NEURODEGENERATIVE, MALATTIE

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

NEURODEGENERATIVE, MALATTIE.

Fabrizio Tagliavini
Pietro Tiraboschi

– Malattia di Alzheimer. Patogenesi. Patologia. Terapia. Demenza frontotemporale. Patologia e correlazioni clinico-patologico-biomolecolari. Genetica e correlazioni clinico-genetico-biomolecolari. Terapia. Demenza con corpi di Lewy. Aspetti patologici, biomolecolari e genetici. Terapia. Bibliografia

Il termine degenerativo è generico e indica un cambiamento peggiorativo rispetto a un livello precedente di normalità. Le m. n. possono dipendere strettamente da fattori genetici e colpire più membri di una stessa famiglia, oppure verificarsi in casi isolati. Comunque, possono essere caratterizzate da un fenotipo clinico pressoché identico per esordio e modalità di decorso (come la sclerosi laterale amiotrofica, SLA) oppure dissimile e ben differenziabile (per es., un quadro di demenza associato precocemente a paraparesi spastica è molto raro nelle forme sporadiche di malattia di Alzheimer, MdA, ma tutt’altro che infrequente nelle forme familiari). Benché la causa di molte m. n. rimanga tuttora sconosciuta, per alcune di esse sono state recentemente acquisite molte informazioni riguardanti la patogenesi (ossia la sequela di eventi e di alterazioni biologiche che determinano la disfunzione e infine la morte neuronale). Inoltre, se può accadere che forme sporadiche ed ereditarie di singole m. n. non abbiano un quadro clinico del tutto sovrapponibile, ne sono state spesso individuate caratteristiche patogenetiche e biomolecolari comuni, aspetto questo foriero di potenziali sviluppi terapeutici futuri. Di alcune m. n., come le forme sporadiche di MdA, è documentata una ricorrenza di casi a esordio tardivo (età superiore ai 60 anni) all’interno della stessa famiglia senza l’individuazione di un pattern di ereditarietà specifico, cosa che può comunque suggerire l’intervento di fattori genetici, come accade con il polimorfismo del gene codificante l’apolipoproteina E (componente proteica delle lipoproteine plasmatiche), il cui allele ε4 (gli altri due sono gli alleli ε3 ed ε2, rispettivamente il più comune e il più raro nella popolazione generale), soprattutto se presente in doppia copia (omozigosi), aumenta il rischio e riduce l’età di insorgenza della malattia, pur senza conferire sostanziali peculiarità al fenotipo clinico. D’altronde, in altre m. n. come la malattia di Creutzfeldt-Jakob (MCJ) sporadica, il polimorfismo del gene della proteina prionica al codone 129, del quale esistono due varianti alleliche codificanti rispettivamente gli aminoacidi metionina e valina, può modificare in modo più rilevante il fenotipo per quanto riguarda non solo l’età di insorgenza, ma anche la presentazione clinica e la rapidità di progressione.

Nonostante le conoscenze delle basi genetiche e molecolari di molte m. n. siano notevolmente progredite in tempi recenti, una loro classificazione basata sulle anomalie genetiche e/o biomolecolari può non risultare immediatamente utile per il clinico, dal momento che una singola anomalia genica può associarsi a diversi fenotipi clinici e anche a diverse alterazioni biomolecolari, mentre, al contrario, un singolo fenotipo clinico può associarsi a diverse alterazioni biomolecolari (in genere, disproteinopatie originate da abnorme accumulo intra o extracellulare di proteine a causa di iperproduzione o diminuita degradazione) e a diverse anomalie geniche. Inoltre, di alcune m. n. sono ancora ignote le possibili anomalie geniche alla base e non si conoscono con chiarezza le alterazioni biomolecolari. Tuttavia, anche ricorrendo a classificazioni di tipo ‘clinico’, ossia raggruppando tali patologie secondo criteri sindromici, è opportuno ricordare, specie in vista di potenziali sviluppi terapeutici disease-modifying (interferenti sui meccanismi fisiopatologici della malattia), che singoli fenotipi clinici sono associati a prevalenti alterazioni biomolecolari (per es., deposizione in eccesso di proteina tau per la degenerazione corticobasale e la paralisi sopranucleare progressiva, deposizione in eccesso di proteina TDP-43, Transactive response DNA-binding Protein 43, per la demenza semantica) e, se presenti in più membri della stessa famiglia, a prevalenti anomalie geniche (per es., associazione di SLA e demenza frontotemporale, DFT, con mutazioni del gene C9ORF72, Chromosome 9 Open Reading Frame 72).

In generale, le m. n. si caratterizzano per avere un esordio subdolo, insidioso, di datazione spesso incerta, dopo un lungo periodo di normale funzionalità. Segue una progressione inesorabile che, a parte rare eccezioni (MCJ), è per lo più lenta e graduale, anche di molti anni. Solo poche m. n. (come la malattia di Parkinson, MdP) sono influenzate favorevolmente dal trattamento farmacologico, peraltro con effetto per lo più sintomatico. In molte di esse si ha un interessamento selettivo o preferenziale di particolari neuroni, per es. le cellule di Purkinje del cervelletto nelle atassie spinocerebellari, o di neuroni funzionalmente correlati, per es. i motoneuroni della corteccia cerebrale, del tronco encefalico e del midollo spinale nella SLA. Dal momento che la lenta degenerazione e, infine, la morte neuronale sono le caratteristiche salienti delle m. n., la riduzione volumetrica diffusa o focale dell’encefalo con ampliamento del compartimento liquorale ne è aspetto fondamentale (atrofia cerebrale cortico sottocorticale generalizzata nella MdA, atrofia selettiva delle regioni frontotemporali nella DFT e atrofia del cervelletto in molte atassie spinocerebellari).

Da un punto di vista clinico, le m. n. possono essere classificate in sindromi cliniche pleiomorfe caratterizzate da alterazioni neurosensoriali (come nella retinite pigmentosa, nella neuropatia ottica ereditaria di Leber e nella sordità neurosensoriale, sia essa pura o associata ad alterazioni retiniche), oppure da alterazioni del sistema nervoso periferico (come nelle neuropatie ereditarie sensitivo-motorie), oppure da debolezza e atrofia muscolare progressive (come nella SLA), oppure da atassia progressiva (come nelle atassie spinocerebellari), oppure da alterazioni delle posture e dei movimenti (come nella MdP), oppure da demenza progressiva, sia associata a segni neurologici (come debolezza e atrofia muscolare nella DFT associata a SLA o parkinsonismo nella maggior parte dei casi di demenza con corpi di Lewy, DCL) sia non associata, almeno alla presentazione e per buona parte del decorso clinico, a segni neurologici (come nella maggior parte dei casi di MdA).

Rappresentando nell’insieme le più comuni e importanti m. n. del cervello, nonché quelle a maggior impatto sociale e sulla vita lavorativa, la MdA, la DFT e la DCL verranno trattate in dettaglio.

Malattia di Alzheimer. – Designata anche come demenza senile di tipo Alzheimer o demenza degenerativa primaria, la MdA è la forma più comune di demenza (circa il 60% dei casi) e rappresenta il prototipo delle demenze a esordio insidioso e a decorso lentamente progressivo. Anche se i primi sintomi cognitivi compaiono generalmente in modo così subdolo da non essere immediatamente percepiti, essi gradualmente peggiorano fino a compromettere la capacità della persona affetta di svolgere autonomamente le attività quotidiane della vita.

L’insorgenza della MdA sporadica è di solito in età avanzata (superiore ai 65 anni). Al di sotto dei 60 anni, più precoce è la comparsa, maggiore è la probabilità che il paziente sia affetto da una forma familiare piuttosto che sporadica della malattia. Tuttavia, le forme familiari (a trasmissione autosomica dominante) rappresentano complessivamente non più del 3% di tutti i casi di MdA. L’identificazione di una sindrome demenziale (ossia di un deficit cognitivo di gravità tale da avere un impatto disfunzionale sulla vita di ogni giorno) seguita dalla diagnosi specifica di MdA, che avviene essenzialmente attraverso un processo di esclusione di altre malattie determinanti un deterioramento cognitivo, è alla base dei criteri del National institute of neurologic communicative disorders and stroke/Alzheimer’s disease and related disorders association (NINCDS-ADRDA; McKhann, Drachman, Folstein et al. 1984). Ma implicando l’identità tra malattia e demenza di Alzheimer, questi criteri trascurano il fatto che alterazioni patologiche alzheimeriane compaiono nel cervello molti anni prima che la soglia della demenza sia raggiunta; inoltre, non sempre le alterazioni patologiche primarie risultano di tipo alzheimeriano.

Nei criteri NINCDS-ADRDA le prove di laboratorio – costituite da TAC (Tomografia Assiale Computerizzata) cerebrale, EEG (ElettroEncefaloGramma) standard e analisi liquorale – sono raccomandate per escludere forme di demenza non alzheimeriana (diagnosi di esclusione). Viceversa, negli ultimi due decenni, nel tentativo di rilevare la MdA fin dalle sue fasi predemenziali, si è enfatizzata la necessità di individuare marcatori strutturali (risonanza magnetica cerebrale), funzionali (tomografia a emissione di positroni cerebrale con glucosio marcato) e biologici (livelli liquorali di proteina Aβ42, proteina tau totale e tau fosforilata, correlati rispettivamente alla quantità di placche senili, alla rilevanza della degenerazione neuronale e alla quantità di grovigli neurofibrillari cerebrali) specifici per la MdA. Questo ha portato in anni recenti (2006-11) alla formulazione di nuovi criteri diagnostici originariamente proposti a scopo di ricerca, ma ora ampiamente utilizzati anche nella pratica clinica. Secondo questi criteri, la MdA non è più descritta in termini di esclusione e può essere identificata anche prima della comparsa di demenza, a condizione che vi sia un deficit di memoria episodica, che tale deficit abbia caratteristiche specifiche (nessun miglioramento sostanziale con suggerimenti di tipo semantico, per es. se il soggetto non ricorda la parola gatto dettagli in precedenza, non la ricorda neppure se lo si facilita rammentandogli che gli è stato comunicato il nome di un animale) e che almeno un marcatore sia positivo (atrofia temporale mediale alla risonanza magnetica cerebrale, ipometabolismo temporoparietale alla tomografia a emissione di positroni con glucosio marcato e riduzione di Aβ42 e aumento di tau totale e/o di tau fosforilata nel liquor). L’accuratezza diagnostica aumenta quando nel liquor sono presenti tutte le alterazioni strutturali e metaboliche e tutti i cambiamenti biochimici, ed è completa in presenza di una mutazione a patogenicità nota rispettivamente nel gene codificante il precursore della proteina amiloide sul cromosoma 21, nel gene codificante la presenilina 1 sul cromosoma 14 (le cui mutazioni rappresentano la causa più frequente di MdA familiare) o nel gene codificante la presenilina 2 sul cromosoma 1.

Patogenesi. – La MdA viene primariamente imputata ad azione neurotossica della β-proteina, che deriva dal metabolismo di un precursore, una glicoproteina di membrana (APP, Amyloid Precursor Protein) codificata da un gene del cromosoma 21. Tale glicoproteina, attraverso specifiche reazioni enzimatiche (catalizzate da varie secretasi), può formare la proteina Aβ, la cui deposizione in eccesso è ritenuta patogena e considerata come l’evento primario, sia in ordine cronologico sia per importanza, del processo alzheimeriano. Una volta prodotta, Aβ viene degradata da enzimi (per es., neprilisina, insulinasi) controllati dalle preseniline. La quota di Aβ non degradata si deposita nel cervello sotto forma di β-amiloide, la cui forma neurotossica si ritiene costituita da oligomeri e protofibrille solubili presenti all’interno della cellula piuttosto che dalla forma fibrillare depositata nelle placche senili all’esterno della cellula. Infatti, oligomeri e protofibrille solubili hanno documentata tossicità per sinapsi e neuroni e interferiscono con i processi di consolidamento della traccia mnestica a livello ippocampale. In particolare, si ritiene che la loro azione neurotossica si eserciti attraverso l’aumento di concentrazione intraneuronale di calcio, riducendo il rendimento della catena respiratoria mitocondriale e incrementando lo stress ossidativo che, a sua volta, stimola la produzione di Aβ e provoca la fosforilazione patologica della proteina tau dello scheletro delle cellule nervose con successiva formazione di grovigli neurofibrillari.

Patologia. – Placche senili e grovigli neurofibrillari sono le tipiche lesioni osservate nel cervello di pazienti con MdA, ma placche senili neocorticali e, soprattutto, grovigli neurofibrillari allocorticali si possono comunemente trovare anche nel cervello di molti anziani cognitivamente integri. Sebbene la presenza di grovigli neurofibrillari neocorticali sia ritenuta un marcatore specifico di malattia (indicando come altamente probabile che la demenza in vita del soggetto sia effettivamente attribuibile a MdA), di solito non viene effettuata una biopsia cerebrale a scopo diagnostico.

Terapia. – La terapia della MdA si basa su cinque principali farmaci approvati dalla Food and drug administration negli Stati Uniti e dall’Agenzia europea per i medicinali in Europa. Donepezil, galantamina, rivastigmina e tacrina sono inibitori della colinesterasi, l’enzima che degrada l’acetilcolina (ridotta nei soggetti con MdA rispetto ai controlli normali), mentre la memantina agisce sul sistema glutammatergico modulando i recettori del glutammato di tipo NMDA (N-Metil-D-Aspartato) in modo da ridurre l’effetto neurotossico causato da eccessivo ingresso di calcio dal compartimento extracellulare a quello intracellulare. L’esame dei dati disponibili dagli studi clinici randomizzati con inibitori della colinesterasi rivela che gli effetti favorevoli del trattamento sono statisticamente significativi e costantemente documentati per tutti gli inibitori della colinesterasi sopra citati, per quanto riguarda sia la misura neuropsicologica principale di decorso (ADAS-cog, Alzheimer Disease Assessement Scale-cognition) sia la misura globale di decorso, che include anche l’analisi dell’impatto del farmaco sugli aspetti funzionali (CIBIC-plus, Clinician Interview Based Impression of Change-plus). Tuttavia, i vantaggi del trattamento sono risultati modesti e in gran parte secondari al continuo declino dei pazienti trattati con placebo lungo il corso delle sperimentazioni. In generale, la durata di queste è stata relativamente breve (sei mesi), sollevando dubbi sulla persistenza dell’effetto nel corso di una malattia che dura molto più a lungo (3-20 anni). Inoltre, nella maggior parte delle sperimentazioni gli aspetti funzionali non sono stati analizzati con strumenti specifici e la qualità della vita è stata quasi del tutto trascurata. La tacrina (tetraidroaminoacridina) è stata il primo inibitore della colinesterasi commercializzato per il trattamento della MdA, ma, a causa della presenza di effetti avversi gravi (nausea, vomito e, in particolare, tossicità epatica che, sebbene reversibile, richiederebbe un monitoraggio frequente di laboratorio), questo farmaco non è mai stato diffusamente utilizzato. D’altra parte, se non c’è evidenza convincente che un inibitore della colinesterasi sia superiore agli altri, l’effetto della memantina, oltre a essere più modesto, è stato documentato solo oltre lo stadio lieve di malattia. Nelle fasi moderatamente gravi di malattia, il vantaggio della combinazione di donepezil e memantina rispetto al solo donepezil è stato recentemente messo in discussione.

In anni più recenti, la ricerca farmacologica ha focalizzato il proprio interesse su farmaci disease-modifying, in grado di limitare l’iperfosforilazione patologica della proteina tau (litio, acido valproico) e, soprattutto, su farmaci in grado di diminuire l’accumulo di Aβ, riducendone la produzione (inibitori della β-secretasi, come rosiglitazone e pioglitazone, e inibitori della γ-secretasi, come semagacestat), riducendone l’aggregazione (tramiprosato) o aumentandone la rimozione (immunoterapia attiva con vaccini anti-Aβ, per es. AN-1792, o immunoterapia passiva con anticorpi monoclonali, per es. bapineuzumab e solanezumab). Sfortunatamente, a fronte di effetti indesiderati talora rilevanti, nessuno di questi approcci ha prodotto benefici sul piano clinico. L’ipotesi che l’accumulo di Aβ rappresenti l’evento primario del processo alzheimeriano non è stata tuttavia scalfita dai suddetti fallimenti. Essi sono stati essenzialmente attribuiti al fatto che i soggetti inclusi nella maggior parte delle sperimentazioni con farmaci anti-Aβ, avendo una demenza lieve-moderata, fossero in una fase troppo avanzata del processo alzheimeriano (con accumulo di Aβ ma anche di tau iperfosforilata, perdita di sinapsi e morte cellulare) e, pertanto, difficilmente avrebbero potuto dare una risposta favorevole a un farmaco con un target unico. Sulla base di questo argomento, molte sperimentazioni attuali con farmaci anti-Aβ prevedono l’inclusione di soggetti con MdA prodromica, di soggetti presintomatici portatori di mutazioni e perfino di soggetti cognitivamente integri, ma con fattori di rischio per MdA (come omozigosi per l’allele ε4 e positività alla tomografia a emissione di positroni con traccianti per l’amiloide), nei quali l’accumulo di Aβ è ritenuto il fenomeno unico o di gran lunga prevalente.

Demenza frontotemporale. – Con questo termine ci si riferisce a condizioni cliniche molteplici ed eterogenee. Esse rappresentano meno del 10% di tutte le forme di demenza nell’anziano, ma fino al 50% dei casi al di sotto dei 60 anni. In generale, sono selettivamente coinvolti i lobi frontali e/o temporali, mentre i lobi parietali e occipitali sono relativamente risparmiati. Questo coinvolgimento preferenziale determina sindromi cliniche essenzialmente caratterizzate da anomalie comportamentali, disfunzione esecutiva e deficit linguistici. Lo spettro clinico della DFT include la variante comportamentale della DFT (bvFTD,behavioural variant FrontoTemporal Dementia), l’afasia progressiva non fluente (PNFA, Progressive Non-Fluent Aphasia) e l’afasia progressiva fluente. Quest’ultima evolve generalmente in demenza semantica (SD, Semantic Dementia), un termine che implica lo sviluppo, in aggiunta all’afasia, di ulteriori deficit, come agnosia visiva (ossia incapacità del paziente non solo di nominare un oggetto presentato alla vista e di indicarlo quando è nominato dall’esaminatore, ma anche di descriverne la funzione). Altre condizioni cliniche associate a DFT includono la SLA, la degenerazione corticobasale e la paralisi sopranucleare progressiva. Gli aspetti clinici cardinali della degenerazione corticobasale includono progressiva rigidità asimmetrica degli arti (in genere i superiori prima degli inferiori) e aprassia, in associazione ad altri sintomi e segni che suggeriscono il coinvolgimento della corteccia (come il fenomeno dell’arto alieno, l’alterazione della sensibilità complessa, mioclonie) e dei gangli della base (per es., bradicinesia, distonia, tremore). La presentazione tipica della paralisi sopranucleare progressiva include paralisi sopranucleare di sguardo (soprattutto sul piano verticale) e una storia di cadute dovute a instabilità posturale e parkinsonismo assiale. Tuttavia, sia la degenerazione corticobasale sia la paralisi sopranucleare progressiva possono svilupparsi in assenza di parkinsonismo, di compromissione dell’equilibrio e dell’andatura e di paralisi sopranucleare di sguardo, ma piuttosto manifestarsi con afasia primaria progressiva, aprassia del linguaggio (disturbo articolatorio causato da incoordinazione dei muscoli buccofonatori) o demenza.

Patologia e correlazioni clinico-patologico-biomolecolari. – La DFT è eterogenea dal punto di vista sia clinico sia delle alterazioni patologiche e biomolecolari. I sottotipi predominanti sono tuttavia due, il primo caratterizzato da inclusioni tau-positive, il secondo caratterizzato da inclusioni tau-negative, ma TDP-43-positive. Come la MdA, la bvFTD è caratterizzata da esordio insidioso e progressione graduale ma, al contrario della MdA, tende a comparire in fase più iniziale e si presenta con precoce declino della condotta sociale interpersonale, ottundimento emotivo, perdita di empatia, apatia, perdita precoce di consapevolezza delle proprie alterazioni, egoismo, trascuratezza dell’igiene personale. Anche se la struttura del linguaggio (sintassi, morfologia e semantica) è solitamente conservata, è comune una precoce riduzione dell’eloquio (laconicità, inerzia verbale) e gli argomenti tendono a divenire stereotipati. Le tipiche aree cerebrali coinvolte nella bvFTD sono i lobi frontali (il destro più spesso del sinistro) e/o le regioni anteriori dei lobi temporali.

La PNFA si sviluppa insidiosamente e si evolve gradualmente e, per definizione, è inizialmente caratterizzata da un deficit cognitivo limitato alle funzioni linguistiche. L’eloquio spontaneo non è fluente e presenta almeno un aspetto tra agrammatismo, parafasie fonemiche (per es., tadolo anziché tavolo) e anomie. È spesso associata l’aprassia del linguaggio. Le alterazioni del comportamento non sono prominenti e di solito compaiono tardivamente. La regione perisilviana anteriore sinistra (piede della terza circonvoluzione frontale) è coinvolta selettivamente.

Nella SD il disturbo del linguaggio è caratterizzato da afasia fluente lentamente progressiva, con linguaggio spontaneo ricco di parafasie semantiche, e, ancora più precocemente, perdita del significato di singole parole, che compromette la capacità del soggetto di comprendere messaggi di una certa complessità e di denominare anche oggetti di uso comune (anomie). La perdita di significato delle parole di solito precede la perdita di significato dell’oggetto (agnosia visiva). Tutte le varianti di DFT summenzionate (bvFTD, PNFA e SD) possono associarsi a parkinsonismo e sovrapporsi con SLA, degenerazione corticobasale e paralisi

sopranucleare progressiva. Tuttavia, parkinsonismo e SLA si associano raramente alla SD. La degenerazione dei neuroni motori nella DFT può comprendere sia il tratto piramidale sia le cellule delle corna anteriori. Gli individui affetti di solito presentano cambiamenti cognitivi e comportamentali, ma debolezza, fascicolazioni, atrofia muscolare, sintomi bulbari quali disartria e disfagia possono tutti precedere i sintomi cognitivi e le anomalie comportamentali o coincidere con essi. Di tutti i soggetti con DFT, circa la metà ha un accumulo anomalo di TDP-43, proteina implicata nella trascrizione del DNA; circa il 40% ha un accumulo anomalo di proteina tau; il 10% restante ha un accumulo anomalo di altre proteine. Tuttavia, mentre un accumulo anomalo di TDP-43 può essere il substrato di una qualsiasi delle varianti della DFT (bvFTD, PNFA, SD, FTD-SLA), un accumulo in eccesso di proteina tau fosforilata dà luogo comunemente a bvFTD e PNFA, ma non a SD e FTD-SLA.

Genetica e correlazioni clinico-genetico-biomolecolari. – Fino al 40% dei pazienti con DFT ha una storia familiare di demenza. Nelle forme geneticamente determinate, la maggior parte delle mutazioni interessa con frequenza simile il gene codificante la proteina tau, quello codificante la progranulina (PGRN), entrambi sul cromosoma 17, o il gene C9ORF72 sul cromosoma 9. In quest’ultimo caso, l’alterazione genetica può essere associata a forme familiari sia di DFT (specialmente bvFTD) sia di SLA. Diversamente dai casi di DFT familiare da mutazioni nel gene tau – caratterizzati sul piano neuropatologico da degenerazione neurofibrillare dei neuroni – quelli dovuti a mutazioni nel gene per PGRN o nel gene C9ORF72 presentano inclusioni intraneuronali tau-negative e TDP-43-positive. Per i soggetti con DFT familiare da mutazioni nel gene per tau, la penetranza è completa e l’età di esordio è tra i 30 e i 60 anni. Molti di questi soggetti sviluppano nel corso della malattia anomalie comportamentali e disfunzione esecutiva con vari gradi di parkinsonismo, mentre sono assai rari disturbi della memoria, deficit visuospaziali e aprassia (relativamente comuni in soggetti con mutazioni nel gene della PGRN), che riflettono il coinvolgimento dei lobi parietali oltreché delle regioni frontotemporali. Oltre a interessare spesso i lobi parietali, l’atrofia cerebrale nei soggetti con mutazioni del gene della PRGN è più frequentemente asimmetrica rispetto a quella comunemente osservata nei soggetti con DFT familiare associata a mutazioni del gene per tau o del gene C9ORF72. Inoltre, rispetto ai soggetti con mutazioni del gene per tau, quelli con mutazioni del gene della PRGN tendono ad avere un esordio più tardivo (45-85 anni) e una durata di malattia più variabile (1-15 anni contro 3-10 anni).

A parte l’esclusione di eventuali lesioni espansive o di altre anomalie strutturali, un esame di neuroimaging (v.) strutturale (preferibilmente una risonanza magnetica cerebrale) può dimostrare precocemente atrofia, a volte asimmetrica, dei lobi frontali e/o temporali (e, più raramente, parietali). Dal momento che la riduzione del metabolismo precede generalmente il danno strutturale, un esame di neuroimaging funzionale (preferibilmente una tomografia a emissione di positroni con glucosio marcato) può essere molto utile a fini diagnostici ancora prima della risonanza magnetica, soprattutto per quanto riguarda la differenziazione della DFT dalla MdA. Gli studi sui marcatori liquorali sono contraddittori. Tuttavia, diversamente rispetto alla MdA, nella DFT il livello di Aβ42 è generalmente nella norma e si ritiene che il rapporto tra i livelli di tau totale (t-tau) e/o di tau fosforilata (p-tau) e quelli di Aβ42 (t-tau/Aβ42 o p-tau/Aβ42), ridotto nella DFT rispetto alla MdA, possa contribuire a differenziare correttamente le due condizioni.

Terapia. – Agli inizi del 21° sec. non ci sono prove di efficacia per memantina o inibitori della colinesterasi sui sintomi cognitivi della DFT che, a differenza della MdA e della DCL, non è caratterizzata da disfunzione colinergica. Poiché i pazienti con DFT hanno un deficit serotoninergico presinaptico, inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina sono stati utilizzati in passato con qualche beneficio su irritabilità, iperfagia e comportamenti compulsivi. Attualmente, l’intervento farmacologico mira essenzialmente al contenimento dei sintomi psicopatologici e delle anomalie comportamentali.

Demenza con corpi di Lewy. – Gli aspetti clinici cardinali di questa forma di demenza sono la presenza di fluttuazioni della vigilanza e dell’attenzione, di allucinazioni visive e di parkinsonismo precocemente nel corso della malattia. La presenza di demenza e di uno di questi aspetti clinici autorizza il clinico a formulare una diagnosi di possibile DCL, mentre la presenza di almeno due di questi sintomi/segni autorizza a ipotizzare una probabile DCL. Ai suddetti aspetti clinici si sono aggiunti, in una formulazione più recente dei criteri diagnostici di questa malattia, la presenza di disturbo del sonno REM, Rapid Eye Movement (caratterizzato essenzialmente da movimenti vistosi spesso violenti nel sonno perché, a differenza del soggetto integro, nella fase di sogno il paziente con disturbo mantiene il tono muscolare e, specialmente nel caso di sogni terrifici, ‘agisce’ il proprio sogno), la diminuita captazione del tracciante a livello dei caudati e dei putamina con tecnica DAT-scan, DopAmine Transporter-scan (che segnala un danno di tipo degenerativo a livello nigrostriatale anche prima della comparsa di segni extrapiramidali) e l’ipersensibilità agli effetti avversi dei neurolettici.

La DCL è sottostimata clinicamente, come si evince dalla discrepanza nella sua frequenza relativa rispetto alle altre forme di demenza nelle serie autoptiche (circa 20%) rispetto alle serie cliniche (circa 5%). Le ragioni della mancata individuazione sono molteplici. Per es., nonostante siano stati proposti strumenti ad hoc (scale, questionari) per l’individuazione delle fluttuazioni, questo sintomo rimane tuttora difficile da individuare e spesso è confuso con altri tipi di fluttuazioni presenti in altre forma di demenza (come il sundowning nella MdA, che consiste in un peggioramento spesso osservato dei sintomi verso il tramonto). A sottolineare l’imperfetta specificità delle fluttuazioni per la DCL, va ricordato che, prima di codificare i criteri clinici di questa patologia per la prima volta nel 1996, le fluttuazioni venivano considerate tipiche delle demenza vascolare. Quanto alle allucinazioni visive e al parkinsonismo (tipicamente assiale più che appendicolare, e con tremore appendicolare, quando presente, più attitudinale che a riposo), ciascuno di questi due sintomi/segni può essere assai poco frequente nelle prime fasi di malattia, aspetto che spiega bene la bassa sensibilità dei criteri diagnostici così come originariamente formulati. Tale sensibilità è migliorata nel tempo con l’inclusione tra i sintomi caratteristici del disturbo del sonno REM, la cui possibile presenza va indagata accuratamente, specie in anamnesi, perché questo disturbo è più spesso presente nella fase prodromica che nella fase di stato della malattia. Anche per questo sintomo vi è un problema di identificazione, perché può essere confuso con un disturbo del sonno da apnee ostruttive e la certezza diagnostica si raggiunge solo ricorrendo all’esame polisonnografico. Va ancora sottolineato che la presenza di parkinsonismo precocemente nella storia clinica va valorizzata ma, se presente isolatamente, espone al rischio di diagnosi erronee (falsa positività). Viceversa, la presenza di allucinazioni visive in fasi iniziali della storia clinica è altamente specifica di questa forma di demenza. Esiste anche un pattern neuropsicologico caratteristico (disturbi delle funzioni esecutive e visuocostruttivi con memoria relativamente risparmiata). In particolare, l’assenza di disturbi visuocostruttivi in fasi lievi-moderate di demenza è un forte predittore negativo di questa diagnosi. Gli esami strumentali (come il DAT-scan e la scintigrafia miocardica con metaiodobenzilguanidina, che documenterebbe nella DCL riduzione della captazione del tracciante a livello miocardico) contribuiscono in modo importante alla precisazione diagnostica.

Aspetti patologici, biomolecolari e genetici. – Insieme alla MdP, la DCL fa parte delle sinucleinopatie. L’aspetto cardinale di queste malattie è la presenza di inclusioni intracitoplasmatiche neuronali chiamate corpi di Lewy, nei quali la componente fondamentale è rappresentata da aggregati abnormi della proteina α-sinucleina. Mentre nella MdP i corpi di Lewy sono largamente predominanti nelle strutture grigie profonde (nucleo basale del Meynert, locus coeruleus, nucleo motore dorsale del vago, sostanza nera), nella DCL si osservano diffusamente nelle aree neocorticali, associati nella stragrande maggioranza dei casi ad alterazioni patologiche alzheimeriane (placche senili neo-corticali). La quasi totalità dei casi di DCL è sporadica. Nelle rare forme familiari, il gene più comunemente implicato è quello codificante l’α-sinucleina, la cui triplicazione può essere associata sia a DCL sia a MdP. Un fattore di rischio genetico per ambedue le patologie è rappresentato da mutazioni nel gene della glucocerebrosidasi.

Terapia. – I dati disponibili suggeriscono ipersensibilità agli effetti avversi dei neurolettici tipici (per es., aloperidolo) e atipici (per es., risperidone e olanzapina), una risposta solo parziale del parkinsonismo alla levodopa e miglioramento di attenzione, allucinazioni visive e disturbi del sonno con gli inibitori dell’acetilcolinesterasi. Considerata l’ipersensibilità agli effetti avversi dei neurolettici, le allucinazioni visive vengono per lo più trattate solo se sono terrifiche o modificano in modo sostanziale il comportamento del paziente, ricorrendo dapprima agli inibitori dell’acetilcolinesterasi. Nel caso non si ottenga alcun beneficio, l’unico neurolettico utilizzato comunemente nella pratica clinica è la quetiapina a basse dosi, per il ridotto effetto extrapiramidalizzante e il rischio molto basso di indurre una sindrome maligna da neurolettici.

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