DA MULA, Marcantonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 32 (1986)

DA MULA, Marcantonio

Giuseppe Gullino

Nacque a Venezia il 12 febbr. 1506, secondogenito di Francesco di Alvise, del ramo a S. Giovanni Decollato, e di Laura Michiel di Lorenzo, che diede al marito altri due maschi, Alvise e Lorenzo, e quattro figlie: Elena, Giovanna, Maria e Marina. Pur non facendo parte del novero delle casate più ricche, la famiglia era agiata ed il padre seppe dare al D. un'educazione consona alla miglior tradizione dell'umanesimo veneziano: gli fece studiare greco e latino, Platone e Aristotele; nel 1519 lo portò con sé a Capodistria, dove era podestà (qui conobbe Girolamo Muzio); infine lo inviò a seguire i corsi di giurisprudenza a Padova, dove il D. conseguì il dottorato.

Accingendosi alla carriera politica (il primo incarico, che ricopri dall'8 marzo 1531 al 7 marzo 1532, fu quello di massaro alla Zecca dell'argento), il D. era dunque fornito di una compiuta cultura retorica e giuridica, alla quale accompagnava vivace intelligenza, fine penetrazione psicologica, brillante oratoria: requisito indispensabile quest'ultimo, per emergere nei dibattiti consiliari. Ampiamente documentata anche la sua amicizia con i più notevoli letterati del tempo: ebbe infatti frequenti contatti epistolari con Giangiorgio Trissino, Giovita Rapicio, Bernardo Tasso, Francesco Sansovino, Pietro Bembo, Onofrio Panvinio, Pietro Aretino, da lui definito "divino poeta et amico carissimo"; inoltre vari suoi discorsi e relazioni di carattere politico ebbero larga diffusione presso i contemporanei e furono più volte stampati, come riferiscono le bibliografie del Cicogna e del Soranzo; inediti rimasero invece il trattato De sublimi dicendi genere, l'operetta De vita activa et contemplativa e un libro di memorie sul concilio di Trento, più volte citato ed utilizzato da Paolo Sarpi, ma purtroppo non più rinvenuto.

Il primo importante incarico politico gli venne affidato il 30 maggio 1534, allorché fu elettoi assieme a Bernardo Navagero, sindaco inquisitore in Dalmazia, secondo una prassi che prevedeva l'invio di due patrizi ogni cinque anni, per rendere giustizia a quei sudditi, "li qual offesi et gravati, non hano il modo per la distantia, spese et incommodi de ricorrer de qui alla justitia".

Le commissioni, però, furono consegnate loro soltanto l'8 febbraio dell'anno successivo, per cui la missione si svolse tutta tra la primavera e l'estate del 1535; al ritorno in patria, i due posero sotto accusa, in particolare, la cattiva amministrazione di un rettore (probabilmente Giovanni Sagredo), ma poiché si trattava di patrizio influente, la denuncia sollevò critiche ed opposizioni, al punto da ritorcersi contro gli stessi accusatori, sospettati di aver artatamente gonfiato il caso, per porsi in luce, secondo quanto riferisce il Valier.

In effetti, negli anni che seguirono il D. non ricopri più alcuna carica e quando la contumacia ebbe termine, alla fine del 1540, l'elezione di conte a Zara volle forse significare una sorta di riparazione della precedente negativa esperienza. Assunse l'incarico il 7 nov. 1540 ed avrebbe dovuto deporlo il 6 giugno 1543, ma il Segretario alle Voci ci informa che fu sostituito da Marcantonio Diedo di Arsenio il 19 genn. 1542; di tale rettorato abbiamo la relazione conclusiva, peraltro non datata.

In essa il D. ricorda come assunse il comando della città all'indomani della pace col Turco (2 ott. 1540); aveva trovato un territorio spopolato ed un'economia desolata da tanti anni di guerra, per cui i suoi sforzi erano stati tesi al duplice fine di richiamare in patria i "villani vecchi", rifugiatisi al di là dell'Adriatico per sfuggire alle incursioni degli Ottomani ("et ho mandati navilii a levarli, parte robandoli, e parte pregando quelli Signori della Puglia, che li lassassero ritornare, et a quelli, che sono ritornati, ho provvisto de alloggiamenti, e l'ho fatto fare certe lige con un segno di ridursi assieme per cacciar li Uscochi e ladroni fuor del territorio"), e di rafforzare il dispositivo militare della regione, dislocando la cavalleria lontano da Zara, a Novegradi ed a Zemonico.

L'efficacia della sua condotta ottenne stavolta il gradimento della Signoria, ed al ritorno in patria il D. fu subito eletto tra i dieci savi alle Decime (dal 27 febbr. 1542 al 26 febbr. 1543); fu quindi savio di Terraferma per il primo semestre dello stesso 1541, poi capitano a Brescia dall'ottobre 1544 all'aprile 1546.

Del lungo rettorato ci rimane la relazione, incentrata sulla condizione dell'apparato militare e, ma soprattutto, della Camera fiscale, che con oltre 170.000 ducati di entrata rappresentava una delle più cospicue fonti di rendita della Terraferma. Molteplici ed inveterati gli abusi riscontrati dal D., specie ad opera degli stessi funzionari, uno dei quali, il massaro Gerolamo Bagnolo, "essendo sta trovato in molti erori a dainno di Vostra Serenità et di quel territorio, temendo la iustitia, si avenenò". Particolarmente vivace risulta l'ultima parte del documento, nella quale il D. fornisce precise osservazioni sull'economia del territorio e sull'indole degli abitanti, e dove la narrazione esce talvolta dal circuito angusto della descrizione oggettiva per assumere il respiro più ampio della valutazione politica.

Nominato savio di Terraferma il 27 sett. 1546 ed ancora il 29 giugno 1548, il 28 giugno 1550, il 27 giugno 1551, in quest'ultimo anno fu chiamato a ricoprire altri prestigiosi incarichi: il 9 aprile entrò a far parte dei savi sopra le Lagune e il 15 settembre venne eletto ambasciatore all'imperatore, in sostituzione di Domenico Morosini.

Ma non lasciò subito Venezia: le commissioni gli vennero consegnate solo il 23 giugno 1552, ed in tale circostanza il D., che non era sposato, provvide ad una separazione dei beni con il fratello Lorenzo e la sorella Elena, rimasta nubile; a Lorenzo (che nel 1541 aveva contratto matrimonio con Benedetta Priuli di Gerolamo, dalla quale però non ebbe figli, e che premorì al fratello Marcantonio, con il quale si estinse questo ramo della famiglia) venne dunque affidata l'amministrazione del patrimonio della fraterna e l'incarico di provvedere a regolare ogni pendenza con le sorelle sposate.

Il D. partì quindi alla volta di Augusta (il primo dispaccio, da Villaco, venne spedito il 2 luglio 1552), e fu poi a Monaco, Ulma, Strasburgo, Colonia. Bruxelles, dove giunse a rilevarlo Michele Surian: l'ultimo dispaccio al Senato fu appunto inviato da Bruxelles il 10 nov. 1554. Stavolta il D. non lasciò relazione e pochi sono anche i suoi dispacci al Consiglio dei dieci incentrati soprattutto sulle ricorrenti ipotesi di pace con la Francia e sulle trattative in corso tra un Carlo V sempre più sfiduciato e privo di energia, ed i protestanti tedeschi, disposti anch'essi, ormai, ad una pacificazione basata sul compromesso politico-religioso.

Rientrato a Venezia con il titolo di cavaliere conferitogli dall'imperatore, nel 1556 il D. ricoprì la carica di riformatore dello Studio di Padova, alla quale per solito venivano chiamati patrizi particolarmente sensibili al mondo della cultura; fu quindi savio del Consiglio per il primo semestre del 1558 e nell'agosto di quello stesso anno successe a Girolamo Ferro in qualità di capitano a Verona, ma non portò a termine il mandato, perché nell'aprile 1559 venne nominato ambasciatore straordinario a Filippo II per congratularsi della pace stipulata a Cateau-Cambrésis.

Della legazione il D. lasciò una breve, ma succosa relazione, letta in Senato, alla presenza del nuovo doge Girolamo Priuli, il 23 sett. 1559; dopo aver ricordato l'incontro col sovrano, avvenuto a Gand il 27 luglio, passa a descrivere l'indole, di cui peraltro "è mal fare conclusione ferma, perché i re hanno nei loro cuori mille antri e spelonche inaccessibili"; in brevi tratti troviamo però già delineati i caratteri del "rey prudente": "la sua giustizia è grande", "mostra prudenza", "è molto riservato", "non si vede mai in collera"; appare anche superstizioso, e fa segretamente "lavorar di alchimia" a Malines, "ma però non si sa che alcuno mai si facesse ricco per questa via".

Dopo l'uomo, le risorse: "Ha il re una miniera d'uomini in Spagna, pazienti, forti dell'animo e del corpo, disciplinabili, atti alla campagna, al cammino, alli assalti, alle difese, ma sono tanto insolenti e rapaci della roba e dell'onor delli uomini, che è dubbio se questa brava gente abbia dato più utile o più danno ai suoi signori da parecchi anni in qua; perché sì come sono stati causa di donarli delle vittorie, così hanno fatto perder loro di molti cuori e volontà de' popoli col maltrattarli; e il cuor dei sudditi è la maggior fortezza che abbia il principe". Per questa e altre ragioni, il D. ritiene dunque che la pace sarà duratura, "più per necessità che per volontà" dei due tradizionali antagonisti.

Inutilmente il D. aveva concluso la sua esposizione accennando alle gravose spese sostenute nel corso della legazione, per difendere l'onore della Signoria, "la qual mi ha dato obbligo di condur venti cavalli, e non ne ho mai avuti manco di quarantadue fino a quarantotto": neppure quattro mesi dopo, il 13 genn. 1560, era eletto ambasciatore ordinario presso il nuovo papa, Pio IV.

Si recò subito a Roma, sostituendo il predecessore Alvise Mocenigo con tre mesi di anticipo, ed al pontefice questo uomo colto, eloquente, ricco di esperienza politica- e di sensibilità religiosa fece subito un'ottima impressione, al punto che, nel maggio 1560, ne accolse il suggerimento di chiamare a Roma il Seripando; non solo, ma con gesto clamoroso ed imprevisto, all'inizio di settembre lo nominò vescovo di Verona, la cui diocesi era priva di titolare da oltre un anno, dopo la morte di Agostino Lippomano.

A Venezia la notizia fece scalpore, giacché le leggi della Repubblica vietavano nel modo più assoluto ad un ambasciatore di ricevere benefici dal principe presso il quale era accreditato; Giovanni Donà insorse in Sedato contro il D., chiedendone l'immediato rimpatrio e l'elezione di un successore. Dopo due giorni di discussioni (20 e 21 sett. 1560), si deliberò dunque di richiamare il D., sostituendolo con Girolamo Soranzo: nel frattempo le funzioni dell'ambasciatore sarebbero state rilevate dal segretario Giovanni Formenti. Il D. obbedì prontamente, ma il 6 ottobre, quando ormai era giunto a Recanati, ricevette l'ordine di ritornare presso il papa, con in più un donativo di 500 zecchini.

Le pressioni e le preghiere del pontefice, che nella circostanza seppe dimostrare l'assoluta innocenza del D. ed accordò al Senato la facoltà di nominare una rosa di quattro nomi tra i quali avrebbe scelto il nuovo vescovo di Verona, avevano dunque avuto ragione della diffidenza della Signoria; in effetti, il comportamento ed i dispacci del D. sembrano testimoniare una assoluta estranietà alla decisione di Pio IV. Il D. tornò dunque a Roma, e - secondo le istruzioni della Repubblica - spese gli ultimi mesi dell'anno nel tentativo di persuadere il papa a conferire il cardinalato al già patriarca d'Aquileia Giovanni Grimani, che era sì nipote del doge, fratello e nipote di cardinali, ma anche, da molti anni, sospettato di eresia.

Invece, i cardinali veneziani che furono creati nel concistoro del 26 febbr. 1561 risultarono, sorprendentemente, lo stesso D. e il suo collega di un tempo, Bernardo Navagero, per i quali la Repubblica non si era affatto impegnata, mentre ancora una volta restava escluso il Grimani. La Signoria incolpò di questo insuccesso il proprio ambasciatore, accusandolo di aver brigato per sé e di aver nuovamente violato la legge; e questo nonostante il segretario Lorenzo Massa avesse scritto al doge, il 27 febbraio, in termini quanto mai lusinghieri tanto per il D. quanto per lo sviluppo degli stessi futuri rapporti tra Venezia e la S. Sede.

In effetti, tutta la condotta del D. presso la S. Sede non può non sollevare dubbi ed interrogativi: è davvero credibile ch'egli fosse costantemente all'oscuro delle intenzioni del papa? È pensabile che quest'ultimo, prima di far proprie tali decisioni, non abbia ricevuto qualche segno, non abbia colto qualche disponibilità da parte sua? In ogni caso, stavolta il D. accettò l'onore accordatogli, pur consapevole che questo avrebbe significato una rottura irreparabile con la patria: ed infatti, sin dal 3 marzo il Senato proibì ai suoi parenti qualsiasi dimostrazione di giubilo ed impose all'ambasciatore di rompere ogni contatto con l'ex suddito. Si ripeteva così il caso di Ermolao Barbaro, e a nulla valsero i replicati tentativi pontifici di ottenere perdono per il D., né, più tardi, i 2.000 ducati d'oro esibiti dallo stesso cardinale quale aiuto per la guerra di Cipro, e rifiutati.

Ordinato sacerdote il 17 marzo 1561, il 23 novembre dell'anno seguente ottenne il vescovato di Rieti; qui il D., che nel 1562 partecipò anche brevemente ai lavori del concilio di Trento, in esecuzione di quei deliberati fu il primo ad erigere un seminario, che beneficò poi nel testamento con i.000 ducati; stimato e onorato dal papa, visse quasi sempre in Curia: nel 1563 fu nominato membro dell'Inquisizione e della Segnatura, ebbe poi per qualche tempo il governo di Bolsena, fu sopraintendente alle Fabbriche di palazzo, nel 1564 ebbe l'incarico di assistere Paolo Manuzio nella fondazione di una stamperia che doveva pubblicare l'edizione critica delle opere dei Padri della Chiesa, l'anno dopo divenne prefetto della Vaticana.

Nel 1565, quando ormai il pontificato di Pio IV volgeva al termine, l'ambasciatore veneziano Giacomo Soranzo informava il Senato che il D. "non manca di mettersi avanti con tutti li mezzi che può, facendo anco con cardinali, con ambasciatori, e con ogni altra sorta di persone, quegli officii e complimenti che giudica poterlo condurre al Papato, al quale vi pensa con tutti li spiriti suoi, et perciò grandemente si trattiene con li ministri dell'Imperatore, del re Filippo, dalli quali spera di poter havere aiuto e favore, sì come anco col card. Farnese per indurlo, non potendo esser lui, che il disegni, di voltare li favori suoi verso di sé".

Il D. non ottenne, però, la tiara alla quale probabilmente aspirava ed anzi, in obbedienza alle disposizioni del nuovo papa, nel marzo 1566 lasciò Roma per recarsi a risiedere nella sua diocesi. Pio V, tuttavia, non mancò di dimostrargli considerazione e gli affidò numerosi incarichi: divenne così membro di una commissione per la politica estera, di un'altra per l'agricoltura, della Congregazione per la conversione degli infedeli.

Morì a Roma il 17 marzo 1572.

Il suo corpo fu deposto prima nella chiesa di S. Iacopo degli Spagnoli, poi trasportato a Venezia e sepolto a S. Giobbe; la sobria epigrafe tuttora esistente fu apposta dai discendenti, a detta del Cicogna, non prima del 1761. Nel testamento, redatto il 17 genn. 1566, il D. devolveva la maggior parte dei suoi beni per l'istituzione di un collegio a Padova, nel Prato della Valle (l'attuale Loggia Amulea), dove fossero ospitati a studiar legge, per cinque anni, scolari appartenenti alla famiglia Da Mula o, in mancanza di questi, di altre casate ad essa legate da parentela. La fondazione rimase in vita sino alla caduta della Repubblica.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. Codd. I, Storia veneta 21: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patrizi…, V, pp. 426, 431 s.; Ibid., Avogaria di Comun. Balla d'oro, reg. 165, c. 305r; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 1828 (= 7621): G. A. Cappellari Vivaro, Le macchie nelle stelle…, sub voce; per la Carriera politica, Arch. di Stato di Venezia, Segretario alle Voci. Elez. Maggior Consiglio, regg. I, cc. 52, 143; 2, cc. 24v, 139v; Ibid., Segretario alle Voci. Elez. Pregadi, reg. 1,cc. 13r, 26r, 28r, 39v, 52v-53r, 72v; Ibid., Senato, Mar, reg. 23, cc. 14v-15r, 29v, 64v-65v; per l'inquisitorato in Dalmazia e la relazione di Zara, Commissiones et relationes Venetae, a cura di S. Liubić, in Monum. spectantia historiam Slavorum meridionalium, VIII, Zagabriae 1877, pp. 6, 86-89, 170-75; la relazione di Brescia, in Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, XI, Podestaria e capitanato di Brescia, Milano 1978, pp. 31-36; sull'ambasceria all'imperatore, Arch. di Stato di Venezia, Arch. Proprio Germania, filza 6, ad annum; filza 7, ad annum; Senato Dispacci Spagna, filza I, ad annum (tutti questi dispacci sono stati pubblicati in Venetian. Depeschen vom Kaiserhofe, I, 2, Wien 1892, pp. 527-664); Ibid., Lettere di ambasciatori ai capi del Consiglio dei dieci, bb. 13, nn. 38-45; 29, nn. 70-76; la relazione della missione presso Filippo II, in Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato.... a cura di E. Alberi, s. 1, III, Firenze 1853, pp. 393-408; per l'ambasceria a Roma. Arch. di Stato di Venezia, Archivio Proprio Roma, filza 15, ad annum (una copia anche in Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 1253 [=7707]: Registro delle lettere al Senato dell'ambasciatore a Roma M. D.); ancora sulla legazione romana, Arch. di Stato di Venezia, Lettere di ambasciatori ai capi del Consiglio dei dieci, b. 24, nn. 111 -16, 118-25; per il testamento, Ibid., Sezione notarile. Testamenti, b. 1259/664. Sulle opere e le lettere del D., si vedano i repertori di E. A. Cicogna, Saggio di bibliografia venez., Venezia 1847, pp. 166, 172 s., 462; G. Soranzo, Bibliografia veneziana, Venezia 1885, pp. 118 s., 296, 425, 709, 808; sulla figura e l'attività politica, cfr. inoltre: Nuntiaturberichte aus Deutschland... 1533-1559.... XVI, Nuntiatur des Girolamo Martinengo, Tübingen 1965, pp. 163, 176, 191, 230, 266, 271, 276, 298; [G. F. Zanardi], De laudibus illustrissimi et reverendissimi d. Marci Antonii Amulii S. R. E. cardinalis.... Patavii 1567; A. Valier, Bernardi Naugerii... cardinalis... vita.... Patavii 1719, pp. 71, 83 ss., 95; Id., Dell'utilità che si può ritrarre dalle cose operate dai Veneziani.... Padova 1787, pp. 343-47; E. A. Cicogna, Delle Inscriz. venez., III, Venezia 1830, p. 55; IV, ibid. 1834, pp. 186, 452; V, ibid. 1842, pp. 18 s.; VI, ibid. 1853, pp. 531, 611-29, 737-44, 826, 940; G. Cappelletti, Storia della Repubblica di Venezia…, VIII, Venezia 1852, pp. 368 ss.; R. Fulin, O. Panvinio, in Arch. veneto, IV (1872), p. 158; L. von Pastor, Storia dei Papi, VII-VIII, Roma 1923-24, ad Indices; A. De Benvenuti, Storia di Zara dal 1409 al 1797, Milano 1944, pp. 105, 108, 374; P. Paschini, Come fu cardinale M. A. D. detto l'Amulio, in Riv. di storia d. Chiesa in Italia, XI (1957), pp. 393-406; Id., Tre illustri prelati del Rinascimento. E. Barbaro, A. Castellesi, G. Grimani, Romae 1957, pp. 153-66, 182; R. Morozzo della Rocca-F. Tiepolo, Cronologia veneziana del Cinquecento, in La civiltà venez. del Rinascimento, Firenze 1958, p. 231; Relazioni di ambasciatori veneri al Senato, a cura di L. Firpo, II (Germania 1506-1554), Torino 19-70, p. XXIV; G. Liberali, G. Corner creatura del Borromeo?, Treviso 1971, pp. 57, 68; D. E. Queller, The development of ambassadorial Relazioni, in Renaissance Venice, a cura di J. R. Hale. London 1973, p. 181; G. Moroni, Diz. di erudiz. stor-ecclesiastica…, II, p. 25; XCII, pp. 366 ss., 394, 684, 686, 697; G. van Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica..., III,Monasterii 1910, pp. 42. 301.

CATEGORIE