Luciano

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Scrittore greco (n. a Samosata nella Siria Commagene verso il 125 d. C. - m. verso la fine del sec. 2°). Di origine forse semitica, apprendista scultore da ragazzo, si volse presto agli studî letterarî greci e divenne retore e conferenziere secondo l'uso della "seconda sofistica". Fu dapprima avvocato in Antiochia, poi girò, tenendo conferenze sofistiche, per l'Asia Minore, e di lì passò in Grecia, in Italia, in Gallia, dove pare avesse anche un incarico pubblico. Verso il 165, già celebre e ricco, tornò ad Atene, dove visse recitando in pubblico le sue operette satiriche e dove sembra abbia avuto una crisi spirituale che lo spinse ad abbandonare la retorica per la filosofia. Più tardi fu capo della cancelleria imperiale presso il prefetto di Egitto, dove probabilmente morì negli ultimi anni del secolo. Le incertezze sulla vita di L. derivano anche dal fatto che le notizie al riguardo si trovano solo nei suoi scritti, alcuni dei quali di dubbia autenticità, e dove è comunque difficile distinguere quanto vi è di polemico e immaginario dalla verità. In complesso abbiamo sotto il nome di L. 82 opere di varia natura ed estensione. Degli scritti retorici, alcuni sono saggi di abilità personale, come Immagini (intorno al 163), elogio di un'etera, Pantea, favorita di Lucio Vero; o contengono particolari autobiografici, come il Sogno; o sono preamboli oratorî, come Eracle, Scita, Erodoto; o modelli di arte oratoria, talvolta scherzosi, come l'Encomio della mosca e il Giudizio delle vocali. Degli scritti filosofici alcuni hanno tendenza morale, come Non bisogna credere sconsideratamente alla calunnia (di dubbia autenticità) e Sui sacrifizî (un cinico parla dell'assurdità di certe pratiche religiose); altri sono ritratti di pensatori: celebre il Nigrino, esaltazione dell'eloquenza di un platonico vissuto a Roma ritirato dal mondo e dalla vita tumultuosa della capitale; altri, infine, scritti di filosofia pratica, come il Ballo, difesa del ballo e della pantomima considerati passatempi ed elementi di cultura, e i Saturnali, in cui tende a conciliare il mecenatismo dei ricchi e le esigenze degli artisti e letterati poveri. Fra le satire e parodie, alcune sono di argomento letterario, per es. Come bisogna scrivere la storia, critica agli encomiastici storici contemporanei ed esposizione di regole sulla storiografia in ultima analisi derivate da Tucidide; altre di argomento morale, come il Parassita, dimostrazione che il parassitismo è un'arte, e il Precettore dei retori (per far carriera nella sofistica bisogna avere ignoranza e faccia tosta); altre sono monografie su famosi impostori come l'Alessandro, sul falso profeta Alessandro di Abonutico, e la Morte di Peregrino (un cinico che nel 167 si fece bruciare vivo in Olimpia). Si possono considerare parodie anche la Vera storia, in 2 libri, che partendo dalla satira dei romanzi d'avventure si sviluppa poi in libera creazione fantastica; e l'Icaromenippo, contro la religione: viaggio di Menippo sulla Luna e fino alla presenza di Giove, il quale fa una requisitoria contro i filosofi. Spunti di satira sociale si trovano nel Timone, specie di commedia aristofanesca in prosa. Infine i Dialoghi (ma anche qualcuna delle altre opere è in forma di dialogo, come, per es., il Parassita) a cui L. deve la maggiore notorietà: Dialoghi degli dèi, Dialoghi marini, improntati a un'ironia leggera per il mondo della mitologia, più che mossi da un intento di satira religiosa, Dialoghi dei morti, di tipo menippeo, Dialoghi delle cortigiane, piuttosto mimi tratti dal mondo della commedia. Fra le opere che non si possono ritenere autentiche merita di essere ricordato l'Asino, racconto fantastico che svolge il tema trattato quasi nello stesso tempo in latino da Apuleio. ▭ Grandissima è stata la fortuna di L. in tutte le età: la spigliatezza briosa della sua critica, la genialità di alcune sue trovate fantastiche (soprattutto nei Dialoghi e nella Vera storia che è forse il suo capolavoro), la grazia dello stile e della lingua, improntate a un purismo atticistico privo di pedanteria, rendono piacevolissima la lettura delle sue opere e ne spiegano la fortuna. L. fu considerato da alcuni un grande satirico e moralista; e si ammirò la spregiudicatezza della sua critica contro il mondo e soprattutto contro la religione pagana (il che spiega la sua fortuna presso gli eruditi bizantini, dal 9° sec. in poi). Ma in realtà manca a L. lo sdegno interiore di un Giovenale, e il mondo degli dèi olimpici, almeno nella coscienza delle persone colte a cui L. si rivolgeva, non costituiva più a quei tempi una realtà religiosa per combattere la quale fosse richiesto un particolare coraggio. Egli non fu che uno scettico come tanti; e la sua produzione letteraria s'inquadra perfettamente nei modi della cosiddetta seconda sofistica. Solo che egli sopravanzava di gran lunga tutti gli altri sofisti per intelligenza, raffinatezza, buon gusto; frivolo, ma consapevole di esserlo, investì del suo scetticismo le ragioni stesse che lo muovevano all'attività letteraria; e forse proprio in questo è il fascino di alcune sue pagine che giungono, come poche altre nell'antichità, al puro divertimento.

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