Luigi XII

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Luigi XII

Jean-Louis Fournel
Jean-Claude Zancarini

Fortuna e sfortuna di re Luigi

Il duca d’Orléans, erede di un ramo cadetto dei Valois, non era destinato a diventare re di Francia e solo il caso (la morte prematura del cugino Carlo VIII e, prima, a soli tre anni, del delfino) decise diversamente: non per questo però M. vide in lui un’icona della Fortuna. Durante la giovinezza fu uno di quei grandi e potenti feudatari che avevano messo in forse l’autorità regale e l’unità del regno e che tanto colpirono M. durante i suoi viaggi in Francia (→ Ritratto di cose di Francia). Si spinse fino ad allearsi con i duchi di Bretagna nella guerra contro il giovane re Carlo VIII (→), il che, dopo la sconfitta, gli costò un lungo periodo di prigionia tra il 1488 e il 1491. Tuttavia, in seguito, durante la prima campagna delle guerre d’Italia egli sostenne lealmente Carlo e partecipò alla spedizione, non senza la speranza di recuperare la Lombardia che, in quanto nipote di Valentina Visconti, considerava eredità materna (cfr. Ritratto di cose di Francia, § 122). Il 7 aprile 1498, dopo l’improvvisa morte di Carlo VIII, L. gli succedette, superando l’opposizione di quanti ne contestavano la legittimità, essendosi egli in passato ribellato alla corona. M. fu uno fra i pochi testimoni di tali contrasti: «e fu disputa, morto che fu el re Carlo, che per quel mancamento et defectione dalla corona lui dovessi avere perso il potere succedere» (§ 9).

Nel 1499 L. diede inizio all’ambiziosa seconda campagna d’Italia. Conquistato in poche settimane il ducato di Milano, altrettanto rapidamente lo perdette, prima di riuscire ad aggregarlo in modo stabile al suo regno l’anno seguente (Principe iii; Discorsi II xv). Nel 1501 intraprese la conquista del Regno di Napoli, prima in accordo e poi in contrasto con Ferdinando il Cattolico: M., mandato a Roma dalla Repubblica per il conclave convocato dopo la morte di Pio III, seguì giorno per giorno, dalla metà di ottobre alla metà di dicembre 1503, le vicende della guerra tra francesi e spagnoli, con la sconfitta decisiva dei primi sul fiume Garigliano (LCSG, 3° t., pp. 292464; si vedano anche Decennale I, vv. 478-95; Ritratto di cose di Francia, § 24; Arte della guerra VI 243-46). Nel 1507, L. conquistò Genova, ribellatasi al predominio francese nel Nord della penisola (Discorsi II xxiv 28) e meno di due anni dopo costituì la lega di Cambrai contro Venezia. Alla testa degli alleati, il 14 maggio 1509, inflisse una dura sconfitta all’esercito della Serenissima nella battaglia di Agnadello (→), durante la quale i veneziani «in una giornata perderno ciò che in ottocento anni con tanta fatica avevono acquistato» (Principe xii 7; si vedano anche Principe xx 4; Ritratto di cose di Francia, § 25; Decennale II, vv. 172-201; Discorsi III xxxi 3). L’evento offrirà numerosi spunti alle deduzioni machiavelliane circa l’incapacità di Venezia di fronteggiare la fortuna avversa (Discorsi III xxxi 3). M. ritiene però che questa guerra fu un grave errore di L., che avrebbe avuto bisogno di una Venezia potente per bilanciare la minaccia della Spagna e della Chiesa (Principe iii 4244): «ha fatto el contrario di quelle cose che si debbono fare per tenere uno stato disforme» (iii 31).

Nonostante le posizioni avverse alla curia che lo avrebbero portato a vedere di buon occhio l’organizzazione di un concilio scismatico contro papa Giulio II, M. contestava a L. di avere sottovalutato il papato. Se, in un primo momento, la guerra lampo del giovane Gaston de Foix aveva dato la vittoria ai francesi (con la presa di Brescia, la difesa di Bologna e la vittoria di Ravenna tra febbraio e aprile 1512), la morte dello stesso Foix a Ravenna cambiò gli equilibri: la lega Santa (con la Spagna e Venezia) promossa da Giulio II contro la Francia riuscì nell’intento di scacciare L. dalla penisola. L’immagine del sovrano francese nel carteggio machiavelliano con Francesco Vettori diviene allora quella di un re «vecchio, stracco e infermiccio» (M. a F. Vettori, 10 ag. 1513, Lettere, p. 276) ed è questo uno dei pochi momenti in cui L. ridiventa per M. un individuo e cessa di essere una metonimia del regno di Francia e della sua potenza. Il giorno della morte del sovrano, il 1° gennaio 1515, il regno francese era tornato entro i confini del 1494 ed era minacciato dall’Inghilterra, dalla Spagna e dagli svizzeri.

Eppure, agli occhi di M., L. seppe rafforzare la ricchezza del regno e la sua unità. Sempre colpito dalla forza della Francia, nell’estate del 1510 M. prevedeva una schiacciante vittoria francese. Egli non riprende mai il soprannome di ‘padre del popolo’ dato a L., ma insiste tuttavia sul ruolo che il sovrano aveva accettato di lasciare al Parlamento nella costruzione di quella forma di governo ‘misto’ per la quale nel Principe la Francia appare un modello esplicito e positivo (xix 20-22; e, con diversa sfumatura, cfr. Discorsi III i 36-37).

Modello e ‘contro-modello’ contemporaneo: conquiste ed errori di un re

L. fu senz’altro il re francese che

M. conobbe meglio: visse infatti alla sua corte durante tre missioni da lui svolte in Francia, tra il luglio e il dicembre 1500, tra il gennaio e il marzo 1504, tra il giugno e il settembre 1510 (LCSG, 1° t., pp. 388-533; 3° t., pp. 482-92; 6° t., pp. 412-551). Comprendere la politica del re fu d’altronde per M. una necessità permanente, dato che i termini cronologici del suo impegno politico corrispondono quasi esattamente con quelli del regno di Luigi. Non a caso, con Cesare Borgia e Giulio II, L. costituisce una delle tre grandi figure storiche del Principe, secondo i principi di una modellizzazione radicalmente sperimentale e contemporanea. Colpisce, invece, che egli non risulti molto presente nei Discorsi e nell’Arte della guerra. Contrariamente a quanto avviene per Giulio II, Cesare Borgia o Ferdinando d’Aragona, del re di Francia non vengono quasi mai prese in esame le peculiari doti (come, per es., la virtù per Cesare Borgia) o la natura (come avviene nel caso dell’impetuoso papa guerriero). A lui M. riconosce l’importante virtù politica della parsimonia (Principe xvi 9), ma più che altro, come si è detto, il re è la metonimia del suo regno.

In una logica duplice – più complementare che paradossale – i contatti con il re di Francia forniscono alla riflessione di M., da un lato, un modello e, dall’altro, un punto d’osservazione privilegiato sulla brutalità nei rapporti di forza durante le guerre. Per quanto concerne il primo, l’elogio rivolto a un regno che «vive sotto le leggi e sotto gli ordini più che alcun altro» (Discorsi III i 6) nasce dall’esperienza diretta vissuta dal Segretario (il successore di L., Francesco I, sarà molto meno attento alle prerogative del Parlamento):

In tra e’ regni bene ordinati e governati a’ tempi nostri è quello di Francia, e in esso si truovano infinite constituzioni buone donde depende la libertà e la sicurtà del re [variante: regno]: delle quali la prima è il parlamento e la sua autorità. Perché quello che ordinò quello regno, conoscendo l’ambizione de’ potenti e la insolenzia loro, e iudicando essere loro necessario uno freno in bocca che gli correggessi, e da l’altra parte conoscendo l’odio dello universale contro a’ grandi fondato in su la paura, e volendo assicurargli, non volle che questa fussi particulare cura del re, per torgli quello carico che potessi avere co’ grandi favorendo e’ populari, e co’ populari favorendo e’ grandi. E però constituì uno iudice terzo, che fussi quello che sanza carico del re battessi e’ grandi e favorissi e’ minori: né poté essere questo ordine migliore né più prudente, né che sia maggiore cagione della sicurtà del re e del regno. Di che si può trarre un altro notabile: che e’ principi le cose di carico debbono fare sumministrare a altri, quelle di grazia loro medesimi. E di nuovo concludo che uno principe debbe stimare e’ grandi, ma non si fare odiare dal populo (Principe xix 20-24).

Per quanto concerne il secondo punto – i rapporti di forza –, basterà ricordare le parole di L. che colpirono M. durante la sua prima missione in Francia, per cui egli scrisse ai Dieci che il re valutava la repubblica pro nichilo perché non disponeva di forza militare (M. ai Signori, 27 ag. 1500, LCSG, 1° t., p. 443), oppure che il re intendeva solo «sapere chi è mio amico o mio inimico» (M. ai Dieci, 18 luglio 1510, LCSG, 7° t., p. 431). E troviamo la risposta fiorentina a quell’atteggiamento di non celato disprezzo, quando M. decide – caso raro al di fuori dei carteggi ufficiali – di riportare alla lettera una delle conversazioni avvenute nell’ambito della sua attività diplomatica, quella con Georges d’Amboise, cardinale di Rouen e principale ministro del re. Allorché questi gli disse che «gli italiani non si intendevano della guerra», M. ribatté che «e’ franzesi non si intendevano dello stato» (Principe iii 48). La capacità dell’esercito e la potenza non bastano senza un’adeguata analisi dei rapporti di forza e delle conseguenze di ogni decisione politico-militare: questo significa intendersi dello Stato. Ne era prova il famoso «sesto errore» che aveva fatto perdere a L. tutti i suoi Stati italiani:

Aveva dunque fatto Luigi questi cinque errori: spenti e’ minori potenti; accresciuto in Italia potenza a uno potente, messo in quella uno forestiere potentissimo, non venuto a abitarvi; non vi messo colonie. E’ quali errori ancora, vivendo lui, potevono non lo offendere, s’ e’ non avessi fatto il sesto, di tòrre lo stato a’ viniziani. Perché, quando non avessi fatto grande la Chiesa né messo in Italia Spagna, era ben ragionevole e necessario abbassargli; ma avendo preso quegli primi partiti, non doveva mai consentire alla ruina loro: perché, sendo quegli potenti, sempre arebbono tenuti gli altri discosto da la impresa di Lombardia, sì perché e’ viniziani non vi arebbono consentito sanza diventarne signori loro, sì perché li altri non arebbono voluto torla a Francia per darla a loro; e andare a urtarli tutti a dua non arebbono avuto animo (Principe iii 42-44).

Il sesto errore non vale come regola generica e nemmeno come applicazione di un potenziale modello spaziale o temporale, ma nasce dall’analisi degli interessi di un attore storico in una precisa «qualità dei tempi». In fin dei conti, nell’opera di M., rimane di re L. quel famoso sesto errore a ricordare che forza e spregiudicatezza non bastano quando non si riescono a capire i rapporti di forza. Al di sopra di L. resta la potenza del suo regno e, anche quando critica il sovrano, M. rimane convinto – come mostra il suo carteggio degli anni 1513-14 – che la Francia in ogni caso potrà e dovrà riconquistare la Lombardia, se pure non fosse L. la persona più adatta per farlo.

Bibliografia: Fonti: Documents pour l’histoire de la domination française dans le Milanais (1499-1513), éd. L.-G. Pélissier, Paris 1891; C. de Seyssel, Louanges de Louis XII, éd. P. Eichel-Lojkine, L. Vissière, Genève 2010.

Per gli studi critici si vedano: D. Le Fur, Louis XII, Paris 2001; Louis XII en Milanais, Actes du 41e Colloque international d’études humanistes, 30 juin - 3 juillet 1998, éd. P. Contamine, J. Guillaume, Paris 2003; S. Meschini, Luigi XII duca di Milano. Gli uomini e le istituzioni del primo dominio francese (1499-1512), Milano 2004; N. Hochner, Louis XII: les dérèglements de l’image royale, Seyssel 2006; J. Britnell, Le Roi très chrétien contre le pape. Écrits anti-papaux en français sous le règne de Louis XII, Paris 2011.

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