MANTOVA e MONFERRATO, Guerra di successione di

Enciclopedia Italiana (1934)

MANTOVA e MONFERRATO, Guerra di successione di

Romolo Quazza

Scoppiata dopo la morte di Vincenzo II (26 dicembre 1627), ultimo rappresentante del ramo gonzaghesco principale, durò circa quattro anni (1628-1631). Essa è parte integrante della guerra dei Trent'anni; del grandioso conflitto costituisce un vero e proprio periodo, da porsi tra quello danese e quello svedese. Il problema della successione nei ducati di Mantova e del Monferrato, da anni oggetto d'intrighi e di vivacissime discussioni nelle corti europee, entrava nel dicembre 1627 nella sua fase più acuta. L'attribuzione del due dominî, per la loro posizione eminentemente strategica, non interessava soltanto gli eredi del defunto duca, ma tutte le maggiori potenze. Così attorno a una questione, che si sarebbe dovuta mantenere entro i limiti di una contestazione giuridica, si riaccese il formidabile giuoco degl'interessi contrastanti, delle rivalità secolari tra la Francia e la casa d'Asburgo.

Vantavano diritti a succedere negli stati gonzagheschi la principessa Maria, figlia di Francesco IV duca e di Margherita di Savoia; Margherita duchessa di Lorena, figlia del duca Vincenzo I; Carlo duca di Nevers, figlio di quel Ludovico Gonzaga, fratello di Guglielmo, che, stabilitosi alla corte di Enrico II fin dal 1549, fu magna pars in tutte le lotte civili-religiose in Francia; e don Ferrante duca di Guastalla. Le prime due non potevano però aspirare al ducato di Mantova perché feudo maschile, mentre per quello di Monferrato le ragioni di Maria vincevano senz'altro quelle di Margherita. Ma l'attenzione delle cancellerie europee si concentrò quasi tutta intorno al Nevers e al Guastalla, il primo sostenuto dalla Francia, il secondo dalla casa d'Austria. L'assunzione al trono dell'uno o dell'altro significava il trionfo dell'una o dell'altra delle due grandi competitrici, poiché dominare la politica di Mantova, padrona del Monferrato, significava dominare la situazione politica dell'Italia settentrionale e quindi avere nelle mani uno dei pegni più sicuri dell'egemonia sull'Europa.

Prevedendo l'estinzione della famiglia, i due ultimi duchi avevano fatto il possibile per assicurare alla casa Gonzaga la pacifica continuazione del governo dei loro stati. Ferdinando aveva chiamato alla sua corte il giovane figlio di Nevers, Carlo duca di Rethel; e Vincenzo II, indispettito per la condotta tortuosa di don Cesare di Guastalla, aveva, compiacente il papa Urbano VIII, favorito il matrimonio del Rethel con la principessa Maria e proclamato il Nevers suo successore. La partita pareva così data vinta a colui che, quale parente più prossimo, vantava maggiori diritti; e si sperava, ponendo il mondo diplomatico dinnanzi al fatto compiuto, di tacitarlo e scongiurare la tempesta. Ma troppi erano gl'interessi in ballo e non si trattava ormai di far valere nessun principio d'equità e di giustizia ne di rivendicare diritti offesi. Le ragioni morali esulavano affatto dalla mente dei principi, solo intenti a estendere la propria autorità e a procurarsi ingrandimenti territoriali. La dissoluzione degli stati gonzagheschi stimolava vecchi appetiti e ridestava speranze. Soprattutto le belle terre del Monferrato, accendevano le brame dei duchi di Savoia e degli Spagnoli, già padroni di Milano e arbitri di Genova. Di qui il rapido acuirsi d'un conflitto, da tempo virtualmente aperto, tra la Francia, che col Richelieu aveva ripreso il programma di Enrico IV, e la Spagna gelosissima del suo predominio in Italia.

L'indomani della morte di Vincenzo II, Carlo di Rethel intraprese, in assenza del padre, un vasto lavorio diplomatico di giustificazione e di conciliazione. Ma l'urto tra i due gruppi antagonisti era già in atto. Un patto, che rimase a lungo segreto, era stato firmato il 25 dicembre 1627 da Carlo Emanuele e dal governatore di Milano, don Gonzalo de Córdoba, per la spartizione del Monferrato fra Savoia e Spagna. Vani quindi riuscirono tutti gli sforzi fatti dal Nevers (giunto a Mantova il 17 gennaio 1628) per placare gli animi e allontanare dai suoi stati la bufera. Le missioni dei suoi migliori negoziatori, inviati a Madrid e a Vienna, fallirono. L'essere egli nato in terra francese e l'essere perciò considerato strumento della politica del Cristianissimo in Italia erano agli occhi della Spagna colpe incancellabili. L'imperatore, dapprima non ostile al Nevers, finì col subire l'influsso spagnolo e, istigato dall'Olivares, il 20 marzo 1628 fulminò contro il Gonzaga il primo monitorio. Dieci giorni dopo le soldatesche nemiche entravano nel Monferrato: quelle sabaude movevano alla conquista di Trino, Alba e Moncalvo; quelle spagnole andavano a porre l'assedio a Casale. Iniziata la guerra, nessuno degli stati italiani osava prendere posizione aperta. Venezia aspettava ansiosa le decisioni del papa e della Francia, che, impegnata a fondo nell'assedio della Rochelle, si trovava nell'impossibilità d'inviare pronti soccorsi.

Il 2 maggio 1628 il commissario imperiale Giovanni di Nassau intimò la consegna dei due ducati; il Nevers oppose un rifiuto e si appellò all'imperatore. Nel contempo invocò dal Richelieu immediati aiuti e sollecitò i parenti e gli amici di Francia ad assoldare a sue spese un esercito. All'uopo poneva a loro disposizione i suoi ricchi beni. Il Richelieu, che si trovava all'assedio della Rochelle, diede il suo consenso per la formazione della spedizione di soccorso, ma dichiarò all'inviato gonzaghesco Rodolfo Ippoliti di Gazoldo che il governo francese intendeva intervenire apertamente nel conflitto solo quando la rocca ugonotta fosse caduta. Era dunque necessario che Casale resistesse fino al momento in cui il re avrebbe avuto libertà d'azione. Gli amici del Nevers, radunati diecimila uomini, li inviarono, sotto la guida del marchese d'Uxelles, alla volta d'Italia. Ma la spedizione, ostacolata dal maresciallo Créqui, governatore del Delfinato e amico del duca di Savoia, fallì miseramente. A Sampeyre il 6 agosto i Francesi furono sconfitti da Carlo Emanuele. Di fronte al pericolo, sempre più manifesto, di una conflagrazione generale, la diplomazia pontificia raddoppiò i suoi sforzi per ottenere un accomodamento, ma tutto fu vano. Caduta La Rochelle (ottobre 1628) l'intervento francese si preannunziò più fattivo. La repubblica veneta si fece più larga in soccorsi pecuniarî e permise di prelevare soldati dal suo esercito; il Nevers, rincuorato, moltiplicò le misure militari. Luigi XIII e il Richelieu, raccolto un poderoso esercito, il primo giorno di marzo del 1629 valicarono il Monginevra e sconfissero poco dopo le milizie sabaude e spagnole. Carlo Emanuele concluse tosto il giorno 11 l'accordo di Susa, per lui assai vantaggioso. I patti si risolvevano in un danno gravissimo per il Nevers. Infatti, se la convenzione stabiliva l'allontanamento delle truppe savoiarde da Nizza e da Ponzone, la liberazione e il vettovagliamento di Casale, d'altra parte assegnava al duca di Savoia la ricca Trino con tante altre terre monferrine fino ad assicurare una rendita annua di 15.000 scudi e deliberava il deposito di Alba e di Moncalvo nelle mani di Carlo Emanuele come pegno della restituzione di Susa, che rimaneva alla Francia. Conosciuti i termini dell'accordo di Susa, Venezia ritirò gli ordini già dati per l'avanzata del suo esercito: crollavano così tutti i piani, sui quali il governo mantovano aveva fondato le sue speranze.

L'intervento diretto dei Francesi provocò l'intervento dell'impero, che si affrettò a fare pace con la Danimarca (v. trent'anni, guerra dei). La notizia commosse principi e popolo. Urbano VIII intensificò gli armamenti, Luigi XIII fissò con lettera del 9 luglio al Nevers il suo piano d'azione: al Monferrato avrebbero pensato i Francesi; il duca e i Veneziani provvedessero al Mantovano.

I primi di settembre, 30.000 fanti alemanni e 6000 cavalli, con a capo il conte Rambaldo di Collalto, scesero nella pianura lombarda. A Como si abboccarono il generale tedesco e Ambrogio Spinola, nuovo governatore di Milano. I due capi si ripartirono il compito: la Spagna avrebbe rivolto i suoi sforzi contro Casale, gl'imperiali contro Mantova. Il 17 ottobre 1629 l'Aldringen, uno dei sergenti maggiori dell'esercito alemanno, passò l'Oglio a Ostiano, mentre il Galasso, altro sergente maggiore, prendeva due giorni dopo Viadana. Caduta poi anche Gazzuolo, il Nevers abbandonò la linea del Serraglio e si ridusse la notte del 27 ottobre entro la città. Come prova del suo desiderio di conciliazione consegnò (3 novembre) agl'imperiali il borgo di S. Giorgio. Pochi giorni dopo, il castello di Goito per viltà del comandante cadeva nelle mani del nemico, mentre i generali veneti Erizzo e Sagredo rimanevano immobili a Valeggio. Così il cerchio dell'assedio di Mantova si fece più stretto. Ma la tenace difesa del Nevers sconvolse i piani del nemico, che aveva sperato in un rapido trionfo. Intanto la diplomazia pontificia, specialmente per mezzo del Mazzarino, moltiplicava le proposte di pace e la Francia preparava una nuova spedizione in Piemonte. Gl'imperiali, bersagliati dai disagi e dalla peste, tentato invano un assalto, dal 22 al 24 dicembre 1629 abbandonarono l'assedio di Mantova e si ritirarono verso Borgoforte, Canneto e Gazzuolo. Ma se la città venne sollevata, la campagna fu sottoposta a una sistematica distruzione insieme con gli abitanti.

La discesa in Italia del Richelieu con un vigoroso esercito ravvivò le speranze di rivincita. La politica francese spiegava in tutti campi un'opera, ancora coperta, ma attivissima, contro la casa d'Asburgo. Dagli aiuti ai Paesi Bassi al lavorio di resistenza contro la penetrazione spagnola in Svizzera le rivali si trovarono di fronte. L'occupazione di Pinerolo, compiuta dal Richelieu il 21 marzo 1630, offrì la più evidente prova delle intenzioni francesi e determinò lo Spinola a uno sforzo supremo contro Casale. Mentre la città monferrina subiva i colpi spagnoli, l'esercito imperiale muoveva per la seconda volta contro Mantova. Da Goito, da Gazzuolo, da Redondesco, da Marcaria, gli Alemanni si spinsero innanzi predando e saccheggiando. Li guidavano i duchi di Sassonia, di Anhalt, di Lussemburgo, il conte Giovanni di Merode, il Montecuccoli, i colonnelli Isolani e Ferrari, l'Aldringen, Torquato Conti, il Colloredo, il marchese di Brandeburgo, il colonnello Dietrichstein, il Galasso. In città, intanto, le compagnie erano ridotte a pochi uomini, l'alimentazione era cattiva, le paghe irregolari, la mortalità altissima.

L'8 aprile era giunto a Mantova il maresciallo d'Estrées, inviato dal governo francese per la difesa della città, ma alla prova si mostrò inferiore all'arduo compito. Il generale veneto Sagredo, che presidiava Marmirolo e Castiglione, conosciuta l'avanzata degli Alemanni, ordinò ai suoi di abbandonare quelle posizioni e di ripiegare su Marengo e Villabuona. Raggiunto qui il 29 maggio dal nemico, fu vinto e costretto a fuggire entro Peschiera. Dopo la battaglia di Villabuona, le condizioni di Mantova si fecero gravissime. Gli animi erano esacerbati, la fiducia nei capi e negli aiuti esterni era venuta meno, l'armonia tra il Nevers e il residente veneto Busenello del tutto infranta. A tutto ciò si aggiunga la carestia, la denutrizione, la pessima conservazione dei cibi, i miasmi delle paludi e degli stagni, entro o presso la città, che favorivano la propagazione della peste.

Il 18 luglio, un'ora prima dell'alba, gl'imperiali attaccarono la città simultaneamente in varî punti, s'impadronirono di sorpresa del ponte S. Giorgio e abbattuta la porta del palazzo ducale detta "del Volto oscuro" occuparono in breve piazza S. Pietro. Il duca, dopo inutili tentativi di resistenza, seguito dal figlio, dal d'Estrées, dal marchese di Pomaro e altri, si ritirò nella cittadella di Porto e poco dopo trattò la resa. I capitoli concertati furono dodici: fu stabilita l'immediata consegna di Porto; fu concesso al Nevers e al suo seguito di uscire dalla piazza; la principessa Maria fu lasciata libera di restare o di andarsene con i figli e con alcune dame, ecc. La mattina del 19 luglio il duca, suo figlio Carlo, il d'Estrées, con pochi compagni, partirono scortati da ufficiali cesarei fino ai confini dello Stato della Chiesa. Intanto gli Alemanni ponevano a sacco la città: il palazzo ducale, in cui erano ancora insuperabili tesori d'arte e immense ricchezze d'ogni genere, la biblioteca, che era una delle più ricche d'Italia, l'armeria e la fastosa guardaroba furono spogliati; la città fu miseramente saccheggiata e ridotta, essa ch'era stata una delle più ricche d'Italia, uno scheletro.

Mentre Mantova subiva le sevizie dei vincitori e il duca Carlo con l'intera sua famiglia attendeva nel forzato esilio l'epilogo della lotta gigantesca che si combatteva sotto Casale, unica ancora di salvezza, il Mazzarino svolgeva con attività febbrile la sua opera pacificatrice. La morte di Carlo Emanuele (26 luglio 1630) ne facilitò l'arduo compito. Vittorio Amedeo e il Collalto non erano alieni dall'iniziare trattative di pace. Lo Spinola, fiaccato fisicamente e moralmente, aveva dovuto cedere poco prima di morire il comando al Santa Croce, meno restio agli accordi.

Contemporaneamente a Ratisbona i rappresentanti della Francia e dell'impero, dopo lungo dibattito, firmavano la pace generale (13 ottobre 1630). Ma il trattato sollevò proteste infinite: nessuno pareva soddisfatto. Lo stesso Ferdinando aveva ceduto per necessità. Il pericolo svedese che già si profilava all'orizzonte nordico (Gustavo Adolfo era già sbarcato in Germania) lo richiamava a una politica più conforme ai suoi diretti interessi. Come già l'intervento francese in Italia l'aveva indotto alla pace affrettata di Lubecca con la Danimarca e aveva spostato dalla Germania alla Pianura Padana il centro della lotta, così ora l'intervento sul suolo germanico di Gustavo Adolfo conduceva l'impero a firmare i patti di Ratisbona e a riportare il campo del grandioso duello nel proprio territorio. Il trattato del 13 ottobre, riconoscendo il Nevers quale duca di Mantova e del Monferrato, sia pure con l'obbligo di dare al duca di Savoia ben 74 terre monferrine e al Guastalla una rendita annua di 6 mila scudi, segnava il crollo delle aspirazioni egemoniche spagnole e una diminuzione del prestigio dell'autorità imperiale. Ferdinando, che aveva sacrificato il fiore del suo esercito nella campagna d'Italia, doveva ben presto scontare l'errore commesso. I trattati successivi di Cherasco del 31 marzo, del 6 aprile, e del 19 giugno 1631 chiusero definitivamente la guerra per la successione di Mantova e del Monferrato, e assicurando, sia pure segretamente, a Luigi XIII il possesso di Pinerolo, confermarono il prevalere, sebbene abilmente mascherato, della Francia di fronte alla Spagna e di fronte all'impero e prepararono alla lungimirante politica del Richelieu il trionfo finale. Il 20 settembre 1631 il Nevers rientrava in Mantova, mentre in Germania già si combatteva contro Gustavo Adolfo. La lotta assumeva altri aspetti ed entrava nella quarta fase.

Bibl.: R. Quazza, Mantova e Monferrato nella politica europea alla vigilia della guerra per la successione (1624-1627), pubbl. dalla R. Acc. Virg., s. 2ª, Miscell., n. 3, Mantova 1922; id., La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato (1628-31), voll. 2, Mantova 1926, con ampie notizie bibl.

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