COLONNA, Marcantonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

COLONNA, Marcantonio

Franca Petrucci

Nacque il 26 febbraio del 1535 a Civita Lavinia da Ascanio, gran connestabile del Regno, e da Giovanna d'Aragona. Il contrasto fra i genitori, culminato poco dopo la sua nascita nella definitiva separazione, influì negativamente sui suoi rapporti con il padre. Nel dicembre del 1552 infatti quest'ultimo, che aveva visto fallire un ulteriore tentativo di riavere con sé la moglie, diseredò il C., unico figlio maschio rimastogli.

Nell'atto, che fu poi annullato da un breve di Giulio III del 6 nov. 1554, il padre lo accusò non solo di disobbedienza e di ribellione, ma anche di minacce e calunnie. In effetti l'inimicizia del C. verso il genitore fu confermata poco più di tre anni dopo da un dipendente di Ascanio, che accusò il C. e la madre di aver tentato anche con la tortura di fargli confermare gravissime accuse contro il padrone, delle quali questi era, a suo dire, innocente. Nel giudicare il comportamento del C. verso il padre - e alcuni contemporanei lo fecero in modo negativo - c'è da tener presente comunque che la fama di Ascanio Colonna non fu quella di un uomo mite. Il C. tuttavia aveva obbedito alla volontà del genitore dando l'anello, il 29 febbr. 1552, a Felice Orsini; le nozze erano state celebrate il 12 maggio (Vat. lat. 7975, c. 41).

Quando Carlo V all'inizio del 1553 inviò un esercito al comando del viceré di Napoli contro Siena, il C. si pose al servizio degli Imperiali. Allorché costoro posero fine alla campagna, abbandonando l'assedio di Montalcino e si diressero verso il Regno, contro il quale si temeva un attacco turco, il C., transitando per il Lazio, si impadronì con la forza dello Stato del padre, che non fece resistenza e si rifugiò nei suoi feudi in Abruzzo, dove poco dopo fu arrestato ad opera del viceré per sospetto di tradimento.

Il C. cominciò quindi ad amministrare i feudi, che gli appartenevano di fatto se non di diritto, continuando però a usare i metodi di brutale sfruttamento del genitore, come ebbero a sostenere gli abitanti di Nettuno qualche anno dopo in una supplica, in cui chiedevano al papa di liberarli da tali angherie.

L'anno successivo il C. fece parte del contingente di truppe napoletane inviate a collaborare con quelle fiorentine di Cosimo de' Medici, che aveva ripreso le ostilità contro Siena. Il 2 agosto partecipò alla battaglia di Scannagallo (Marciano), al comando di uno squadrone di trecento uomini d'arme. Dopo la vittoria il C. fu lasciato a capo dell'esercito, mentre Giangiacomo de' Medici, marchese di Marignano, si recava a Firenze con altri capitani a ricevere le ricompense per il conseguito successo. Il C. non rimase in campo fino alla caduta di Siena; nel novembre infatti, quando un breve di Giulio III ratificava la sua occupazione degli Stati del padre, egli era a Marino.

Eletto al soglio pontificio Paolo IV, di cui furono subito palesi le tendenze filofrancesi, nel luglio 1555 il C. partecipò alla riunione indetta dal cardinale di Santa Fiora tra gli aderenti al partito filoimperiale. In essa il giovane C. si disse pronto a provocare una sollevazione contro il pontefice, ma nell'agosto, quando quest'ultimo fece arrestare Camillo Colonna e il cardinale di Santa Fiora, il C., cui intanto Filippo II aveva concesso il comando delle genti d'arme prima comandate dal padre e il possesso di Tagliacozzo, fuggì tempestivamente da Roma, rifugiandosi a Paliano, ove si fortificò.

Nell'Urbe rimasero la madre, la moglie e due sorelle, alle quali il papa proibì di lasciare la città e la loro casa. Inoltre furono emessi monitori contro il C., che poi, considerato ribelle, fu colpito dalla sentenza di confisca dei beni. Egli si rese conto allora di non poter tenere testa alle truppe pontificie da solo e si decise ad abbandonare Poliano. Giacque qualche tempo ammalato a Gaeta, quindi si portò a Napoli. Qui sì recò a visitare il padre prigioniero e lo pregò, senza che questi vi accondiscendesse, di revocare il testamento, come invece finì per fare, il 21 marzo 1557, poco prima di morire. Alla fine dell'anno la madre e le altre colonnesi riuscirono a fuggire da Roma, provocando le ire del papa, che intanto si era stretto in un trattato di alleanza con la Francia.

Il 1556 si apriva sotto cattivi auspici per il Colonna. Fuggiasco, aveva perduto le terre usurpate al padre ed era violentemente avversato da Paolo IV, il quale il 7 gennaio a un intervento dell'ambasciatore cesareo, che intercedeva per lui, aveva risposto molto duramente. Il 4 maggio la bolla di scomunica e di privazione dei beni contro il C. e il padre precedeva di pochi giorni l'investitura dello Stato di Paliano, eretto a ducato, in favore di Giovanni Carafa.

Nel luglio il C., che il mese prima era stato a Venezia e forse alla corte dell'imperatore, era in Abruzzo, prima di portarsi a Napoli, ove fervevano i preparativi per la guerra ormai imminente contro Paolo IV. Il 21 agosto il duca d'Alba gli conferiva il grado di generale degli uomini d'arme, con il quale egli seguì l'esercito napoletano, cheil 5 settembre passò il confine dello Stato della Chiesa.

Gli Spagnoli occuparono Pontecorvo, Ceprano, Alatri, quindi Frosinone, Anagni, Ferentino, Terracina; giunsero fino a Tivoli. Tutte le terre colonnesi si dettero all'esercito invasore al grido di "Colonna". Quando gli Spagnoli si accinsero alla conquista di Ostia, che cadde il 18 novembre, il C. ebbe l'incarico di far costruire un ponte di barche. Il 29 novembre i Pontifici, dicendosi disposti a cedere Paliano in cambio di Siena, ottennero una tregua di quaranta giorni.

L'avanzata in Italia del duca di Guisa capovolse però la situazione e quando nell'aprile del 1557 egli ruppe le ostilità nel Regno dalla parte dell'Abruzzo, si riaccese la lotta anche nella Campagna romana, dove era rimasto il C. come capitano generale, con quattromila fanti e sei pezzi di artiglieria. Gli venne incontro con tremila fanti italiani, due compagnie di tedeschi e sette cannoni Giulio Orsini, che il C. sconfisse ad Acuto. Egli ottenne poi un'altra vittoria fra Valmontone e Segni, che fu saccheggiata dalle sue truppe. Si era nell'agosto e il C., raggiunto dal viceré, si portò verso Roma, cercando di sorprenderne i difensori, ma la sorpresa mancò.

La pace di Cave, nel settembre, fu poco favorevole al C., cui non venivano condonate le pene. Gli accordi contenevano un capitolo segreto, secondo cui Paliano, dopo che fosse stato adeguatamente indennizzato Giovanni Carafa, doveva essere concessa a una persona indicata dal re e gradita al pontefice. Nei due anni successivi il C. si recò due volte alla corte dì Filippo II. Una prima volta subito dopo la pace di Cave, mentre vi si trovava anche il cardinal Carlo Carafa, che in cambio di Paliano cercava di ottenere da Filippo molto più dei 20.000 ducati di pensione per lui e del ducato di Rossano per il fratello, offerti dal re. Del resto il papa, sempre decisamente avverso al C., intendeva che Paliano rimanesse libera e al nipote fosse dato il ducato di Bari. La presenza a corte del C. non riuscì né nel primo, né nel secondo viaggio a far risolvere l'intricata questione.

Tre giorni dopo la morte di Paolo IV (18 ag. 1559) il C., che nell'aprile era stato compreso da Filippo II nel trattato di pace di Caveau-Cambrésis, giunse a Roma. Il 22, accolto con manifestazioni di simpatia, si presentò ai cardinali e si dichiarò pronto a obbedire al Sacro Collegio e al futuro papa. Durante il lungo conclave Filippo II informò i porporati, con una lettera dell'ottobre, che era sua opinione che Paliano dovesse tornare al C., perdipiù senza alcun compenso per i Carafa. Pio IV in un primo momento non accolse l'ingiunzione del sovrano e il C. ritornò in possesso di tutto lo Stato e dei palazzi di Roma, ma non di Paliano.

Mentre la posizione dei nipoti del papa defunto si veniva facendo sempre più precaria, Giovanni Carafa, che si era rifugiato a Gallese, intentò un processo contro il C., che egli accusava di aver tentato di avvelenarlo; ma questi erano gli ultimi tentativi per nuocergli. La stella del C. stava infatti risalendo rapidamente. Nello stesso anno Filippo II lo insigniva dell'Ordine del Toson d'oro e nel maggio del 1560 lo creava connestabile del Regno di Napoli; il 3 febbr. 1561 il papa gli conferiva l'Ordine equestre dell'Aurata Milizia; il 25 maggio diveniva luogotenente del Regno di Napoli.

La completa reintegrazione del C., il cui primogenito Fabrizio aveva sposato il 4 maggio 1562 Anna Borromeo, nipote del papa e sorella del cardinale Carlo, avvenne con la restituzione di Paliano, il 17 luglio. Per intercessione di Filippo II e dati anche i buoni rapporti che si erano instaurati con il pontefice, questi anziché diroccarla, gli concesse la cittadina fortificata, completa dell'artiglieria e delle munizioni. Lo stato finanziario della famiglia era però tutt'altro che florido, anche se Pio IV aveva favorito il C., rinunciando alle clausole fidecommissarie su Paliano. Il C. fu così costretto a vendere Nemi ai Piccolomini, Civita Lavinia e Ardea a Giuliano Cesarini, Caprinica, Pisciano, Ciciliano e San Vito a Domenico Massimo, mentre perdurava una lite con la sorella Vittoria, che avanzava pretese su alcuni beni in Abruzzo.

Nell'estate 1564 il C. soggiornò a lungo a Madrid, alla corte di Filippo II, che il 1° agosto lo nominò consigliere di Stato del Regno di Napoli.

I rapporti del C. con Pio V furono ottimi; il papa nell'ottobre del 1567 pensava di inviarlo in aiuto del re di Francia contro gli ugonotti e a sua volta il C. preparò un progetto per istituire un corpo di milizia nello Stato pontificio. Il 30 marzo 1569 Pio V eresse Paliano a principato.

Il 21 marzo di quello stesso anno il C. aveva intrapreso un altro viaggio in Spagna, dove rimase per parecchi mesi. La lunga inattività pubblica cominciava evidentemente a pesare al C., che aveva desiderato essere impiegato dal sovrano nella guerra dei Paesi Bassi e aspirava a divenire governatore di Milano. Caduto ammalato nel luglio, durante il soggiorno a Madrid, il C. ripartì verso l'Italia il 27 ottobre senza avere nulla ottenuto. Il 5 marzo 1570 presenziò all'incoronazione granducale di Cosimo de' Medici e prese parte alla cerimonia porgendo la corona al papa.

Intanto il papa si stava adoperando per promuovere una lega contro i Turchi, i quali già dall'anno precedente avevano chiaramente dimostrato di voler rimuovere l'ostacolo che Cipro rappresentava alla loro espansione militare. Pur non riuscendo per il 1570 a costituirla, egli ottenne che Filippo Il desse ordine alla sua flotta di concentrarsi in Sicilia per unirsi eventualmente alle forze navali veneziane e pontificie. Il pontefice, a cui Venezia offrì di fornire gli scafi di dodici galere da armare, scelse il C. quale capitano generale della sua armata.

Nel breve dell'11 giugno sono genericamente indicati dal papa i motivi della nomina nella sua nobiltà, nel valore, prudenza, fede, nella sua pratica di cose militari; non è menzionata l'esperienza nell'arte marinara, che non poteva considerarsi molto vasta, limitandosi al possesso e all'amministrazione per un breve periodo di alcune galere, vendutegli dal cardinale Borromeo, che parteciparono all'impresa del Pignone e che egli rivendette al granduca Cosimo. Probabilmente influirono sulla scelta un innegabile prestigio personale e forse l'essere egli, come gran connestabile del Regno, suddito del re di Spagna, e dunque gradito a Filippo II, anche se invece qualche critica a questa nomina fu subito espressa dai ministri spagnoli in Italia.

Il medesimo 11 giugno il C. prestò giuramento nella cappella papale e ricevette dal pontefice il bastone del comando e lo stendardo della lega, che sarebbe poi stato donato dal C. alla cattedrale di Gaeta. Prima di partire da Roma il C. creò suo luogotenente Pompeo Colonna, duca di Zagarolo, e nominò i capitani delle galere; quindi, ricevuti 10.000 scudi dal camerlengo, si mise in viaggio il 16 giugno alla volta di Ancona ove giunse il 19.

Nel porto pontificio il C. trovò solo otto galere anziché dodici, per cui si recò di persona a Venezia e ottenne le altre quattro, anche se tutt'altro che in ottimo stato. Comunque all'inizio di agosto il C. aveva in punto, armate e approvvigionate, le galere pontificie. Nella stessa epoca giungeva a Madrid un messo, che fece al sovrano da parte del C. una relazione minuziosa di quant'egli aveva operato e anche del numero, della consistenza e dello stato dell'armata veneziana.

Mentre quest'ultima, composta di centotrentasette galere, al comando di Girolamo Zane, si concentrava a Corfù, Filippo II il 9 agosto dette a Gianandrea Doria, capitano delle forze spagnole, l'ordine di partire, con le sue quarantanove galere, per il Levante. Il 6 dello stesso mese il C. era giunto a Otranto e qui decise di attendere il Doria, che vi arrivò il 20.

Si vide subito quale sarebbe stata la nota dominante della spedizione, quando, giunto a Otranto, il Doria rimase all'ancora fuori del porto, senza curarsi di presentarsi a quello che si considerava il suo comandante. Il C. effettivamente si considerava il comandante in capo della spedizione; così mostravano di credere i Veneziani; inoltre Filippo II in una lettera, che il C. aveva trovato in porto giungendo a Otranto, asseriva che il capitano spagnolo avrebbe dovuto prestargli obbedienza. Il Doria tuttavia lo contestò sempre e il C. d'altra parte non seppe imporre la sua autorità al recalcitrante genovese. Doti che invece possedeva il C. erano quelle della pazienza e della prudenza, che lo indussero, dopo un tentativo di attirare il Doria sulla sua galera, a recarsi egli stesso a visitarlo sulla capitana spagnola.

Le due flotte giunsero nel porto di Suda, a Creta, dove le attendeva quella veneziana, l'ultimo giorno d'agosto. L'impreparazione dei Veneziani, confermata al Doria da una rivista tenuta l'11 settembre, la sua determinazione di non mettere a repentaglio la flotta affidatagli se non con la sicurezza della vittoria, la sua decisione di non rimanere in quelle acque oltre il 30 settembre rendevano il capitano spagnolo molto cauto su ogni iniziativa, nonostante il comprensibile desiderio dei Veneziani di affrettarsi in aiuto di Cipro, investita dall'attacco turco già dal 1° luglio. Si aggiunga poi che il Doria, quale che fosse la reputazione di gentiluomo e di militare del C., non ne stimava affatto le capacità marinare. Non fu che il 17 settembre che l'armata congiunta salpò verso Cipro. Erano fermi per una tempesta a 150 miglia circa dall'isola, quando, il 21, giunse la notizia della caduta di Nicosia e questo, anziché indurli ad affrettarsi, ché ancora resisteva Famagosta, li fece desistere dall'impresa. Decisero di portarsi a danneggiare Valona e Durazzo, il che avrebbe forse indotto i Turchi ad abbandonare l'assedio di Famagosta. Si volsero allora verso Scarpanto e si rifugiarono lì, mentre erano sopraggiunte violente tempeste. Il maltempo e la temuta avanzata stagione indussero il Doria allora a chiedere licenza di tornare in Italia.

Era il 26 settembre quando i tre comandanti si riunirono sulla capitana veneziana. Non volendo Gianandrea partire senza licenza né volendo lo Zane concederla, si rimise la cosa al Colonna. E qui si ripresentò il problema della non riconosciuta autorità del C. su tutte e tre le flotte. La discussione divenne penosa quando il C., per dimostrare di avere ricevuto dal re questa autorità, fece portare le carte che lo provavano; invano, tuttavia, perché il Doria sostenne di possederne altre che lo smentivano. Sdegnosamente, ma in effetti rendendo palese la sua sconfitta, il C. lasciò libero il Doria di fare ciò che voleva e questi infatti salpò cinque giorni dopo.

Il C. e i Veneziani rimasero insieme fino a Creta prima, ove giunsero ai primi di ottobre e poi fino a Corfù, dove si separarono. La spedizione era conclusa, senza alcun risultato, né pratico né di prestigio.

Il 28 ottobre il C. fece vela per Ancona, ma il viaggio, pure piuttosto breve, fu disastroso. Egli fu obbligato a sostare a Casopo, a Cattaro, ove un fulmine incendiò la capitana, a Ragusa, raggiungendo infine nel dicembre il porto marchigiano soltanto con quattro galere.

Immediatamente il C. inviò a Roma Pompeo Colonna a fare relazione al papa di quanto era occorso e del comportamento del comandante spagnolo. Il pontefice non considerò affatto imputabile al C. il fallimento dell'impresa e giudicò invece il Doria responsabile di ogni risultato negativo. Anche Filippo II, presso il quale si recò subito dopo lo stesso Pompeo, mostrò di ritenere scagionato il C. da ogni appunto che gli si potesse muovere.

Intanto nell'Urbe le trattative diplomatiche per giungere alla costituzione della lega continuavano. Stabilito che capo della futura spedizione in Levante doveva essere don Giovanni d'Austria, una delle questioni che si dibattevano era quella della luogotenenza. Nel marzo 1571 fu risolta anch'essa e si decise che in assenza di don Giovanni sarebbe subentrato nel comando il Colonna. Erano stati concordati tutti i capitoli, quando si ebbe una battuta d'arresto e gli ambasciatori veneziani abbandonarono Roma. Pio V allora, vista vana l'opera del nunzio a Venezia, vi inviò il C., che partì il 6 aprile.

Questi non aveva un compito facile, perché otto mesi di trattativa avevano messo in risalto le divergenze esistenti fra i Veneziani e gli Spagnoli. Inoltre nella città lagunare continuava a sussistere, oltre che un partito della guerra, uno che invece, voleva l'accordo con la Porta; si aggiungevano poi diffidenze ed effettive difficoltà per la suddivisione e l'anticipo della spesa. Ciononostante la missione del C. ebbe pieno successo.

Egli, usando il prestigio di cui godeva a Venezia, la sua eloquenza e la sua abilità, rimuovendo alcuni ostacoli e dando così efficacemente man forte ai partigiani della guerra, riuscì a fare approvare dal Senato i capitoli già trattati. Si era ormai nel maggio. Il giorno 20 fu sottoscritta la lega di Roma, e il 25 pubblicata.

Quale comandante della flotta pontificia il C. si accinse ad assolvere ai suoi compiti. Confermò suo luogotenente Pompeo Colonna e assegnò le altre cariche; provvide quindi ad armare le dodici galere, che il papa aveva noleggiato dal granduca di Toscana.

Il 21 giugno la flotta partiva da Civitavecchia alla volta di Napoli. Qui il C. avrebbe voluto attendere l'arrivo di don Giovanni, ma ritardando questo ed essendosi verificati incidenti fra i soldati pontifici e quelli spagnoli, per ordine del papa si avviò a Messina, ove giunse il 20 luglio. Il 23, pochi giorni prima cioè della caduta di Famagosta, fu raggiunto da una parte della flotta veneziana, comandata da Sebastiano Venier. Don Giovanni non arrivò che il 24 agosto; il 2 settembre entrò in porto l'altra parte della flotta veneziana. Otto giorni dopo si procedette alla mostra. Le navi veneziane, trovate in difetto di uomini, dovettero accogliere, per volontà di don Giovanni e con la mediazione del C., quattromila soldati al soldo del re di Spagna. Riunitosi il Consiglio generale, non senza che fossero proposti e discussi altri partiti, fu presa la decisione di avviarsi a cercare il confronto diretto con la flotta turca. A metà settembre le forze cristiane lasciavano Messina dirette a Corfù, dove arrivavano dieci giorni appresso.

Durante la successiva sosta della flotta nel porto di Gomenizza si verificò un episodio increscioso, causato dalla presenza dei soldati spagnoli sulle navi veneziane. Don Giovanni, irato contro il Venier, che con giustizia sommaria e diretta aveva fatto impiccare quattro spagnoli colpevoli, di grave insubordinazione, aveva ordinato che il generale veneziano fosse processato. Il C. anche questa volta si interpose fra i due, riuscendo a evitare l'inasprimento della situazione.

Da Gomenizza la flotta si avviò con decisione verso il golfo di Patrasso, dove si sapeva che erano i Turchi. Toccarono Nasso, costeggiarono Cefalonia e la mattina del 7 ottobre all'imboccatura del golfo di Patrasso al largo di punta Scrofa, le due flotte si avvistarono.

Fu dato il segnale di disporsi in ordine di battaglia. Il C., con la sua capitana, era nella squadra di centro alla destra di don Giovanni. Davanti a questa squadra, come davanti all'ala sinistra, due delle sei galeazze veneziane; dietro di essa la squadra di riserva. Quando le galere furono disposte secondo l'ordine stabilito, don Giovanni e il C. scesero su due imbarcazioni, che li portarono uno da una parte, uno dall'altra, lungo la linea della battaglia, a salutare e incoraggiare i combattenti. Dopo che i Turchi ebbero superato con notevoli danni la linea delle galeazze, il combattimento, che prese nome da Lepanto, iniziò dall'ala sinistra, ma il punto focale di esso fu costituito dallo scontro fra i due schieramenti di centro, ove si affrontarono le due ammiraglie; intorno, o meglio agganciate a loro, quella del C. e altre cristiane e turche. Qui si decisero, positivamente per le forze della lega, le sorti dello scontro. L'ala sinistra nel frattempo aveva avuto ragione di quella destra turca; in soccorso dell'altra ala cristiana si portarono alcune galere del centro, fra cui quella del C., e il successo fu completo. La battaglia era durata fino al tramonto. Allora i combattenti cristiani si ritirarono a Platea.

Nell'annunciare la clamorosa vittoria al papa il C. prometteva l'invio di Pompeo Colonna, che doveva narrare al pontefice ogni particolare. In questa e in altre lettere che partecipavano il felice esito del combattimento, il C. si profondeva in ringraziamenti a Dio, che aveva protetto la sua armata, faceva grandi elogi di don Giovanni, che aveva guidato con maestria e valore la flotta, ma non dimenticava di sottolineare la sua positiva partecipazione alla vittoria.

La mattina dopo la battaglia il comandante supremo tornò a ispezionare lo specchio d'acqua dove si era combattuto e volle essere accompagnato dal C. e da altri gentiluomini. Si discusse quindi dei progetti immediati. Alcuni, fra cui il C., avrebbero voluto che in qualche modo si sfruttasse ancora il successo, ma prevalse il parere di disarmare, visto lo stato dell'armata, la carenza dei viveri, l'avanzare della stagione. Con altri il C. fu incaricato di censire e dividere il bottino; a lui, per la parte pontificia, toccarono diciannove galere, due galeotte, diciannove cannoni e milleduecento prigionieri.

A Corfù gli alleati si separarono e don Giovanni e il C. si diressero a Messina, ove giunsero il 1° novembre. Da Napoli, lasciando che il naviglio proseguisse verso Civitavecchia, il C. si avviò a Roma, dove fu pregato di non entrare, poiché l'eccita-zione e la gioia dei cittadini esigevano che egli lo facesse in modo solenne. Si fermò allora a Marino, non senza recarsi segretamente a Roma per parlare con il papa.

In un primo momento si sarebbe voluto far entrare il C. come un antico imperatore romano, coronato di alloro, su un cocchio dorato. Pio V, che aveva dapprima incoraggiato senza riserve questi festeggiamenti, che erano non solo il trionfo di un uomo, ma anche l'esaltazione della sua tenace politica contro il Turco, poi li moderò e il 22 novembre il Popolo romano deliberò i particolari dello svolgersi della cerimonia. Mentre il C. faceva qualche tentativo per esimersi, cominciarono alacri preparativi; le critiche però non mancarono, da parte di alcuni nobili romani, gelosi della preminenza accordata a un loro pari. E da parte degli Spagnoli, per tanti onori tributati a colui che era stato solo il luogotenente del capo della spedizione.

L'ingresso avvenne il 4 dicembre da porta S. Sebastiano. Il C., indossando un cappello e un mantello di velluto nero con le insegne dell'Ordine del Toson d'oro, su un cavallo bianco donatogli dal papa, avanzò fino all'arco di Costantino; passando poi sotto quelli di Tito e di Settimio Severo, giunse in Campidoglio, arrivando quindi in Vaticano. Lungo tutto il percorso trofei, fregi, scritte. Il corteo contava più di cinquemila persone, tutte in livree rutilanti di colori o in ricchi abiti. Tutte le cariche cittadine erano rappresentate; precedevano il C. centosettanta prigionieri turchi, anch'essi in livrea. Colpi di cannone, scariche di archibugi, musiche. Mancavano soltanto, ed era significativo, moltissimi nobili romani e le famiglie dei cardinali. Alla fine il C. fu ricevuto dal pontefice.

Per il giorno 13 fu organizzata un'altra solenne processione, che condusse il C. nella chiesa dell'Aracoeli, dove si resero pubbliche grazie a Dio e dove M. A. Muret recitò un'orazione in onore del C., che fu subito data alle stampe (M. A. Mureti Oratio mandatu S.P.Q.R. habita in reditu ad Urbem M. A. Columnae post Turcas navali proelio victos, Romae s. d.). Il C., come aveva fatto a S. Pietro, offrì una colonna rostrata d'argento.

Subito dopo il C. fu ammesso dal papa a partecipare ai lavori della commissione deputata. Agli affari della lega e nel gennaio dell'anno successivo era già all'opera per preparare la nuova spedizione. Nel marzo infatti, secondo le convenzioni sottoscritte il 10 febbraio, le flotte pontificia e spagnola si sarebbero dovute trovare a Messina per poi riunirsi a Corfù con quella veneziana.

Quando dopo pochi mesi (1° maggio) moriva Pio V, l'armata pontificia non era ancora riunita. Ciononostante i membri del Sacro Collegio si preoccuparono di mostrare a Venezia e a Filippo II che non se ne trascuravano i preparativi. Il 12 maggio inviarono il C. a questo scopo a Gaeta e scrissero a Cosimo de' Medici per sollecitare l'invio delle galere da lui promesse. Il C. era appena partito quando fu richiamato a Roma dal pontefice repentinamente eletto, Gregorio XIII, che lo riconfermò generale dell'armata pontificia e gli ingiunse di continuare la missione.

A Gaeta il C. trovò dodici galere, che il viceré di Napoli aveva messo a disposizione del papa, quattro delle quali egli restituì subito, poiché intanto stavano sopraggiungendone cinque del granduca. Il 26 maggio il C. sbarcava a Napoli, ove lo attendevano altre due galere pontificie. Ripartiva dalla città dopo appena tre giorni, avendo avuto attriti con gli alleati. Pare infatti che avesse avuto motivo di lamentarsi per le accoglienze poco deferenti e per il fatto che gli era stato negato il comando complessivo nel caso che, come era in programma, la sua squadra e quella del marchese di Santa Cruz fossero partite insieme per Messina. In questa città dunque con la sola squadra pontificia arrivò il 2 giugno.

A Messina il C. trovò riunita la flotta quasi al completo, cosicché sembrò imminente l'inizio della campagna. La decisione di don Giovanni, il 14 giugno, giorno fissato per la partenza, di rinviarla al 22, allarmò oltremodo il C. e il Soranzo, comandante veneziano, che chiesero spiegazioni al principe, restandone però in definitiva "malcontenti". Prima che si arrivasse al 29, nuova data fissata da don Giovanni per la partenza, giunse la notizia della decisione di Filippo II di trattenere l'armata in Occidente.

Grandi furono le recriminazioni degli alleati e soprattutto del papa. Il C., pur non nascondendo a questo e ai Veneziani l'amarezza per la mancata partecipazione della squadra iberica all'impresa, si mise subito in attività per ottenere dagli Spagnoli trenta o quaranta galere. Scrisse inoltre a Filippo II, non lasciando trasparire il rammarico causatogli dalla decisione del sovrano e offrendo la sua persona nel caso che il re fosse sceso in guerra con la Francia. Ottenne da don Giovanni ventidue galere e mille soldati, che con bandiera spagnola avrebbero obbedito ai suoi ordini. L'armata, formata da parte delle galere spagnole, al comando di Gil d'Andrada, dalle sedici veneziane, comandate dal Soranzo., e dalle tredici pontificie, partì da Messina il 7 luglio. Il C. si era premurato di ottenere da don Giovanni d'Austria un parere scritto su quanto la flotta cristiana avrebbe dovuto operare in Levante.

Il 15 luglio il C. giunse a Corfù, ove si congiunse con il grosso delle forze veneziane. Informatisi della consistenza dei nemici, gli alleati si portarono a Gomenizza, decisi a veleggiare verso Sud per ricercare la flotta turca, così come era previsto dalle istruzioni di don Giovanni. In questo porto giunse al C. la nuova della decisione di Filippo II di revocare gli antecedenti ordini al fratello e di imporgli invece la partenza verso Levante. Di questo don Giovanni faceva partecipe il C., ordinandogli altresì che non si intraprendesse "cosa que pueda haver peligro", ma anche di provvedere a parare i danni che l'armata turca poteva arrecare alle terre veneziane.

Il C. poteva dunque o aspettare passivamente don Giovanni a Corfù, con il danno che comportava perdere il prezioso tempo estivo, rischiando la salute dei marinai con un'altra sosta, o attendere alla seconda parte delle istruzioni, impedendo ai Turchi, affrontandoli, di apportare danni alle coste. Le istanze dei Veneziani e il suo desiderio di battersi lo convinsero che partire verso il nemico era obbedire agli ordini, anche se tutto un settore filospagnolo di storici sostenne che egli fu invece animato dalla volontà di non rinunziare al comando supremo finalmente conseguito e di conquistarsi direttamente e indipendentemente una porzione di gloria. Che il C. desiderasse ardentemente misurarsi con il nemico pare evidente dalle mosse successive dell'armata.

Presa all'unanimità dai tre generali la decisione di partire, la flotta salpò il 29 luglio, raggiunse Cefalonia, superò Zante e arrivò a Cerigo. Il capo Malea la separava da quella turca, che era a Malvasia.

Il 4 agosto le due armate si avvistarono. Sembrò che potesse rinnovarsi il combattimento dell'anno prima, ma i Turchi ricusarono la battaglia e la flotta cristiana, dopo aver incrociato un altro giorno in quelle acque in ordine di battaglia, andò ad ancorarsi in un'isoletta fra Cerigo e Creta. Il 6 di nuovo le forze, opposte si avvistarono al largo di capo Malea, ma anche per le condizioni sfavorevoli del tempo non fu ingaggiata la battaglia. Parve che si arrivasse allo scontro il giorno dopo. Le due flotte si schierarono in ordine di combattimento, ma il vento venne a mancare e anche se il C. fece rimorchiare dalle galere le navi fornite di sole vele, lentamente l'armata turca senza voltare le poppe si defilò. L'8 un falso allarme, mentre la flotta cristiana si trovava impreparata e dispersa, dimostrò soltanto che nell'armata la disciplina faceva difetto.

Intanto si prospettava ai comandanti la necessità di congiungersi con le galere di don Giovanni. Essi avevano la consapevolezza di quanto fosse pericoloso affrontare lo scontro senza i rinforzi spagnoli, che ormai dovevano essere vicini; c'era inoltre la temibile possibilità che i Turchi volessero impedire il congiungimento delle due flotte o magari assalire le forze di don Giovanni. Decisero così di andare incontro al principe spagnolo e il 10 agosto tutta l'armata lasciò Cerigo, ma, doppiato capo Matapan, si trovò davanti la flotta nemica. Dopo che una nave veneziana venuta a trovarsi fra i due schieramenti riuscì a portarsi al riparo, sembrò che potesse iniziare il combattimento. In un primo momento i colpi di artiglieria disordinarono la flotta turca, ma proprio per approfittare di questo i combattenti cristiani persero l'allineamento, cosicché alcune galere si trovarono avanzate rispetto alle navi senza remi, mentre altre rimanevano attardate. Fu un momento critico e se i Turchi avessero sferrato l'attacco il C. avrebbe dovuto ben rimpiangere il suo desiderio di combattere; ma essi ancora una volta ricusarono la battaglia e si defilarono.

Dopo una sosta a Cerigo il C. il 14 riprese il mare verso Zante; qui ebbe avvisi di don Giovanni, che, arrivato il 10 a Corfù, desiderava incontrarsi con lui a Cefalonia. Quivi giunto il C. aspettò il principe e lo incontrò dopo vari contrattempi fra quest'isola e Corfù, dove giunsero insieme il 1° settembre.

Don Giovanni, che aveva aspettato la flotta per venti giorni, senza essere informato a sufficienza di quanto essa stava compiendo, non poteva che essere furioso nei confronti del suo luogotenente. Quando il C., che non restava di giustificarsi con il papa e con Filippo II, si incontrò con lui, sostenne di aver agito osservando le disposizioni, ma in realtà egli aveva disobbedito se non alla forma certo alla sostanza degli ordini e non poteva controbilanciare la disobbedienza con il conseguimento di una vittoria, che avrebbe di forza messo a tacere le critiche.

Mentre il risentimento reciproco avvelenava i rapporti fra i generali, si ricominciò dalle operazioni preliminari. Ad una prima rivista le navi veneziane risultarono troppo scarsamente fornite di uomini, ma il Foscarini si rifiutò recisamente di accettare su di esse soldati spagnoli. Il C. fece allora opera di mediazione, accogliendo gli iberici sulle sue navi e offrendo ai Veneziani 1.600 dei suoi soldati.

Il 7 l'armata finalmente riunita partì da Corfù. A Gomenizza si fece la mostra generale e don Giovanni divise la flotta in tre squadre, più un'avanguardia e una retroguardia; quella di centro era al comando del generale supremo, che aveva accanto il C. e il Foscarini. Ripercorsero quindi il cammino inverso, giungendo a Cefalonia il 12 e portandosi poi a Zante. Di qui si diressero di notte a Navarino con l'intento di sorprendere la squadra turca, che però, mancata la sorpresa, riuscì a rifugiarsi a Modone.

Durante la fuga degli Ottomani al C. fu dato l'incarico, strano in verità per un comandante, di avvicinarsi ai nemici e di individuarne le intenzioni. Sembrò ad un certo punto che egli dovesse ingaggiare con nove galere turche un impari combattimento, ma, ricevuto il C. l'aiuto di otto galere, i Turchi si allontanarono. Al sicuro nel porto i nemici, i comandanti formularono varie proposte sulle operazioni da intraprendere. Il C. propose di assaltare Modone da terra con truppe sbarcate a poca distanza dal porto, ma il suo piano fu giudicato irrealizzabile e troppo pericoloso per il naviglio e per i soldati.

Il 30 settembre fu iniziato un attacco contro Navarino, ma, mentre le vettovaglie cominciavano a scarseggiare, il 5 ottobre anche questa impresa dovette essere abbandonata. Anche il C. partecipò alle operazioni di sganciamento e di reimbarco. Due giorni dopo, nell'anniversario della battaglia di Lepanto fu presa all'unanimità dai tre comandanti la decisione, motivata soprattutto dalla mancanza di vettovaglie, di abbandonare l'assedio di Modone e l'impresa di Oriente. La campagna si era dunque conclusa in modo assolutamente negativo e aveva lasciato gli alleati reciprocamente diffidenti e quasi nemici.

Il C. rientrò a Civitavecchia a metà novembre. L'accoglienza del papa al suo ritorno non fu e non poteva essere quella tributatagli da Pio V l'anno precedente, tuttavia, Gregorio XIII non ebbe bisogno delle giustificazioni del C., avendogli già accordato piena fiducia. Al C. stava però a cuore che anche il sovrano spagnolo ritenesse legittimo e non pregiudizievole all'impresa il suo modo di procedere. Alla fine dell'anno si recò quindi in Spagna.

Ufficialmente il C. doveva richiedere al re da parte del papa di aumentare l'apporto spagnolo di galere per la campagna del prossimo anno e di esortare l'imperatore a scendere in campo con le forze cristiane. L'intento privato era di presentare a voce al sovrano la relazione del suo operato e la difesa e giustificazione di esso. Recava anche lettere di don Giovanni che avrebbero dovuto dimostrare il buon accordo fra lui e il principe, senza sapere che quest'ultimo aveva però scritto direttamente al fratello per indicare nel C. il responsabile dell'esito negativo dell'impresa. Anche Filippo II del resto aveva cercato di evitarsi il peso di una sua visita, giudicata inopportuna. Tuttavia il C. arrivato a Madrid il 18 genn. 1573, fu onorato e fatto segno di cortesie dal re e dai suoi consiglieri, come era dovuto al suo rango e alla sua posizione.

Nelle quattro settimane che rimase alla corte il C. ottenne dal re l'impegno di inviare in Levante centodieci galere e l'assicurazione che egli avrebbe ancora insistito presso l'imperatore per ottenerne l'intervento. Oltre alla formale approvazione della sua condotta, il sovrano gli espresse il suo compiacimento a che egli continuasse a essere il comandante della flotta pontificia; gli promise poi che, quando egli fosse stato libero da altri incarichi, sarebbe stato utilizzato in "governi particolarissimi".

Il C. giunse a Roma dopo un viaggio per mare travagliato, che lo costrinse a sbarcare a Savona e a proseguire da lì per terra. Firmato il rinnovo della lega il 27 febbraio, il C. si era accinto a mettere di nuovo a punto la flotta, quando giunse la notizia della pace separata di Venezia con i Turchi. Deciso dalla Congregazione della Lega il congedo delle truppe e delle galere, fu così repentinamente interrotto il periodo dell'attività marinara del Colonna.

Per i successivi quattro anni si hanno del C. poche e frammentarie notizie. Certamente egli, che verosimilmente continuava, secondo l'appalto concessogli dal 1571 a tutto il 1586, la produzione e la vendita di vetriolo, di cui aveva trovato una miniera nella terra di Nettuno, alternò il soggiorno a Roma e nei suoi possedimenti nella Campagna romana con quello nel Regno. A Napoli era infatti nell'autunno del 1573 e nel 1575, dalla primavera. Nell'agosto di quell'anno il viceré lo convocò perché si temeva un attacco turco sulle coste pugliesi. Alla fine di settembre fu inviato a Brindisi e a Taranto, dove rimase un mese allo scopo dì mettere a punto la cavalleria spagnola. Alla fine di settembre dell'anno successivo il C. si rimise in viaggio per la Spagna, conducendo con sé i figli, Fabrizio e Ascanio, il quale ultimo avrebbe lasciato, tornando, in terra iberica.

Il 4 genn. 1577 il C. fu nominato da Filippo II viceré di Sicilia. Era l'incarico di grande rilievo politico a cui aspirava da tanto tempo e che aveva sollecitato più volte al sovrano. Giunse a Palermo nell'aprile e il 24 fece il suo solenne ingresso nella città, prestando, secondo la consuetudine, giuramento nella cattedrale.

Il C., cui tre anni dopo, il 19 ag. 1580, la carica venne rinnovata, prese subito l'abitudine di riunire i suoi principali consiglieri per esaminare gli affari di Stato e di guerra e avrebbe voluto che questa abitudine fosse istituzionalizzata con la creazione di un Consiglio di Stato.

Una delle opere cui si accinse il C. appena arrivato nell'isola fu quella di emanare provvedimenti atti a debellare la peste, che aveva imperversato nei due anni precedenti. Con una serie di disposizioni, che si protrassero fino all'estate del 1579, egli riuscì, isolando e debellando il contagio, a liberare il paese dall'epidemia, che non aveva mancato di causare riflessi negativi sull'economia isolana. Egli si avvalse anche della collaborazione del protomedico Filippo Ingrassia.

Tra il febbraio 1576 e l'avvento del C. al governo di Sicilia un celebre avventuriero, Scipione di Castro, aveva scritto gli Avvertimenti a M. A. Colonna quando andò viceré in Sicilia (S.di Castro, La politica come retorica, a cura di R. Zapperi, Roma 1978, pp. 82-140), composti sicuramente non personalmente per il C., ma per chiunque fosse stato destinato a ricoprire la carica di viceré, in cui l'autore offriva un quadro della situazione siciliana e i suggerimenti per affrontare i vari problemi.

S. di Castro iniziava il capitolo riguardante il Parlamento del Regno sostenendo che esso aveva "gran forza di travagliare un viceré poco destro". Il C. convocò due Parlamenti, uno nell'aprile del 1579 e l'altro nel giugno 1582. In ambedue fu stabilito il pagamento del donativo ordinario di 300.000 fiorini, di altri 100.000 per le "fabbriche" del Regno, di 48.000 per i ponti, di 20.000 per le "fabbriche delli regii palazzi", di 10.000 per la riparazione e costruzione delle torri di avvistamento. In ambedue le assemblee i tre "bracci" chiesero al re - senza ottenerlo - che con i denari da loro sborsati per trecento cavalli leggeri si mantenessero invece sei galere. Oltre all'ordinario stanziamento di 5.000 fiorini per il viceré, al C. furono offerti 25.000 scudi nel primo e 35.000 fiorini nel secondo Parlamento, che egli, secondo la consuetudine, rifiutò in entrambi i casi; l'offerta dimostra però come gli umori del Regno non gli fossero contrari, anche nel secondo Parlamento, quando stava per arrivare nell'isola il sindacatore del re. Durante il primo Parlamento, all'apertura del quale il C. aveva espresso il suo proposito di procurare e mantenere nel Regno la pace, nelle città e nelle campagne, la giustizia "universale, recta et discreta" e l'abbondanza, egli accettò la cittadinanza siciliana.

Il Tribunale del Patrimonio, che si occupava della parte finanziaria dell'amministrazione era stato definito da Scipione di Castro "noioso" per il viceré, ma il C. sembrò considerarlo alla stregua degli altri suoi doveri. Arduo tuttavia, poiché esso appariva al C. nel 1580 in uno stato caotico. Egli si accinse allora alla sua riorganizzazione. Fu aumentato il personale e i suoi emolumenti; si stabilì una graduatoria precisa per le promozioni. Questo nuovo sistema, che pure non durò che pochi anni, sembrò dare risultati eccellenti dal punto di vista organizzativo; rimanevano però invariati gli atteggiamenti di fondo del personale, che ai gradi più alti si disinteressava dei propri doveri e a quelli più bassi arrivava addirittura a una sorta di boicottaggio. Con il decreto del 7 marzo 1584 il C. creò la carica di consultore e protettore del R. Patrimonio.

Sosteneva Scipione di Castro: "Bisogna… che il viceré sempre intervenga… a tutte le cause…", e più oltre: "L'altro membro di giustizia consiste in l'audienza così publica come privata che dà il viceré …". Il C. fissò questi doveri del viceré in una prammatica, la prima delle Constitutioni prammaticali del Regno di Sicilia fatte sotto… M. A. Colonna (Palermo 1583): "del tempo di negotiare co'l viceré", che indicò a esempio agli ufficiali, in modo che "ogn'uno sia sempre vigilante et sollecito nell'amministratione dell'ufficio suo, udendo con patienza et facilità i negotianti, maturando con prudenza i negotii et essequendo con celerità le risoluzioni …". In essa per tutti e sette i giorni della settimana era previsto l'abboccamento del viceré con tutti i rappresentanti delle istituzioni del Regno; inoltre erano fissate udienze pubbliche e private; solo il giovedì pomeriggio era riservato alla redazione dei dispacci. Un programma simile illustra l'impegno massimo che il C. intendeva mettere nell'assolvere al suo compito. C'è però da osservare che la serenità che il C. si riprometteva di avere nel compiere il suo ufficio pare che in pratica gli venisse meno, se c'era l'uso di informarsi del suo timore prima di chiedergli udienza e di rinunciarvi se egli sembrava maldisposto.

Scipione di Castro metteva in guardia il viceré dalle "artificiose malignità degli ufficiali", che erano soliti operare "artifici nocivi molto alla riputazione del viceré". Anche il C. aveva ben presente il problema, se scrivendo al re nel 1579 sosteneva che era necessaria una grande cura per non essere ingannati da loro. A questo proposito egli emanò nel 1582 insieme con il Senato di Palermo una serie di ordini che definivano i doveri degli ufficiali municipali, determinandone minutamente le responsabilità. Dell'agosto dell'anno seguente, autorizzata dal re nel 1581 e 1582, è la prammatica "del sindicato d'ufficiali" (Costituzioni…, cit., pp. 175-82). Con essa si effettuava una riforma di grosso rilievo: dividendo l'isola in ventiquattro circondari, si cercava di sottoporre a un controllo tutto il personale dell'ordine giudiziario, dai giudici della Gran Corte e della Sacra Coscienza agli ufficiali annuali e temporanei. Exnovo il C. creò la carica di capitano degli algozini.

Il consiglio di Scipione di Castro a proposito degli inquisitori era stato quello di non entrare in contrasto con loro, ma di prospettare eventuali screzi alla corte di Madrid, perché fossero ivi risolti e per il resto di "aiutarli e favorirli" sempre. L'operato del C. fu diametralmente opposto a questi suggerimenti. Del resto all'inizio del suo mandato egli trovava la situazione già compromessa da almeno quattro anni di contrasti fra il tribunale del S. Uffizio e la Gran Corte, attentando quest'ultima alla giurisdizione di quello sul grande e mutevole numero dei suoi ufficiali e famigliari. Così già nell'estate del 1577 partiva verso il Gran Consiglio dell'Inquisizione la prima denuncia, dell'inquisitore Bernardo Guasco, contro il viceré. Questi contrattaccò denunciando l'uso di alcuni giudici inquisitoriali di esporre i propri emblemi nella sala delle udienze, che in effetti furono fatti togliere dal Gran Consiglio.

I due inquisitori succeduti al Guasco, Diego Haedo e Juan de Rojas, l'8 genn. 1578 spedivano al grande inquisitore, cardinal Quiroga, una protesta, in cui si denunciava l'atteggiamento ostile del C. nei confronti del tribunale del S. Uffizio, che tendeva a sottoporre a questo soltanto le cause di fede e di religione. L'Haedo, che non intendeva sottostare a una tale limitazione, finì per inviare il 1° marzo 1580 allo stesso sovrano un'ampia denuncia contro il viceré. Vi si narrava che il C., il quale aveva perseguitato dall'inizio del suo incarico gli addetti al S. Uffizio e che era parziale a favore dei giudici della Gran Corte, tanto da aver dichiarato di preferire la presenza di duecento eretici in Sicilia alla scomunica di questi, aveva accusato gli inquisitori di "mentire come tanti villani" quando sostenevano che l'istituzione da essi rappresentata non poteva esercitare i propri diritti. Egli aveva sostenuto inoltre di aver fede non nell'Inquisizione per mantenere la Sicilia fedele al sovrano, ma nei suoi soldati; facesse attenzione il re, continuava l'Haedo, poiché costui, che governava troppo risolutamente, sembrava aver l'intenzione di impadronirsi del Regno.

Il sovrano nominò allora una giunta che avrebbe dovuto dirimere le controversie sorte in Sicilia fra il potere civile e quello inquisitoriale. La "concordia", emanata dalla commissione il 4 luglio 1580, conferì una completa vittoria all'Inquisizione, che vide accolte le sue richieste e giustificate le sue proteste. Non si deve credere tuttavia che questo eliminasse tutti gli attriti, tanto è vero che il 2 ag. 1581 l'Haedo inviò a Madrid una nuova denuncia contro il viceré. Il contrasto del C. con l'Inquisizione fu dunque insuperabile, né poteva essere altrimenti, vista la sua avversione verso il S. Uffizio, di cui pare che egli auspicasse la cessazione dell'attività nell'isola.

Come si è già accennato, uno dei mezzi che il C. usò contro l'Inquisizione fu il tribunale della Gran Corte, che considerò lo strumento per prevalere su quella e anche per affermare il proprio prestigio. Un altro fu il rafforzamento, perseguito del resto anche da Filippo II, dell'istituto della Legazia. Nel giugno del 1579 l'ufficio del giudice della Monarchia divenne stabile e verso la fine del 1581, dopo il fallimento dell'opera del delegato spagnolo a Roma presso Gregorio XIII, il re ordinò che esso dovesse essere affidato a un ecclesiastico. Il C., insieme con l'arcivescovo di Palermo e con Niccolò Stizzia, compilò le istruzioni in sei punti per questo giudice. Inoltre nel 1583 il C. emanò ventitré ordini, che naturalmente non trovarono il favore di Roma (editi in A. Forno, Storia della apostolica Legazione…, a cura di G. M. Mira, Palermo 1869, pp. 282-285).

Nel complesso il C. lavorò intensamente nei sette anni in cui ricoprì la carica di Viceré, senza fermarsi davanti ad alcuna difficoltà dando l'impressione però di sottovalutare i problemi locali, che ostacolavano la realizzazione di ogni iniziativa di governo, pur se razionale e sensata. Tuttavia la sua condotta non fu immune da colpe: prevaricazioni, come sembra provare la sua esclusione dal processo di appello di Juan Osorio, generale delle galere; leggerezze, come l'aver riposto eccessiva fiducia nel suo segretario Pietro Cisneros, poi processato e condannato per falsi ed estorsioni; irregolarità, in cui fu sostenuto da Luca Cifuentes, presidente della Gran Corte, e da Francesco Rao, avvocato fiscale. Comunque sembra di poter affermare che la sua lealtà nei confronti del sovrano fu assoluta. Egli vedeva l'amministrazione di una provincia del dominio spagnolo, come quella di un membro di un unico corpo e avrebbe voluto essere più libero nel compiere i suoi doveri verso il sovrano, senza dover sottostare al giudizio dei membri della corte del Patrimonio ogni volta che egli inviava denari a Madrid. Per il governo di quella parte di un tutto unico, che era la Sicilia, egli si prodigò, come ebbe a scrivere nel dicembre del 1581, sostenendo di aver contenuto le spese ordinarie e straordinarie, supplito alle richieste di Madrid, liberato dai debiti la corte di Palermo. Al notevole bisogno di denaro il C. fece fronte dando un inusitato incremento alla pratica di vendita del diritto di mero e misto imperio ai nobili e degli uffici, eccettuati quelli militari e giudiziari, ai privati.

Sotto il suo viceregno fu proseguita la costruzione in Palermo della strada del Cassero, che fu conclusa da una porta, di cui il C. pose la prima pietra nel 1580, chiamata Felice dal nome di sua moglie. Nella stessa città fece restaurare porta Nuova ed edificare la Vicaria, destinata a Dogana, presso la chiesa di Porto Salvo. Nella cattedrale adornò e restaurò quattro cappelle, da gran tempo diroccate. A Messina fece costruire una strada fra il mare e le mura.

Del 1582 è un viaggio del C. a Malta, contro cui si temeva allora un attacco dei corsari turchi. Egli si recò nell'isola scortato da cinque galere siciliane e due di Malta e qui, onorato dal gran maestro Ugo de Verdala, fu prodigo di consigli e di aiuti, ritornando in Sicilia a metà ottobre.

Uno dei suggerimenti indirizzati da Scipione di Castro al viceré di Sicilia era quello di costituirsi fama di "vigorosi". L'intento del C. di mostrarsi solerte amministratore della giustizia, senza riguardo per la posizione sociale dei colpiti, travalicò molto il prudente consiglio. Non bastò certo ad attenuare questo rigore che egli concedesse che ogni pomeriggio di festa fossero ammessi a visitarlo i gentiluomini che lo desideravano o che egli facesse vita mondana dando pranzi e promuovendo recite. Nello stesso 1577 egli mostrò di non voler continuare la politica in favore dei nobili dei suoi predecessori, facendo arrestare il marchese de La Favara, che aveva fino ad allora agito senza temere di nessuno. Il suo modo reciso di procedere offendeva o danneggiava personaggi altolocati, fra cui egli si faceva nemici. Così in breve si inimicò con Diego Enriquez, nobile iberico-siciliano; così si alienò Geronimo de Cordova e il duca di Sessa, il duca di Medina di Riosecco, i quali andarono a costituire e ad alimentare un partito anti-Colonna, già formatosi in Spagna alla sua nomina. Un altro nemico potente si procurava nel 1579 nel duca di Terranova, accusandone la sorella di veneficio nei confronti del marito. Anche con i suoi ministri iberici, il conservatore Estevan de Monreal e il consultore Toboada, il viceré ebbe relazioni pessime, che gli impedirono di instaurare con loro un rapporto di proficua collaborazione.

Un atteggiamento duro, che gli procurò altre inimicizie, fu quello avuto dal C. nel suo tentativo di reprimere il banditismo, che aveva potenti connivenze. Specie durante il primo periodo del suo viceregno si eseguirono parecchie condanne capitali, che egli si rifiutò di mitigare. Riuscì ad assicurare alla giustizia anche due banditi famosi, Girolamo Colloca, che fece giustiziare, e Rizzo di Saponara, che però fu avvelenato prima che potesse essere giudicato.

Benché fosse tuttaltro che inusitato rivolgere a Madrid lagnanze e proteste contro il viceré in carica, tuttavia i memoranda contro il C. e le contestazioni a corte, benché egli tenesse lì un suo agente fisso che ne curava gli interessi, giunsero a causare la somministrazione di quella "buona medicina" (S. di Castro, La politica…, cit., p. 135) che era la sindacazione. Nell'ottobre 1582 arrivava infatti a Palermo il visitatore Gregorio Bravo de Sotomayor. Secondo il di Castro l'opera di costui non portava il viceré se non o "a partir con danno o a restar con vergogna", tuttavia il C. da principio offrì la sua collaborazione al Bravo, ma questa non fu accettata. In effetti l'opera di quest'ultimo, anche se ufficialmente volta al controllo degli ufficiali del Regno, era nelle sue intenzioni diretta contro il viceré, di cui egli non mancò di mettere in luce le responsabilità. Certo nelle eccessive elargizioni e nelle connivenze in vere e proprie irregolarità amministrative e giudiziarie in cui risultò coinvolto il C. deve vedersi il bisogno che questi aveva di crearsi una rete di aderenti per fronteggiare il notevole numero di nemici che si era creato. Quando venne citato davanti alla corte del visitatore Pompeo Colonna, che era stato una sorta di vicario del viceré ed era allora straticò di Messina, gli avversari del C. esultarono. Si vennero così a formare in Sicilia due partiti, uno a favore del C. e l'altro contro di lui, stretto attorno al visitatore. Queste due fazioni portarono all'esaltazione le passioni che le animavano, prendendo posizione in modo opposto, nella vicenda che portò al richiamo del C. in Spagna.

Eufrosina Zaragossa era la ricca moglie di Galcerano Corbera, figlio del barone di Miserendino, uomo stravagante e pieno di debiti. Questi ultimi due, con la complicità di un parente, Ottavio Bonetta, si resero colpevoli dell'uccisione di un paggio, accusato di aver avuto una relazione con la donna. Il delitto, non provato, fu archiviato e il barone di Miserendino, oberato di debiti, che la nuora non volle pagare, fu inviato dal C. a Sciacca come capitano delle armi. Galcerano Corbera si imbarcò invece su una galera. L'interessamento del C. per la famiglia, la solitudine della sposa, la fama di uomo licenzioso del viceré, che fu illustrata in un memorandum inviato dal Monreal a Madrid, fecero sì che si cominciasse a mormorare dell'esistenza di una tresca fra i due. A questo punto il barone di Miserendino tornò a Palermo e, escluso dalla giurisdizione dell'Inquisizione, con una leggerezza che l'Haedo si rimproverò, fu arrestato per debiti. Questo il pretesto ufficiale, che poggiava certo su basi reali, ma l'Haedo nella già citata denuncia del 12 ag. 1581 riferiva chiaramente che questo era avvenuto per "fine particolare". Pare inoltre che il viceré si opponesse a un accomodamento fra i creditori e il barone, che morì in carcere entro pochi mesi. Il marito della baronessa, che non pareva sospettare di lei, sempre nel 1581, quando Pompeo Colonna fu inviato dal viceré con tre galere a Malta, ove era in atto una rivolta dei cavalieri contro il gran maestro, accettò l'invito ad accompagnarlo, ma qui il suo corpo crivellato di pugnalate fu trovato senza vita in una via della Valletta. Sul C. cadde il sospetto di essere il mandante di questo assassinio. Ottavio Bonetta, che come si è visto già una volta aveva intrigato a proposito di Eufrosina, cominciò ad avanzare rivendicazioni per ottenere giustizia per la morte dei congiunti o forse per impadronirsi delle ricchezze della baronessa. Per prima cosa il Bonetta riuscì a togliere alla donna la custodia di un ragazzo, fratello di Galcerano; ma ella ottenne di riaverlo con sé per l'intervento del Colonna. Nel settembre del 1582, poco prima dell'arrivo del visitatore, il Bonetta fuggì da Palermo verso la Spagna, sostenendo di essere perseguitato dal viceré.

Quest'ultimo non si chiuse in sdegnoso silenzio, ma replicò a queste accuse con dignità e abilità; si appellò alla differente statura morale fra lui e un uomo come il Bonetta, già condannato alle galere; difese l'onorabilità della dama accusata, sostenendo che ella era al di sopra di ogni sospetto. Storicamente non fu provato, né è probabile che possa mai esserlo, anche se molto verosimile, che il C. e la donna fossero amanti, né tanto meno che il Corbera fosse stato fatto eliminare dal viceré. Tuttavia, anche se l'azione del Bonetta non sfociò in una vera e propria inchiesta contro il C., il considerevole numero di persone che presero posizione contro di lui, anche se non mancò chi lo sosteneva, impressionò la corte, fino a causarne il richiamo.

Il 20 marzo 1584 il C. fu richiamato dal sovrano, i cui propositi nei suoi riguardi erano e sono rimasti ignoti a tutti. Alcuni giunsero a pensare che il re divisasse di utilizzare il C. nella sua armata, altri invece che Filippo II volesse chiedere conto al C. della corrispondenza avuta con Aluch 'Ali, capitano generale dell'armata turca, nel 1580, corrispondenza che però non gli era ignota e dalla quale la lealtà del C. non era toccata. In ogni caso ufficialmente la partenza del C. dall'isola avvenne con gli onori dovuti al suo rango.

Lasciato come presidente del Regno il conte di Briatico, il C. iniziò il viaggio da Palermo il 1° maggio; si fermò a Messina fino al 16 e il giorno 25 era a Napoli, ove fu accolto con grandi manifestazioni di deferenza. Il 2 giugno era a Terracina. Dopo soste a Cisterna, presso i Caetani, a Paliano, a Zagarolo e a Marino, arrivò il 6 a Roma. Gli andò incontro a quattro miglia dalla città l'ambasciatore spagnolo con altre personalità. Nell'Urbe si fermò una settimana. Fu ricevuto naturalmente dal papa e, alloggiando nel palazzo dell'oratore spagnolo, fu visitato da moltissimi gentiluomini, ma non mancò chi giudicò il suo modo di comportarsi piuttosto da "spagnolo affettato che da cavaliere italianato" (Rossi, Le statue, p. 23) e chi lo giudicò altero e sdegnoso nel momento della fortuna, "ma che nell'avversa fin dagli occhi se gli scorge la tenerezza della sua paura" (ibid., p. 24).

Accompagnato da cardinali ed estimatori fino a Galeria, dove gli fu offerto un rinfresco, il C. si rimise in viaggio il giorno 13, fermandosi a Bracciano, presso il cognato, dieci giorni. Si imbarcò a Civitavecchia il 23 giugno. Lo scortavano dieci galere siciliane, due di Napoli, cinque di Firenze e tre di Malta. Dopo una sosta a Genova arrivò a Barcellona l'8 luglio. Ricevute le debite onoranze si avviò verso Madrid; ma il 1° agosto morì a Medinaceli, dopo essere stato ammalato una settimana (Bibl. Apost. Vaticana, Vat. lat. 7031, cc. 292r-293v: Relazione anonima sulla malattia e morte di M. A. Colonna). Fu sepolto a Paliano, nella chiesa di S. Andrea, secondo quanto aveva disposto nel suo testamento.

La fulmineità della morte, epilogo di un dramma già fosco, il mistero delle intenzioni del re, la possibilità di eventuali mosse di difesa del C., la sicura inimicizia di molti, la sempre sostenuta inimicizia del Granvelle alimentarono il sospetto, non provato e poco plausibile, che il C. fosse stato vittima di un avvelenamento.

Nel testamento, datato 1569, egli aveva istituito erede universale il figlio primogenito Fabrizio, che, nato il 20 ott. 1557, era però morto nel 1580. Altri beni andavano al figlio Federico, che era morto nello stesso 1569. All'unico figlio maschio che gli sopravvisse, Ascanio, ecclesiastico, destinò Marino e Rocca di Papa, oltre al palazzo detto della Torre ai SS. Apostoli. Il C. aveva avuto inoltre tre figlie femmine: Vittoria, Giovanna e Costanza.

Roma, presto dimentica, non dedicò al C. neanche un ufficio funebre e solo il 25 sett. 1595 fu inaugurata in Campidoglio una sua statua bronzea, di modesta fattura e, pare, realizzata a spese della famiglia.

Di ben altra importanza sono i tre ritratti pervenutici, che del C. dipinse Scipione Pulzone. Di essi uno, conservato nella Galleria Colonna, è una piccola tela dipinta in epoca imprecisata, che lo raffigura a mezzo busto. Un altro è una grande tela, conservata in palazzo Colonna a Roma, che lo ritrae a figura intera, avvolto in un manto con accanto le insegne del comando. Il terzo (anch'esso nella Galleria Colonna), che raffigura il C. in piedi, vestito di mezza armatura, è una perfetta testimonianza del genere del "ritratto di Stato" della seconda metà del Cinquecento, in cui il pittore, pur non tralasciando le caratteristiche somatiche e la minuzia dei particolari, mette in evidenza lo stato sociale del personaggio. Compiuto in poche ore durante il soggiorno del C. a Bracciano nel suo ultimo viaggio verso la Spagna, esso non è una delle opere più felici del ritrattista aulico Gaetano, ma risponde perfettamente allo scopo che il committente si prefiggeva. Con esso - e ne ordinò più copie in quell'occasione - il C. non voleva infatti consegnare ai posteri le sue fattezze, ma piuttosto voleva che rimanesse testimonianza dei riconoscimenti ottenuti con la sua fedeltà al sovrano spagnolo e ai papi e soprattutto della sua gloria militare.

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. Colonna: materiale vario sul C.: II C D 1, 1 ss.; copialettere delle missive inviate a Filippo II durante il viceregno: II CE, 1-3; ivi anche regesti Tomassetti su schede; Arch. Di Stato di Roma, Tribunale del Governatore, Processi sec XVI, nn. 24 e 30; Bibl. Ap. Vaticana, lettere sue o a lui dirette di scarso interesse in Vat. lat. 6183, Vat. lat. 6194, Vat. lat. 6195, Vat. lat. 12.282, Vat. lat. 13.453, Urb. lat. 818; inoltre Urb. lat. 814: Informazione delle cose dell'armata dell'anno 1572, I, cc. 330-343v; Urb. lat. 873: Manifesto di M. A. Colonna in giustific. per sua Maestà, cc. 356-361; Urb. lat. 870: Negoz. della conclusione della lega… in Venezia, cc. 347-360; Barb. lat. 5370: Discorso del S. Officio di Sicilia, cc.60-69; Arch. Segr. Vaticano, Schedario Garampi, Miscellanea, s. v.; P. Nores, Storia della guerra di Paolo IV S. P. contro gli Spagnuoli, in Arch. stor. ital., s. 1, XII (1847), pp. 21 s., 44 s., 67 s., 81, 110, 128, 133, 139, 146, 168, 196-212, 215, 229, 232, 253, 281; R. Ancel, Nonciatures de France. Nonciatures de Paul IV, Paris 1911, ad Indicem; Correspondencia diplomatica entre España y la Santa Sede, a cura di L. Serrano, I-IV, Madrid 1914, ad Indicem; Nunziature di Napoli, a cura di P. Villani, I, Roma 1962, ad Indicem; La corrispondenza da Madrid dell'ambasciatore Leonardo Donà, a cura di M. Brunetti - E.Vitale, Venezia-Roma 1963, pp. XXIX ss., XXXIII s., XL, s., XLIII, XLVIII, 64, 66 s., 147-152, 157, 217, 284, 378, 566, 629, 631, ss., 636, 642, 645, 650-653, 655 s., 800 s.; L'archivio dei Visitatori generali di Sicilia, a cura di P. Burgarella - G. Fallico, Roma 1977, ad Indicem; A. Mongitore, Parlamenti generali del Regno di Sicilia, I, Palermo 1749, pp. 383-393; G. E. Blasi e Gambacorta, Storia cronol. de' viceré… di Sicilia, II, 1, Palermo 1790, pp. 289-322; A. Coppi, Mem. colonnesi, Roma 1855, pp. 311, 318 ss., 322-329, 339-354; A. Guglielmotti, M. C. alla battaglia di Lepanto, Firenze 1862; A. Forno, Storia della apostolica Legazione…, a cura di G. M. Mira, Palermo 1869, pp. 44 s.; S. Cocchiera, L'entrata di M. A. C. in Palermo…, Palermo 1870; A. Bertolotti, La prigionia di Ascanio Colonna, in Atti e mem. della R. Deputaz. di storia patria perle prov. moden. e parmensi, s. 3, II (1884), pp. 109, 111 s., 120 s., 130, 133 ss., 139, 144, 147 ss., 153 s., 156 s., 163, 166 s., 171-174, 179 s.; I. Ciampi, M. A. C., in Opuscoli vari, storici ecritici, e cura di P. E. Castagnola, Imola 1887, pp. 309-317; J. P. E. Julienne de La Gravière, La guerre de Chypre et la bataille de Lépante, I, Paris 1888, pp. 113-148; II, ibid. 1888, pp. 3-9, 25 s., 31-36, 83, 126, 158, 174-177, 186, 244, 246; L. Vicchi, M. C. il vincitore di Lepanto…, Faenza 1890; C. Manfroni, La lega cristiana del1572, in Archivio della R. Società romana distoria patria, XVI (1893), pp. 347-445; XVII (1894), pp. 23-67; P. Fedele, Lo stendardo di M. A. C. a Lepanto, Perugia 1903; G. Tomassetti, Della Campagna romana, in Archivio d. R. Società romana di storia patria, XXIX (1906), pp. 333-338; M. Crocicchiolo, Sul viceregno di M. A. C. in Sicilia, in Archivio storico sicil., XXXVII (1912), pp. 89-120; L. Serrano, La liga de Lepanto, I-II Madrid 1918-19, ad Indices; C. A. Garufi, Contrib. Alla storia dell'Inquisizionein Sicilia…, Palermo 1920, pp. 261-324; G. Navone, Paliano, in Arch. d. r. Soc. rom. di storia patria, XLIII (1920), pp. 364, 372 s., 375 s.; P. Colonna, I Colonna…, Roma 1927, pp. 193-254; E. Rossi, Le statue di A. Farnese e di M. C. in Campidoglio, in Arch. d. R. Soc. rom. di storia patria, LI (1928), pp. 19-32; F. Tomassetti, Il pittore Scipione Pulzone, in Roma, VI (1928), pp. 537-44; G. A. Quarti, La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell'epoca, Milano 1930, passim; G. B. Borino-A. Galietti-G. Navone, Il trionfo di M. A. C., Roma 1938; G. Barbieri, Industria e polit. mineraria…, Roma 1940, ad Indicem; T. Gasparrini Leporace, Aneddoti su M. A. C., in Atti del V Congresso naz. di studiromani, III, Roma 1942, pp. 232-239; H. G. Koenigsberger, The Government of Sicily under Philip II of Spain, London-New York 1951, ad Indicem; L. v. Pastor, Storia dei papi, VI-IX, Roma 1955-1963, ad Indices; F. Zeri, La Galleria Colonna a Roma, in Tesori d'arte delle grandi famiglie, Verona 1966, pp. 24, 28, 37, 40; V. Cantagalli, La guerra di Siena…, Siena 1962, pp. 303, 330, 483, 485; U. Tucci, Il processo a G. Zane, in Il Mediterraneo nella seconda metà del '500…, Firenze 1974, pp. 413, 416, 419, 421, 423-427, 429 s.; F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino 1976, ad Indicem; P. Litta, Le fam. celebri ital., s. v. Colonna, tav. IX.

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