MAGNESIA al Sipilo

Enciclopedia Italiana (1934)

MAGNESIA al Sipilo (Μαγνησία ἡ πρὸς Σιπύλῳ; A. T., 90)

Biagio PACE
Ettore ROSSI
Gaetano DE SANCTIS

È l'odierna Manisi, città dell'Anatolia occidentale, 33 km. a NE. di Smirne, vicino al corso del fiume Gedis, sulle falde del monte Sipilo (odierno Manisa Daǧ). Era la città più orientale dell'Eolia alla cui fondazione gli antichi favoleggiavano avessero avuto parte le Amazzoni; fece parte del regno di Lidia e poi soggiacque ai Persiani. Sotto i Seleucidi nei suoi dintorni i Romani, guidati da L. Cornelio Scipione, ottenevano su Antioco il Grande di Siria (190 a. C.) la celebre vittoria. In seguito al testamento attalico Magnesia diventava romana. Fu ricostruita da Tiberio dopo il terremoto del 17 d. C. Col sorgere del cristianesimo ebbe nuova importanza e fu sede di vescovato; ma la pagina più illustre della sua vita ha inizio con l'impero latino di Costantinopoli, quando (1204) Giovanni Ducas vi si trasferisce, restandovi fino al 1255. Conquistata verso il 1313 dal capo turcomanno Sarukhān, che si era formato un suo principato sulle rovine del reame selgiuchida di Conia, Magnesia fu sede di questo principato per circa 78 anni. Il nome della dinastia Sarukhān restò da allora alla regione. Gli Ottomani occuparono Magnesia nel 792 dell'èg. (1389-90 d. C.). Per circa due secoli fu la residenza preferita dei principi della famiglia ottomana, che vi fondarono belle moschee. Murād II vi costruì un palazzo oggi distrutto; la probabile tomba di Murād viene mostrata nella moschea Muradié. Con l'affermarsi dei bey locali quasi indipendenti, Magnesia fu centro della signoria dei Qara Osmān Oglu, la cui potenza fu distrutta soltanto dal sultano riformatore Mahmüd II. Fu quindi sede del sangiaccato di Sarukhān nel vilâyet di Aidin (Smirne); dal 1922 è sede del vilâyet omonimo. La popolazione, calcolata a 36.256 ab. alla fine del secolo scorso, risultò di 26.635 nel censimento dell'ottobre 1927 (per tutto il vilâyet 372.558).

Manisa è oggi un importante centro di commercio e di agricoltura della ricca pianura al cui margine giace, chiusa a sud da una ripida roccia. Coi minareti di 33 moschee e col suo folto verde la città è molto pittoresca.

Avanzi di tarde mura romane e bizantine sono sulla spianata del Castello. Ulu Giamì è la più importante moschea con un cortile a capitelli bizantini e un minareto coperto da maioliche colorate; altri antichi interessanti edifici sono alcuni khān, il palazzo dei Qara Osmān Oglu accanto alla Muradié, la chiesa ortodossa di S. Atanasio (secolo XVIII) e il monastero dei Dervisci danzanti.

A circa 7 km., a oriente, sulle rocce del Monte Sipilo presso un piccolo lago, si vede la cosiddetta immagine di Niobe, rilievo rupestre hittita, e il cosiddetto castello di Tantalo.

La battaglia di Magnesia. - La battaglia di Magnesia, detta anche del fiume Frigio, che diede ai Romani il predominio sull'Asia Minore si combatté nella pianura Ircania o pianura di Ciro (Corupedio) così chiamata da coloni ircani che Ciro vi stanziò. Qui appunto era stata combattuta nel 382 la battaglia detta di Corupedio che aveva assicurato ai Seleucidi il dominio dell'Asia. Questa pianura dai confini non esattamente precisabili, specie ad oriente, si estende a nord-est di Magnesia sul Sipilo, a partire dal confluente dell'Ermo (Gedis) con l'Acheloo (Nif), ed è bagnata dall'Ermo e dal fiume Frigio, suo importante affluente di destra, che deve identificarsi col Kum. Antioco III il Grande di Siria, il quale aveva raccolto le sue forze a Tiatira, volendo dare battaglia ai Romani sulla frontiera tra lo stato pergameno ed il proprio dominio, ritenne che l'ansa tra l'Ermo e il fiume Frigio gli avrebbe fornito un terreno adatto, e perciò, movendo per una quarantina di km. verso SO. in direzione di Magnesia, varcato il Frigio, pose il campo fra questo e l'Ermo. I Romani, ai quali urgeva di dare battaglia prima che la stagione avanzata li costringesse a prendere i quartieri d'inverno (si era già sulla fine dell'anno giuliano 190 a. C. o sui primi giorni del 189), si rassegnarono a cercare Antioco nel terreno da lui prescelto, fiduciosi di riparare alla minore opportunità del luogo e all'inferiorità del numero col valore dei legionarî e con la superiorità tattica. Essi, che per l'effetto delle vittorie marittime avevano potuto compiere senza difficoltà il passaggio dei Dardanelli e che si erano felicemente congiunti nella Misia col loro amico e alleato il re Eumene II di Pergamo, mossero dai pressi di Pergamo con tutte le forze in direzione del fiume Frigio e si accamparono sulla destra del fiume. Poi, visto che Antioco non voleva dare battaglia colà, si trasportarono sulla sinistra e finalmente si accostarono ancora di più al campo di Antioco, procedendo verso l'interno, lungo la sponda del Frigio, perché egli s'inducesse ad accettare la battaglia. E Antioco, sebbene fosse non scevro di timori e ben consapevole della superiorità tattica dei Romani, come mostra la richiesta di pace ch'egli aveva fatta poco prima offrendo condizioni per lui assai umilianti, uscì a battaglia pensando che non avrebbe mai potuto combattere il nemico né con più valido esercito né in terreno più favorevole. I Romani disponevano delle due legioni consolari forti di 20-22.000 fanti, di circa 9000 ausiliarî di fanteria Pergameni, Achei, Tralli, Macedoni e Traci e di circa 3000 cavalli tra Italici e ausiliarî. Antioco aveva 16.000 falangiti armati alla macedonica, circa 8000 altri fanti più o meno gravemente armati, circa 12.000 tra cavalieri corazzati e cavalleggeri, 12.000 fanti leggermente armati, oltre agli elefanti, alle quadrighe e ai dromedarî montati: in tutto un esercito poco inferiore al doppio dell'esercito avversario. I Romani appoggiarono l'ala sinistra al fiume, collocandovi solo poche torme di cavalleria. Subito dopo posero in linea il grosso dell'esercito, le legioni nel loro schieramento usuale, sulla destra tutti gli ausiliari e tutta la cavalleria. Sguarnendo così quasi interamente di cavalli l'ala sinistra che era appoggiata al fiume e raccogliendo tutta la cavalleria e la parte più mobile delle truppe a destra, intendevano di opporsi da questo lato agli eventuali tentativi di aggiramento di Antioco, contro i quali non potevano valersi di nessun ostacolo naturale come alla sinistra. A questo schieramento ben ponderato e originale Antioco contrappose lo schieramento consueto, la falange al centro, la cavalleria e la fanteria leggiera in misura presso che eguale sulle ali, gli elefanti sulla fronte di battaglia. Non si valse della superiorità numerica neppure per costituire una riserva tattica che avrebbe potuto mutare le sorti della battaglia. Questa, del resto, era ignota alla tecnica militare greca e Annibale, che avrebbe potuto rivelargliene l'utilità, era lontano. Il combattimento s'impegnò sulla destra siriaca, ove il re con la cavalleria, passando per il letto stesso del fiume e sbaragliando le poche torme di cavalieri romani che erano da questa parte, mise il disordine nell'estrema sinistra della fanteria legionaria e procedette offensivamente verso il campo nemico, e sulla sinistra, dove i carri falcati e i dromedarî che cominciarono l'attacco furono respinti senza fatica dagli arcieri ausiliarî dei Romani; e poi il re Eumene, contrattaccando impetuosamente la cavalleria catafratta con tutta la cavalleria romana e ausiliaria, la volse in fuga e assalì la sinistra della falange. Questa, attaccata anche di fronte dai legionarî, cominciò a perdere terreno e la ritirata finì con mutarsi in fuga; mentre Antioco, che era giunto quasi presso il campo romano, contrattaccato dal presidio del campo, ripiegava anch'egli, assistendo impotente alla rotta del centro e della sinistra. I Siriaci erano troppo disanimati per difendere efficacemente il proprio campo in cui ripiegarono. I Romani lo presero d'assalto e vi fecero immensa strage. Dei Siriaci caddero o rimasero prigionieri un 20.000, per quanto la tradizione, dimenticando i dispersi, dia un numero più che doppio; i Romani non registrarono che 350 morti, compresi i Pergameni, cifra che, se anche attenuata, non si allontana molto dal vero. Certo la battaglia fu decisiva e solo con poche migliaia di soldati Antioco si rifugiò in Apamea, dove non gli rimase che accettare le condizioni imposte dal vincitore. Il comando romano era stato tenuto nominalmente da L. Cornelio Scipione poi detto Asiatico, il console del 190, ma nella battaglia egli non ebbe i consigli del fratello Publio a cui si deve il piano stesso della spedizione in Asia, il quale, malato, era rimasto addietro in Elea. Secondo una tradizione che pare fededegna, il comando effettivo dei Romani fu tenuto dal legato Cn. Domizio Enobarbo, il console del 192.

Il miglior racconto della battaglia è in Livio (XXXVII, 38-44) che traduce in gran parte da Polibio. Importante anche la relazione di Appiano (Syr., 30-37) che dipende in parte da Polibio, ma che ha anche elementi non polibiani. Di poco conto Zonara (IX, 20, da Dione Cassio) e altre fonti minori.

Bibl.: J. Kromayer, Antike Schlachtfelder, II, Berlino 1907, p. 154 segg.; id. e G. Veith, Schlachtenatlas (Röm. Abt.), IX, pp. 7-8; G. De Sanctis, St. d. Rom., IV, i, Torino 1923, p. 197 segg. Per la cronologia, ibid., p. 390 segg.

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