Magnetometro a precessione nucleare

Enciclopedia della Scienza e della Tecnica (2008)

magnetometro a precessione nucleare


Detto anche magnetometro a protoni, rappresenta lo strumento principale della geomagnetometria terrestre, impiegato per le misurazioni del campo magnetico terrestre effettuate sulla superficie della Terra. Entrato con successo in uso nel 1960, è costituito di un piccolo solenoide rettilineo (bobina) che contiene al suo interno, in un recipiente cilindrico di vetro, un liquido fortemente idrogenato (tipicamente, acqua chimicamente pura), che può vedersi come una sorta di soluzione di protoni (gli ioni H+ derivanti dalla dissociazione ionica del liquido), dotati di momento magnetico. Tale sensore viene disposto con il suo asse all’incirca nella direzione Est-Ovest locale e nella bobina viene inviata per qualche secondo una corrente elettrica continua, che genera un campo magnetico di polarizzazione piuttosto intenso (qualche centinaio di volte più intenso del campo magnetico terrestre), che orienta (in media) una certa parte dei protoni parallelamente all’asse della bobina; interrotta tale corrente, resta attivo il solo campo magnetico terrestre con la direzione del quale, ortogonale rispetto al precedente campo di polarizzazione, sono sollecitati ad allinearsi i protoni precedentemente polarizzati. Questi si portano su tale direzione non direttamente ma con un moto di precessione conico intorno a essa; la frequenza di tale precessione fπ è legata, tramite il rapporto giromagnetico del protone, al modulo F del campo magnetico terrestre (F/fπ=23,4874 nT/Hz). Il moto di precessione dei protoni si mantiene come moto d’insieme per pochi secondi (prima che le collisioni per agitazione termica facciano venire meno la coerenza) e in questo intervallo di tempo si manifesta ai capi della bobina una tensione indotta alternata misurabile (qualche μV), in quanto ogni protone in precessione equivale a un magnetino lineare che ruota in un piano contenente l’asse della bobina. In definitiva, la misura di F è facilmente derivabile da quella della frequenza del segnale di precessione, misurabile con grande accuratezza, relativa semplicità e rapidità (inferiore a 5 s) mediante un frequenzimetro elettronico, la cui scala di lettura può essere espressa direttamente in nT. L’accuratezza ottenibile è dell’ordine di qualche decimo di nT, migliore per un fattore tra 2 e 5 rispetto ai teodoliti magnetici. Altri vantaggi strutturali sono la trasportabilità (piccole dimensioni e piccola massa), la possibilità di connessione con un elaboratore per la memorizzazione e l’elaborazione delle misure, e la capacità di misurare facilmente una o più assegnate componenti del campo (facendo agire sul sensore campi magnetici ausiliari di opportuna intensità e opportunamente diretti, generati da una o più bobine di Helmholtz). Tra i fattori negativi, comuni a molti altri ­strumenti geomagnetici, c’è la necessità di controllare con grande cura il livellamento, cioè di controllare che le parti dello strumento che devono essere orizzontali oppure verticali lo siano effettivamente entro i limiti dell’accuratezza generale voluta. La non trascurabile richiesta di energia elettrica per la corrente generatrice del campo di polarizzazione e dei campi ausiliari per le componenti ne limita l’uso all’ambito terrestre. Per misurazioni del campo magnetico terrestre nello spazio circumterrestre, a bordo di veicoli spaziali, ci si serve di un altro strumento, il magnetometro a saturazione, detto anche magnetometro flux-gate, che ha richieste assai meno onerose per l’alimentazione elettrica, sebbene presenti, rispetto al magnetometro a protoni, un’accuratezza complessiva almeno dieci volte minore. (*)

Magnetismo terrestre

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