantina; ma la tecnica a grosse tessere è meno elegante, la colorazione meno brillante che nei pannelli del sec. V. Più importante è il mosaico, anch'esso frammentario, probabilmente di un oratorio domestico del sec. JII, esistente in Ancona, che è anche la più antica testimonianza sicura dell'arte cristiana nella regione: esprime la simbolica figura della vigna in un armonioso giuoco tricromico. Classificata variamente fra il sec. IV e il VI, ma più probabilmente del VI, è una pisside eburnea conservata nel duomo di Pesaro con figurazioni sacre.

L'arte barbarica ha lasciato notevoli testimonianze. Del periodo dei Goti si sono rinvenute eleganti fibule argentee a Fano, presso Ascoli Piceno, ec.; ma anche più importanti sono i segni della civiltà longobarda quali si presentavano nella necropoli di Castel Trosino presso Ascoli Piceno, che ha dato armi, fibule, puntali, astucci, placchette in bronzo, in argento e in oro, spille, orecchini, collane, anelli, pettini, ecc. conservati per la maggior parte nel Museo delle Terme a Roma. E, infine, si ha il palinsesto pittorico che decora l'abside dal lato dell'epistola nella chiesa inferiore di S. Maria ad Ancona, cioè un triplice strato di pitture, che vanno dal sec. VII al X.

Durante il periodo romanico le Marche spiegano un' attività artistica assai più cospicua. Le maggiori affermazioni si hanno nell'architettura. Entro il comune indirizzo lombardo e i frequenti larghi innesti bizantini, si nota mirabile varietà e rarità di piante, di alzati, di schemi decorativi che attestano spiccata genialità di derivazioni e di adattamenti.

Del sec. IX si hanno pochi monumenti e alterati: forse la Pieve di San Leo, specie nella zona absidale, benché s'inclini ora a riportarla al sec. XI, S. Croce all'Ete, S. Marone a Porto Civitanova nei rari elementi superstiti. Ma assai più cospicui sono i monumenti del sec. XI. Si rilevano segnatamente la chiesa di S. Maria in Portonuovo, presso Ancona, datata documentalmente intorno al 1050, in uno schema planimetrico cruciforme di derivazione bizantina, ma in una versione singolare; S. Vittore di Chiusi, attribuita anche al sec. X, su schema centrale, con torre cilindrica scalare. Imitazioni segnate di vario accento di questo tipo si hanno nella chiesa della Moie presso Maiolati (fine sec. XII), che ebbe innesti gotici, in S. Croce di Sassoferrato, e in S. Claudio al Chienti, presso Macerata, datata anche al sec. VI, ma più probabilmente del XII. Di tale periodo vanno ricordate anche le absidi e la cripta dell'abbazia di Rambona, e S. Angelo a Montespino (secoli XI-XII). Già con talune fra le opere di questo gruppo si entra nel sec. XII, il quale offre insigni monumenti. Puramente lombardo è il battistero di Ascoli Piceno, ragionevolmente da ritenersi del sec. XII, di pianta cubica nel corpo inferiore, che si trasforma in ottagona in quello superiore. Al sec. XII si possono anche assegnare S. Maria a piè di Chienti presso Porto Civitanova, che consta di due corpi sovrapposti, entrambi con deambulatorio, l'inferiore con cappelle a raggiera: due disposizioni nuove nell'architettura della regione; e la facciata del duomo di Fano, originariamente romanica, poi rimaneggiata secondo i modi gotici, e di recente troppo largamente ripristinata e rinnovata. Fra il sec. XII e il XIII sono da classificare i monumenti romanici anconitani, in cui si riflettono vivamente tendenze bizantine: la facciata di S. Maria della Piazza in uno schema a filari di arcatelle cieche, che prelude al duomo di Zara; la cattedrale, a croce greca, con cupola bizantina in cui già s'avvertono i modi gotici: i quali trionfano nel grande protiro d'ingresso. Caratteristico è il gruppo delle chiese ascolane costruite in travertino, che rispecchiano modi abruzzesi con facciata a coronamento orizzontale, cupola poligonale, abside curvilinea all'interno e poligona all'estemo, presbiterio appena rialzato. Infine, v'ha il gruppo di chiese in cui al romanico s'innesta il gotico: il duomo di San Leo; la chiesa di S. Vincenzo al Furlo, con alta tribuna e cripta; il duomo di Osimo, in cui si avvertono riflessi pugliesi; la badia di S. Urbano, con tribuna chiusa in modo da sottrarre alla vista il rito.

Notevoli manifestazioni ha pure l'edilizia civile: soprattutto l'Arengo e il Palazzetto detto a torto longobardo ad Ascoli, Piceno, il Palazzo del Senato ad Ancona, l'imponente Palazzo della Ragione a Fano, analogo a quello di Piacenza, la Fontana di Piazza a Fabriano derivata dal modello perugino eretto dai Pisani.

La scultura si muove anch'essa tra l'influsso lombardo e quello bizantino: sulla prima direttiva sono i rilievi dell'arcivescovado di Fano e del palazzo comunale di Ancona, sull'altra, più significativa, l'Orante di S. Maria della Piazza ad Ancona, pura opera bizantina del sec. XII, evidentemente d'importazione, come la Madonna reliquiario di Limoges nel Tesoro loretano, e vi s'accenna fin da ora quel filone di statuaria lignea (Madonne di Visso, di Fematre di Visso), che sarà più largamente sviluppato nei periodi posteriori.

Nella pittura pochi esempî si colgono con spiccati caratteri locali, in cui prevalgono modi bizantini. Forse il saggio più antico è da indicarsi nell'affresco di S. Decenzio a Pesaro (sec. X), ma i cicli più rappresentativi sono quelli di S. Vittore ad Ascoli Piceno e di S. Agostino a Fabriano, questo distaccato e conservato nella Pinacoteca civica di Fabriano (sec. XIII). Va notata una serie di crocifissi (Fabriano, pinacoteca; Ancona, duomo) e di iconi (Mercatello, collegiata, secoli XI-XII; Camerino, S. Maria in Via, sec. XIII; Fermo, duomo, secoli XIII-XIV).

Le arti minori si affermano con le tarsie marmoree del duomo di Ancona appartenenti a due plutei diversi (1148-78 circa e 1189, questo opera di un maestro Leonardo) che hanno figure di animali affrontati derivate da stoffe orientali, e immagini sacre, opere di tendenza bizantina, di mirabile sentimento decorativo, capolavoro della tarsia romanica. Notevoli altresì le tarsie del duomo di Ascoli (sec. XII). Cospicui esemplari vanta l'arte del metallo: la lastra con la figura di S. Leopardo nel duomo di Osimo (sec. X), la stauroteca in argento dorato di Urbino (sec. XII) con le immagini di Costantino e di Elena, taluni avorî del museo di Pesaro, ecc.

Anche più rilevante si presenta il periodo gotico, specie per le opere che lo concludono. S. Maria di Castagnola a Chiaravalle è uno dei primi monumenti ogivali d' Italia, se va datato 1172, secondo un'iscrizione S. Francesco di Ascoli (in gran parte del secolo XIV) è notevole all'esterno per i portali in facciata di tipo veneziano e per la scenografia delle absidi e delle torri poligonali, all'interno per il disegno ottagono del coro con cappelle laterali a matronei; e la corrente veneziana si riaffaccia nei portali di S. Domenico (1395) e di S. Agostino (1413) a Pesaro, divenendo dal sec. XIV una delle più forti che dominano nelle Marche, specie nelle località litoranee e nelle loro immediate vicinanze. Dell'architettura civile sono degne testimonianze il Palazzo della Farina (1270 circa) ad Ancona, sul tipo dei palazzi umbri, il Palazzo malatestiano di Fano (1421), con eleganti bifore. Il gotico fiammeggiante si afferma splendidamente in Ancona con le fabbriche di Giorgio Orsini da Sebenico: la Loggia dei mercanti (1451-59), il portale di S. Francesco delle Scale (1459), quello di S. Agostino (cominciato nel 1460 e terminato da altri nel 1493). In esso l'azione veneziana è così travolgente che anche un artista fiorentino, Nanni di Bartolo, costruisce nel 1435 secondo schemi lagunari il portale della basilica di S. Nicola a Tolentino. Molti e considerevoli sono gli avanzi di architettura militare del periodo gotico. Parecchie località hanno conservato elementi dei recinti murati (Iesi, Fermo, Gradara). Per le rocche si risale da quella elementare di Porto Recanati (secoli XIII-XIV), a quella di Porto San Giorgio, alla rocca di Montefiore con enorme mastio preesistente (fine sec. XIII), al Castello della Rancia presso Tolentino (secoli XIII-XIV), alla rocca di Arquata del Tronto, fino a quella di Gradara, in cui le torri agguagliate alle cortine, salvo il mastio, che anche in questo caso rappresenta una fase precedente della fabbrica, preludono alla fortificazione di transito, della quale è in sostanza un primo aspetto la rocca di Acquaviva Picena (secoli XIV-XV).

Nella scultura due indirizzi si affermano: toscano e veneziano, mentre scarsa importanza ha la tradizione lombarda, che dominava il periodo precedente, e vi si accenna appena l'umbra. Per la corrente veneziana si può citare il monumento al conte Antonio, già nel chiostro della chiesa di S. Francesco, ora nel palazzo ducale di Urbino, e il monumento a Paola Bianca Malatesta (circa 1413) in S. Francesco a Fano; per quella toscana, la nobile statua lignea della Madonna col Bambino in S. Biagio di Caprile (Fabriano).

La pittura si presenta in molteplicità di aspetti. Le Marche custodiscono uno dei capisaldi della grande corrente riminese: gli affreschi nella basilica di S. Nicola a Tolentino, opera di Giovanni Baronzio e aiuti, del quale hanno altresì le sole opere firmate e datate che si conoscano, cioè il polittico della Galleria di Urbino (1343) e il crocifisso di Mercatello (1344). Il solo dipinto certo di Pietro da Rimini è il crocifisso di Urbania, e fino al 1907 le Marche conservarono anche la sola opera fimata di Giuliano da Rimini, poi passata nella Galleria Gardner a Boston, per tacere di tanti altri documenti minori di quest'indirizzo che si svolge rigoglioso accanto a quello giottesco rappresentato dagli affreschi potentemente drammatici di S. Biagio in Caprile.

Mentre quest'indirizzo si va esaurendo, si afferma pure, avendo origini precedenti, la prima scuola pittorica locale, quella fabrianese, specie con Allegretto Nuzi, che fa suoi elementi fiorentini e senesi e ha una chiara impronta nel tipo umano e nell'organismo coloristico, nella notazione del sentimento e nei valori lineari. Altre correnti striano il campo della pittura nelle Marche durante questo periodo: quella bolognese, impersonata specie da Andrea da Bologna, che sbocca negli affreschi della cripta di S. Maria della Rocca a Offida; la senese con Andrea di Bartolo e Luca di Tommè; la veneziana che si avverte da Pesaro a Recanati a Matelica, in un magnifico variato dispiegamento.

Ugualmente ricche e varie sono le opere, anche d'importazione, che rappresentano le arti minori. I rari vetri a oro graffiti del duomo di Recanati, il rarissimo vessillo navale bizantino della Galleria di Urbino, la cassetta arabo-sicula di Sanseverino, il piviale di opus anglicanum della pinacoteca di Ascoli, e avorî francesi, intagli in legno, una serie di lavori in metallo, dal paliotto argenteo del duomo al reliquiario di S. Pietro Martire ad Ascoli, ai reliquiarî fiamminghi di Sassoferrato; le Ceramiche del chiostro di S. Nicola a Tolentino; le cornici lussureggianti negli splendori del gotico fiorito, attestano quanto elette fossero le forze artistiche operanti nella regione in questo periodo.

Durante il Rinascimento le Marche espressero a pieno le loro facoltà artistiche, mentre chiamarono a sé maestri di altre regioni, tra i più insigni. I nuovi ideali dell'architettura si affermano a Urbino abbastanza presto col grandioso portale (1449-51) addossato da Tommaso di Bartolomeo alla facciata della gotica chiesa di S. Domenico, e più largamente con l'opera di Luciano Laurana di Zara, che crea nel palazzo ducale, inglobando fabbriche precedenti, un organismo costruttivo di adamantina purità, regolato da una sovrana legge d'armonia. La risonanza dell'opera stupenda si diffonde per tutta la regione, che rispecchia le forme urbinati in numerose fabbriche, mostrando cosi che è in grado di intendere e interpretare un'alta parola. Da questo ceppo discende Bramante, il quale riecheggia in tante sue fabbriche la mole urbinate. Il Laurana si eleva anche straordinariamente nell'architettura militare con la Rocca di Pesaro. Artisti toscani lavorarono alla basilica di Loreto, che ebbe la cupola da Giuliano da Sangallo; e al Palazzo apostolico. Una viva corrente senese s'afferma con Francesco di Giorgio Martini, che eleva a Iesi il Palazzo della Signoria, e innalza rocche a Mondavio, a Mondolfo, a Cagli, a Tavoleto a Sasso Feltrio, alla Serra S. Abbondio, a Sassocorvaro, e forse a San Leo, precorrendo il tracciato moderno delle fronti bastionate.

L'attribuzione della Loggia dei mercanti di Macerata a Giuliano da Maiano sta a dimostrare l'eccellenza della fabbrica, che risulta, invece, di costruttori indigeni, e attesta, al pari del santuario di Macereto, della chiesa delle Vergini presso Macerata, e di altre fabbriche, come la regione fosse sensibile al nuovo verbo.

Nel momento di preparazione al barocco, accanto a Pellegrino Ferretti ad Ancona, troviamo l'urbinate Girolamo Genga, che col secondo corpo dell'Imperiale presso Pesaro eleva la prima villa moderna, mirabilmente fondendola alla natura circostante.

L'architettura militare, oltre alle rocche cui s'è accennato e ad altre molto notevoli, dalla Malatestiana di Fano a quelle di Offagna e di Senigallia, ha recinti murati caratteristici, come quelli di Castel d'Emilio, presso Ancona, di Loreto, di Urbino, cominciato questo nel 1507, forse il primo recinto bastionato, per modo che le Marche annunciano e realizzano la grande riforma dell'architettura militare moderna.

Meno importante la scultura, ma pur varia di tendenze, avvivata da opere egregie, con vivace apporto locale. La corrente dalmato-veneziana ha le opere di Giorgio Orsini, che si possono considerare in certo modo aderenti allo spirito del Rinascimento, oltre a una serie di opere minori su cui emergono il monumento Ferretti (duomo e museo di Ancona) e il monumento Giannelli ad Ancona (duomo) di Giovanni Dalmata. Essa non è esente da contributi locali. Meno significativo è il filone lombardo, che s'accentra ad Urbino nel Palazzo Ducale ad opera di Ambrogio Barocci e, forse, di Gian Cristoforo Romano. Più importante di tutti è l'indirizzo toscano, che ha impulsi diversi, da Domenico Rosselli e da Francesco di Simone Ferrucci, i quali lavorano nella reggia urbinate (a Montefiorentino sono di Francesco i due monumenti sepolcrali dei conti Oliva), a Benedetto da Maiano, che opera accanto al fratello nella basilica di Loreto. Notevole derivazione locale è il bassorilievo con l'Annunciazione nel Museo civico di Fossombrone. Un gruppo a sé costituiscono le maioliche robbiane: di Luca nel portale di S. Domenico a Urbino; di Andrea nella Rocca di Gradara, di Giovanni nell'altare di Arcevia, per tacere dei minori. La tradizione fiorentina si conclude con l'opera di Andrea Sansovino che riveste sontuosamente di altorilievi e statue la Santa Casa nella basilica di Loreto.

La plastica lignea, già diffusa nel periodo romanico e in quello gotico, ha durante il Rinascimento le sue più copiose ed alte estrinsecazioni, improntate talune di elementi umbri, altre di elementi abruzzesi e fiorentini, come la bella Annunziata di S. Angelo in Vado, ma anche spiccatamente picene, e di notevole prestanza, come nella Madonna della misericordia del duomo di Camerino. Quel che ha maggiore importanza è il sorgere in pieno Cinquecento di una considerevole figura di plasticatore, Federico Brandani, che avviva di briosi stucchi il Palazzo Ducale di Urbino, il palazzetto Baviera a Senigallia, il palazzo dei Brancaleoni a Piobbico.

Più rilevante di ogni altra manifestazione artistica nel Rinascimento fu la pittura. La scuola fabrianese si sviluppa e dà il suo più bel frutto, Gentile da Fabriano, pittore soavissimo e sontuoso, naturalistico e fiabesco; poi, affatto diversi da lui, Antonio da Fabriano e Francesco di Gentile. Sanseverino dopo i due Salimbeni, che con la decorazione della chiesa di S. Giovanni ad Urbino (1416) creano un capolavoro della pittura cosiddetta internazionale, ha Lorenzo d'Alessandro, il quale riduce a unità stilistica gl'influssi del Crivelli e dell'Alunno. Camerino ha pur essa una scuola locale, che va da Arcangelo di Cola a Giovanni Boccati, invero più umbro che marchigiano, a Girolamo di Giovanni. A Urbino più che una scuola è da notare la concentrazione di forze mirabili fino dal principio del Quattrocento, da Ottaviano Nelli, umbro, al ferrarese Antonio Alberti da Paolo Uccello a Piero della Francesca, che vi lasciano opere di alta significazione, da Giusto di Gand, fiammingo, a Pedro Berruguete, spagnolo, da Melozzo al Signorelli e a Tiziano. I pittori vi formarono, insieme agli architetti, agli scultori, ai poeti, ai letterati, ai musici, uno dei centri più splendidi della civiltà italiana, che rappresenta l'ambiente ideale per l'accendersi di astri come Bramante e Raffaello, la cui orbita era destinata a trascendere il cielo delle Marche.

La corrente umbra è una delle più attive e importanti, accanto a quella veneziana, della quale si può seguire lo svolgimento quasi compiutamente, e che si afferma specie per opera di Carlo Crivelli, che trova seguito numerosissimo e crea nelle Marche le sue più belle opere, e di Lorenzo Lotto, oltre ad avere presenti i suoi rappresentanti maggiori, da Giambellino al Tintoretto e a Tiziano!

Le arti minori vantano monumenti insigni. Innanzi tutto la maiolica. Essa fiorisce a Castel Durante, ove sorge il più insigne maiolicaro che l'Italia abbia mai avuto, Nicola Pellipario, il quale trasferitosi a Urbino sviluppa superbamente quella scuola, che ha nei Fontana e nei Patanazzi i maestri tipici del suo ornato a raffaellesche su fondo bianco, mentre la scuola pesarese coltiva i lustri metallici: un primato che a torto le si vuole togliere per trasferirlo solo a Deruta. Le corsie del Palazzo ducale di Urbino, eseguite probabilmente da Francesco di Giorgio Martini e da Iacopo Cozzarelli non temono confronti. E a Urbino, a Loreto, a Fabriano arrivano dalla Fiandra arazzieri e arazzi.

L'arte del metallo ha in Pietro Vannini, di Ascoli Piceno, un artefice egregio; il ferro battuto offre testimonianze lodevoli a Urbania nei ferri infissi ai cantonali della piazza municipale. Stoffe, miniature, avorî, smalti, affluiscono alle corti e ai templi.

Meno fervido è il movimento artistico del periodo barocco; tuttavia le Marche non restano fuori di esso. Segnatamente nell'edilizia civile, ad Ancona, a Macerata, a Fermo, ad Ascoli Piceno si hanno degne testimonianze: in Ascoli, a opera di una famiglia di artisti, i Giosafatti, ispirati specialmente dal barocco romano. E le Marche assistono altresì al suo superbo tramonto, con le fabbriche di Luigi Vanvitelli: a Macerata, la piccola chiesa della Misericordia, di singolare planimetria, a Urbino per il rinnovamento interno delle chiese di S. Francesco e di S. Domenico, questo inteso con straordinaria monumentalità richiamandosi all'albertiano S. Andrea di Mantova. Per la scultura la basilica di Loreto, con le opere del Vergelli, del Calcagni, dei Lombardo, offre monumenti importanti. Nella pittura, da S. Angelo in Vado muovono gli Zuccari, a Urbino si leva Federico Barocci, personale artista in pieno manierismo, a Pesaro Simone Cantarini, a Sassoferrato il Salvi, a Penna S. Giovanni Mario de' Fiori, a Camerano il Maratti, principe della pittura accademica romana; e alla regione affluiscono opere del Caravaggio, dei Carracci, del Reni, del Domenichino, del Guercino, di Luca Giordano, di Corrado Giaquinto, di Orazio Gentileschi, di C. M. Crespi. Nelle arti minori le fabbriche di maiolica continuano la loro attività, benché la produzione man mano decada.

Anche durante l'Ottocento qualcosa le Marche hanno dato all'arte italiana. E comunque si voglia giudicare l'opera di Giuseppe Sacconi, certo egli penetrò lo spirito dell'antico come ben pochi. Prima di lui qualche fabbrica, come lo Sferisterio di Macerata, mostra che la tradizione artistica della regione non era spenta. Francesco Podesti è pur degno di nota nella serie dei romantici per i suoi ritratti semplici ed efficaci; e così pure hanno nome Vito d'Ancona, a Pesaro i macchiaioli, Adolfo de Carolis (v.) con i suoi sintetici disegni nei quali è colta l'essenzialità della forma, con le silografie che interpretano e completano opere di poesia, con le vaste decorazioni di Ascoli Piceno, di Pisa, di Bologna; Napoleone Parisani, con i suoi fini paesi, velati di malinconia, Ferruccio Mengaroni che conquistò tutte le tecniche delle antiche maioliche e segnò nuove vie; per tacere di quelli che ancora operano, e mostrano ininterrotti il genio e l'attività artistica della terra picena.

V. tavv. XLV-LX.

Bibl.: A. Ricci, Storia dell'architettura in Italia, ecc., Modena 1857-59, voll. 3; id., Memorie storiche delle arti e degli artisti nella Marca di Ancona, Macerata 1834; A. Venturi, Storia dell'arte ital., Milano 1901 segg.; P. Toesca, Storia dell'arte ital., I: Il Medioevo, Torino 1927; L. Serra, L'arte nelle marche, Pesaro 1929; Rass. march., 1922 segg.