MALATTIE GENETICHE ED EREDITARIE

XXI Secolo (2010)

Malattie genetiche ed ereditarie

Giuseppe Novelli

Secondo quanto ha affermato nel 2005 Francis Collins, direttore del National human genome research institute statunitense, «tutto in medicina, con la possibile eccezione dei traumi, è di natura genetica» (Positional cloning moves from perditional to traditional, «Nature genetics», 1995, 9, 4, pp. 347-50). Ognuno di noi è portatore di centinaia di mutazioni, presenti nel genoma, che spesso causano malattie ereditarie. Un tempo queste ultime venivano considerate malanni limitati a certe persone, famiglie o popolazioni. Le conoscenze sul genoma hanno oggi permesso di chiarire che solo malattie rare come la malattia di Tay Sachs o la corea di Huntington vengono ereditate e trasmesse dai genitori ai figli; tuttavia anche l’ipertensione arteriosa, le coronaropatie, i tumori, il diabete, il ritardo mentale, la schizofrenia e malattie cu­tanee come la psoriasi possono essere ereditate da chiunque e dovunque.

Le malattie genetiche

Sui cromosomi, all’interno del nucleo cellulare, sono allineati e organizzati i geni. Una piccola quota di geni è extranucleare, in quanto presente nei mitocondri (organelli cellulari che vengono ereditati dalla madre). Le alterazioni a carico dei geni nucleari e mitocondriali e, spesso, l’interazione con fattori ambientali diversi, contribuiscono a identificare cinque gruppi principali di malattie ereditarie.

a) Cromosomiche. Hanno origine da un’alterazione del numero o della struttura dei cromosomi. Un esempio illustrativo è la trisomia 21 o sindrome di Down.

b) Genomiche. Sono dovute alla perdita o all’acquisizione di un discreto numero di geni (spesso interi segmenti di DNA, DeoxyriboNucleic Acid, che contengono decine o centinaia di geni) da una specifica regione cromosomica: per es., la microdelezione (v. oltre) del cromosoma 22, responsabile di cardiopatie congenite complesse come la sindrome di DiGeorge.

c) Monogeniche o mendeliane. Dovute alla mutazione di un singolo gene. Tra gli esempi più significativi, quelli della talassemia o microcitemia (una malattia del sangue che origina da un’anomalia dell’emoglobina, la principale proteina presente nei globuli rossi), della fibrosi cistica e dell’emofilia (un difetto della coagulazione del sangue). Sono classificate in patologie autosomiche, quando il gene non è localizzato sui cromosomi sessuali, e legate all’X, nel caso in cui il gene-malattia è localizzato nel cromosoma sessuale femminile. Sono inoltre suddivise in patologie dominanti e recessive, a seconda che sia sufficiente una sola copia oppure due copie del gene mutato a determinare la malattia.

d) Multifattoriali o complesse. Sono dovute all’effetto additivo di alcuni geni e dell’ambiente. Tra gli esempi, alcuni difetti congeniti, come la labiopalatoschisi (difetto di chiusura del labbro e/o del palato) e alcune malattie croniche dell’adulto, come le cardiopatie, l’osteoporosi, l’ipertensione, il diabete.

e) Mitocondriali. Hanno origine dalla mutazione del piccolo cromosoma circolare presente in copie multiple nel mitocondrio. Si tratta di un numero relativamente piccolo di malattie, prevalentemente di interesse neuromuscolare.

Nella tabella è riassunta la frequenza di alcune delle principali malattie genetiche. Mentre le malattie cromosomiche e monogeniche sono essenzialmente influenzate dalle caratteristiche ereditarie, quelle multifattoriali, in accordo con la loro definizione, sono dovute all’interazione tra i geni e l’ambiente.

Patologia cromosomica e malattie genomiche

I cromosomi sono presenti in tutte le cellule nucleate, e contengono DNA associato a proteine basiche e acide. Ogni specie possiede un determinato numero di cromosomi con caratteristiche morfologiche peculiari. Le dimensioni dei cromosomi variano tra i 10 μm del cromosoma 1, che contiene circa 200 Mb (megabasi, cioè milioni di basi) di DNA, e i 2 μm del cromosoma 21, che contiene circa 40 Mb di DNA. I cromosomi sono classificati in ordine decrescente, dai più grandi ai più piccoli, secondo uno schema standardizzato, definito cariotipo (fig. 1). Ogni cariotipo che contenga un numero di cromosomi diverso dai corredi aploide (i cromosomi, 23, presenti nelle cellule germinali mature, dette gameti, cioè gli spermatozoi e le cellule uovo) e diploide (i cromosomi, 46, presenti in tutte le cellule a eccezione dei gameti), o che possegga un numero diploide, in presenza di anomalie di struttura, esemplifica la presenza di una patologia cromosomica.

Nell’uomo le aberrazioni cromosomiche costituiscono la patologia più frequente al concepimento. Anche se la maggior parte viene eliminata attraverso l’aborto spontaneo o in epoca perinatale, la loro frequenza tra i nati vivi è dell’1% circa. Rappresentano, inoltre, una delle principali cause di mortalità neonatale e infantile e incidono significativamente sul tasso di prevalenza, alla nascita, delle malattie genetiche e delle malformazioni congenite. L’analisi citogenetica (o cariotipo) è una componente fondamentale della diagnosi prenatale, poiché consente l’identificazione di aberrazioni cromosomiche numeriche (poliploidie – cioè un numero di cromosomi multiplo del numero aploide, per esempio 69 – e aneuploidie – ovverosia un numero di cromosomi diverso dal numero diploide, per es. 47 o 45) e di riarrangiamenti cromosomici strutturali (traslocazioni, inserzioni, delezioni, duplicazioni, inversioni, cromosomi ad anello, isocromosomi), in feti di gravidanze considerate a rischio (per es., per età materna avanzata, familiarità per aberrazioni cromosomiche, malformazioni fetali riscontrate in sede ecografica, risultati positivi allo screening di marcatori biochimici effettuati su sangue materno). È evidente che l’identificazione di tali anomalie cromosomiche è importante sia per l’andamento clinico della gravidanza sia per la gestione degli eventuali problemi che potrebbero presentarsi alla nascita del bambino, consentendo di attuare, ove possibile, interventi terapeutici mirati. Inoltre, questo tipo di analisi potrebbe assumere un particolare significato anche per la pianificazione di future gravidanze, consentendo alle coppie a rischio di realizzare il loro progetto di famiglia attraverso scelte procreative consapevoli, e potrebbe avere implicazioni anche per altri membri della famiglia, ad alto rischio di essere portatori dello stesso riarrangiamento cromosomico.

È necessario tenere presente che la maggior parte delle patologie cromosomiche dimostra un rischio di ricorrenza molto basso, soprattutto quando nessuna anomalia è riscontrabile nei genitori. Inoltre è opportuno sapere che praticamente in tutte le patologie della vita adulta, anche in quelle strettamente ereditarie, non è presente alcuna anomalia cromosomica visibile; da queste affermazioni consegue che non è sempre necessario effettuare l’analisi cromosomica in tutti i casi di patologia genetica.

Trisomia 21

Questa patologia, detta anche sindrome di Down, alla nascita ha una frequenza di circa 1/1000 nati vivi. Al concepimento la frequenza è molto più elevata (1/150); infatti circa l’80% di queste aneuploidie è abortita spontaneamente. La diagnosi viene, di solito, sospettata all’esame clinico, che rivela ipotonia neonatale; viso tondo; naso piccolo, sella piatta e narici anteverse; palpebre oblique verso l’alto, macchie di Brushfield (punteggiatura bianca sul terzo medio esterno dell’iride); labbra sottili; mento piccolo; profilo piatto; brachicefalia (conformazione del cranio caratterizzata dalla brevità del diametro longitudinale rispetto a quello trasversale) con occipite piatto; padiglioni auricolari corti e dismorfici (cioè di forma anomala); collo corto con cute abbondante sulla nuca; mani corte, con clinodattilia (curvatura) del quinto dito e ipoplasia (sviluppo incompleto) della falange media, solco palmare unico; aumento della distanza tra l’alluce e il secondo dito del piede; cardiopatie nel 50% dei casi (soprattutto canale atrio-ventricolare di tipo completo, cioè un’anomalia del cuore che permette il passaggio di sangue fuori dalle strutture delle valvole cardiache); atresia (ostruzione) del duodeno.

La trisomia 21 è la causa di circa 1/4 di tutte le forme di ritardo mentale medio-grave osservate in età scolare; le persone Down sono educabili e raggiungono un soddisfacente grado di autonomia che consente il loro inserimento in attività lavorative. L’affettività, lo sviluppo personale nonché le capacità di interazione sono fortemente influenzate dall’ambiente familiare e sociale. Il trattamento è educativo e sintomatico. Le attese di vita superano i 65 anni; attorno ai 40 anni compaiono i segni clinici della malattia di Alzheimer. Circa il 92% dei casi è dovuto a una trisomia 21 libera, e il 95% di questi ha origine da una non disgiunzione materna (cioè da una mancata separazione dei cromosomi durante la meiosi, ossia la divisione cellulare che conduce alla formazione dei gameti). Circa il 3% dei pazienti presenta un mosaicismo (per cui nello stesso individuo vi sono cellule normali e cellule con trisomia 21), che si associa di solito a un quadro clinico più attenuato. In circa il 5% dei casi l’extracromosoma 21 è presente nel contesto di una traslocazione (trasferimento di segmenti cromosomici), che in 1/3 dei casi è ereditaria, cioè ha origine, per malsegregazione, da un genitore eterozigote per una traslocazione bilanciata. Il rischio di insorgenza della sindrome di Down è in rapporto con l’età materna; i genitori giovani, con un precedente figlio con trisomia 21, hanno un rischio di ricorrenza di circa l’1%, verosimilmente connesso alla presenza, in un genitore, di un mosaicismo subclinico (ovvero con assenza di evidenza clinica) normale/trisomia 21. Il rischio riproduttivo specifico per i genitori eterozigoti (portatori sani) per una traslocazione varia tra ≤1 (padre eterozigote per una traslocazione robertsoniana, un tipo particolare di traslocazione che coinvolge di frequente i cromosomi e a causa della quale il cosiddetto centromero dei cromosomi si viene a trovare a un’estremità anziché al centro, e il braccio corto contiene di solito satelliti) e 100 (genitore eterozigote per una traslocazione robertsoniana 21/21). Nel caso di gravidanza, una ragazza con trisomia 21 libera concepisce in media metà dei figli a cariotipo normale e metà con trisomia 21 (non disgiunzione secondaria, ovvero non disgiunzione in un soggetto costituzionalmente aneuploide).

Sindrome di Turner

Questa patologia ha una frequenza alla nascita di circa 1/5000-1/10.000 femmine. Al concepimento tale frequenza è molto più elevata (1%); il 99% circa di questi zigoti (cellule non fecondate) viene abortito spontaneamente. La diagnosi è sospettata alla nascita in base alla presenza di cute esuberante sulla nuca e linfedemi periferici (mani e piedi rigonfi per stasi linfatica). In alcuni casi la diagnosi viene fatta più tardi, in base alla bassa statura e all’amenorrea primaria (assenza di mestruazioni spontanee). In età adulta, le pazienti non trattate hanno una statura media di 142 cm. I segni dismorfici apprezzabili all’esame clinico sono caratteristici e interessano in particolare il viso (ptosi palpebrale, epicanto, ovvero presenza di una piega cutanea sopra l’occhio e davanti alla palpebra), le orecchie (grandi, retroruotate e a bassa attaccatura), il collo (largo, corto, con cute abbondante, che tende a formare una plica, il cosiddetto pterigio), i capelli (bassa attaccatura sulla nuca), il mento (microretrognazia), il torace (largo, ‘a corazza’). I caratteri sessuali secondari (mammelle, genitali esterni, apparato pilifero) sono iposviluppati. L’intelligenza e le attese di vita sono normali. Il trattamento con ormoni sessuali migliora lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari. Il trattamento con ormone della crescita, avviato precocemente e ad alte dosi, migliora la statura finale e le proporzioni del corpo. Il 15% può avere mestruazioni spontanee e circa l’1% gravidanze spontanee (si tratta di solito di mosaicismi). Il corredo cromosomico più caratteristico della sindrome di Turner è la monosomia X (50%), che in circa 2/3 delle pazienti ha origine da lag anafasico (processo che determina la presenza nel nucleo di un solo cromosoma di una coppia) nella spermatogenesi. Circa 1/4 presenta un corredo in mosaico e 1/4 anomalie di struttura dell’X.

Sindrome di Klinefelter, o maschio XXY

Questa patologia dei cromosomi sessuali colpisce un maschio su 1000, mentre è riscontrabile nel 10% dei maschi azospermici (assenza di spermatozoi nel liquido seminale) e nell’1% dei ritardati mentali istituzionalizzati. La diagnosi viene formulata di solito casualmente, nel corso di analisi citogenetiche sugli amniociti (cellule ottenute dal liquido amniotico) delle madri attempate o nella vita adulta, nell’ambito di indagini finalizzate all’identificazione della causa di un’infertilità di coppia. L’ipogonadismo (insufficiente sviluppo degli organi riproduttivi) dei pazienti è caratterizzato da testicoli di ridotte dimensioni (<2 cm di lunghezza nell’adulto), bassi livelli di testosterone e azospermia costante (le forme in mosaico possono presentare una ridotta fertilità). È stato tuttavia dimostrato che in circa il 10% di questi maschi, rari spermatogoni (cellule precursori degli spermatozoi) XXY possono produrre spermatidi (spermatogoni a uno stadio più avanzato di sviluppo) che, recuperati per biopsia testicolare, sono in teoria utilizzabili nei programmi di fecondazione assistita mediante iniezione intracitoplasmatica di sperma (ICSI, Intra Cytoplasmatic Sperm Injection). Questa aneuploidia non si associa di solito a ritardo mentale; tuttavia il quoziente intellettivo dei pazienti può essere ridotto di circa 10-15 punti, soprattutto per quanto concerne le capacità verbali. In oltre la metà dei casi, l’anomalia ha origine da un errore nella meiosi materna.

Anomalie strutturali dei cromosomi

Queste anomalie hanno origine dalla rottura di uno o più cromosomi; l’estremità rotta è instabile e ‘appiccicosa’, e per questo essa tende a essere riparata da specifici enzimi. Tuttavia, questo meccanismo occasionalmente non porta a una corretta restitutio ad integrum, soprattutto quando sono presenti più punti di rottura. Le rotture non si distribuiscono in modo casuale, ma tendono a concentrarsi in alcune regioni. La loro frequenza (1 per 1000 gameti, nel caso delle traslocazioni) è circa 100 volte maggiore rispetto alla frequenza delle mutazione dei singoli geni. Alcuni agenti, in particolare le radiazioni ionizzanti e determinati mutageni chimici (per es., pesticidi, farmaci antitumorali e antiepilettici ecc.), aumentano significativamente la frequenza delle mutazioni cromosomiche (effetto clastogeno).

Le principali anomalie di struttura dei cromosomi comprendono: a) delezione (abbreviata in del) e cromosoma ad anello (abbreviato in r, per ring); b) duplicazione (ovvero anomalia o mutazione del DNA consistente nella presenza di un segmento aggiuntivo di cromosoma, o di uno o più nucleotidi ripetuti; abbreviata in dup); c) inversione; d) traslocazione; e) isocromosoma (anomalia nella quale il cromosoma è formato da braccia uguali e simmetriche).

La delezione consiste nella perdita di un segmento di cromosoma. Sebbene numerose delezioni originino da nuova mutazione, alcune possono essere ereditate per malsegregazione di una traslocazione o di una inversione presente in un genitore. Il cromosoma ad anello ha origine dalla rottura di entrambe le braccia (braccio corto e braccio lungo) di un cromosoma. I segmenti distali ai punti di rottura si perdono, e le due estremità appiccicose del cromosoma rotto si saldano in una struttura anulare. Il segmento di cromosoma deleto contiene di solito diversi geni, e perciò i pazienti portatori di delezioni hanno fenotipi clinici complessi e gravi. Uno degli esempi di delezione maggiormente noto in patologia umana è quello che interessa il braccio corto del cromosoma 5 (fig. 2), che si associa alla malattia del cri du chat, così definita per il caratteristico pianto dei pazienti alla nascita e nelle prime settimane di vita, che evoca il miagolio di un gatto. Sono presenti microcefalia importante (testa piccola e tonda), ipertelorismo oculare (aumento della distanza tra gli occhi), micrognazia (mento piccolo), padiglioni auricolari a bassa attaccatura, grave ritardo mentale (QI medio 35). La prevalenza alla nascita è di circa 1/50.000.

Le sindromi da delezione interessano di solito segmenti relativamente grandi di cromosoma (>5 Mb). Le tecniche citogenetiche ad alta risoluzione, e soprattutto le tecniche di citogenetica molecolare, come l’ibridazione in situ con fluorescenza (FISH, Fluores­cence In Situ Hybridization), consentono di identificare anche delezioni più piccole, le cosiddette microdelezioni. Sono illustrativi alcuni esempi: la sindrome di Williams (facies caratteristica, stenosi sopravalvolare dell’aorta – ovvero ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro –, deficit cognitivo con caratteristico profilo neurocomportamentale, da del 7q11.23); la sindrome di DiGeorge/velo-cardio-facciale (ridotto sviluppo del timo e delle paratiroidi, cardiopatia, facies caratteristica, da del 22q11).

Negli ultimi anni lo studio sistematico dei pazienti con ritardo mentale medio-grave associato a dimorfismi e/o a difetti congeniti con le tecniche di citogenetica molecolare ha permesso di identificare microdelezioni in diverse patologie umane come il ritardo mentale, l’autismo e la sterilità maschile. Queste condizioni vengono anche definite sindromi da geni contigui o malattie genomiche, ovvero quadri clinici che hanno origine dall’insieme degli effetti dell’emizigosi (presenza di una sola coppia di un gene) dei singoli geni localizzati nella regione colpita. Analoghe conseguenze possono essere prodotte dalle microduplicazioni (per es., sindrome di Beckwith-Wiedemann da duplicazione paterna, dup 11p15).

Fortunatamente, nuove tecniche diagnostiche, come l’ibridazione genomica comparativa basata su array (array-CGH, Comparative Genomic Hybridization; l’array è un reticolo di vetro o di silicio su cui si possono depositare numerosi geni), consentono di individuare la maggior parte delle anomalie cromosomiche e quindi la definizione di nuove sindromi genetiche e una migliore comprensione di malattie genomiche già note. L’array-CGH ha messo in evidenza, infatti, un inatteso grado di plasticità del genoma umano, dimostrando che delezioni e duplicazioni di numerose sequenze genomiche codificanti possono essere del tutto silenti e non rivestire alcun significato patogenetico. Nello stesso tempo, tuttavia, ha consentito di chiarire le basi della ‘plasticità fenotipica’ spesso osservata in queste patologie, ma mai definita a livello molecolare.

Malattie monogeniche o mendeliane

Le malattie monogeniche sono le malattie ‘classiche’ ereditate perché si trasmettono seguendo le leggi di Mendel; sono subito riconoscibili attraverso lo studio dell’albero genealogico e si riferiscono a specifiche alterazioni dei geni allineati sui cromosomi. Quando queste alterazioni riguardano i geni presenti sui cromosomi non sessuali o autonomi, vengono definite autosomiche, mentre quando riguardano i geni localizzati sui cromosomi X e Y, si definiscono malattie ereditarie legate al sesso. Il catalogo di Victor McKusick (OMIM, Online Mendelian Inheritance in Man, http://www.ncbi.nlm.nih.gov/omim) le classifica in modo costante e continuo (a fine 2009, ne risultavano recensite 12.340). Tale catalogo è un importante strumento di lavoro per chiunque desideri affrontare lo studio dei caratteri monogenici dell’uomo. Ogni carattere mendeliano, fisiologico o patologico, si trasmette all’interno di una famiglia in maniera spesso caratteristica, e il modello di trasmissione può essere riconosciuto in molti casi in base alle caratteristiche della segregazione nell’albero genealogico. Per questa ragione è utile iniziare lo studio di un carattere o di una malattia raccogliendo la storia clinica (anamnesi) della persona che per prima richiama l’attenzione su quella famiglia (il cosiddetto probando/a, o proposito/a, o caso indice), integrandola poi con quella dei suoi familiari.

Eredità autosomica dominante

Sono noti oltre 5000 caratteri autosomici dominanti, molti dei quali correlati a malattie che, di solito, sono individualmente rare nella popolazione. Tuttavia, alcune malattie autosomiche dominanti possono essere relativamente comuni, avendo una frequenza compresa tra circa 1:500 e 1:1000 (per es., ipercolesterolemia familiare, rene policistico dell’adulto), oppure essere molto rare (per es., un caso ogni 10.000 persone, come nella sindrome di Ehlers-Danlos). La relativa rarità della maggior parte di queste mutazioni rende poco probabile il matrimonio tra due persone affette. I pazienti possono nascere dal matrimonio tra un genitore eterozigote (Aa), ammalato, e uno omozigote normale (aa), non ammalato. In particolare, il genitore eterozigote produce due tipi di gameti, rispettivamente con l’allele normale (a) e con l’allele mutato (A). Pertanto un eterozigote ha una probabilità del 50% di trasmettere la mutazione ai figli (fig. 3). Gli alberi genealogici delle famiglie nelle quali segregano le mutazioni autosomiche dominanti sono spesso caratteristici. La mutazione è presente in proporzioni simili nei maschi e nelle femmine (in quanto il carattere è autosomico). Le persone affette sono presenti in tutte le generazioni e tanto i maschi quanto le femmine possono trasmettere il carattere ai loro figli (maschi e femmine). Il carattere segrega in maniera verticale nella famiglia (perciò da un nonno/a, in media alla metà dei figli/e e, da essi, in media, alla metà dei nipoti), senza ‘salto di generazione’. Le caratteristiche di questo tipo di malattie sono le seguenti.

a) La pleiotropia, ovvero la capacità di un gene di influenzare più organi e sistemi di uno stesso individuo.

b) L’anticipazione, cioè la possibilità che alcune malattie genetiche tendano a manifestarsi nelle famiglie in un’età più precoce e in forma più grave, con il passare delle generazioni. In malattie come la distrofia miotonica (DM) o la corea di Huntington (HD, Huntington Disease) questo fenomeno è direttamente collegato con la natura della mutazione, che è definita dinamica perché riguarda una sequenza instabile di DNA, ossia una sequenza ripetuta di tre lettere del codice genetico, rispettivamente CTG (Citosina, Timina, Guanina) e CAG (Citosina, Adenina, Guanina). A differenza delle persone non affette, nelle quali la tripletta è ripetuta un piccolo numero di volte (5-30 nella DM e 11-34 nella HD), nei pazienti la sequenza si amplifica, rispettivamente da >50 fino ad alcune centinaia o migliaia di volte nella DM e da 36 a 100 volte nella HD. Dato che esiste una correlazione diretta tra il grado di espansione, l’età di esordio della malattia e l’espressione clinica, alla progressiva espansione della tripletta corrisponde, con il passare delle generazioni, un’anticipazione della malattia, in termini di età di comparsa e gravità dei sintomi clinici. In questo modo, quasi per paradosso, una malattia dell’adulto può diventare, in alcune persone della stessa famiglia, una malattia pediatrica o addirittura congenita.

c) Le nuove mutazioni, ossia la possibilità che una malattia autosomica dominante si manifesti all’interno di una famiglia che non ha precedenti per quella patologia. In questo caso è possibile che nel corso della gametogenesi, e limitatamente a un singolo gamete, il gene che segrega da un genitore sia andato incontro a una mutazione che ha trasformato il genotipo normale in un allele patogeneticamente correlato a una malattia. In questa situazione, i genitori continuano a mantenere un genotipo normale e, nelle loro eventuali successive gravidanze, il loro rischio riproduttivo non sarà modificato rispetto a quello delle coppie della stessa età. Al contrario, il soggetto che nasce con la nuova mutazione trasmetterà in media al 50% dei propri figli quella mutazione. Le nuove mutazioni non sono prevedibili, ma è ormai accertato che un potenziale fattore di rischio è l’età paterna. Un esempio di malattia autosomica dominante dovuta a mutazione paterna è la progeria, che colpisce circa una persona su 8 milioni.

d) La paternità illegittima, che di fatto introduce ‘nuove’ mutazioni all’interno di una famiglia. La percentuale dei figli illegittimi nei Paesi industrializzati è calcolata in circa 5-12% dei nati.

e) Il mosaicismo germinale, un meccanismo poco comune, è in grado di spiegare la ricorrenza, in due o più figli di una coppia di genitori non affetti, della medesima mutazione autosomica dominante. Tale mosaicismo consiste nella presenza di una mutazione confinata nelle cellule germinali, condizione tale da non causare la malattia nella persona portatrice del mosaico, ma da esporla al rischio di trasmettere quella mutazione ai figli.

f) La penetranza, ovvero la percentuale delle persone che esprimono il fenotipo solitamente associato a una mutazione, sul numero complessivo delle persone che portano la mutazione. Quando questo rapporto è inferiore al 100%, il gene ha penetranza ridotta. Un tipico esempio è il gene della polidattilia, che di solito, ma non in tutte le persone eterozigoti per quella mutazione, determina la presenza di un dito o di un’appendice digitale in soprannumero.

g) L’espressività che, analogamente alla penetranza, si riferisce all’espressione variabile di una mutazione genica. In questo caso, la penetranza è completa, ma l’espressività, cioè il grado di estrinsecazione clinica della malattia, può essere differente tra i diversi pazienti, anche all’interno della stessa famiglia. Mentre la penetranza è un fenomeno tutto-nulla (una persona ha oppure non ha la malattia), l’espressione variabile definisce il grado di estrinsecazione del fenotipo clinico. È significativo l’esempio della neurofibromatosi di tipo 1 o malattia di von Recklinghausen che si associa, in varia combinazione, a macchie cutanee caffellatte, neurofibromi, glioma del nervo ottico (tumori), alterazioni scheletriche, noduli di Lisch sull’iride. I meccanismi possono essere riconducibili agli effetti dell’ambiente, all’interazione con altri geni (geni modificatori), all’eterogeneità delle mutazioni (eterogeneità allelica), al contributo di mutazioni somatiche.

h) L’esordio tardivo, cioè la possibilità che una malattia si manifesti quando una persona è avanti con l’età. Sono illustrativi gli esempi della corea di Huntington e di alcune forme mendeliane di malattia di Alzheimer (gravi malattie neurodegenerative).

Eredità autosomica recessiva

I caratteri autosomici recessivi sono quelli che si esprimono solo negli omozigoti. Hanno origine dal matrimonio tra eterozigoti (Aa) asintomatici, e si manifestano in media nel 25% dei figli, indipendentemente dal loro sesso. Di solito i nonni non sono affetti e, se la malattia non riduce l’idoneità biologica e i pazienti si riproducono, i loro figli saranno sani ma eterozigoti. La malattia ricorre tra i fratelli (mentre gli altri collaterali non sono affetti), e ha quindi una caratteristica distribuzione orizzontale nell’albero genealogico (a differenza delle malattie autosomiche dominanti, che segregano in maniera verticale). Trattandosi di un carattere autosomico, i due sessi sono colpiti con uguale frequenza. Un potenziale fattore di rischio per queste malattie è la consanguineità dei genitori, che possono condividere la stessa mutazione ereditata da un antenato comune. Nel caso indicato nella figura 4, l’albero genealogico comincia con i nonni, uno dei quali (ignoto) è eterozigote asintomatico. Il carattere autosomico recessivo viene trasmesso ai figli, che a loro volta lo trasmettono ai propri figli. In seguito a matrimonio tra cugini (doppia linea) nasce una bambina affetta (perché omozigote) da patologia. Altri due figli omozigoti vengono abortiti (figure nere più piccole). Il punto di domanda rappresenta il rischio di avere un figlio malato (25% di probabilità) in seguito a ulteriore gravidanza. Sono noti circa 4000 caratteri autosomici recessivi. Di solito l’unico reale rischio riproduttivo è quello dei genitori eterozigoti, che è del 25%. Se la malattia è sufficientemente rara e il matrimonio avviene tra persone estranee, il rischio di occorrenza di quella patologia tra i figli dei fratelli non affetti e degli altri consanguinei dei pazienti è trascurabile. Tuttavia, se la frequenza degli eterozigoti nella popolazione è elevata, come nel caso della talassemia nell’area del Mediterraneo (in Italia vivono circa 2 milioni di portatori), i consanguinei dei pazienti, che hanno un’elevata probabilità di essere eterozigoti per la mutazione, presentano un rischio riproduttivo significativamente maggiore, in considerazione dell’alta probabilità di riprodursi con un partner eterozigote per lo stesso gene-malattia. Per questa ragione, se vi sono mutazioni comuni è utile definire il genotipo dei familiari. In caso di matrimonio tra individui omozigoti per mutazioni nello stesso gene-malattia, tutti i figli saranno omozigoti affetti.

Eredità recessiva legata all’X

Sul cromosoma X sono stati localizzati circa 3000 caratteri. La maggior parte dei geni-malattia presenti su questo cromosoma segregano in maniera recessiva, e perciò le conseguenze cliniche si manifestano di solito solo nei maschi che portano l’allele mutato. Questi maschi sono definiti emizigoti.

In genere la malattia viene trasmessa da madri eterozigoti, clinicamente non affette, alla metà dei loro figli maschi. I maschi emizigoti trasmettono la mutazione a tutte le loro figlie, che sono eterozigoti obbligate, e perciò a rischio di trasmettere la mutazione ai loro figli (i nipoti del maschio emizigote). Per questo la trasmis­sione nella famiglia non ha né l’aspetto verticale delle mutazioni autosomiche dominanti, né quello orizzontale delle mutazioni autosomiche recessive, ma piuttosto un aspetto diagonale o a zig-zag, con un numero più o meno elevato di maschi ammalati su generazioni diverse. Le caratteristiche ereditarie di alcune malattie che colpivano solo i maschi e che oggi sappiamo essere legate all’X, erano note già circa 2000 anni fa presso gli ebrei. Per es., venivano esclusi dalla pratica della circoncisione tutti i figli delle sorelle di una madre che aveva avuto problemi di emorragia (cioè emofilia) nei propri figli a seguito di questo intervento; al contrario, non venivano esclusi i figli dei fratelli del padre. Un esempio di emofilia familiare è quello dei discendenti della regina Vittoria d’Inghilterra e della sua sorellastra (Feodora di Leiningen), che introdussero la mutazione nelle famiglie reali russa e spagnola. Il figlio maggiore della regina Vittoria, re Edoardo VII, che non aveva ereditato il gene, ne interruppe invece la trasmis­sione nella famiglia reale inglese. Alcune malattie recessive legate all’X non sono compatibili con la sopravvivenza fino alla riproduzione e perciò non vengono trasmesse dai maschi affetti. La distrofia muscolare di Duchenne è la malattia muscolare più comune, ed è grave. I primi sintomi consistono nell’andatura a base allargata, difficoltà nel salire le scale e tendenza a cadere. Prima dei 10 anni quasi tutti i pazienti sono costretti sulla sedia a rotelle. La debolezza muscolare progredisce poi fino a costringere i pazienti a stare a letto. La mor­­te avviene attorno ai 20 anni. Dato che i pazienti non sopravvivono all’età della riproduzione, la malattia è trasmessa quasi esclusivamente dalle femmine eterozigoti.

Una femmina può esprimere il genotipo di una mutazione recessiva legata all’X avendo tre diversi genotipi: omozigote, eterozigote, emizigote. Solo molto raramente una femmina è omozigote per una mutazione recessiva legata all’X. Questo genotipo ha origine dal matrimonio tra una femmina eterozigote e un maschio emizigote, evento questo di solito molto raro. Metà dei maschi nati da questo matrimonio sono emizigoti e metà sono normali, mentre metà delle femmine sono eterozigoti e metà omozigoti. Perciò, l’espressione fenotipica di una mutazione recessiva legata all’X in una femmina solo eccezionalmente è dovuta a una condizione di omozigosi per la mutazione. Un’importante eccezione è la cecità ai colori rosso-verde, mutazione che colpisce circa l’8% della popolazione maschile. Questa elevata frequenza giustifica la presenza della stessa patologia in circa una donna ogni 150, che è omozigote per il gene-malattia. Più comunemente, una malattia recessiva legata all’X si manifesta in una femmina eterozigote, nella quale l’inattivazione dell’X ha perso le caratteristiche di casualità. Se un’eterozigote obbligata (figlia di un padre emizigote), che ha perciò l’X paterno mutato e l’X materno normale, presenta un’inattivazione somatica dell’X diversa dall’atteso rapporto 50/50% paterni/materni e, per es., il rapporto è 30/70 %, oppure 20/80 %, pur in presenza di un genotipo eterozigote, l’elevata frequenza di X mutati attivi dà origine a un fenotipo simile a quello di un maschio emizigote. Occasionalmente, una mutazione recessiva legata all’X si manifesta in una femmina emizigote, cioè in una paziente con monosomia X (sindrome di Turner), quando l’X è mutato.

Eredità legata all’Y

Questa eredità, definita anche oloandrica, implica che un carattere colpisca solo i maschi e che essi lo trasmettano a tutti i loro figli maschi, ma non alle femmine. In passato sono state considerate compatibili con questo modello di eredità alcune caratteristiche somatiche, come l’orecchio peloso. Evidenze di tipo diretto, basate su rilievi clinici, citogenetici e molecolari, hanno localizzato sul cromosoma Y circa 250 geni, compreso un gruppo (cluster) di geni implicati nella determinazione del sesso e nella spermatogenesi.

Malattie multifattoriali o complesse

La maggior parte di queste malattie si concentra in alcune famiglie, ma la ricorrenza non presenta le caratteristiche delle mutazioni mendeliane. Questo è il caso di alcuni difetti congeniti e di molte malattie comuni dell’adulto, il cui rischio di ricorrenza che quasi mai supera il 2-4%, rappresenta un’importante differenza nei confronti dei più elevati rischi mendeliani (25-50%). Questo tipo di eredità, definita multifattoriale o poligenica, sottintende l’interazione tra diversi fattori genetici e ambientali, cioè tra una suscettibilità geneticamente determinata e uno o più agenti esterni (fig. 5). Il modello multifattoriale o poligenico presuppone che l’eredità e l’espressione di un fenotipo dipendano da più geni non allelici, ognuno dei quali contribuisce in maniera additiva e interattiva al fenotipo finale. La componente ereditaria di un modello multifattoriale o poligenico viene definita ereditabilità (h2). Quanto maggiore è il valore di h2, tanto maggiore è l’importanza dei fattori genetici nel determinare quella patologia. Tuttavia, poiché i fattori genetici sono appunto tanti e diversi, lo studio di un singolo gene ha un valore estremamente limitato per la ‘predizione’ di tali malattie, ma è oggetto di dibattito sull’utilizzazione a scopo diagnostico del profilo genetico, ossia la tipizzazione a livello di più loci (le sedi dei geni sul cromosoma). Alcuni ricercatori sostengono che questo sia un passo importante verso la medicina personalizzata, in cui lo sviluppo di una malattia complessa può essere predetto tramite semplici test genetici in cui molti geni vengono valutati simultaneamente. Altri ricercatori sostengono invece che il profilo genetico sia di scarsa utilità per la predizione di malattie genetiche complesse, proprio a causa delle centinaia di geni coinvolti, aventi ciascuno un bassissimo effetto (bassa penetranza) sul livello del rischio di sviluppo della malattia. Anche se in entrambi i casi i sostenitori delle suddette teorie hanno accumulato dati a supporto del loro punto di vista, mancano ancora studi empirici che dimostrino l’utilità di questo tipo di test a fini predittivi. Per essere utili nella predizione di una malattia, i profili genetici dovrebbero discriminare tra i soggetti che svilupperanno la malattia e quelli in cui non si verificherà questo evento. L’accuratezza di discriminazione tra due gruppi di un test dicotomico o di uno studio di caratteri qualitativi è di solito indicata come la combinazione della sensitività, cioè la percentuale di esiti positivi tra coloro che svilupperanno la malattia, e la specificità, cioè la percentuale di esiti negativi tra i soggetti che non si ammaleranno. Nel caso di un test perfetto, tutti i soggetti che svilupperanno la malattia avranno esito positivo (sensitività = 1,0), e tutti i soggetti che non la svilupperanno avranno un esito negativo (specificità = 1,0). Il profilo genetico, tuttavia, non è un test dicotomico con esito positivo o negativo, ma può essere considerato un test continuo dove i profili vengono uniti a un valore di rischio associato a una malattia. L’accuratezza della predizione dipende dal numero di geni considerati, dalla frequenza dell’allele di rischio e, infine, dal rischio associato al genotipo.

Negli ultimi anni, nel campo delle malattie multifattoriali ha acquisito credito l’ipotesi del common soil: è stata osservata un’interrelazione tra diverse malattie complesse, specialmente di origine autoimmune. Studi epidemiologici hanno rilevato frequentemente la contemporanea presenza di due differenti patologie autoimmuni nello stesso paziente, oppure l’associazione di una patologia autoimmune con una malattia di natura infiammatoria; questo suggerisce una possibile componente genetica comune per le malattie autoimmuni. A conferma di ciò, studi genetici hanno messo in evidenza che in alcuni casi loci di suscettibilità genetica a differenti malattie complesse si sovrappongono o si colocalizzano nelle stesse regioni cromosomiche. Questo conduce all’ipotesi che i medesimi geni possano predisporre allo sviluppo di diverse patologie, in relazione all’esposizione a differenti fattori ambientali e/o altri geni di suscettibilità. Tali geni sono responsabili dell’insorgenza di queste malattie e potrebbero risultare attivi in patologie differenti. Il sistema maggiore di istocompatibilità, l’antigene leucocitario (cioè dei globuli bianchi) umano (HLA, Human Leukocyte Antigen), è stato ampiamente studiato e ha evidenziato svariate associazioni e colocalizzazioni. La più forte associazione è quella tra spondilite anchilosante (una malattia infiammatoria e degenerativa di alcune articolazioni, soprattutto della colonna vertebrale) e allele B27, presente in circa il 90% dei pazienti, rispetto al 5% dei controlli. Il grado di associazione viene espresso come rischio relativo, cioè il rapporto tra il rischio di sviluppare la malattia nelle persone con l’allele rispetto al rischio delle persone che non hanno l’antigene. Sulla base di questo modello si ritiene che molte malattie complesse abbiano in comune un set di geni ‘generici’ e alcuni altri specifici e selettivi da indirizzare verso una patologia piuttosto che un’altra. È interessante osservare come in molte malattie complesse studiate, l’allele di suscettibilità è in genere quello ancestrale, che potrebbe pertanto essere considerato come quello originale (normale). Ciò fornisce supporto alla teoria del thrifty genotype, che considera questi alleli ‘vantaggiosi’ in un certo contesto ambientale e, al contrario, svantaggiosi in un ambiente diverso, come quello attuale in alcune società (malattie della civilizzazione).

Eredità mitocondriale

Le cellule umane hanno centinaia di mitocondri dispersi nel citoplasma, ognuno con 8-10 copie di DNA circolare. Una mutazione in una molecola di DNA mitocondriale genera, all’interno della cellula, una mescolanza di sequenze di DNA mutanti e normali. La comparsa di due varietà distinte di DNA nel citoplasma di una singola cellula è definita eteroplasmia. Quando una singola cellula eteroplasmica va incontro a divisione, i mitocondri segregano in maniera casuale nelle due cellule figlie, ed è il caso a determinare la percentuale di mitocondri mutanti in ogni cellula. Le cellule che ricevono mitocondri contenenti solo sequenze mutanti o normali sono definite omoplasmiche. Il DNA mitocondriale è costituito da 16.569 bp (coppie di basi nucleotidiche) ed è organizzato in due catene circolari, H (pesante) e L (leggera), prive di introni e di sequenze ripetitive, e contiene 35 geni, 13 dei quali codificano per le proteine coinvolte nei processi ossidativi finalizzati alla sintesi di ATP (adenosintrifosfato) La maggior parte delle sequenze codificanti è localizzata nella catena H, mentre la catena L trascrive solo per la subunità 6 del complesso NADH (nicotinamideadenindinucleotide)-deidrogenasi. Molte delle proteine attive nel mitocondrio hanno comunque un’origine nucleare e si complessano con quelle mitocondriali a formare unità funzionali. Questo dimostra che il genoma nucleare e quello mitocondriale, pur non essendo reciprocamente traducibili, cooperano a livello funzionale.

Dato che praticamente tutti i mitocondri sono ereditati con il citoplasma dell’oocita (nei mammiferi un mitocondrio ogni 10.000 circa è di origine paterna), l’informazione genetica mitocondriale è definita non mendeliana o citoplasmatica o matrilineare. Pertanto, un carattere codificato dai geni mitocondriali è trasmesso dalla madre a tutti i figli, maschi e femmine. Non tutti i figli manifesteranno il fenotipo-malattia, mentre i maschi affetti e i portatori non trasferiranno la mutazione a nessuno dei loro figli. Nelle famiglie con chiara trasmissione mitocondriale, il rischio di trasmissione di una femmina portatrice ai figli è del 50%. Dove invece tale chiara trasmissione non è osservata, il rischio di ricorrenza è variabile tra il 3 e il 6%. Le mutazioni del genoma mitocondriale causano essenzialmente malattie di interesse neuromuscolare. Circa un neonato su 5000-8000 presenta alla nascita una malattia mitocondriale. Livelli significativamente elevati di danni al DNA mitocondriale sono stati osservati in alcuni pazienti affetti da malattie degenerative a insorgenza tardiva, come il diabete mellito, l’ischemia cardiaca, il morbo di Parkinson e la corea di Huntington. Poiché alcune di queste patologie sono la conseguenza di mutazioni autosomiche, è possibile che le alterazioni mitocondriali contribuiscano soltanto alla progressione della malattia. Una maggiore frequenza di alterazioni del DNA mitocondriale è stata anche riscontrata durante l’invecchiamento dell’uomo. Sebbene il meccanismo di aumento dei danni al DNA mitocondriale in relazione all’età non sia ancora noto, è possibile che ciò sia dovuto alla formazione di radicali liberi dell’ossigeno generati dalla fosforilazione ossidativa.

Implicazioni etiche, sociali e legali dei test genetici

I test genetici possono consentire di prevedere con grande precisione la futura evoluzione della salute di un singolo individuo. Essi riguardano tanto i soggetti in buona salute quanto quelli che presentano i sintomi di una patologia, e possono avere profonde ripercussioni per i parenti della persona che si è sottoposta a un test. Abitualmente, il test unico di laboratorio eseguito per stabilire un genotipo non è ripetuto e il suo risultato costituisce una parte permanente della cartella clinica. Di conseguenza, è importante che i servizi forniscano un adeguato livello di sostegno al paziente e alla sua famiglia prima di proporre un test genetico e di comunicarne i risultati. Con l’espressione test genetici si identifica un insieme eterogeneo di test destinati a individuare le variazioni delle sequenze di DNA della linea germinale o dei prodotti che derivano direttamente dalla modificazione di sequenze genomiche trasmissibili. I test si possono classificare a seconda delle diverse caratteristiche e finalità. Con il progredire delle acquisizioni scientifiche sui caratteri genetici complessi e sulla loro influenza sul fenotipo, i test genetici stanno subendo un’evoluzione che tende a spostare il loro ambito dalla medicina tradizionale a quella molecolare. Essi riguarderanno sempre più tratti complessi anziché semplici, e la loro sfera di rilevanza si sposterà dalla famiglia all’individuo; all’ambito prenatale si aggiungerà quello della vita adulta, alle finalità diagnostiche e di prevenzione si sommeranno quelle di determinazione del rischio e quelle predittive; la metodologia si sposterà dall’analisi dei cromosomi e dei geni a quella del genoma; i protocolli clinici di ricerca genetica si orienteranno sempre più chiaramente verso le malattie complesse.

La ricerca nell’ambito delle malattie complesse si pone l’obiettivo di definire gli effetti dei singoli geni nei fenotipi complessi e di identificare i genotipi con effetto maggiore. Questa ricerca dovrebbe creare le basi scientifiche per una genotipizzazione di routine eseguita al fine di determinare la predisposizione ereditaria a malattie comuni (medicina predittiva) e per effettuare interventi terapeutici genotipo-specifici (farmacogenetica). Un test genetico deve essere sempre accompagnato da una consulenza adeguata e specialistica, con lo scopo di aiutare le persone interessate a comprendere le implicazioni mediche, psicologiche e familiari dei fattori genetici che intervengono nella malattia e ad adeguarvisi. Tale consulenza deve comprendere necessariamente i seguenti tre elementi: a) l’interpretazione dell’anamnesi familiare; b) le informazioni su ereditarietà della malattia, disponibilità di test, assistenza sanitaria, prevenzione e risorse, e stato della ricerca; c) un aiuto per poter effettuare scelte ben documentate e affrontare consapevolmente il rischio della malattia.

La natura e la durata della consulenza devono essere adeguate al tipo di test genetico, al contesto nel quale viene eseguito e ai suoi possibili risultati. La consulenza genetica fornisce informazioni precise, esaurienti e obiettive alle persone colpite da una malattia ereditaria e alla loro famiglia, e offre un sostegno durante il processo decisionale. Tale processo di consulenza può essere complesso: esso mira ad aiutare le famiglie a fare fronte a una diagnosi di malattia ereditaria, ad affrontare le implicazioni di una tale diagnosi e a prendere decisioni secondo criteri di scelta clinici e non clinici. La consulenza genetica è particolarmente importante nel caso dei test predittivi e presintomatici. Essa garantisce l’esercizio delle facoltà personali, la scelta autonoma di fare o non fare il test, l’indipendenza nei confronti di pressioni esercitate da terzi e il rispetto della confidenzialità.

Si può in generale affermare che i test genetici per caratteri semplici hanno maggiori implicazioni etiche, sociali, legali di quelli per caratteri complessi, e che i test genetici relativi allo studio di una patologia presentano maggiori conseguenze in campo etico rispetto a quelli di farmacogenetica. Si possono ipotizzare le maggiori implicazioni di tipo etico-sociale-legale per i test presintomatici, gli unici test genetici che possono predire con certezza e in anticipo il futuro manifestarsi di una malattia. Per questi test si può anche ipotizzare che l’informazione generata sia qualitativamente diversa da quella degli altri test genetici e non. Si possono invece ipotizzare implicazioni di tipo etico-sociale-legale di minore portata per l’analisi genetica di mutazioni tumorali somatiche, seppure con qualche riserva per i tumori ereditari. L’analisi delle mutazioni tumorali somatiche fornisce infatti informazioni confinate al soggetto e al momento, cioè solo sul tumore in atto e non sulla predisposizione della persona allo stesso o ad altri tumori, né sulla possibilità che altri membri della famiglia abbiano un rischio aumentato per quel tumore.

Anche test effettuati in ambito clinico, a fini diagnostici, rispetto a test genetici eseguiti a fini di ricerca hanno diverse implicazioni etiche, sociali e legali. Infatti solo i test eseguiti a scopo clinico forniscono un’informazione sullo stato di salute del soggetto. Quelli eseguiti a scopo di ricerca generano di norma un’informazione che non è indicativa dello stato di salute o dei rischi genetici del soggetto, ma è utile ai fini di ricerca statistica o scientifica.

Le stesse considerazioni sulle implicazioni etiche, sociali, legali per i test genetici, basati sull’analisi di singoli fattori genetici, sono in generale applicabili ai test genomici, che indagano molti geni o ampie regioni cromosomiche (inclusi i test basati sull’analisi di variazioni nel pattern degli RNA e quindi dell’espressione genica), e sono in generale applicabili anche alla proteomica, cioè all’analisi delle proteine.

Malattie ereditarie ed evoluzione

Il genetista Theodosius G. Dobzhansky scrisse che «nulla in biologia può essere inteso se non alla luce dell’evoluzione» (Biology, molecular and organismic, «American zoologist», 1964, 4, 4, p. 449). In effetti, dalla decodificazione del genoma umano vengono pubblicati ogni giorno articoli che dimostrano il ruolo della genetica nella suscettibilità alle malattie o nella protezione verso queste.

La selezione naturale fornisce una nuova chiave di lettura per comprendere i meccanismi che portano all’insorgere di certe malattie e non di altre. Perché un individuo si ammala e un altro no? Ebbene, la risposta ci viene fornita proprio dall’evoluzionismo. Il nostro organismo è ‘disegnato’ in modo da renderci nello stesso tempo suscettibili e resistenti alle malattie. Esso, infatti, nel corso dell’evoluzione si è reso meno vulnerabile a determinate patologie, ma paga questa conquista con qualche svantaggio. E viceversa: se, per es., le ossa del polso fossero più spesse non si romperebbero tanto facilmente come avviene, ma il movimento della rotazione, che ci permette tante operazioni con le mani, sarebbe molto più difficile. Ognuno di noi, insomma, è un insieme di compromessi. E non esistono un corpo e un patrimonio genetico ‘normali’. Persino la tendenza a contrarre malattie gravi può avere una ragione evolutiva, fatta di calcoli costi/benefici lunghi migliaia di anni. È il caso dell’anemia mediterranea che comporta, per i portatori sani, una minore suscettibilità alla malaria. L’anemia mediterranea (o falciforme) è una patologia monogenica: due copie del gene che la provoca portano a una grave carenza di emoglobina nel sangue; due copie normali dello stesso gene rendono le persone più vulnerabili di fronte alla malaria. Ma una copia sola del gene (come succede ai portatori sani) non dà luogo ai sintomi dell’anemia mediterranea e al tempo stesso protegge dalla malaria. Si tratta insomma di un vantaggio evolutivo, e non è un caso che il gene dell’anemia falciforme si sia selezionato nelle zone dove storicamente la malaria era endemica, come le paludi del delta del Po e la Sardegna. Peccato che poi l’uomo sia intervenuto e abbia effettuato opere di bonifica, per cui la malaria in queste aree è stata debellata e dell’anemia mediterranea sono rimasti soltanto gli svantaggi.

Un altro recente contributo fornito dall’evoluzionismo alla comprensione dei meccanismi di malattia è riscontrabile nella sindrome plurimetabolica, che provoca la tendenza a sviluppare ipercolesterolemia, obesità, ipertensione e diabete. Patologie che, interagendo tra loro, conducono all’aterosclerosi, prima causa di morte nei Paesi industrializzati. Eppure, decine di migliaia di anni fa, la sindrome plurimetabolica deve essersi rivelata una difesa straordinaria in caso di carestie. A quell’epoca era fondamentale immagazzinare sale, zucchero e grasso quando disponibili in quantità, mettendoli da parte per i periodi di carestia. Quindi avere certi geni che consentivano questo processo costituiva un vantaggio. È del tutto evidente che ancora oggi, soprattutto nelle società occidentali, questi nutrienti vengono immagazzinati continuamente, senza grandi difficoltà perché presenti in sovrabbondanza nell’ambiente. Ma il nostro genoma è ancora quello di diecimila anni fa e quindi continua a fare quello che faceva allora, con il risultato però che oggi troppo grasso conduce all’obesità e alle malattie cardiache, troppo zucchero al diabete e troppo sale all’ipertensione e all’ictus.

Un’analoga situazione riguarda le malattie infiammatorie dell’intestino (morbo di Chron, colite ulcerosa) o la dermatite atopica, che sono particolarmente frequenti nelle società industrializzate perché il miglioramento delle condizioni sanitarie ha limitato l’esposizione ad agenti infettivi da cui bisognava difendersi in modo rapido. Oggi invece questi stessi geni rispondono ad agenti infettivi comuni e scatenano un’infiammazione cronica tipica del morbo di Chron e della colite ulcerosa o anche della dermatite atopica, a cui vanno ad aggiungersi antigeni ambientali scatenanti. Si stima che una persona su 1000 soffra oggi di queste malattie.

In questo quadro, si comprende bene il ruolo dell’ambiente, complementare a quello dei geni. Si prenda, per es., l’osteoporosi, che può essenzialmente insorgere per due motivi. Il primo è la perdita anticipata di minerale dalle ossa: accade a un terzo delle donne, e non siamo ancora in grado di separare la componente ereditaria da quella dovuta allo stile di vita. La patologia però può anche dipendere dal mancato raggiungimento, durante l’età evolutiva, di un determinato picco di massa ossea. A questa situazione i geni contribuiscono per l’80%. Noi dobbiamo conoscere questi geni, ma nel frattempo agire su quel 20% di massa che manca, iniziando dalla prima infanzia con una dieta ricca di calcio, l’esposizione alla luce del giorno, l’attività fisica regolare.

Fortunatamente l’evoluzione comporta anche vantaggi. La possibilità di metabolizzare il latte in età adulta è stata acquisita dall’uomo non prima di 10.000 anni fa, quando si diffuse l’allevamento del bestiame. Questo ha comportato un arricchimento della dieta, tanto che la selezione ha favorito chi è in grado di digerire il latte, perché in possesso dell’enzima lattasi. Resta però una minoranza di persone che soffre di intolleranza a questo alimento, perché priva dell’enzima. Ancora, la febbre non è una spiacevole conseguenza delle infezioni, ma il risultato di un processo di difesa: il calore attiva il sistema immunitario, la tosse espelle i microbi, i brividi di freddo sono il segnale che il sangue viene richiamato dalla periferia agli organi importanti. Ormai la ricerca di una causa evolutiva si rende necessaria per tutte le patologie, anche quando il rapporto costi/benefici sembra propendere interamente a favore dei primi. È il caso della malattia di Tay-Sacks, dovuta a un difetto dell’enzima esosoamminidasi A e caratterizzata da una macchia rossa sulla fovea, ritardo mentale, disturbi psicomotori e cecità. Nella popolazione normale si verifica un caso ogni 320.000 nati vivi, con un portatore sano ogni 250 individui. Tra gli ebrei ashkenaziti che vivono negli Stati Uniti abbiamo però un caso ogni 3000 nati vivi, con un portatore sano ogni 30 individui. Deve esserci stato un vantaggio evolutivo per questo gruppo di popolazione: la sfida è scoprire quale.

L’esistenza di una spiegazione evolutiva non porta direttamente a una cura, ma produce materiale utile a studi incentrati sulle prospettive terapeutiche. Comprendere le ragioni evolutive del funzionamento del nostro corpo ci deve far riflettere sui nostri comportamenti. Per es., sull’uso indiscriminato di farmaci che bloccano reazioni sane dell’organismo, come la febbre, risultato di migliaia di anni di evoluzione.

È quindi chiaro che realizzare una censura culturale che non ha riscontro da nessuna parte e non ha precedenti nella storia dell’uomo è grave, e le conseguenze potrebbero essere disastrose per la salute dell’uomo.

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Si veda inoltre:

GeneTests, http://www.ncbi.nln.nih.gov/sites/Genetests.