Lussuria

Enciclopedia Dantesca (1970)

lussuria

Giuseppe Santarelli **

Il vocabolo ricorre anzitutto in luoghi specifici della Commedia, e cioè a proposito dei lussuriosi puniti nel secondo cerchio dell'Inferno, e indi nella valutazione morale del personaggio di Venceslao IV re di Boemia, ricordato in Pg VII 100-102. La parola torna poi negli esempi di l. peccaminosa (Pasife: Ne la vacca entra Pasife / perché 'l torello a sua lussuria corra, Pg XXVI 41-42); nelle parole con cui l'aquila, narrando i dispregi di sedici principi cristiani, designa la lussuria e 'l viver molle di Ferdinando IV di Castiglia e del suddetto Venceslao (Pd XIX 124-126). Si vedano inoltre: Rime LXXXIII 33, e Cv IV VI 19 (qui nella traduzione di Eccl. 10, 17).

La L. E I Lussuriosi Nel Poema. - La trattazione specifica del peccato di l. è affidata, nella Commedia, alla lezione che Virgilio nel c. XI dell'Inferno rende della tripartizione delle colpe fuori e dentro la città di Dite, poi alla rappresentazione, nel secondo cerchio, dei lussuriosi, a quella della settima cornice del Purgatorio, e indirettamente (pertanto non come vero e proprio peccato di l.) al terzo girone del settimo cerchio (sodomiti o violenti contro natura) e alla prima bolgia dell'ottavo cerchio (ruffiani e seduttori). Se tre sono le disposizion che 'l ciel non vole (If XI 81 ss.), e cioè l'incontenenza, la malizia e la matta bestialitade, secondo Aristotele nel VII libro dell'Etica, il peccato d'incontinenza comporta una responsabilità minore, poiché gl'incontinenti non sanno resistere all'impeto delle passioni naturali, e quindi non compiono un atto determinato dalla ragione, ma cedono a un atto involontario; quindi l'incontinenza men Dio offende e men biasimo accatta (XI 84).

È da notare che D., assegnando ai l. il secondo cerchio (primo dei cerchi che accolgono i peccatori d'incontinenza) e agl'iracondi il quinto, si allontana dalla dottrina di Aristotele, perché questi considerava l'incontinenza di concupiscenza più turpe e peggiore di quella d'ira. Né diverso era, in proposito, il pensiero cristiano, per cui la l. è la forma più riprovevole d'intemperanza in quanto la sua violenza occupa del tutto l'animo, e più di ogni altro vizio ottenebra la ragione e indebolisce la volontà (Paul., Rom. 1, 24-26; Ephes. 4, 19); l'amore dei sensi produrrà, accanto all'accecamento dell'intelletto, interesse esclusivo ai beni temporali e fastidio per quelli spirituali (Tomm. Sum. theol. II II 153).

Delle diverse forme d'incontinenza D. ne elesse quattro per il suo Inferno: due d'incontinenza propria, la l. e la gola, e due d'incontinenza impropria, l'avarizia (con la prodigalità) e l'ira. I primi due vizi son detti anche peccati carnali, mentre gli altri due sono peccati spirituali (cfr. s. Gregorio Expositio moralis XXXI 17, e, soprattutto, s. Tommaso Sum. theol. II II 118 6). S. Tommaso resta comunque la fonte principale per tutta la trattazione De Vitio luxuriae (II II 153 e 154). Tuttavia non si possono restringere le considerazioni e scelte dantesche all'area filosofica aristotelico-tomistica, poiché egli nella distribuzione delle colpe (e quindi nel concetto attorno alla l.) è stato sensibilissimo alla lettura dei Mythologiorum libri di Fulgenzio Planciade, dei Moralia di s. Gregorio, alle Institutiones della Chiesa sui vizi capitali, attingendo anche a concetti della filosofia pagana, soprattutto al ciceroniano De Oficiis (per tutti questi problemi, essenziali per la comprensione della morale dantesca, v. le voci Filosofia; Teologia; e più specificamente Incontinenza e Incontinenti, dove si potranno cogliere anche le ragioni che hanno impegnato D. a una gradazione delle colpe che vede la l. come la minore di esse in quanto relativa a forma di desiderio ancor più naturale e necessario dell'ira; cfr. anche, per la particolare posizione dei lussuriosi nella topografia infernale, la voce Inferno, oltre a quanto è detto alla voce Commedia: Struttura generale del poema).

D. così definisce i dannati per vizio di l.: i peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento (If V 38-39). Il concetto era antico. Già Cicerone aveva scritto che gli appetiti debbono ubbidire alla ragione (v. anche Cv II VII 4).

La locuzione era nota anche ai Provenzali; compare nella Tavola Ritonda (dove, al cap. 75, si legge: " Io non voglio sottomettere la ragione alla volontà ") e nei poeti toscani, come in Folgore, che nel sonetto Quando la voglia scrive: " Chi sommette ragion a voluntade " (v. 10). Su tale concetto ritorna più volte anche s. Tommaso: " Delectatio, quae est in venereis, quae totam animam absorbet " (Sum. theol. II II 53 6c); e lo stesso D., in più luoghi dei suoi scritti, insiste su questo effetto della l. d'incontinenza: in Pg XXVI 84 scrive che i l. propriamente detti seguirono come bestie l'appetito, che è come dire: sottomisero la ragione all'appetito; e in Cv III X 2 osserva: l'anima, più [è] passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione. E ancora in altri passi egli batte su questo principio (per es. in Cv III III 5), operando la stessa contrapposizione, ovvia e tradizionale, tra ragione e desiderio o volontà.

Ragione-talento è, come osserva il Torraca, associazione tipica di termini, come anima-corpo, spirito-carne, sentimento-ragione. E si noti il verbo al presente: sommettono; ciò che, secondo anche il Marcazzan, denota non una debolezza o uno smarrimento momentaneo, ma una colpevole pervicacia nel sacrificare la ragione al talento.

Il luogo dove sono puniti i lussuriosi appare a D. (dopo che Virgilio ha risposto a Minosse in modo che il giudice infernale non potrà opporre ostacolo al viaggio del poeta), come un luogo immerso nelle tenebre, risuonante delle strida, del compianto e del lamento delle anime, trascinate da una continua bufera, la cui forza [rapina] voltando e percotendo le molesta. Quando le anime dei lussuriosi giungono davanti a una ruina (V 34), bestemmian quivi la virtù divina. Si apre qui una delle più interessanti cruces dell'esegesi dantesca: che cosa sia questa ruina.

Già il Mazzoleni, fin dal 1893, riduceva a cinque le sole fondamentali interpretazioni date al v. 34. Una delle tante, già veduta in confuso dal Cesari (Bellezze della D.C., dialogo II), poi difesa dal Bennassuti, dal Pascoli, dal Fornaciari, ecc., sostiene che nella ruina è un'allusione al primo degli scoscendimenti verificatisi nell'Inferno per il terremoto che accompagnò la morte di Cristo (cfr. If XII 28-45, XXI 112-114); cosicché la virtù divina, che si rivela in quel terribile precipizio, risveglierebbe nei dannati una feroce collera, e il ricordo della morte del redentore, di cui non profittarono, risveglierebbe tutto il loro rimorso: quivi le strida, il compianto, il lamento; / bestemmian quivi la virtù divina (vv. 35-36). Per il Mazzoleni e altri, la ruina, invece, sarebbe il luogo da cui i I. sono " ruinati " (giù volti) dopo il giudizio di Minosse, e dinanzi al quale essi, passando in balia del turbine, si ricordano della giustizia divina personificata da Minosse, simbolo della coscienza rimorditrice delle colpe. Altri, come il Chimenz, il Sapegno e il Pagliaro, fondono intelligentemente le due interpretazioni. Il Boccaccio, il Vellutello, il Momigliano e poi anche il Mattalia intendono per ruina la bufera nella sua rapinosa velocità. Poco convince, forse, la spiegazione del Parodi e dello Zingarelli, per i quali la ruina, in sostanza, sarebbe la foce da cui sbocca la bufera infernale e andrebbe intesa per l'entrata del cerchio, dove ricomincia il girare del vento e si rinfresca il castigo.

Virgilio addita a D., senza alcun ordine preciso, una serie di ombre (Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano, e varie altre, più di mille). D., vinto da pietà, n'è quasi smarrito, ma la sua attenzione è subito attratta da due ombre unite che 'nsieme vanno, / e paion sì al vento esser leggieri (V 74-75). Si apre qui il celeberrimo episodio di Francesca da Polenta e Paolo Malatesta, del quale qui non occorre discorrere (v. infatti la voce Francesca) se non per qualche questione strettamente correlata alla struttura generale del canto, pur tenendo presente che le parole di Francesca non tanto l'aspetto vizioso della l. varranno a esprimere, quanto la stilnovistica definizione degli effetti dell'amore, ch'al cor gentil ratto s'apprende.

Anzitutto si discetta sul perché, mentre Francesca parla, 'l vento, come fa, ci tace (v. 96). Eccezione o miracolo? Secondo molti interpreti, si tratterebbe di una grazia, che per il Finzi consisterebbe non in una temporanea cessazione del vento, perché questo mai non resta, ma nel permesso dato a Francesca e a Paolo di uscire da esso per brevi istanti. Comunque sia, pare che si tratti sempre di una concessione particolare, e vani appaiono gli espedienti chiarificatori in senso diverso, come quello del Petrosemolo, che nel secondo cerchio volle vedere tre zone d'aria concentriche, ponendo i due dannati nella zona mediana, dove il vento, dice lui, ogni tanto ci tace.

Il senso non cambia se si leggesse si tace (come oggi il Pagliaro) invece di ci tace (così nell'edizione del Petrocchi).

Qui la pena del contrapasso appare molto chiara ed efficace: il luogo dove sono puniti i l. è immaginato dal poeta così oscuro per fare intendere l'oscurità e la cecità della mente di coloro che sono immersi nel vizio della l.; e il vento impetuoso che flagella i dannati, trasportandoli in sua balia, significa, plasticamente, l'impeto della passione amorosa e libidinosa, che travolge potentemente al male; e il pianto doloroso " è la più conveniente espressione degli amanti " (Scartazzini). Secondo il Pagliaro non è escluso che D., per questa rappresentazione della pena, data dal vento impetuoso, sia ricorso alla famosa similitudine virgiliana della quercia investita dal vento, con la quale si definisce la salda resistenza di Enea, opposta, in virtù della ragione, ai suoi forti sentimenti di amore e di pietà (Aen. IV 448 ss.).

Nella scelta della pena per i l. D. si stacca dalla fantasia medievale, così feconda nell'immaginare strani aspetti di diavoli e tormenti inauditi per i peccatori carnali, abitualmente puniti nel ghiaccio. Basti ricordare la bestia alata della visione di Tugdalo, la quale divorava le anime dei l. e poi le partoriva sul lago ghiacciato, dove diventavano pregne e partorivano anch'esse, ma orribili serpenti con teste di ferro e becchi acutissimi, i quali poi straziavano orrendamente le loro madri. In D., come osserva il Romani, " la pena si è purificata e, diremo quasi, umanizzata ".

E ora una questione: D. rappresenta i peccatori carnali divisi in due schiere, l'una di l. volgari e l'altra d'illustri, oppure raccolti in una sola? Coloro che ammettono la divisione in due schiere (il Federzoni e altri ammettono addirittura più schiere) traggono argomento dalle due diverse similitudini (vv. 40-49) degli stornelli e delle gru (per questa similitudine cfr. Aen. X 264-266; Theb. V 13-14), considerandole inconciliabili e distinte. Il punto del dissenso è, in sostanza, se la lunga riga (v. 47) debba riferirsi soltanto alle gru ovvero anche a una parte dei lussuriosi.

Il Del Vecchio (ma cfr. anche il Luiso, il Vaccalluzzo, ecc.), rifacendosi al Landino, riferisce la lunga riga solo alle gru e, quindi, non ammette la divisione dei l. in due schiere, osservando anche col Crescini che l'espressione la schiera ov'è Dido (v. 85) non prova di per sé l'esistenza di un'altra schiera distinta. Si discostano da questa interpretazione, tra altri, il Pascoli, il Panzacchi, il Barbi, il Pagliaro, il Sapegno, per i quali D. distingue nella folla dei l. una schiera particolare di anime, che procedono in fila come le gru (anche l'uso di ombre, al v. 49, senza articolo determinativo, sembra confortare, come dimostra il Porena, questa interpretazione), e sarebbero, secondo le convincenti argomentazioni del Pagliaro, le anime di coloro che hanno perduto la vita a causa dell'amore. Cleopatra e Didone, infatti, si diedero la morte, Achille e Tristano furono spenti a tradimento rispettivamente da Paride e da re Marco, Paride fu ucciso da Filottete; anche Semiramide, non secondo quanto riferisce Orosio, ma Giustino (Historia Philippica ex Trogo I 2), fu soppressa dal figlio; Elena, secondo un mito, fu impiccata a un albero, a Rodi; Paolo e Francesca finirono per mano di Gianciotto. Non è certo, tuttavia, che D. conoscesse tutti questi particolari, per cui, come osserva il Sapegno, il v. 69 (ch'amor di nostra vita dipartille) deve intendersi in senso generico: " anime la cui esistenza fu tutta riempita e determinata e alla fine travolta dalla passione d'amore ".

Son noti i dissensi della critica circa l'atteggiamento spirituale di D. di fronte ai l., soprattutto di fronte a Paolo e Francesca. Già il Foscolo aveva avviato un discorso chiaro sulla pietà (V 72, 117 e 140, VI 2) di D., che in sostanza scuserebbe questi dannati, scrivendo di Francesca: " La colpa è purificata dall'ardore della passione e la verecondia abbellisce la passione della libidine " (Discorso sul testo della D.C., § CXLIV). E il De Sanctis, sviluppando quell'intuizione, svolse ampiamente il tema della pietà di D. verso Paolo e Francesca, pietà intesa come compassione e simpatia, secondo una sensibilità schiettamente romantica: " In questa tragedia... Musa è la pietà, pura di ogni altro sentimento, corda unica e onnipotente, che fa vibrare l'anima fino al deliquio " (Nuovi saggi critici, Napoli 1879, 17).

Si è già detto che in altre zone dell'Inferno è dato rintracciare altri dannati per colpa della carne, ma la prevalenza di diverse ragioni concettuali ha fatto sì che i sodomiti venissero classificati come violenti contro Dio e natura, e i seduttori di donne (per contro di altri: ruffiani; per proprio conto: i veri e propri seduttori) come fraudolenti; per questi problemi v. rispettivamente le voci VIOLENTI e FRODOLENTI (per questi ultimi cfr. anche Malebolge). La diversità di gradazione della colpa fa sì che, scomparsa la pietà di D., prevalgano atteggiamenti e sentimenti differenti nell'animo del poeta, aspro e veemente contro questi ultimi (si veda con quanta violenza ‛ comica ' è resa l'atmosfera della prima bolgia: cfr. If XVIII 34-66), distaccato in qualche modo dalla realtà della colpa (ma cfr. i versi sferzanti contro Andrea de' Mozzi: XV 110-114) in virtù dell'ammirazione per alcune grandi figure di cittadini di Firenze: Brunetto Latini anzitutto, poi Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci). Non sarà inoltre da sottacere che proprio nel passaggio dal cerchio dei violenti alle Malebolge cade l'allusione alla corda (v.) e soprattutto alla lonza (If XVI 108), che è simbolo della l.; allusione affatto personale a una difficile esperienza di Dante.

Diversamente strutturato è il peccato di l. nel Purgatorio (XXV 109 - XXVII 57), dove alla specie concettuale dell'incontinenza prevale l'essenza fondamentale dell'analisi dell'amore (XVII 91 ss.) e quindi la definizione della l. come uno dei sette vizi capitali, e alla tripartizione dell'Inferno rispondono le sette parti, le cornici, del Purgatorio; resta invariata, ma ovviamente invertita, la gradazione interna ai peccati d'incontinenza, di modo che la . occuperà la cornice più alta, la settima (ma per siffatto problema afferente all'ordinamento morale di tutta la seconda cantica, cfr. la voce Purgatorio), secondo quanto Virgilio spiega a D. nel c. XVII, e cioè come peccato per troppo... di vigore (v. 96), dove l'amore troppo s'abbandona al bene mondano (v. 136). Impossibile sarà constatare una qualsivoglia analogia tra il cerchio infernale e l'ultima tortura (Pg XXV 109), l'ultimo giro del Purgatorio prima di giungere alla scala che reca al Paradiso terrestre. Le anime purificantisi del vitium luxuriae procedono dentro una cortina di fuoco che occupa tutta la cornice, a eccezione di uno stretto sentiero che corre lungo il margine esterno, libero dalle fiamme a causa di un vento che lambisce la costa della cornice e spazza via le falde di fuoco. Gli spiriti entro il grande ardore cantano un inno della Chiesa, Summae Deus clementiae, per invocare da Dio la purezza, alternando il canto con la recitazione di esempi di castità e di l.: le parole di Maria Vergine all'arcangelo Gabriele, Virum non cognosco, l'episodio mitologico di Diana che elesse per sé la verginità e cacciò la ninfa Elice che aveva appunto perduta la verginità, il ricordo di mogli e di mariti vissuti in castità, come virtute e matrimonio imponne (XXV 135). Gli spiriti sono divisi in due schiere, che procedono l'una in direzione opposta dell'altra; incontrandosi, le anime si baciano vicendevolmente. Nella prima schiera sono le anime dei lussuriosi secondo natura (gridano infatti l'esempio di Pasife, simbolo di eccessiva passione tra maschio e femmina), nella seconda i lussuriosi contro natura (gridano i nomi di Sodoma e Gomorra; cfr. Gen. 19,4-14; Rom. 1,24-27; I Cor. 6,10).

Si pone il problema della diversità di trattamento tra i due peccati di l., uniti nella stessa zona e quindi nello stesso tipo di purgazione nella seconda cantica, diversamente dannati nell'Inferno; ma ciò avviene in virtù della differenza topografico-morale, che nella prima cantica s'incentra nelle tre disposizion (donde il vario atteggiarsi delle colpe e delle susseguenti punizioni), nel Purgatorio è qualificata più nettamente perché più canonicamente dai sette vizi, con questa ulteriore qualificazione interna: che la schiera dei sodomiti si muove " non come l'altra, non come tutte le altre, da sinistra a destra, ma in direzione insolita, contraria a ogni regola, da destra a sinistra " (Monteverdi): è la gente che offese / di ciò per che già Cesar, trïunfando, / ‛‛ Regina '' contra sé chiamar s'intese (Pg XXVI 76-78). Né è da escludere che il netto stacco tra i due tipi di l., quello ermafrodito e quello omosessuale (confronto che è però alleviato dal clima di affettuosa fraternità che regna tra le due schiere, nello stesso modo purificanti), valga a sanare l'aporia, tanto di specificazione morale quanto di trattamento umano, ineliminabile dalla forte diversità di pena tra i lussuriosi e i sodomiti dell'Inferno.

L'anima che ha spiegato a D. la diversità tra le due schiere, ed è stata la prima a rivolgersi al poeta tra quante si erano avvicinate a lui (Pg XXVI 8-15), stupite che l'ombra del corpo di D. rendesse più roventi i lembi di fuoco, è quella di Guido Guinizzelli, protagonista di un episodio che ha così grande importanza per meglio apprezzare l'atteggiamento di D. poeta rispetto al maestro bolognese (per tutto ciò cfr. ovviamente la voce Guinizzelli, Guido), ma che riveste un ruolo primario anche nel preciso contesto della cornice, in quanto chiarisce i limiti del peccato di l. in modo sottilmente concettoso, nelle forme dunque di un maestro della dottrina stilnovistica; essere peccato la ‛ vis concupiscibilis ' dal momento che non si osserva la legge di ragione, cui deve sempre attenersi l'uomo in quanto essere razionale, e che riceve le proprie qualità dal senso della misura, dal rispetto della norma di diritto, dall'ossequio al vincolo del sacramento, sì che prevale l'appetito concupiscibile tipico delle bestie (Nostro peccato fu ermafrodito; / ma perché non servammo umana legge, / seguendo come bestie l'appetito..., XXVI 82-84, che è in qualche modo ripetizione di Cv II VII 4 E però chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia, per cui cfr. Tomm. Comm. Eth. I lect. V, VII lect. V; cfr. Mn I XII 5 Et hinc est quod bruta iudicium liberum habere non possunt, quia eorum iudicia sempre ab appetitu praeveniuntur). E bestiale è infatti l'atto di colei [Pasife] / che s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge (vv. 86-87), oggetto dell'esempio gridato dalla prima schiera (ma la l. del torello [v. 42] è pur sua lussuria, l. a lui naturale).

Il rapporto tra l'episodio del Guinizzelli e quello susseguente dello spirito additato a D., questi ch'io ti cervo / col dito (vv. 115-116), Arnaldo Daniello (v.), è determinato da ragioni di affinità letteraria - entrambi sono poeti d'amore - non dalla necessità di chiarire ancor meglio specie e modi del peccato di l., e d'altronde l'importanza dei temi di poetica e letteratura qui trattati sembra quasi porre in second'ordine ogni possibilità di disquisire su casistica morale ovvero di recepire un'ulteriore lezione d'etica dall'incontro col poeta provenzale. Soltanto quando questi sarà tornato ad ascondersi nel foco che li affina (v. 148), e cioè con la prima parte del c. XXVII, la trattazione del peccato riprende: l'angelo che invita i tre poeti a entrare nel fuoco (l'angelo della carità che canta la sesta beatitudine: Beati mundo corde [v. 8]; un altro angelo sarà al di là della cortina di fiamma, a guardia della scala che monta verso il Paradiso terrestre; soltanto in questa cornice stazionano due angeli, anziché uno come nei precedenti riparti), la paurosa riluttanza di D. ad affrontare i rischi della traversata tra le fiamme, la parola decisiva che soltanto questo fuoco divide ormai D. da Beatrice, il passaggio della cortina (prima Virgilio, poi D., da ultimo Stazio) accompagnato dai discorsi che Virgilio va tenendo su Beatrice, il suono che dentro a un lume che lì era (XXVII 59) sorge, le parole di Cristo agli eletti, ‛ Venite, benedicti Patris Nei ' (v. 58). Sono i momenti drammatici e solenni della rigenerazione spirituale di D., gli atti di un elaborato rito liturgico che si era aperto con l'inno Summae Deus clementiae e si chiude con le parole ‛ definitive ' del redentore (Matt. 25,34).

In analogia a quanto nel cerchio infernale e nella cornice purgatoriale, anche il Paradiso ha un cielo (il terzo, di Venere) ove si presentano a D. le anime che, ormai beate, in vita furono soggette alla deviante passione amorosa (folle amore), ma seppero volgerla verso il bene. Ma la problematica del terzo cielo non può essere ristretta nei limiti della trattazione di l. e di lussuriosi (vedi infatti le voci Venere [cielo], e Paradiso), anche se tra gli spiriti amanti D. incontra una donna di ben provate costumanze licenziose come Cunizza da Romano (v.), o la meretrice di Gerico, Raab (v.), dunque donne antiche o personaggi moderni che hanno iniziato il loro itinerarium ad Deum da una pratica del male non dissimile da quella di Semiramide a vizio di lussuria... sì rotta (If V 55), da Cleopatra lussuriosa, da Francesca. Del resto un peccato così ‛ centrale ' nella visione etica di D. come la l., giudicato sin dall'inizio del poema come uno degli ostacoli fondamentali alla salvezza dell'uomo (la lonza che è quasi al cominciar de l'erta, I 31), non poteva non presentare, accanto all'aspetto di colpa e a quello di purificazione ascetica, anche la mistica esaltazione dell'intervento beatificante della grazia.

Bibl. - Per i problemi di carattere generale sulla colpa della l. nell'Inferno, cfr. la Bibl. della voce Incontinenza e Incontinenti. Tra i vari saggi sul c. V dell'Inferno si vedano: L. Morandi, Città di Castello 1884; E. Panzacchi, in " Nuova Antol. " 10 maggio 1901, 3-16; F. Romani, Ombre e corpi, città di Castello 1901, 1-36; V. Crescini, Padova 1902; F. Torraca, Studi danteschi, Napoli 1912, 383 ss.; E.G. Parodi, in Lect. Genovese, Firenze 1904 (poi Napoli 1921); H. Friedrich, Francoforte 1942; G.B. Emert, in Dante, Trento 1946; E. Carli, in " Humanitas " V (1950) 86-91; G. Trombatore, in Saggi critici, Firenze 1950, 61-78; L. Caretti, Lucca 1951 (poi in Nuove lett. I 105-131); M. Barbi, Con D. e i suoi interpreti, Firenze 1951,136-151; A. Pagliaro, Roma 1952; C. Jannaco, Nota al canto di Francesca, in Scritti di letter. ital., Firenze 1953, 23-34; F. Catalano, in " Letterature Moderne " V (1954); E. Cozzani, in " L'Eloquenza " XLVII (1957) fasc. 5-6, XLVIII (1958) fasc. 5-7; F. Matarrese, in Interpretazioni dantesche, Bari 1957; G. Del Vecchio, Torino 1959; M. Marcazzan, Firenze 1961; ID., in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965); N. Matteini, Bologna 1965. Si vedano poi, sulla struttura morale del canto, gli studi di G. Busnelli, L'Etica Nicomachea, ecc., Bologna 1907; L. Filomusi Guelfi, in " Giorn. d. " I (1894) 341-357, poi, Studi su D., Città di Castello 1908; W. Reade, The moral system of D., Oxford 1909; L. Pietrobono, Dal centro al cerchio, Torino 1923; si veda poi la bibl. della voce Francesca.

Sempre per le questioni particolari cfr. infine: A. Mazzoleni, La ruina nel cerchio dei l., Acireale 1893; V. Nottola, Un verso di D. (Inf. V 34) interpretato con nuovi raffronti, Roma 1894; R. Petrosemolo, Nuova topografia delle pene dei l. nel c. V dell'Inferno, in " Biblioteca delle Scuole Italiane " VI (1894); G. Pannella, Noticine dantesche, in " Rivista Abruzzese " XII (1897) 268 ss.; N. Quarta, La ruina e il tacer del vento nel canto dei l., in " Giorn. d. " VIII (1900) 408-420 (cfr. anche " Fanfulla della Domenica " 22 giugno 1902); G. Federzoni, La ruina dell'amore, ibid., 24 febbraio 1901; N. Vaccalluzzo, in Dal lungo silenzio, Messina 1903, 71-101; A.G. Amatucci, Rassegna di filologia classica, in " Biblioteca delle Scuole Italiane " XI (1905) 11 ss.; A. Santanera, L'amore passionale. Sul c. V dell'Inferno, Torino 1920.

Quanto alla bibliografia relativa alla settima cornice del Purgatorio, v. anzitutto: D. Ronzoni, i fondamenti dell'ordinamento morale della D.C., Milano 1906; G. Busnelli, l'ordinamento morale del Purgatorio dantesco, Roma 1908; F. D'Ovidio, Sulla concezione dantesca del Purgatorio, Milano 1909; L. Pietrobono, la struttura morale della D.C., in Dal centro al cerchio, Torino 1923; A. Santi, L'ordinamento morale e allegorico della D.C., Palermo 1924; A. Vallone, il peccato e la pena, in Studi su D. medievale, Firenze 1965; e poi le numerose lecturae di Pg XXVI, tra cui almeno: F. Torraca, Firenze 1900, poi in Lett. dant. 1195-1211; V. Crescini, Tra i pentiti dell'amore, in " Rivista d'italia " XV (1912) 177-195; A. Sacchetto, Firenze 1931; A. Roncaglia, Roma 1951; A. Monteverdi, in Lett. scaligera II 957-990. Vedi anche la bibliografia alle voci Arnaldo Daniello; Guinizzelli, Guido.