Ariosto, Ludovico

Enciclopedia dell'Italiano (2010)

Ariosto, Ludovico

Tina Matarrese

La vita e la lingua

Ludovico Ariosto (Reggio Emilia 1474 - Ferrara 1533) trascorse quasi tutta la vita a Ferrara. Frequentò la società letteraria della corte estense, che stimolò i suoi primi esperimenti letterari in latino e in volgare. Al servizio degli Este, con incarichi presso il cardinale Ippolito e il duca Alfonso, compì varie missioni, alcune avventurose, come quelle a Roma presso il papa. Fu governatore della Garfagnana dal 1522 al 1525. Nell’occuparsi delle rappresentazioni per il Teatro ducale, compose la Cassaria e i Suppositi prima in prosa, poi in versi; quindi la Lena e il Negromante. Del 1516 è la prima edizione dell’Orlando furioso in 40 canti; tra il 1517 e il 1524 sono composte le Satire, mentre nel 1521 esce la seconda edizione del poema e nel 1532 la terza, completamente rielaborata.

Ai primi del Cinquecento la scelta del volgare come lingua letteraria si presenta netta e irrevocabile e sotto il segno del culto umanistico della forma e del principio dell’imitazione, che orientano sempre più decisamente gli scrittori verso quel toscano letterario trecentesco il cui prestigio si era ormai diffuso anche oltre i confini della penisola. Se la lingua della lirica ha già un alto grado di codificazione in virtù di una tradizione modellata su ➔ Petrarca, altri generi letterari conservano più a lungo i segni dei particolarismi locali. Il caso dell’Orlando furioso è esemplare della conversione al toscano letterario di un genere non lirico ma narrativo, e con radici nelle culture regionali, come il poema cavalleresco. Il genere, di origine popolare, aveva già intrapreso con ➔ Matteo Maria Boiardo il percorso verso una nobilitazione letteraria, mantenendo però le sue caratteristiche di appartenenza alla cultura estense e alla sua ➔ koinè linguistica. Significativo dunque che sia ancora il poema cavalleresco a sperimentare il passaggio da un «volgare illustre», quello padano-emiliano, al toscano, anticipando o fiancheggiando le posizioni di ➔ Pietro Bembo e le prime sistemazioni grammaticali; un passaggio in cui le componenti colte e popolari proprie del genere si assestano in una medietas letteraria variata nei toni, dal tragico al comico, dal sublime al quotidiano, per la nuova complessità di significati conferita dall’Ariosto alla materia cavalleresca, «accentuandone la letterarietà e la nobiltà tonale» (Segre 1994: 331).

Di tale applicazione sono testimonianza le fasi di elaborazione del poema, rivisto e pubblicato tre volte dall’autore (Ferrara, 1516, 1521, 1532), in un’evoluzione dei mezzi espressivi in cui centrale è la conversione linguistica. L’elaborazione dell’opera occupa una ventina d’anni: la prima notizia della sua composizione è infatti in una lettera del gennaio 1507 di Isabella d’Este Gonzaga, in cui la marchesa riferisce della visita di Ariosto, che le avrebbe letto parte dell’opera in lavorazione. La prima edizione in 40 canti fu pubblicata nel 1516; la seconda, ancora in 40 canti, nel 1521; la terza, aumentata di 6 canti, nel 1532. Dell’allestimento di tutte e tre le edizioni Ariosto si occupò personalmente, intervenendo nella prima e specialmente nell’ultima direttamente in tipografia, con correzioni introdotte anche dopo la revisione delle bozze (➔ correzione di bozze): correzioni di carattere linguistico che denotano non solo la cura eccezionale con cui l’autore seguì la stampa della sua opera, ma anche le incertezze linguistiche, ben giustificabili considerati i forti e veloci cambiamenti in corso nella lingua letteraria. La seconda edizione, allestita frettolosamente e con scarsa cura dello stampatore, è accompagnata da un cospicuo errata corrige, con correzioni non solo di errori di stampa, ma anche di lingua.

L’esistenza di tre redazioni (siglate solitamente A, B, C) offre pertanto la possibilità di osservare il poema non solo nella sua storia interna, ma anche nel cammino verso quel toscano letterario che era sulla via di diventare italiano. Il poema, come si sa, nasce in continuazione della «inventione del conte Matheo Maria Boiardo» (scrive Ariosto in una lettera del luglio 1512), cioè dell’Inamoramento de Orlando, secondo il titolo originale dell’opera e corrente all’epoca. E già il titolo Orlando furioso, con l’aggettivo furioso ispirato dal titolo della tragedia di Seneca Hercules furens, sta a indicare le nuove intenzioni dell’opera, sia sul piano tematico, nel mettere al centro la follia dell’eroe, sia su quello stilistico, dove la nobilitazione della materia si realizza attraverso il raffinato innesto delle storie e dei personaggi dell’epopea romanza con i classici latini (Virgilio, Ovidio, Catullo, ecc.) e volgari (Dante, Petrarca, Boccaccio), immettendo così la tradizione canterina, radicata nei gusti e nelle abitudini linguistiche dell’Italia settentrionale, nel filone toscano letterario, e conferendole un’impronta di classicità che trova compiutezza nell’ultima redazione con l’adozione di quel modello petrarchesco già in parte penetrato negli usi scritti più elevati (Coletti 1993: 147; Formentin 1996: 223).

Le tre edizioni

La prima edizione (A), benché vicina al poema boiardesco anche per libertà e freschezza d’invenzione narrativa, appare già lontana dalla koinè padano-emiliana, pur conservandone tracce consistenti, rappresentate da settentrionalismi e da latinismi. Tra i primi si riscontrano nel vocalismo alcune forme non anafonetiche (annonzio, gionco; ➔ anafonesi), qualche iperdittongamento (guote); -ar- in posizione protonica nei futuri e nei condizionali dei verbi di prima coniugazione (servarà, mostrarò, mandaria), e anche al di fuori dei temi verbali (carastia, boscarecci, fantaria, camare); la serie pronominale atona me, te, se; nel consonantismo qualche sibilante in luogo della palatale in settro, strassina; l’affricata palatale sonora in luogo della occlusiva velare toscana nei costanti aggiacciar «agghiacciare» e giaccio «ghiaccio», e un giotto «ghiotto»; l’incertezza tra ci e z nella grafia dell’affricata in cio «zio», acciuffato «azzuffato», scoccesi «scozzesi» e roncino, più frequente di ronzino. Tra i latinismi: artifice, pontifice, argumento, suspiro, suspetto, battizzata, gremio «grembo», ecc. Sul piano morfologico persistono le forme padane serà, serìa, arete, aresti; e riguardamo, avemo, semo, potemo e, ma solo in pochi casi, aveti, credeti. Più scarsa nel lessico la presenza di ➔ dialettismi (soia, soiare «beffare», mota «rialzo del terreno», naranci «aranci», il frequente biastemmiare), mentre più consistente è quella dei latinismi: cicada, còme «liscia», nece «morte», erradicare, exicio, dolato, proceri, tuto «sicuro» e altri. Si tratta comunque di residui all’interno di una compagine già toscaneggiante, che andava ormai oltre la koinè padana.

Nonostante il modello boiardesco, la lingua del primo Furioso appartiene già a un altro universo linguistico e culturale rispetto a quello dell’Innamorato. I tratti di koinè sono in genere panitaliani, nel senso che sono comuni agli usi scritti elevati (s’intende della lirica) tra Quattro e Cinquecento anche centromeridionali e del toscano contemporaneo non fiorentino.

Nella seconda edizione (B) si assiste alla ripulitura dei più evidenti resti settentrionali: la grafia di roncin, acciuffato, ciucca è corretta in ronzin, azzuffato, zucca; a strassina subentra strascina; ad azzaio acciaio; si eliminano dittongamenti impropri come puoté e guote, passati a poté e gote, tuor a tor «togliere»; si correggono arete, areste in avrete, avreste; e le desinenze -emo ed -eti. Ma, come si è detto, la stampa della seconda edizione era stata piuttosto trascurata, tanto da portare alla fine dell’opera un elenco di parole da correggere, come reverire in riverire, distino in destino, devere in dovere, altrotanto in altretanto, parangone in paragone, vuota in vota, dil in del; l’avvertenza sul raddoppiamento consonantico, cioè di «una consonante per due, due per una». Le correzioni ariostesche erano maturate anche nel clima dei dibattiti linguistici di quegli anni: le Regole della volgar lingua di Gian Francesco Fortunio (1516) possono aver suggerito alcune correzioni come il plurale mane, di forma settentrionale, in mani.

L’opera di ripulitura prosegue con la terza edizione, che elimina qualche residuo nui, un soi e un toi, sfuggiti al dittongo toscano; la forma pronominale si per ci in si veggian XIII, 16, si credemo VI, 37, volti a ci veggiàn «vediamo» e ci credemo. Ariosto cancella poi quelle parole «che facevano macchia nell’armonioso verso: parole troppo espressive, o burlesche, o gergali, o arcaiche: ceffo, improperare, ostiero, ricovro, scrignuto, soia, sudoroso», alcune delle quali erano già cadute in B (Segre 1966: 36-37), cultismi e latinismi, liberando dunque il volgare da quella soggezione alla lingua madre che persisteva soprattutto nelle koinè regionali e dalla quale il toscano si era reso autonomo per tempo.

Ma l’affinamento linguistico, con relativo adeguamento al toscano letterario in particolare petrarchesco, interessa soprattutto alcuni microfenomeni: passaggio di gettare, liggiadro, liggier a gittar, leggiadro, leggier; regolarizzazione del dittongamento secondo l’uso del toscano letterario (Migliorini 1957: 181), per cui movere passa in genere a muovere, more a muore, nora, socera a nuora, suocera, mentre l’aggettivo vuoto, costante in A, passa sistematicamente a voto (spesso già in B), adeguandosi all’uso petrarchesco.

Prosegue l’eliminazione degli iperdittongamenti, come nel caso di vuo’ «voglio» che, pur con oscillazioni, passa al letterario vo’. I residui destrer e cavalleri passano a destrier e cavallieri. In alcuni casi le oscillazioni sono funzionali: per es. l’alternanza fiero/-a e fera risponde a una opposizione funzionale tra aggettivo e sostantivo; luoco, pressoché assoluto nella prima edizione, passa in C (a volte già in B) ora a luogo ora a loco; luogo però solo all’interno del verso, loco, ormai avvertito come più proprio della poesia, sia nel verso sia in rima: un comportamento che sembrerebbe puntare a un livello linguistico che contemperi il prosastico e il lirico, come richiesto dal genere.

In qualche caso l’evoluzione è sincronica, per es. nel dittongo dopo occlusiva + r come truovo, pruovo, alternante con la forma monottongata: in C prevale il tipo con dittongo fino al canto XX, da qui prevale il monottongo, introdotto a volte nelle correzioni in corso di stampa (Fahy 1989), con adeguamento al fiorentino contemporaneo.

Per la seconda revisione Ariosto poté avvalersi delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, uscite nel frattempo (1525), che gli si offrivano come guida soprattutto per i microfenomeni morfologici, determinando il passaggio di el (non raro in A e B) a il; di li a gli davanti a vocale; di il e un a lo e uno davanti a s + cons. (un stizzone > uno stizzone, il specchio > lo specchio), di in la a ne la: correzioni dettate anche dalla esigenza di evitare incontri consonantici bruschi e cacofonici, attuate dunque «con orecchio di poeta, non con rigore di grammatico» (Segre 1966: 36). Forme come serà, seria, più arcaiche e della koinè, passano a sarà, sarìa, come indica anche Bembo. Analogamente, il tipo non sincopato settentrionale e antico anderò diventa in C andrò; in A e B erano presenti un antiveggan III, 13, 8 e un chieda XI, 52, 4, che passano a antiveggian e chieggia secondo l’uso petrarchesco, già adottato nella totalità delle forme del congiuntivo presente (veggia, deggia, proveggia, veggiamo). Mentre il passaggio dal perfetto forte al debole, cioè da perse, rese a perdé, rendé, e dei relativi participi da perso, reso a perduto, renduto, sostenuto dal Bembo e secondo l’uso di Petrarca e Boccaccio, era già avvenuto in B. Riguardo a devea, devere, con radicale dev- dell’uso lirico e petrarchesco, esso prende la forma più prosastica dovea con radicale do- (a eccezione ovviamente del presente indicativo e congiuntivo), come indicato da Bembo, e come si trova nel Boccaccio: si tratta dunque di scelte che contemperano il lirico Petrarca e il prosastico Boccaccio in funzione di quello statuto medio ritenuto consono al genere.

E ancora alla prima persona dell’imperfetto la desinenza -o di diffusione quattrocentesca passa alla più letteraria -a, ancora secondo i dettami bembeschi. E suggerita certamente dalle Prose è la sostituzione sistematica in C di presto in funzione di avverbio con tosto, già presente nella locuzione tosto che (tra i tanti esempi: «ma presto si pentì di esservi giunto» passa a «ma tosto si pentì d’esservi giunto» I, 6). Nelle Prose infatti si trova (III, 60) che tosto è proprio del verso, mentre presto «vale quanto pronto et apparecchiato; et è nome». Nello stesso luogo Ariosto poteva anche leggere che «testé […] tanto vale quanto ora», e questo può averlo indotto a sostituire in C tutti gli adesso con ora, a eliminare cioè la forma settentrionale a favore di quella toscana.

L’accoglimento dei dettami bembiani non è passivo e neppure «feticisticamente ancorato alla riproduzione dei grandi modelli trecenteschi» (Trovato 1994: 131), in quanto non mancano oscillazioni che, prescindendo da fatti di distrazione o da esigenze di variatio, denotano una coscienza della lingua come organismo vivo, che può pertanto contenere variazioni e alternanze d’uso. Anche nel lessico, accanto all’aulico o al lirico si trovano parole ed espressioni idiomatiche o proverbiali come fermare il chiodo «decidere fermamente», vedere le stelle «provare un forte dolore per un colpo», cader de la padella ne le brage, ecc. e tecnicismi cavallereschi come folta «calca», serrarsi addosso «stringersi addosso», farsi far piazza «farsi spazio», giocare di schiena «dare sgroppate» (del cavallo), menar de le calcagna «dar di sprone», ecc.: forme in genere già collaudate dal poema boiardesco e che nel Furioso servono alla variazione dei toni, cui corrisponde sul piano della sintassi una grande varietà di modi e di strutture in distesa armonia con il metro, con quell’ottava che appare «con tutta la sua eccellenza nella terza edizione» (Segre 1966: 40).

Influsso di Dante

Oltre all’adeguamento delle strutture fonetiche e morfologiche alla lingua dei grandi trecentisti, la memoria di Dante e Petrarca filtra in continuazione dai versi del poema con riprese, allusioni, riecheggiamenti.

Tra i tanti esempi il seguente dal canto XIII, in cui è raccontata l’infelice avventura di Isabella; caduta in mano dei ladroni mentre era in viaggio per raggiungere il promesso sposo, Isabella è salvata da Orlando al quale racconta le sue tristi vicende e così ricorda (XIII, 5, 1-6):

Già mi vivea di mia sorte felice,

gentile, giovane, ricca, onesta e bella:

vile povera or sono, or infelice;

e s’altra è peggior sorte, io sono in quella.

Ma voglio sappi la prima radice

che produsse quel mal che mi flagella

dove è evidente l’allusione alle parole della Francesca di Dante:

Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.

ma s’a conoscer la prima radice

del nostro amor …

(Inf. V, 121-124)

E ancora, qualche ottava più avanti (XIII, 32):

Così parlava la gentil donzella;

e spesso con signozzi e con sospiri

interrompea l’angelica favella,

da muovere a pietade aspidi e tiri.

Mentre sua doglia così rinovella,

o forse disacerba i suoi martìri,

da venti uomini entrar ne la spelonca,

armati chi di spiedo e chi di ronca

martìri in rima con sospiri è un’altra eco dello stesso luogo dantesco: «i tuoi martìri … al tempo de’ dolci sospiri» Inf. V, 116-118, cui si aggiunge in «sua doglia così rinovella», in rima con favella, la memoria delle parole di Ugolino «Tu vuo’ ch’io rinovelli / disperato dolor», pure in rima con favelli, di Inf. XXXIII, 4-6; mentre una parola come disacerba sembra dovuta alla memoria di Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta 33, 4: «perché cantando il duol si disacerba». Dante è fonte di espressioni come: «con fronte crespa e con gonfiate labbia» (XXVIII, 25, 5), da «enfiata labbia» (Inf. VII, 7); «da l’Atlante ai liti rubri» (VIII, 67, 5), da «lito rubro» (Par. VI, 79); «nave … di nocchiero e di governo priva» (XXXII, 62, 3), da «nave sanza nocchiere» (Purg. VI, v. 77); «con occhi biechi e più che bracia rossi» (II, 5, 4), da «con occhi di bragia» «occhi … biechi» (Inf. III, v. 109 e VI, v. 91); «ch’altri il crudel ne scanna, altri ne scuoia, / molti ne squarta, e vivo alcun n’ingoia» (XV, 43, 7-8), da «graffia gli spiriti, scuoia ed isquarta» (Inf. VI, 18).

L’influsso di Petrarca interessa il lessico amoroso e la dimensione della bellezza vaga e indeterminata del paesaggio, e soprattutto il piano metrico-sintattico, nelle strutture più legate e fuse rispetto alla sintassi slegata e paratattica del Boiardo, e nella disposizione più armonica. Soprattutto con l’ultima edizione trova compiutezza la ricerca di equilibrio e simmetria del discorso; si consideri questo caso: «Le lancie ambe sembrâr di secco salce / e non di verde frassino superbo» di A XVII, 93, 1-2, diventa «Le lancie ambe di secco e suttil salce, / non di cerro sembrâr grosso et acerbo» in C XIX, 94, dove la correzione introduce una coppia di aggettivi in opposizione a chiasmo; oppure «[un vecchio] che di purpura ha il manto, e la gonnella / candida sì, che si può al latte opporre» di A XXXI, 54, 3-4, diventa «che ’l manto ha rosso, e bianca la gonnella, che l’un può al latte, e l’altro al minio opporre» in C XXXIV, 54, con una soluzione più ordinata degli elementi: in entrambi i casi si può rilevare un acquisto di maggior limpidezza ed eleganza delle immagini.

Il Furioso porta a compimento il processo di superamento del municipalismo linguistico a favore di un assetto ‘italiano’ che si poneva in sintonia con la dimensione politica e storica nel frattempo maturata da Ariosto, che lo porta a celebrare negli ultimi canti le glorie italiane, i grandi pittori e scrittori italiani, tra i quali una menzione speciale tocca a Pietro Bembo, «che ’l puro e dolce idioma nostro, / levato fuor del volgare uso tetro, / quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro» (XLVI, 15). L’opera dunque realizza «per la prima volta una coincidenza tra universalità di ispirazione e universalità linguistica» (Segre 1966: 35).

Le altre opere

L’approdo linguisticamente unitario poteva valere per un’opera come il Furioso, il cui genere consentiva una distanziazione da un uso corrente ancora intriso di elementi dialettali, ma era di difficile applicazione per altro genere di opere come le commedie o di scritture come le Lettere, che conservano una veste linguistica simile a quella del primo Furioso, benché in quelle scritte intorno agli anni ’30 penetrino acquisti dell’ultima edizione, anche se non sempre sufficienti «a espugnare i corrispettivi di koinè» (Stella 1999: 33), in ragione anche del loro carattere di scritture pratiche o private.

A proposito delle commedie, significativa è la vicenda della Cassaria, che ha una prima redazione in prosa nel 1508, e in seguito, tra il 1528 e il 1529, un rifacimento in versi endecasillabi sdruccioli intesi a riprodurre l’andamento della metrica classica e innalzarne il livello letterario. Sul piano lessicale la commedia ricercava un linguaggio comico medio e colloquiale attraverso locuzioni e forme fraseologiche toscane, prese da Boccaccio o dagli scrittori comici del Quattrocento, insieme a forme settentr. familiari all’autore: una mescolanza tale da suscitare il giudizio negativo di ➔ Machiavelli, che nel Discorso intorno alla nostra lingua scrive a proposito dei Suppositi (ma il giudizio può valere anche per la Cassaria) che vi si poteva trovare «una gentil compositione», «uno stilo ornato et ordinato», «un nodo bene accomodato e meglio sciolto», ma non «quei sali che ricerca una comedia […] perché i motti ferraresi non li piacevano, et i fiorentini non sapeva, talmente che gli lasciò stare», intendendo con «fiorentini» il fiorentino contemporaneo.

Comunque, la riscrittura della commedia era concomitante con la revisione del poema, ma non ne rifletteva i criteri linguistici, non avendo potuto godere della stessa attenzione da parte dell’autore, troppo impegnato nella correzione del poema, come informa una lettera del 1532:

Adesso io sono così occupato per mettere un’altra volta il mio Furioso a stampa con alquanto di additione, che non posso attendere ad altro. E s’in queste commedie trovarete qualche errore circa l’osservatione de la lingua, escusatemi, ch’anchora ch’io gli habbia veduti, non ho avuto tempo di correggerli (Ariosto 2005: 62)

Di ciò s’incaricheranno gli stampatori successivi: infatti la prima stampa della Cassaria, nel 1546 per i tipi del Giolito, presenta varianti rispetto ai testimoni più vicini al testo originale che l’autore non aveva potuto rivedere. Si tratta di correzioni grammaticali secondo i criteri del Bembo, in sintonia con quelli adottati da Ariosto nell’ultimo Furioso; correzioni di iniziativa editoriale ma che riflettono l’implicita intenzione dell’autore (Ariosto 2005: 61-81), da collocare nel clima di quelle revisioni linguistiche che portavano a riformare anche l’illustre predecessore del Furioso, cioè l’Orlando innamorato: una stampa del 1542 lo presenta in veste totalmente toscanizzata e lontana dal quel «volgar uso tetro» che Ariosto aveva stigmatizzato nell’ultimo canto del poema.

Il Furioso insomma fece scuola, contribuendo col suo modello linguistico all’accettazione della dottrina bembesca del toscano letterario: un caso certamente emblematico nella storia linguistico-letteraria italiana, come lo sarà il romanzo manzoniano: due casi uguali e contrari, che aprono e chiudono il percorso della norma linguistico-letteraria dell’italiano.

Fonti

Ariosto, Ludovico (1960), Orlando Furioso, secondo l’edizione del 1532, con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521, a cura di S. Debenedetti & C. Segre, Bologna, Commissione per i testi di lingua (prime edd.: Ferrara, Giovanni Mazocchi, 1516; Ferrara, Giovanni Battista Della Pigna, 1521; Ferrara, Francesco Rossi da Valenza, 1532).

Ariosto, Ludovico (2005), La Cassaria in versi, a cura di V. Gritti, Firenze, F. Cesati.

Ariosto, Ludovico (2006), Orlando Furioso, secondo la princeps del 1516, edizione critica a cura di M. Dorigatti, con la collaborazione di G. Stimato, Firenze, Olschki (1a ed. Ferrara, Giovanni Mazocchi, 1516).

Fortunio, Giovanni Francesco (2001), Regole grammaticali della volgar lingua, a cura di B. Richardson, Roma - Padova, Antenore (1a ed. Ancona, Bernardino Viani, 1516).

Studi

Coletti, Vittorio (1993), Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi.

Fahy, Conor (1989), L’«Orlando furioso» del 1532. Profilo di una edizione, Milano, Vita e Pensiero.

Formentin, Vittorio (1996), Dal volgare al toscano letterario, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, Roma, Salerno Editrice, 14 voll., vol. 4° (Il primo Cinquecento), pp. 177-250.

Migliorini, Bruno (1957), Sulla lingua dell’Ariosto, in Id., Saggi linguistici, Firenze, Le Monnier, pp. 178-186.

Segre, Cesare (1966), Storia interna dell’Orlando Furioso, in Id., Esperienze ariostesche, Pisa, Nistri-Lischi, pp. 29-41.

Segre, Cesare (1994), L’«Orlando Furioso», in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi & C. Di Girolamo, Torino, Bollati Boringhieri, 1993-1996, 4 voll., vol. 2° (Dal Cinquecento alla metà del Settecento), pp. 323-350.

Stella, Angelo (1999), Il piano di Lucia. Manzoni e altre voci lombarde, Firenze, F. Cesati, pp. 21-34.

Trovato, Paolo (1994), Storia della lingua italiana. Il primo Cinquecento, in Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, Bologna, il Mulino.

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