LUCE

Enciclopedia Italiana (1934)

LUCE (lat. lux; fr. lumière; sp. luz; ted. Licht; ingl. light)

Giovanni POLVANI
Giulio Carlo ARGAN

Lo studio delle modalità dei fenomeni luminosi e le ipotesi sulla natura della luce costituiscono quel capitolo amplissimo e ormai bene organizzato della fisica che va sotto il titolo generico di ottica. Qui viene particolarmente trattato, nelle sue linee generali, lo svolgimento storico delle ricerche speculative e sperimentali sulla natura della luce stessa, mentre le modalità fenomeniche (v. riflessione; rifrazione; aberrazione; interferenza; ecc.) verranno indicate e ricordate solo per quel tanto che è necessario all'illustrazione di detto svolgimento storico.

Dal 500 a. C. al 1500 d. C. - 1. Le concezioni greche relative alla luce sgorgarono, come per altri problemi naturali, da vivida fantasia, spesso inquinata da preconcetti, e, senza appoggiarsi a ricerche sperimentali, si giovarono soltanto delle scarse nozioni acquisite con l'esperienza della vita comune: l'esistenza dei colori di corpi opachi o trasparenti, la propagazione rettilinea della luce, il fenomeno della riflessione e qualche caso particolare di rifrazione. Pitagora, o almeno i pitagorici, riducendo la vista a un processo di percezione tattile, supposero che dall'occhio emanassero in linea retta raggi visuali che, a guisa di tenuissimi tentacoli, toccando i corpi eccitassero nell'occhio la visione. Questi raggi divergendo hanno tra loro, a distanze via via maggiori dall'occhio, intervalli maggiori; sicché corpi sufficientemente piccoli possono sfuggire al loro tocco e non esser visti o visti incompletamente. Democrito, e con lui gli atomisti, ritenevano che dai corpi luminosi partissero atomi, costituenti immagini dei corpi stessi, che raccolte dall'occhio generassero la visione. L'aria si oppone al movimento di queste tenui immagini, sfumandone i particolari, sicché quanto più lungo è il percorso che esse debbono fare tanto maggiore è l'alterazione subita e imprecisa la visione. "Se non ci fosse l'aria - essi dicono - vedremmo anche una formica attaccata al cielo"! Il fatto che nella riflessione le immagini appaiono dietro lo specchio troverebbe, per quel che riferisce Ezio da Amida, la sua spiegazione in un'inversione fra le parti anteriori e le posteriori delle immagini, provocata dalla pressione sulla superficie. Una spiegazione in certo modo intermedia fra quelle di Pitagora e di Democrito è proposta da Platone per il quale, dall'occhio e dai corpi illuminati o luminosi, partono rispettivamente effluvî che, incontrandosi tra loro in linea retta, generano la visione. Dalla combinazione delle grossezze dei due effluvî si hanno la trasparenza, l'opacità, i colori. La riflessione è dovuta all'incontro dei due effluvî sopra la superficie dello specchio. Per Aristotele, che negava l'esistenza del vuoto, la luce non può essere trasmessa che da un mezzo riempiente tutti gli spazî eccitato a sua volta dal colore del corpo, dal fuoco, o anche dall'etere; il quale (è bene notare per i cambiamenti profondi di significato subiti poi da questa parola) era inteso, presso Aristotele, come agente luminifico. Aristotele però, sulla base di questa sua concezione, nella quale non si trova accenno a movimenti ondulatorî, non dà interpretazione alcuna dei fenomeni luminosi. Queste, brevemente esposte, sono le principali concezioni circa la luce sorte presso gli antichi Greci (500-300 a. C.): sostanzialmente esse si riducono ad ammettere o l'emissione dall'occhio, ovvero dal corpo luminoso, o la trasmissione attraverso un mezzo interposto. In tutte fu poi ammessa l'istantaneità della propagazione.

2. Diversa fu la fortuna di queste concezioni attraverso i tempi: si può dire che quella pitagorica prevalse fin verso il 1500 d. C. per cedere il posto a concezioni che ricordano quelle democritee o quelle aristoteliche, perché sostanzialmente basate sull'ipotesi della trasmissione per corpuscoli o per un mezzo riempiente lo spazio.

A Pitagora si riattaccano Euclide, con la sua celebre Ottica, che può considerarsi un trattato di geometria della visione e della riflessione; Archimede, al quale è attribuita una Catottrica, ed Erone, autore anche egli di una celebre Ottica. Presso quest'ultimo la concezione ha già sapore più fisico poiché troviamo, per la prima volta, attribuita alla luce una proprietà estremale: quella del minimo percorso (donde seguono la propagazione rettilinea e la legge di riflessione), e la propagazione, presentata, piuttosto che istantanea, come incommensurabilmente rapida. La base di questa affermazione è analogica ed estremale anch'essa; press'a poco il ragionamento (se così può chiamarsi) portato in appoggio è questo: le traiettorie dei corpi lanciati sono tanto più tese quanto più violento è l'impeto iniziale; la luce percorre traiettorie rettilinee, la sua velocità deve essere perciò più grande di quella di qualunque altro proietto. Agli atomisti si riattacca invece Lucrezio che con loro afferma: "sunt igitur iam formarum vestigia certa quae volgo volitant suptili praedita filo". Di Claudio Tolomeo è da ricordarsi la poderosa Ottica che, pur contenendo il primo esempio di studî sperimentali sistematici sulla rifrazione e quindi costituendo un progresso sensibile sulle opere similari precedenti, non presenta, relativamente alla natura della luce, concezioni nuove. Con Tolomeo (morto nel 165 d. C.) si può dir chiusa la serie dei grandi trattatisti antichi della luce vissuti prima del Mille.

Fuori dalla tradizione greca fiorì, intorno al Mille, l'arabo Alhazen (Ibn al-Haitham) che fu indipendente ricercatore e spesso avversario delle concezioni greche. La sua Ottica rappresenta un notevolissimo progresso scientifico rispetto a quelle di Euclide e Tolomeo; essa, benché sia come le precedenti prevalentemente geometrica (famoso il problema di Alhazen), pure raccoglie nuovi dati sperimentali sulla rifrazione, osservazioni sulla costituzione dell'occhio e sulla funzione unificatrice del chiasma nella visione, lo studio della rifrazione in una sfera (donde trae argomento il suo commentatore Kamāl ad-dīn al-Fārisī per interpretare l'arcobaleno), la considerazione del cono di raggi che da un punto luminoso si appoggiano alla pupilla e l'affermazione che la luce si propaga con velocità finita grandissima. Né a questa affermazione toglie importanza l'avere egli invocato, ingenuamente, come esperimento probativo, il colore apparente che una trottola variopinta acquista nella rotazione. Le idee sulla luce prospettate da Alhazen e dagli Arabi suoi continuatori, diffuse, insieme con quelle di Tolomeo ed Euclide, da Witelo, sostenute da R. Bacone, non furono dimenticate attraverso il Medioevo, nonostante che le vedute euclidee e tolemaiche ufficialmente imperassero.

Dal 1500 al 1800. - 3. Al principio dell'era moderna troviamo, soprattutto in Italia, un grande fervore di nuovi studî sulla luce. Quelli di F. Maurolico e di G. B. Della Porta, diretti più sulla fenomenologia della luce che sulla natura di questa, sono con gli altri, di poco posteriori, di J. Kepler, la sana preparazione per successivi sviluppi teoretici e sperimentali. Ormai le concezioni pitagoriche e euclidee vengono abbandonate, e, sia pure in forma diversa, tornano in onore presso alcuni la concezione atomistica democritea di propagazione corpuscolare attraverso il vuoto, presso altri quella aristotelica di un mezzo riempiente lo spazio e partecipante al fenomeno luminoso.

Già G. B. Benedetti affermava (1585) possibile la propagazione della luce attraverso il vuoto e il Galilei, che immaginava la luce stessa derivare dal fuoco per "altissima risoluzione in atomi realmente indivisibili" costituenti il più alto grado di rarefazione, riteneva finita la velocità di propagazione e prevedeva, genericamente, una conseguente influenza sull'apparente posizione degli astri. Galilei tentò di sperimentare la non istantaneità della propagazione cercando (1638) il maggior ritardo che fra le chiamate e le immediate risposte compiute fra due persone con occultazioni e scoprimenti di lumi doveva avvenire con l'aumentare della distanza; ma i tentativi, ripetuti (1663) dagli accademici del Cimento, fallirono, naturalmente, allo scopo. Strenuo difensore e propugnatore dell'atomismo fu P. Gassendi: per lui la luce consiste in un lancio di atomi estremamente tenui i quali, inseguendosi l'un l'altro, partono dal corpo luminoso, e, incalzati ciascuno dai retrostanti, si muovono rettilineamente con straordinaria velocità. La riflessione avviene con meccanismo analogo al rimbalzo di una palla elastica sopra un corpo duro; la rifrazione, all'urto obliquo degli atomi lucifici sui pori del corpo rifrangente. Ma queste e altre interpretazioni congeneri rimangono, per mancanza di forma matematica, il prodotto di vivida fantasia, piuttosto che di razionalismo quantitativo. Della forma matematica e della concezione corpuscolare si valse R. Descartes per trovare teoricamente (1637) la legge di rifrazione che, forse a lui non nota, era stata sperimentalmente già determinata (1615) da W. Snellius. Supposto che la velocità delle particelle, e quindi della luce, sia maggiore nei mezzi più densi e che sulla superficie di separazione di due mezzi le componenti tangenziali delle velocità corpuscolari siano uguali tra loro, agevolmente seguono la legge dei seni e l'interpretazione dell'indice come rapporto fra le velocità che le particelle hanno nel mezzo più denso e in quello meno denso. Ma le ipotesi assunte da Descartes nella deduzione della legge dei seni hanno valore occasionale, puramente euristico. Egli, basandosi su alcune conseguenze (errate negli apprezzamenti quantitativi) tratte dalle osservazioni delle eclissi lunari, sosteneva che la propagazione della luce dovesse essere istantanea; e sosteneva anche, nella sua teoria vorticosa del mondo, la trasmissione della luce avvenire per istantanea pressione centrifuga in seno a un ipotetico mezzo pulverolento prodotto dai detriti dei corpi e riempiente tutto lo spazio. Questa sua concezione è così oscura e farraginosa da far proprio dire, con Chr. Huygens, che in essa Descartes non ha detto cosa che non sia piena di difficoltà, o addirittura inconcepibile per quel che riguarda la luce. Tornando alle ipotesi euristiche di Descartes sono degni di nota i principî che P. Fermat e W. Leibniz introdussero per evitare l'ipotesi poco verosimile della maggior velocità della luce in mezzi più densi: Fermat ammettendo minimo il tempo del percorso, piuttosto che minimo il percorso stesso come già aveva sostenuto Erone; Leibniz, invece, ammettendo minimo il lavoro della resistenza incontrata dalla luce nell'attraversamento. A ogni modo la concezione aristotelica andava, contro l'ipotesi corpuscolare atomistica, trovando, meglio che in Descartes, propugnatori e sostenitori.

4. Già, molto prima, Leonardo, a dire di G. Libri, aveva accennato a una propagazione per onde, ma spetta a F. M. Grimaldi l'aver tentato di costruire una teoria, in certo suo modo, ondulatoria dei fenomeni luminosi (pubblicata postuma nel 1665). Generalmente, quando si parla di onde in un fluido, s'intende un movimento locale che si sposta in seno al fluido senza per altro che vi sia, legato all'onda, un movimento progrediente del fluido stesso; cioè, come diceva Leonardo, riferendosi all'acqua: "il moto dell'impressione fia solamente accompagnato dall'impeto e non dal moto della medesima acqua". Invece Grimaldi fa consistere la luce in un fluido di cui le particelle si muovono, con velocità finite grandissime, di moto progrediente rispetto alla sorgente luminosa, combinato con "creberrimis arctissimisque undulationibus". E queste particelle che si muovono, dunque, su traiettorie "sinuose crispatae", serpeggiando intorno al raggio luminoso, non hanno "inter illas perpetuam aequidistantiam": in questi serpeggiamenti non coerenti consistono le "undulationes" di Grimaldi. Di lui si ricorda spesso l'esperimento consistente nell'intercettare sopra uno schermo chiaro i due coni di luce, ottenuti illuminando direttamente col sole "duo parva foraminicula" praticati nell'imposta della finestra: quando le due intersezioni erano appena sovrapposte ivi, Grimaldi osservava giuochi d'ombre che lo portarono a quel suo paradosso: "lumen aliquando per sui communicationem reddit obscuriorem superficiem corporis aliunde, ac prius illustratam"; ma è difficile riconoscere in questo esperimento, nel quale i due fori sono illuminati con sorgente estesa, un esperimento di frange interferenziali. Piuttosto a lui si deve la scoperta dei fenomeni interferenziali di diffrazione ai bordi delle ombre di corpi illuminati con sorgenti puntiformi; e si deve anche la realizzazione di spettri di diffrazione catottricamente e diottricamente ottenuti da superficie finamente striate. Da questi studî egli fu tratto ad affermare che i colori sono ancora vera luce differenziata per natura e velocità del movimento ondulatorio. Questa affermazione, invero assai vaga, delle relazioni fra ondulazione e colore, fu da N. Malebranche meglio precisata (1674) con l'introdurre, per analogia acustica, la frequenza (promptitude) della vibrazione.

5. Con Grimaldi sostenevano la concezione ondulatoria R. Hooke e J. G. Pardies. A Hooke si deve una teoria vibratoria dell'universo (1665), alla quale si riattacca quella della luce: questa è propagata con velocità infinita "con semplici e uniformi pulsazioni o onde, che sono ad angolo retto con la linea della direzione". L'opera di Pardies, che doveva costituire anch'essa una teoria vibratoria dell'universo, benché incompleta (1673), ebbe influenza grandissima su Huygens, il primo vero costruttore della teoria ondulatoria della luce. Questi immagina (1678) "una certa materia" riempiente tutto lo spazio alla quale dà il nome di "ether" (assegnando così alla parola significato diverso da quello aristotelico) e ammette che, similmente al suono nell'aria, la luce consista in un movimento dell'etere "per superficie e onde sferiche". Queste onde che si spostano "con movimento successivo" non trasportano "la materia eterea": esse quindi sono proprio onde in senso vinciano. Inoltre nel progredire del movimento "c'è bisogno di tempo"; e ciò era confermato dalla recente scoperta (1676) di O. Römer sui ritardi e anticipi delle eclissi del primo satellite mediceo. Con l'ascrivere questi ritardi e anticipi, altrimenti inspiegabili, alle durate di tempo, variabili con le posizioni relative di Giove e della Terra, impiegate dalla luce a pervenirci, la velocità di propagazione della luce stessa fu allora stimata (1678) da Huygens di "16 ⅔ diametri [della Terra] in un secondo o battito d'arteria" o presso a poco di 212.000 km./sec. Le onde non hanno per Huygens carattere di periodicità; sono pulsazioni longitudinali staccate, incoerenti tra loro, che, singolarmente generate per scotimento delle ultime particelle del corpo luminoso, si propagano mantenendosi a queste concentriche. Secondo Huygens due sono le possibili maniere di concepire l'etere: o "che le sue particelle siano distanti tra di esse, con molto vuoto tra due, o ch'esse si tocchino, ma che il tessuto di ciascuno sia rado e intramezzato con molti spazî vuoti". Tra le due congetture Huygens accetta la seconda perché non gli sembra possibile spiegare altrimenti sia la velocità grandissima di propagazione della luce sia il meccanismo della gravitazione sia la perennità dei moti celesti. L'incrociarsi di molte onde in un medesimo punto dell'etere non genera in esse confusione, perché una medesima particella eterea può trasmettere a uno stesso istante impulsi diversi, similmente a ciò che avviene nell'esperimento di E. Mariotte sull'urto elastico. Nella propagazione di un'onda, ogni particella eterea trasmette il movimento alle particelle contigue in modo che, giro giro a essa, si forma un'onda secondaria che si propaga indipendentemente. L'inviluppo delle onde secondarie, generate da una medesima onda e prese nelle loro posizioni a un medesimo istante, costituisce l'onda nella posizione occupata all'istante considerato. In questo modo di concepire la propagazione, il quale forma il "principio di Huygens" (1678), manca qualunque considerazione sulla luce di ritorno che sarebbe prodotta, contrariamente all'osservazione, dalle onde secondarie. Nell'interpretazione dei fenomeni luminosi Huygens fa largo uso di questo principio, opportunamente arricchito, volta per volta, di particolari ipotesi: così mentre la riflessione ne discende immediata, conviene supporre per la propagazione rettilinea che le onde secondarie siano singolarmente tanto tenui da rendere inapprezzabile la luce portata, nei coni d'ombra, dalle onde secondarie prodotte nella zona di separazione fra cono d'ombra e onde inviluppo; e così pure la rifrazione e la riflessione totale discendono da quel principio, posto che la velocità di propagazione sia minore nei mezzi più densi. A tal proposito conviene notare che l'indice di rifrazione acquista presso Huygens, cioè nella teoria ondulatoria, significato inverso a quello assegnatogli dalla teoria corpuscolare. Huygens cercò anche di adattare la sua concezione ondulatoria ai fenomeni della doppia rifrazione allora da poco scoperta (1669) e illustrata da E. Bartholin. Huygens a un unico impulso dall'esterno suppone che si formino, nello spato, due onde indipendenti: una, ordinaria, trasmessa dall'etere contenuto nel cristallo, l'altra, straordinaria, trasmessa insieme da etere e particelle del cristallo. Su questa ipotesi egli riesce a dare (per lo spato) la costruzione di due raggi e la forma della superficie d'onda che risulta composta di una sfera (propagazione ordinaria) e di un'ellissoide di rotazione (propagazione straordinaria) intorno all'asse principale cristallografico, tangenti tra loro nei punti d'intersezione con l'asse. Ma circa i fenomeni, da lui stesso scoperti e studiati, relativi al comportarsi dello spato, per luce uscente da altro spato, e che lo avevano spinto ad affermare che l'onda dopo l'attraversamento dello spato acquista una "certa forma o disposizione" che prima non aveva, Huygens, dandosi per vinto, doveva dire "come ciò avvenga, non ho trovato sinora niente che mi soddisfi". Il difetto di questa concezione era nell'ipotesi dell'oscillazione longitudinale, che impediva, per ragioni di simmetria, d'immaginare quale alterazione in "forma o disposizione" potesse avvenire nel raggio luminoso.

6. Un fluido riempiente lo spazio sembrava a I. Newton contrastare la perennità dei moti celesti e similmente sembrava a lui impossibile spiegare la propagazione rettilinea della luce con onde o vibrazioni di un fluido che, come nel caso del suono, si sarebbero continuamente e grandemente piegate nell'ombra; soprattutto per queste ragioni (sulla prima delle quali ritorneremo), Newton fu contrario alla concezione ondulatoria della luce (Optice, 1704-1717). Sostanzialmente, anche se con forma diversa, egli sostenne invece, come corrispondente alla realtà, la concezione euristica di Descartes dell'emissione e propagazione per corpuscoli luminifici. Nell'ipotesi corpuscolare Newton scorgeva tra l'altro il vantaggio che nella spiegazione della rifrazione (la quale, causa l'inverso significato dell'indice nelle due teorie, costituiva il punto più sensibile e controverso) l'ipotesi bruta di una maggiore velocità dei corpuscoli nei mezzi più densi poteva esser ricondotta alla conseguenza di un'ipotetica attrazione sui corpuscoli, esplicata dai mezzi stessi e tanto più forte quanto più questi sono densi. Ipotesi quest'ultima che a lui, scopritore dell'attrazione universale, e per più di un secolo a tutti i fisici, doveva apparire facilmente accettabile e naturale. Attribuendo ai diversi colori corpuscoli di diversa massa, via via crescente dal violetto al rosso, Newton cerca, erratamente, di spiegare la dispersione con la diversa attrazione. Per render conto poi come una stessa superficie possa, a un tempo, riflettere e rifrangere, bisognava ammettere che l'attrazione agisse "per intervallum aliquod interiectum" sui corpuscoli incidenti; e questo porta Newton a immaginare che le singole particelle luminifiche presentino "vices facilioris transmissus" alternate periodicamente con "vices facilioris reflexionis". Di queste vices", il cui periodo è legato al colore sì da essere via via più breve andando dal rosso al violetto, si valse Newton per spiegare anche i fenomeni cromatici presentati dalle lamine sottili: essi vengono da lui attribuiti a selezione di colori prodotta dal fatto che un corpuscolo penetrato in una lamina sottile, quando giunge alla seconda superficie, viene trasmesso o riflesso dipendentemente dall'"intervallum vicium" (cioè dal colore), dalla sua velocità e dalla grossezza della lamina. Inoltre i fenomeni di diffrazione (inflessione) spingono Newton ad ammettere l'esistenza d'altre forze fra corpuscoli e corpi diffrangenti. Infine la birifrangenza e le alterazioni subite dalla luce dopo il passaggio nei cristalli fanno a Newton prospettare vagamente l'ipotesi che i corpuscoli posseggano, come i magneti, una polarità. Concezione dunque, questa corpuscolare di Newton, estremamente macchinosa e farraginosa. Eppure egli aveva a lungo e a più riprese meditato sulla questione dell'etere; aveva stimato l'influenza di esso sui moti celesti (ritenendola insensibile anche in un intervallo di diecimila anni), ne aveva confrontato l'elasticità e la densità con quelle dell'aria e forse anche non sdegnava di chiamarlo a partecipare alle "vices" corpuscolari. Ma Newton, che nei suoi primi studî sulla luce aveva visto come il colore potesse nella teoria ondulatoria legarsi con la lunghezza d'onda eterea, pure non seppe superare le difficoltà sopra accennate, alle quali sono forse da aggiungere quelle provenienti dalla maggiore complessità della trattazione matematica del movimento ondoso in confronto di quella del movimento di corpuscoli. Di tutta la concezione newtoniana dei fenomeni luminosi, solo il concetto in verità fecondissimo, di periodicità coerente, legata al colore e in generale alla luce, da lui introdotto attraverso le "vices", doveva, sia pure sotto altra forma, rimanere in tutti gli ulteriori sviluppi teoretici.

7. Nonostante questo farraginoso meccanismo della teoria newtoniana, l'autorità di Newton prevalse presto sulla teoria ondulatoria, sicché tutto il sec. XVIII fu improntato negli studî sulla luce alla concezione corpuscolare. Solo L. Euler tentò, senza fortuna, di riprendere quella ondulatoria precisando che ad ogni colore spetta una data lunghezza d'onda e che il bianco è costituito da un insieme policromo di onde elementari. Veramente il sec. XVIII fu, nella sua stasi sulle posizioni concettuali conquistate da Newton, secolo d'intensa preparazione teorica e tecnica: si organizzavano e si rendevano di sempre più ampia applicazione i metodi infinitesimali, si perfezionava la trattazione analitica della meccanica, si fondava su basi scientifiche la cristallografia, si affinavano tutte le osservazioni e determinazioni; si migliorava la tecnica della lavorazione del vetro e del taglio dei cristalli, si perfezionavano i sistemi ottici e, in generale, tutte le costruzioni degli strumenti fisici. E sebbene gli scienziati, nel loro favore per Newton, scherzassero sulle teorie eteree ("i fisici si prendono la libertà di immaginarlo [l'etere] a loro capriccio", scriveva J. d'Alembert) tuttavia erano punti dal desiderio di raggiungere la prova cruciale fra le due concezioni: la corpuscolare e l'ondulatoria. Naturalmente la prova doveva vertere là dove più sensibile era il dissidio: l'interpretazione della legge dei seni che nella prima concezione portava a una velocità maggiore nei mezzi di maggior densità, nella seconda, a una velocità minore. Fu primo l'italiano R. Boscovich (v.), anch'esso fautore della teoria corpuscolare, a escogitare e proporre (1766) un esperimento in tal senso. Ecco come: una delle importanti conseguenze dei perfezionamenti introdotti nelle osservazioni era stata la scoperta, compiuta (1728) da J. Bradley, dell'aberrazione stellare. Da essa erano discese e la conferma del moto orbitale terrestre e una nuova determinazione della velocità di propagazione della luce, in discreto accordo con quella (secondo Newton di circa 155.555 miglia inglesi al sec., cioè di 250.000 km./sec.) dedotta dalle più precise applicazioni del metodo di Römer. Alla scoperta di Bradley si riconnette la proposta di Boscovich. Si punti, dice questi, una stella con un cannocchiale riempito d'acqua; per il fatto che in questa la luce ha una velocità diversa che nell'aria, l'aberrazione della stella dovrebbe sensibilmente diminuire o aumentare di circa 5″ (giusto i calcoli di Boscovich, criticati già nel 1782 da B. Wilson) secondoché la velocità nell'acqua è maggiore o minore, come inversamente pretendono le due teorie newtoniana e huygensiana. Questo ingegnoso esperimento non fu però tentato né da Boscovich, né da altri fino alla seconda metà del secolo successivo; del resto esso, come vedremo, non avrebbe valso a risolvere la questione per cui veniva proposto.

Dal 1800 al 1850. - 8. Il sec. XIX segna il ritorno e il sopravvento della teoria ondulatoria. Geniale iniziatore della ripresa fu Th. Young che, applicato (1801-1803) il concetto di periodicità al movimento ondoso, inteso come moto locale oscillatorio longitudinale (cioè che avviene nella direzione del raggio) delle particelle eteree, richiamata la lunghezza d'onda e infine valendosi del principio della sovrapposizione dei piccoli spostamenti (già precisato da D. Bernoulli), introduce il concetto fecondo d'interferenza. Se due raggi partiti da una medesima sorgente puntiforme, dopo avere percorso cammino leggermente disuguale, s'incontrano in un medesimo punto giungendovi con direzioni sensibilmente parallele, il movimento ondoso risultante in questo punto sarà rinforzato o annullato secondo che i movimenti di va e vieni, che le particelle eseguirebbero per effetto dell'una o dell'altra onda separatamente, sono in concordanza o in opposizione, cioè secondo che la differenza dei cammini percorsi è uguale a un numero pari di mezze lunghezze d'onda o a un numero dispari: nel primo caso si avrà aumento d'intensità luminosa, nel secondo oscurità, nei casi intermedî effetti intermedî. A conforto di questa concezione interferenziale (che, da notarsi, Young aveva trovato già applicata, in un caso idrodinamico, da Newton per spiegare le maree anomale della Cina), Young stesso presenta il suo noto esperimento interferenziale con luce diffratta, ricavato da quello di Grimaldi con sostanziale modificazione. Consiste questa nell'illuminare i due "parva foraminicula" non direttamente con la luce del sole, ma con la luce proveniente da un terzo foro, illuminato, esso, direttamente dal sole o altra sorgente; in queste condizioni (che realizzano due fasci di luce costituiti da onde emesse da una stessa sorgente puntiforme) si scorgono, nella regione dove i due fasci dilatati per diffrazione si sovrappongono, bande alternativamente oscure e chiare (queste iridate o no a seconda che la hce adoperata è bianca o monocromatica) le quali, nell'interpretazione ondulatoria, provengono dall'annullamento o dal rinforzamento del movimento ondoso: sono le bande o frange d'interferenza. Sulla base della concezione interferenziale fu facile a Young spiegare i fenomeni cromatici mostrati dalle lamine sottili; e i colori presentati dalle superficie striate; inoltre a lui stesso si deve l'intuizione (1807) che il calore raggiante (allora da poco indagato da W. Herschel, W. Wollaston, e poi da J. Leslie, H.-B. de Saussure, B. Rumford, ecc.) doveva solo differenziarsi dalla comune luce per maggiore lunghezza d'onda. La concezione ondulatoria, anche dopo il perfezionamento introdotto da Young col concetto d'interferenza, fu fortemente contrastata: messa villanamente in ridicolo in Inghilterra e aspramente criticata in Francia, pure trovò qui, in A. Fresnel, chi l'accolse, la difese, e la sviluppò sì validamente che essa poi s'impose al mondo scientifico.

9. Quando A. Fresnel cominciò (1814-1815) a occuparsi di questioni riguardanti la luce, grandi conquiste sperimentali erano state conseguite dal principio del secolo nello stesso campo d'indagine. Accanto ai già ricordati esperimenti di Herschel che prolungavano lo spettro dalla parte del rosso, W. J. Ritter aveva trovato un corrispondente prolungamento dalla parte del violetto; L. Malus aveva riconosciuto che la riflessione vitrea, la rifrazione, il passaggio attraverso uno spato, conferivano al raggio luminoso particolarità diverse nei varî azimut intorno al raggio stesso (fenomeno, questo, da lui detto di polarizzazione e allora interpretato come una prova dell'ipotesi newtoniana della polarità nei corpuscoli); Malus stesso aveva studiato le particolarità della polarizzazione; F. Arago aveva scoperto il fenomeno della polarizzazione rotatoria, i fenomeni cromatici dati da lamine cristalline con luce parallela polarizzata; J.-E. Bérard la polarizzazione delle radiazioni calorifiche; D. Brewster i fenomeni cromatici con luce polarizzata convergente, alcune particolarità dei cristalli biassici, la legge per la completa polarizzazione nella riflessione o rifrazione vitrea, ecc.: Fresnel aveva quindi una messe sperimentale immensa da ordinare e interpretare.

10. Le prime concezioni (1815-1818) di Fresnel, frutto dei suoi studî sulla diffrazione e sulle interferenze, si possono così raccogliere: a) La propagazione della luce è dovuta a periodico movimento ondulatorio longitudinale, di carattere elastico in un mezzo, etere, pervadente tutto lo spazio. Fra periodo τ, lunghezza d'onda λ, velocità di propagazione v, intercede la relazione λ=v•τ; τ, e quindi (nel caso di v costante) λ individuano il colore. b) Il movimento in un punto è la risultante dei movimenti che ivi avrebbero luogo separatamente per effetto delle singole sorgenti luminose. c) Il più semplice movimento vibratorio di una "molecola eterea" è rappresentabile con l'equazione y = A sen [2π(t/τ) − ϕ] dove t è il tempo, y lo spostamento (propriamente Fresnel intende la velocità) della particella eterea; [2τ(t/τ)−ϕ] la fase, ϕ la costante di fase, A l'ampiezza. L'intensità luminosa è proporzionale ad A2. Poiché lungo un raggio la y si riproduce identicamente per ogni intervallo di cammino λ, lo stato di vibrazione lungo il raggio stesso è rappresentabile per l'istante t e l'ascissa x, con l'equazione y = A sen 2 π [(t/τ) − (x/λ)]. d) L'onda è definita dall'identità di fase per tutti i suoi punti e il raggio le è normale (nei mezzi omogenei isotropi). Le vibrazioni di un'onda luminosa in ognuno dei suoi punti possono essere considerate come la somma dei movimenti elementari che vi invierebbero nello stesso istante, agendo isolatamente, tutte le parti di questa onda considerata in una qualunque delle sue posizioni anteriori (principio d'Huygen-Fresnel). f) Alcune considerazioni complementari fanno escludere il ritorno indietro dell'onda e mostrano che l'azione prevalente delle onde secondarie si esplica in direzioni vicine a quella del raggio. Conseguenza immediata di queste posizioni (particolarmente dei punti a, b, c), è il calcolo dell'interferenza, intesa in senso lato, cioè di sovrapposizione di luce a luce isocromatica. Siano due raggi luminosi emessi da sorgenti isomonocromatiche (esperimento di Young) che dopo i percorsi rispettivamente x1, x2 giungano in un medesimo punto dello spazio; se quindi gli spostamenti, separatamente prodotti da essi, sono rappresentabili con

il movimento risultante sarà:

essendo χ costante e posto

Quindi se ψ = (2 k + 1)/2 (essendo k un intero) e se A1 = A2 si avrà A = 0, cioè oscurità; se invece ψ = (2 k)/2 e A1 = A2 si avrà A2 = 4 A12 cioè intensità quadruplicata.

11. L'accordo mostrato sperimentalmente da A. Fresnel fra le particolarità dei fenomeni di diffrazione e la teoria quantitativa di questi da lui svolta sui fondamenti ipotetici or ora indicati, costituì subito una grande vittoria per la teoria delle ondulazioni. S.-D. Poisson, fautore della teoria newtoniana, sostenne in contraddittorio (1818) che la teoria ondulatoria avrebbe portato al seguente assurdo: accecando un'onda luminosa (sferica, piana) con un piccolo schermo circolare, l'intensità sui punti dell'asse del cono d'ombra sarebbe stata (a distanza opportunamente grande) la stessa che se lo schermo non fosse interposto. L'esperimento si trovò d'accordo proprio con la previsione, creduta assurda, di Poisson e così l'obiezione si mutò in conferma della teoria ondulatoria. Fresnel presto passò allo studio sperimentale di fenomeni interferenziali con fasci luminosi di ampia apertura e non diffratti, ideando e realizzando il celebre esperimento degli specchi del quale "la sola teoria delle vibrazioni poteva dare l'idea". La luce, resa monocromatica, proveniente da un sottile foro S, illuminato col sole, o altra intensa sorgente, si riflette sulle prime facce di due lastre di vetro perfettamente piane delle quali le altre facce sono annerite per impedire una seconda riflessione; l'inclinazione delle due lastre (che costituiscono i due specchi di Fresnel) è piccolissima in modo che le due immagini virtuali di S risultino molto vicine tra loro, e la luce incide quasi normalmente sugli specchi (così disponeva giustamente Fresnel per diminuire i fenomeni diffrazionali, pratica poi abbandonata). Nei punti P della zona dove i due fasci riflessi si sovrappongono, è facile scorgere (con un oculare, ad es.) le frange interferenziali luminose o oscure secondo che le differenze tra le distanze di P dalle imagini di S risultano uguali a un multiplo pari di mezze lunghezze d'onda o a un multiplo dispari. Le frange sono tanto più distanziate fra loro quanto più le due immagini sono vicine, e risultano naturalmente iridate se si usa luce bianca. L'esperimento si presta agevolmente alla determinazione delle lunghezze d'onda relative ai varî colori: le quali risultano così, per la luce bianca, comprese all'incirca fra 7600 (rosso cupo) e 3930 (violetto estremo) centimilionesimi di cm.

12. Arago osservò che sarebbe stato "curioso" cercare cosa avvenisse facendo interferire fasci polarizzati. La disposizione degli specchi di Fresnel non prestandosi, fu da Arago e Fresnel sostituita con la disposizione interferenziale con luce diffratta di Young, interponendo sistemi polarizzanti davanti ai due diaframmi. I due scienziati francesi così scoprirono (1816) che le frange d'interferenza, mentre apparivano nitide quando i piani di polarizzazíone dei fasci interferenti erano paralleli "precisamente come quando si fanno agire l'uno sull'altro due raggi di luce ordinaria", si presentano via via meno nitide per angoli crescenti fra i due piani fino a scomparire completamente quando essi sono normali tra loro. Fresnel, che fino allora aveva ammesso vibrazioni longitudinali, intuì subito (1816) che l'esperimento poteva spiegarsi ammettendo invece che le vibrazioni della luce polarizzata avvenissero nel piano dell'onda con posizione fissa rispetto al piano di polarizzazione; ma la difficoltà di spiegare il passaggio dall'un tipo di vibrazione (longitudinale) all'altro (trasversale) passando la luce da naturale a polarizzata, lo trattenne sulle prime dal seguire questa spiegazione. Solo qualche mese più tardi, in seguito a profonda riflessione, egli riconobbe "ch'era assai probabile che il movimento oscillatorio delle onde luminose avvenisse unicamente secondo il piano di tali onde, tanto per la luce diretta, quanto per la luce polarizzata"; con questa differenza, che mentre nella luce polarizzata il piano di vibrazione è fisso lungo tutto il raggio (finché questo non subisca accidenti), nella luce naturale esso varia rapidamente e continuamente intorno alla direzione di propagazione: sicché "l'atto della polarizzazione non consiste nel creare movimenti trasversali, ma nel decomporli secondo due direzioni ortogonali invariabili". Per un complesso poi di considerazioni varie Fresnel fu portato ad ammettere che la vibrazione fosse perpendicolare al piano di polarizzazione. Anche Young, edotto degli esperimenti di Arago e Fresnel, esprimeva per suo conto, ma in maniera molto confusa e solo come artificio matematico, l'ipotesi della trasversalità delle onde. Spetta però a Fresnel non solo l'autonoma intuizione, ma la precisazione della concezione e l'utilizzazione di essa nei problemi di luce polarizzata. Con la trasversalità delle onde, l'interferenza, intesa in senso lato (sovrapposizione di luce a luce isocromatica), conduce a risultati completamente nuovi, giacché la composizione di movimenti pendolari, in uno stesso piano, comunque diretti, porta notevole varietà di casi: sorgono così la luce polarizzata ellitticamente, circolarmente, rettilineamente (v. polarizzazione) che costituiscono una delle conferme più solide della concezione fresneliana. Come abbiamo detto, Fresnel immagina che il movimento ondoso avvenga, sia nello spazio vuoto di materia, etere, sia nei mezzi materiali, per forze elastiche provocate dalle stesse perturbazioni ondose. Inoltre l'etere è immaginato permeare tutti i corpi nei quali, mantenendo immutata elasticità, acquisterebbe densità maggiore. Nel caso di corpi omogenei isotropi le forze (elastiche) sono naturalmente dirette contro gli spostamenti e hanno grandezza proporzionale a questi; negli omogenei anisotropi Fresnel mostra che ciò avviene solo per tre privilegiate direzioni a due a due ortogonali. Fresnel tentò anche di dare una spiegazione di come si formassero le onde trasversali e introdusse alcune ipotesi sulle vibrazioni alla superficie di separazione di due mezzi e sulle fasi dei fasci, incidente, riflesso e trasmesso. Su queste basi, veramente non esenti, in alcuni punti, da gravi censure, egli riuscì, più che altro per potenza d'intuito, a risolvere e il problema della riflessione e rifrazione vitrea delle onde piane (celebri le sue "formule" a tal proposito) e quello della propagazione ondosa nei corpi cristallini (v. riflessione; cristalli) e dei varî fenomeni connessi. Senza entrare in ulteriori particolari, si può dunque brevemente affermare che Fresnel riuscì a fornire la spiegazione dei principali fenomeni di propagazione luminosa, noti alla sua epoca.

13. Quando Fresnel attendeva alla sua opera, una teoria generale dell'elastiatà non era stata ancora svolta e quindi le ipotesi poste da lui stesso, circa il meccanismo elastico della propagazione ondosa, suscitarono un'infinità di discussioni e critiche soprattutto per quel che riguardava la trasversalità delle ondulazioni; discussioni e critiche le quali valsero a dare assetto teorico rigoroso a quanto Fresnel aveva raggiunto sperimentalmente e, con potentissimo intuito, interpretato. Non staremo qui a ricordare tutta la fioritura di lavori sbocciata per decennî sull'argomento e durata (benché, dopo l'avvento della teoria elettromagnetica, più con valore di esercizio matematico che di fisico significato) fino al giorno d'oggi. Si ricorda solo che matematici come S.-D. Poisson, A. Cauchy, F. e G. Neumann, G. Lamé, H. Helmholtz, G. Kirchhoff, G. Green, legarono i loro nomi a queste ricerche nelle quali, tuttavia, rimasero sempre arbitrarietà e difficoltà gravi inerenti alla natura stessa del problema del movimento ondoso trasversale per forze elastiche. In particolare esse si manifestano nelle condizioni ai limiti di separazione di due mezzi: si riconosce infatti che le variabili disponibili sono solo quattro mentre le equazioni da soddisfare sono sei e ciò esige particolari ipotesi che riducano il numero delle equazioni o crescano quello delle variabili. Qui, limitando le nostre considerazioni alla propagazione in un mezzo isotropo, anzi in particolare nell'etere, si può dire che sostanzialmente questo enorme lavoro si concluse (verso il 1840-1850) con l'affermare essere l'etere come un corpo solido rigido perfettamente elastico e incomprimibile, nel quale la propagazione avviene per onde trasversali giusta le equazioni

essendo S lo spostamento (vettore) della particella generica eterea, v la velocità di propagazione (nel vuoto uguale per tutti i colori). La prima equazione è sostanzialmente quella di d'Alembert; la seconda traduce l'incompressibilità del fluido e assicura la trasversalità delle ondulazioni.

Per un'onda luminosa (piana) periodica sinusoidale di periodo τ e lunghezza d'onda λ l'integrale della (1) può scriversi, riferendosi al raggio come asse x, S = S0 sen 2 π [(t/τ) − (x/λ)] che coincide con la rappresentazione già usata da Fresnel, ove s'immagini che y esprima la grandezza dello spostamento trasversale. Questa concezione di un etere solido, rigido, sollevava palesemente enormi difficoltà nello spiegare la libertà di movimento posseduta attraverso ad esso dai corpi, in particolare da quelli celesti, e rendeva spontaneo il pensare che la terra, col suo moto orbitale (velocità di circa 30 km./sec.) dovesse esser soggetta come ad un vento di etere e in pari tempo produrre un trascinamento di esso.

14. Di questo problema Fresnel fu portato ad occuparsi in seguito a un esperimento di Arago. Se con un cannocchiale, fornito davanti alla lente obiettiva di un prisma acromatico ad angolo molto acuto, si puntano stelle trovantisi nella direzione del moto orbitale della terra e situate da parti opposte rispetto a questa, lo spostamento dell'immagine generato dal prisma dovrebbe, secondo Arago, sensibilmente variare nelle due opposte osservazioni per effetto dell'opposto modo col quale nel prisma si comporrebbero la velocità orbitale della terra e quella della luce. A seconda poi che valga la teoria ondulatoria o la corpuscolare, contraria sarebbe la variazione dello spostamento e quindi l'osservazione di questa variazione potrebbe discriminare le due teorie. Ma, nonostante che la sensibilità strumentale fosse sufficiente a rivelare spostamenti dell'ordine previsto (circa 12″), nessuno spostamento fu in realtà osservato da Arago (1809-1810). Mancò così la discriminazione cercata, ma si apprese in compenso che il movimento terrestre non ha alcuna influenza sulla rifrazione. Fresnel, edotto, alcuni anni più tardi, dell'esperimento di Arago, mostrò che "supponendo la Terra abbastanza porosa perché essa imprima all'etere che la penetra e la circonda soltanto una piccolissima parte della sua velocità, non eccedente un centesimo, p. es., si poteva spiegare in maniera soddisfacente non solo l'aberrazione stellare, ma anche tutti gli altri fenomeni ottici complicati dal movimento terrestre". La frase "non soltanto l'aberrazione stellare" è per avvisare il lettore che l'ipotesi del parziale trascinamento non si fa praticamente risentire nell'interpretazione dell'aberrazione la quale nella teoria ondulatoria "risulta dallo spostamento del cannocchiale mentre la luce lo percorre". Fresnel previde anche, basandosi sulla stessa ipotesi, che la ricerca suggerita da Boscovich avrebbe dato, come quella che F. Arago con lo stesso scopo aveva ideato e realizzato, risultato nullo: previsione questa che ebbe poi conferma da L. Respighi (1861, in una variante dell'esperimento proposta da Boscovich stesso) e da G. Airy (1871).

15. Arago, che (occorre dire) non era né convinto della teoria corpuscolare newtoniana, né del tutto di quella ondulatoria fresneliana (egli non ammise mai la trasversalità delle onde) era, forse più che mai dopo l'insuccesso dell'esperimento astronomico e più che ogni altro, spinto a escogitare esperimenti discriminatori tra le due teorie. E infatti nel 1838 eccolo proporre un sistema d'esperimenti diretti a questo scopo i quali si fondano essenzialmente sull'uso dello specchio rotante (allora da C. Wheatstone usato in ricerche d'elettricità). Degli esperimenti proposti da Arago ricordiamo il seguente che maggiormente si riconnette con quelli effettuati poi da L. Foucault e da H. Fizeau-L. Bréguet. Due sorgenti luminose puntiformi poste l'una presso l'altra sulla stessa verticale brillino istantaneamente e contemporaneamente davanti a uno specchio rotante intorno a un asse verticale. La luce dell'una sorgente giunga allo specchio attraverso l'aria, l'altra attraverso un liquido trasparente (acqua o solfuro di carbonio): causa le differenti velocità di propagazione la luce della prima sorgente giungerà sullo specchio in ritardo (teoria corpuscolare) o in anticipo (teoria ondulatoria) rispetto alla luce emessa dall'altra. In ogni caso lo specchio verrebbe a trovarsi in posizioni diverse al giungere della luce emessa dall'una o dall'altra sorgente e quindi dei raggi riflessi verrebbe maggiormente deviato quello che giungesse in ritardo. Dalle osservazioni delle deviazioni sarebbe dunque possibile decidere quale delle due teorie corrisponda ai fatti. Arago prevedeva che per aver deviazioni sicuramente apprezzabili sono sufficienti percorsi luminosi di una decina di metri e velocità angolari dello specchio corrispondenti a circa mille giri per secondo. Ma egli non poté, per cause varie, attuare gli esperimenti, e il suggerimento di usare lo specchio rotante fu più tardi raccolto da L. Foucault e da H. Fizeau. Questi veramente aveva già, nel 1849, determinato col suo metodo della ruota dentata la velocità di propagazione della luce nell'aria: ma la disposizione sperimentale richiedendo chilometri di percorso luminoso non poteva venir adottata per confronti in mezzi diversi. Alla ricerca indicata da Arago si mossero Foucault e Fizeau in collaborazione; poi, separatisi, vennero tra loro in gara a chi primo giungesse nel risolvere la grave questione; e primo giunse Foucault usando una disposizione sperimentale felicemente dedotta da quella di Arago.

Da una sorgente luminosa fissa parte, convogliato da una lente, un fascio luminoso che incide sullo specchio piano ruotante s. Per tutte le posizioni di s contenute entro uno stretto angolo a, il fascio è rinviato da s sopra uno specchio concavo S, fisso, avente il centro in s, in modo che quando s è fermo in una delle posizioni a il fascio dallo specchio S ritorni in s ripassando esattamente sulla via d'andata, attraversi la lente e formi della sorgente un'immagine che può essere osservata comodamente interponendo fra lente e sorgente una lamina inclinata separatrice. Se s ruota, dato il tempo che la luce impiega ad andare da s a S e da S a s, il fascio di ritorno trova lo specchio s non più nella posizione che questo stesso aveva all'andata della luce, ma ruotato di un piccolo angolo; quindi il fascio stesso è rimandato non esattamente sulla via per la quale è venuto e l'immagine si sposta. Lo spostamento è apprezzabile con qualche decina di metri di percorso tra s e S e velocità angolari dello specchio corrispondenti a circa ottocento giri al secondo. Dagli spostamenti osservati si può, conoscendo la velocità angolare dello specchio, le lunghezze dei percorsi, ecc., agevolmente dedurre la velocità di propagazione della luce. Disponendo poi un secondo specchio concavo S′ uguale a S che faccia con s lo stesso giuoco di riflessioni fatto da S, e interponendo sul percorso d'uno dei cammini fra s e S, S′ una colonna d'acqua, ad es., si possono agevolmente confrontare le velocità di propagazione nell'acqua e nell'aria. L'esperimento mostrò (1850) a Foucault, che la velocità di propagazione nell'acqua è minore che nell'aria; poco dopo, lo stesso anno, H. Fizeau e L. Bréguet con una disposizione simile a quella di Foucault confermarono questo risultato. E così la teoria newtoniana riceveva il colpo mortale. Passando poi da esperimenti qualitativi a determinazioni quantitative, Foucault poté misurare la velocità di propagazione nell'aria, trovandola in buon accordo con quella dedotta con il metodo di Fizeau. L'applicazione ripetuta e sempre più perfezionata dei due metodi, cui si aggiunse più tardi quello di O. Mittelstaedt (1928), che sostituisce alla ruota otturatrice due celle di Kerr, e un'analisi critica dei risultati ottenuti, porta oggi a fissare la velocità di propagazione della luce nel vuoto in 299.796 km./sec. ± 4 km./sec. (T. Birge, 1931). I due metodi astronomici dànno invece un valore lievemente ma sistematicamente inferiore, di cui non si trova ancora spiegazione plausibile. Da confronti eseguiti col metodo di Foucault fra le velocità di propagazione nell'aria e in altri mezzi (acqua, solfuro di carbonio), è risultato che il rapporto di dette velocità determinate per le varie lunghezze d'onda, non coincide con l'indice di rifrazione, ma ne risulta sistematicamente tanto più grande quanto maggiomente la sostanza è dispersiva. Ciò proviene, come più tardi (1881) ebbe a rilevare lord Rayleigh, dal fatto che la determinazione delle velocità è compiuta, causa le interruzioni provocate dallo specchio, su treni d'onde staccati tra loro, ognuno dei quali, poiché non è mai costituito di luce rigorosamente monocromatica, ma solo quasi monocromatica, presenta (causa la dispersione del mezzo in cui esso si propaga), tutta una gamma di velocità di propagazione relative alle diverse luci monocromatiche che lo costituiscono. In queste condizioni al gruppo delle velocità (dette di fase) delle singole luci monocromatiche viene negli effetti a sostituirsi una velocità di gruppo U che è quella fornita dal metodo di Foucault. La U, generata per giuoco di battimenti tra le singole perturbazioni componenti monocromatiche, è legata alla velocità di fase v relativa alla frequenza media della luce quasi monocromatica considerata, dalla relazione U = v [1 + (λ/n) (∂n/∂λ)] dalla quale, poiché ∂n/∂λ è generalmente negativa, risulta U v, e quindi un aumento dell'indice. Nel vuoto, praticamente nell'aria, dove ∂n/∂λ = 0 il metodo di Foucault dà senz'altro la velocità di fase v.

16. Ritornando alla questione del trascinamento dell'etere, circa la quale era stata intanto (1845) proposta, dopo l'ipotesi fresneliana del parziale trascinamento, l'altra di G. G. Stokes del trascinamento totale in immediata prossimità della terra, e progressivamente decrescente allontanandosi da questa, sono da ricordare gli esperimenti (1881) di Fizeau diretti a discriminare queste due ipotesi. La disposizione sperimentale da lui impiegata è sostanzialmente quella interferenziale già usata da Arago nello studio delle piccole variazioni d'indice. Frange d'interferenza sono realizzate da Fizeau mediante due fasci di luce attraversanti acqua che può essere tenuta in quiete o fatta scorrere, rispetto a un fascio, nel verso stesso in cui procede la luce, rispetto all'altro nel verso opposto. Osservando le frange quando l'acqua è ferma o quando scorre, Fizeau trovò che esse si spostavano indicando una differenza di fase, come se la luce fosse trascinata dal moto dell'acqua. Gli esperimenti quantitativamente condotti si mostrarono completamente d'accordo con l'ipotesi fresneliana e nettamente contrarî a quella di Stokes, la quale del resto, come fu riconosciuto molto più tardi (M. Planck, 1898), contiene in sé tali contraddizioni con la dinamica generale dei fluidi da rendersi inaccettabile. Così l'esperimento di Fizeau avvalorò le concezioni di Fresnel, alle quali doveva portare il suo contributo di conferma anche il fenomeno di Chr. Doppler che nella stessa epoca (1849) era stato applicato alla luce e precisato in questo caso da Fizeau stesso. Così alla metà del sec. XIX la concezione che s'imponeva perché semplice, coerente e avvalorata dall'accordo con i fenomeni luminosi allora noti nell'ambito di tutte le radiazioni, dalle ultrarosse (celebri gli esperimenti di Melloni) alle ultraviolette, era quella che la luce, emessa per scuotimenti delle ultime particelle dei corpi emittenti, si propagasse per onde elastiche trasversali, attraverso un fluido, etere, che, riempiente tutto lo spazio, permeasse anche i corpi e fosse trascinato parzialmente da quelli in moto. Questo regno dell'etere visse in pace per due decennî circa.

Dal 1850 al 1900. - 17. L'interpretazione, basata sulle azioni a distanza, che, nella prima metà del sec. XIX, era prevalsa negli studî dei fenomeni elettrici e magnetici, fu abbandonata (tra il 1840 e il 1855) da M. Faraday, per introdurre invece l'ipotesi che le azioni tra cariche e poli fossero localizzate nei mezzi interposti e da questi stessi trasmesse. In questo ordine di idee, il vuoto doveva essere considerato come un mezzo fisico, etere (elettrico), soggetto anch'esso a stati elettrotonici, di polarizzazione, ecc. Come è noto queste concezioni furono riprese e sviluppate (1861-1868) da J. C. Maxwell. Rimandando per maggiori particolari alla voce elettricità, basti qui ricordare che la poderosa opera di Maxwell si concluse (1873): concettualmente, in una teoria dei fenomeni elettrici e magnetici interpretati come azioni elastiche nei mezzi interposti; analiticamente in un gruppo di quattro equazioni che, per un mezzo omogeneo isotropo che non sia sede di cariche elettriche libere e di correnti di conduzione, possono scriversi (nel sistema di Gauss-Hertz):

deve E, k sono la forza elettrica e la costante dielettrica (relativa), H, μ la forza magnetica e la permeabilità, t il tempo e c è una costante universale di ragguaglio. Questa c, che possiede dimensioni fisiche omogenee con quelle di una velocità, serve nelle (2) a ragguagliare le misure delle durate di tempo a quelle delle lunghezze; essa può essere sperimentalmente determinata, ad esempio, dal quoziente delle misure di una stessa carica elettrica, compiute coi metodi elettrostatici ed elettrocinetici. Nella concezione maxwelliana l'energia, elettrica e magnetica, di un sistema è localizzata nel mezzo circostante con densità (kE2 + μH2)/8π. Dalle (2) agevolmente si ottiene:

equazioni queste di propagazione di una perturbazione elettromagnetica E, H che si muova in seno al mezzo di costanti k, μ, con velocità di fase c/√kμ o nel vvoto con velocità c. Ora sia le (3), sia le (4), coincidono formalmente con l'equazione (1); e la coincidenza suggerisce di sostituire alla concezione elastica della luce, la concezione elettromagnetica. In questa la velocità di propagazione della luce dovrà essere perciò c/√kμ e nel vuoto c. Riferendosi a quest'ultimo caso così scrive Maxwell: "Basandosi sulla teoria che la luce sia un perturbamento elettromagnetico, propagato nello stesso mezzo (etere) attraverso il quale si trasmettono le altre azioni elettromagnetiche, v dev'essere la velocità della luce, quantità il cui valore è stato calcolato con diversi metodi. D'altro canto, c è il numero di unità elettrostatiche di elettricità in un'unità elettromagnetica, e i metodi per determinare questa quantità sono stati descritti... Essi sono completamente indipendenti dai metodi per trovare la velocità della luce. Quindi l'accordo o il disaccordo dei valori di v e di c presentano una prova della teoria elettromagnetica della luce". L'accordo, già buono ai tempi di Maxwell, è oggi, dopo più precise determinazioni, divenuto migliore (differenze di alcune unità per centomila), ma non è da escludere che possano forse rimanere lievissime differenze sistematiche. La velocità di propagazione della luce in un mezzo di costanti k, μ dovrebbe esser data da c/√kμ e quindi, per la stessa definizione dell'indice n di rifrazione rispetto al vuoto, si dovrebbe avere n = √kμ cioè praticamente n = √k. I confronti sperimentali dànno sconcordanze più o meno grandi circa questa previsione maxwelliana che deve, in realtà, ritenersi valida asintoticamente per frequenze estremamente basse. Per frequenze dell'ordine di quelle delle radiazioni luminose, occorre invece, come già accennò fugacemente (1865) Maxwell stesso, completare la trattazione della propagazione introducendo la considerazione di particelle (cariche), insite nel dielettrico, legate a posizioni fisse da forze di tipo elastico e soggette nelle loro oscillazioni a forze d'attrito: per questa via si giunge alle teorie elettromagnetiche della dispersione. La teoria delle onde elettromagnetiche ricevette da Maxwell il fondamento ipotetico e quello analitico che fu poi perfezionato (1887-1893) da O. Heaviside; ma non la prova sperimentale che forma la gloria di H. Hertz. Scoperte le onde elettromagnetiche (1888), fiorì rapidamente l'ottica delle onde hertziane, la quale col ripetere tutti gli esperimenti (riflessione, rifrazione, birifrangenza, polarizzazione, ecc.) già noti per la luce avvalorò la previsione maxwelliana che la luce fosse effettivamente caso particolare di una più vasta categoria di ondulazioni, le elettromagnetiche, e suggerì di assumere a primo modello delle ultime particelle emittenti o assorbenti la luce, minuscoli oscillatori-risuonatori hertziani. Accanto a questi vantaggi generali si ebbero precisazioni analogiche particolari, tra cui notevoli quelle che nella luce polarizzata (rettilineamente) il vettore forza elettrica doveva ritenersi perpendicolare al piano di polarizzazione e che i giuochi d'interferenza, e più in generale gli effetti della luce, dovevano ascriversi al vettore forza elettrica. Inoltre le difficoltà gravissime che nella teoria elastica esistono circa le condizioni ai limiti per il passaggio di un'onda da un mezzo a un altro, svaniscono automaticamente nella teoria elettromagnetica della luce dove quattro sole equazioni in quattro sole incognite traducono le condizioni ai limiti; le quali, applicate, permettono di ritrovare e precisare le formule di Fresnel. I seguenti risultati della teoria maxwelliana possono servire a fornire una chiara descrizione delle onde luminose concepite in questa teoria. In ogni punto i vettori E, H (periodici tanto nel tempo quanto nello spazio) sono ortogonali fra loro e alla direzione di propagazione in modo che guardando nella direzione di propagazione, il vettore H possa venire con giro antiorario portato sul vettore E attraverso un'angolo di 90°; le grandezze di E, H in fase tra loro sono inversamente proporzionali a √k e √μ; in ogni punto del mezzo e dell'etere esiste una densità (vettoriale) di corrente d'energia elettromagnetica pari a P = (c/4π) (E ⋀ H); poiché questo vettore P, detto di Poynting, è palesemente diretto e orientato nella direzione e verso di propagazione della luce, il raggio luminoso diviene, nell'interpretazione elettromagnetica, linea di flusso dell'energia. Queste proprietà permettono di risalire dalle misure di energia raggiante ai valori delle grandezze di E e di H: così, p. es., nel caso della radiazione globale solare sulla terra i valori (efficaci) risultano di circa 7,2 volt/cm. e o,024 gauss.

18. Tra le conseguenze previste (1873) da Maxwell è notevolissima quella della pressione che la luce deve esercitare sui corpi. L'idea dell'esistenza di una pressione prodotta dalla luce non era nuova: J. Kepler già la supponeva per spiegare la forma caratteristica delle code delle comete; alcuni sostenitori della teoria corpuscolare l'ammettevano come conseguenza dell'urto dei corpuscoli; L. Euler ne parla; Fresnel stesso aveva tentato di porla in evidenza e con lui molti altri; ma tutti senza successo. Il valore della pressione, in termini elettromagnetici, è dato da (P cos ϑ)/c (essendo ϑ l'angolo di incidenza): così, p. esempio, la pressione prodotta dalla radiazione solare sulla terra è, per l'incidenza normale, di circa 4,4•10-5 barie (v. energia raggiante). Infine, correlativamente a questa pressione dovuta a radiazione incidente, esiste pressione di radiazione per emissione o riflessione, o rifrazione. Per vie ben diverse da quelle battute da Maxwell era giunto quasi contemporaneamente (1874) alla stessa conclusione dell'esistenza di una pressione di radiazione, anche A. Bartoli basandosi sui principî della termodinamica, genialmente applicati a ideali cicli di trasformazioni (simili a quelli trattati nella termodinamica) imposti alla radiazione contenuta entro una cavità. L'esistenza della pressione, la cui prova sperimentale fu raggiunta per la prima volta nel 1899 per merito di P. Lebedev, conduce spontaneamente a immaginare la superficie illuminata come sottoposta a impulsi di forza, o la radiazione come apportatrice su essa di quantità di moto. E quindi, ricordando le relazioni tra quantità di moto, velocità e massa, s'intuisce come per questa via si possa trovar base per una concezione nella quale alla radiazione venga assegnata una massa.

19. L'esperimento suggerito da Boscovich, attuato da G. Airy, quello di Arago, entrambi escogitati per decidere tra le due teorie, corpuscolare e ondulatoria, avevano col loro risultato negativo mostrato in realtà il fatto inaspettato, attribuito da Fresnel allo stesso meccanismo luminoso, dell'impossibilità di rivelare con quegli esperimenti il moto della Terra attraverso l'etere. Di questioni ottiche collegate col moto terrestre, Maxwell ebbe occasione di scrivere sotto la voce etere nell'Encyclopaedia Britannica (9ª ed.) e in una lettera (1879) a D.P. Todd. Mamell osserva che se esiste un moto attraverso l'etere di tutto il sistema solare, quindi della Terra, le determinazioni alla Römer della velocità di propagazione della luce dovrebbero, se eseguite per le varie posizioni di Giove, lungo la sua orbita, premsentare tra loro sistematiche discordanze causate dal modo, diverso per le diverse posizioni, col quale si compone la velocità della luce col componente della velocità d'insieme del sistema preso sul piano medio di giacitura di questo. Le incertezze delle determinazioni degli istanti d'immersione ed emersione dei satelliti medicei, erano ai tempi di Maxwell e sono ancora troppo forti per poter fare i confronti suggeriti da Maxwell stesso. Il quale nella lettera a Todd esprimeva anche l'apprezzamento che in eventuali esperimenti ottici terrestri, diretti a rivelare il moto della Terra attraverso l'etere, "la luce ritorna lungo la stessa via, sicché la velocità della Terra rispetto all'etere modificherebbe il tempo del duplice passaggio di una quantità che dipende dal quadrato del rapporto tra la velocità della Terra e quella della luce, che è troppo piccolo per essere osservabile". A. Michelson (1882) rilevò che questo ultimo apprezzamento era errato e che si potevano realizzare esperimenti nei quali la "quantità" dipendente dal quadrato del rapporto delle velocità "se esiste, è facilmente misurabile". Ecco come. Frange interferenziali sono ottenute con sorgente luminosa terrestre da due fasci in andata e ritorno lungo due percorsi ortogonali fra loro, pressoché uguali, orizzontalmente disposti, di cui uno all'incirca nella direzione della tangente all'orbita terrestre. Il calcolo faceva prevedere che ruotando tutto l'apparecchio (sorgente compresa) intorno a un asse verticale, sì da scambiare tra loro di direzione i fasci interferenti, le frange si sarebbero dovute spostare di circa 8/100 della loro distanza, cioè di quantità apprezzabilissima. L'esperimento compiuto (1881) da A. Michelson stesso a Potsdam contraddisse la previsione e non indicò alcuno spostamento di frange: esso come quelli di Arago e di Boscovich non rivelava alcun vento d'etere. Il risultato dell'esperimento di A. Michelson, confermato poco dopo da Michelson stesso e da E. W. Morley (e in tempi recenti da altri sperimentatori) turbò profondamente i fisici perché né palesemente la concezione di un etere assolutamente immobile, né quella fresneliana, data la piccolezza estrema del trascinamento nell'aria, potevano spiegare il risultato stesso; e la teoria di G. G. Stokes, l'unica nella quale il risultato era agevolmente interpretato, era stata riconosciuta, come abbiamo detto, in contraddizione con gli esperimenti interferenziali di Fizeau su mezzi in moto. Tutto ciò significava che alla fisica mancava la teoria della dipendenza relativistica dei fenomeni luminosi. E, accettato il concetto che essi altro non siano che particolari fenomeni elettromagnetici, relatività dei fenomeni luminosi significava relatività dei fenomeni elettrodinamici. Già tentativi di costruzioni relativistiche dell'elettrodinamica e dell'ottica si ebbero dai fisici della fine del sec. XIX. Da ricordare particolarmente e H. Hertz e H. A. Lorentz, creatori e rappresentanti caratteristici di due opposte tendenze: l'uno di estendere all'elettrodinamica la relatività di Galileo, giovandosi di un etere localmente del tutto trascinato (1890), l'altro invece d'istituire una nuova forma di relatività pur mantenendo l'etere assolutamente immobile (1892-1895); ed è pure da ricordare G. F. Fitz-Gerald che propose (1892) l'ipotesi della contrazione dei corpi nella direzione del movimento (v. relatività). Ma la spiegazione in una teoria logicamente conseguente di tutti i fenomeni ottici (ed elettrodinamici) relativi a sistemi in moto, fu vanamente cercata e rimase per allora uno dei problemi insoluti più gravi.

20. Oggetto di lunghi studî teorici e sperimentali, nella seconda metà dello stesso sec. XIX, furono le modalità e particolaritȧ dell'emissione e dell'assorbimento. Già nel 1849 Foucault aveva posto in relazione per le righe del sodio le proprietà emissive e assorbenti dell'arco; ma spetta a Kirchhoff l'aver precisate e generalizzate le relazioni tra emissione e assorbimento. Rimandando per maggiori informazioni alla voce energia raggiante, qui basti ricordare che il Kirchhoff dimostrò (1860), basandosi sui principî della termodinamica, che, se in un corpo emissione e assorbimento sono d'origine puramente termica, il quoziente tra il potere emissivo e quello assorbente è una funzione universale della temperatura del corpo e della frequenza della luce considerata. Egli scrive: "è un problema assai importante trovare questa funzione. Vi sono grandi ostacoli contro la determinazione sperimentale di essa; tuttavia sembra fondata la speranza di poterla accertare per mezzo di tentativi, poiché essa è indubbiamente di forma semplice, come tutte le funzioni che non dipendono dalle proprietà di singoli corpi e che finora si sono conosciute. Solo quando tale problema sarà risolto, si potrà mostrare la fecondità della proposizione dimostrata". Il problema così posto da Kirchhoff, che coincide, come è noto, con la determinazione del potere emissivo del corpo nero, ebbe la sua soluzione solo quarant'anni dopo (1900) per merito di M. Planck. Prima di Planck i fisici erano giunti, perfezionando e applicando i metodi termodinamici iniziati da Bartoli, a dimostrare rigorosamente alcune proprietà della funzione di Kirchhoff (le leggi di Stefan-Boltzmann e quella di W. Wien) e avevano compiuto una grande somma di lavoro sperimentale per riconoscere la forma della funzione stessa, e, sbizzarrendosi con ipotesi, più o meno accettabili, ne avevano anche tentata la determinazione teorica. Tralasciando le teorie (W. Michelson, W. Wien) che si riconnettono alla concezione elastica, consideriamo subito il problema nella concezione elettromagnetica, la quale porta ad assimilare le ultime particelle corporee incaricate dell'emissione a minuscoli oscillatori-risuonatori hertziani. Immaginando dunque le pareti interne del corpo nero come tappezzate di minutissimi oscillatori, e che uno stato di equilibrio si formi tra materia radiante e radiazione con scambî reciproci di energia, il problema di Kirchhoff si può ridurre a un problema di statistica circa la ripartizione media dell'energia fra i varî oscillatori dipendentemente dalla frequenza e dalla temperatura. Nello studio dei fenomeni naturali, problemi di questo tipo erano già stati trattati: per es., nella teoria cinetica dei gas era stata da Maxwell determinata la ripartizione dell'energia fra le varie molecole dipendentemente dalla temperatura. Che poi, nel caso delle radiazioni, la ripartizione dell'energia fra gli oscillatori possa dipendere dalla temperatura, non deve far maraviglia se si pensa che la conformazione statistica di un qualunque sistema fisico costituito da folle d'individui (molecole, risuonatori, radiazioni, ecc.) che si scambiano energia attraverso processi elementari, è legata, per un'equazione di L. Boltzmann, all'entropia (v. termodinamica) del sistema e alla temperatura assoluta. Dopo molte ricerche e infruttuosi tentativi sul problema della ripartizione dell'energia tra i radiatori elementari, Planck fu portato a introdurre l'ipotesi, in contrasto con la dinamica ed elettrodinamica, che l'energia del generico radiatore di frequenza ν non potesse variare che per valori multipli di un medesimo "Energie-element" hν, essendo h una costante universale, ora detta di Planck, uguale a 6,57 10-27 erg. sec. Con questa ipotesi, con la quale veniva introdotta in fisica, sia pure in un caso particolare, accanto alle concezioni atomiche della materia e dell'elettricità, la concezione atomica dell'energia radiante, Planck riusciva (1900) a risolvere l'annoso problema di Kirchhoff (v. quanti).

21. Intanto il patrimonio sperimentale circa gli scambî di energia tra luce e materia si era venuto, sempre nella seconda metà del sec. XIX, ad accrescere di nuove importantissime scoperte: sono particolarmente da ricordare quella (1887) del fenomeno fotoelettrico di Hertz, quella (1895) dei raggi Röntgen, quella (1896) del fenomeno Zeeman e infine quella (1896) della radioattività. Rimandando il lettore per maggiori notizie a dette voci, qui basti ricordare quanto segue. Il fenomeno Zeeman trovava, con H. A. Lorentz (1897), una prima spiegazione (v. magneto ottica) nel supporre responsabili dell'emissione cariche elettriche oscillanti singolarmente intorno a posizioni di equilibrio, collegando l'alterazione imposta a questi moti dal campo magnetico alle alterazioni della luce emessa: spiegazione questa che per essere, almeno nei casi più semplici, concorde con i risultati sperimentali, avvalorava notevolmente l'ipotesi dell'esistenza di oscillatori elementari e della natura elettromagnetica della luce. Del fenomeno foto-elettrico - il quale costituisce una forma di passaggio da energia radiante in energia cinetica elettronica, e, reciprocamente, dei raggi X, considerati già verso la fine del secolo passato come radiazioni, i quali costituiscono una forma di passaggio inverso da energia cinetica elettronica in energia radiante - la teoria classica maxwelliana era incapace di dare la spiegazione. Infine la scoperta (E. Rutherford, P. Villard) che tra le radiazioni delle sostanze radioattive ve ne erano di quelle (dette poi γ) non deviate dal campo magnetico (1899-1900) faceva presagire la presenza di nuove radiazioni luminose (in senso lato).

Dal 1901 a oggi. - 22. Riepilogando, al principio del sec. XX la situazione delle concezioni riguardanti la luce era la seguente. Una teoria, la maxwelliana, nella quale venivano agevolmente interpretate la propagazione, la riflessione, la rifrazione, l'interferenza, la diffrazione, la polarizzazione, la dispersione, l'ottica cristallina, ecc. Una teoria, quella di Planck, sostanzialmente in contrasto coi principî dell'elettrodinamica e meccanica classica, ma capace di dare le modalità dell'emissione in un caso particolare, quello del corpo nero. Una teoria, quella di Lorentz, che convalidava singolarmente, in particolare attraverso il fenomeno di Zeeman la concezione che l'emissione venisse provocata da moti di cariche elementari (elettroni). Nessuna teoria che desse l'interpretazione dei fenomeni ottici dei sistemi in moto, del fenomeno fotoelettrico, dei raggi Röntgen e γ e dei complessi fenomeni spettroscopici.

A togliere questa disorganizzazione e incompletezza di studî, grandemente hanno valso le teorie relativistiche (1905 e segg.) di A. Einstein e lo sviluppo dei concetti di discontinuità energetiche introdotti da Planck. La soluzione dei problemi ottici dei sistemi in moto fu da Einstein cercata e trovata non con particolari ipotesi sull'etere, come già Fresnel, G. G. Stokes, Hertz, Lorentz avevano tentato, o con particolari ipotesi sui corpi, come proponeva G. F. Fitz-Gerald, ma con la precisazione dei concetti di tempo e di spazio, elementi necessarî alla nostra conoscenza e alle nostre rappresentazioni mentali. Come è noto (v. relatività), contrariamente alle concezioni newtoniane e a quelle, cui spontaneamente siamo condotti, che attribuiscono allo spazio e al tempo carattere assoluto e indipendenza di relazione, la relatività di Einstein, soprattutto nella forma datale da H. Minkowski (1907-1909) mostra che spazio e tempo sono anch'essi concetti relativi, aspetti diversi di un ordine di rapporti più generico costituito dal continuo a quattro dimensioni del cronotopo. Secondo la relatività di Einstein gl'insuccessi degli esperimenti di F. Arago, R. Boscovich, A. Michelson sono conseguenze immediate del principio generale che le leggi fisiche, quindi anche quelle inerenti alla luce, rimangono immutate per osservatori legati a sistemi in moto traslatorio uniforme l'uno rispetto all'altro supposto che "la luce si propaghi nello spazio vuoto sempre con una velocità data, indipendente dallo stato di movimento del corpo emittente". Circa la dipendenza della velocità di propagazione della luce dalla sorgente in moto, molto si era discusso anche prima di Einstein. Già nel sec. XVIII alcuni sostenitori della concezione corpuscolare ritenevano che le stelle di diversa grandezza potessero emettere luce con velocità diversa; Arago stesso accenna (1810) alle possibilità che la velocità di propagazione fosse risultante della "velocità primitiva di emissione combinata con quella della stella stessa". Fresnel invece, nell'interpretare gli esperimenti di Arago, scriveva (1818): "la velocità con la quale si propagano le onde è indipendente dal movimento del corpo da cui emanano". Lo stesso afferma Einstein; ma pure l'ipotesi della composizione appare ad altri (W. Ritz, 1908; M. La Rosa, 1924) così spontanea che si è cercato, invano del resto, di trovare su essa la base per la spiegazione dei fenomeni ottici dei sistemi in moto; ma questa ipotesi non ha oggi troppo credito ed è stimata dai più inammissibile. L'ipotesi della costanza della velocità della luce è tutt'altro che intuitiva, soprattutto se pretendiamo attenerci al concetto di movimenti ondosi attraverso l'etere. Infatti, ammessa quest'ipotesi, l'etere dovrebbe propagare le onde con la stessa velocità rispetto a riferimenti comunque mobili. Se riflettiamo su questa strana proprietà siamo portati a dubitare fortemente dell'esistenza della propagazione mediata per onde, tanto più, si potrebbe osservare, che il concetto di propagazione della luce è fortemente soggettivo. Si risalga infatti al significato originario che possiede la costante di ragguaglio c che compare nelle equazioni di Maxwell: essa non è originariamente introdotta come velocità di propagazione della luce, ma come tale viene interpretata sulla base di un concetto aprioristico di effettiva propagazione. Comunque, accettate le ipotesi di Einstein, e scritte le condizioni che traducono analiticamente il principio di relatività (v.), è agevole, introducendo solo le velocità relative dei corpi tra loro e non mai velocità prese rispetto a un ipotetico etere, interpretare tutti i fenomeni dell'ottica (ed elettrodinamica e meccanica) dei sistemi in moto con sole opportune trasformazioni di coordinate spaziali e temporali, senza che sia necessario invocare un etere opportunamente congegnato, anzi senza nemmeno che sia più necessario parlare di esso. La luce diviene allora una forma particolare di azione a distanza fra il corpo luminoso e quello illuminato; azione che dipende dai corpi in presenza e che non è più mediata attraverso a un ipotetico mezzo, ma solo ritardata attraverso il tempo, o, se si vuole, la luce è una forma di trasferimento di energia ritardato nel tempo. Quindi il campo dei vettori E ed H e tutte le onde elettromagnetiche luminose distribuite nello spazio e nel tempo sono nostra pura rappresentazione, utilissima all'interpretazione dei fenomeni, ma inesistente come realtà rivelabile per sé sola. Così dunque il buon vecchio etere sfuma nel nulla. Non è questa, si potrebbe osservare, l'ultima "libertà" presa dai fisici nell'immaginarlo "a loro capriccio" inquantoché Einstein, in sviluppi successivi della sua teoria, basandosi sul fatto che le proprietà metriche dello spazio dipendono dai corpi in presenza afferma che "quindi esiste un etere in questo senso"; ma questo ultimo etere è tutt'altra cosa che i suoi antenati e ha tutt'altro carattere e scopo. E qui basti l'avervi accennato (v. relatività).

Nelle sue teorie Einstein precisa il concetto della massa dell'energia raggiante, che abbiamo osservato scendere spontaneo dall'esistenza della pressione della luce: all'energia W egli assegna massa (in senso maupertuisiano, cioè rapporto tra impulso e velocità) uguale a W/c2 (per ogni erg. circa 1,1.10-21 g., cioè estremamente piccola); e con questa precisazione einsteniana era breve il passo, come vedremo, al ritorno di una teoria corpuscolare. Inoltre, generalizzando le sue concezioni, Einstein ha potuto prevedere due tenuissimi effetti prodotti dai campi gravitazionali sulla luce. L'uno consiste nello spostamento delle righe spettroscopiche verso lunghezze d'onda maggiori (1911): così, per es., le righe solari sono spostate verso lunghezze d'onda maggiori di due milionesimi circa della lunghezza d'onda delle righe spettroscopiche di uguale provenienza atomica ottenute con sorgenti terrestri. L'altro fenomeno consiste nelle deviazioni dalla propagazione rettilinea imposta alla luce dalla presenza di grandi masse materiali, come se essa fosse da queste attratta: così, per es., nel caso di luce stellare che, pervenendoci, lambisca il bordo del Sole, la posizione della stella emittente appare spostata, per effetto della massa solare, di 1″,75 verso l'esterno, rispetto al Sole. Data la piccolezza degli effetti e la molteplicità delle cause perturbanti è difficile raggiungere una prova sperimentale quantitativa precisa, ma nel complesso tutto conferma le previsioni di Einstein. Forse non è fuor di luogo ricordare che fenomeni del tipo indicato si possono prevedere anche con teorie preeinsteiniane (J. Soldner, 1801, Lorentz, 1904); ma queste, oltre che non accordarsi con i valori sperimentali, sono basate su ipotesi particolari e non hanno la solidità di costruzione, né l'armonia che così poderosamente reggono le concezioni relativistiche einsteiniane. Le quali oggi, in una recente particolarizzazione circa la costituzione dell'Universo, valgono a render ragione dell'apparente e rilevantissimo fenomeno Doppler mostrato dalle lontane nebule spirali e ad avvalorare la trasformazione della materia in radiazione.

23. Lo stesso anno (1905) in cui gettava le basi della sua relatività, Einstein, ispirandosi alle concezioni di Planck, sosteneva il carattere discontinuo dell'energia luminosa. Egli muoveva dalla constatazione di una disuniformità tra il modo di concepire l'energia interna dei corpi e l'energia delle radiazioni. Mentre nelle concezioni atomistiche l'energia interna di un corpo è ripartita nello spazio da esso occupato con discontinuità, causa le discontinuità stesse della costituzione del corpo, la teoria maxwelliana ripartisce con continuità nello spazio l'energia luminosa emanata da una sorgente. Ora palesi ragioni di simmetria nella visione dei fenomeni suggeriscono a Einstein di supporre che anche l'energia radiante possegga carattere discontinuo. Questo naturalmente si manifesterà notevole in tutti quei processi che involgono durata di tempo e estensione di spazio estremamente brevi, in particolare quindi negli scambî d'energia fra radiazioni e atomi. Precisando, Einstein suppose che l'energia luminosa possegga carattere granulare e che consista in elementi hν, quanti di luce, detti poi (1926) "fotoni" da G. N. Lewis, staccati nello spazio, i quali vengono emessi e assorbiti dagli atomi per semplici unità. La concezione einsteiniana è quindi diversa o complementare di quella originale di Planck: questi assegna il quanto di scambio e lo diffonde nello spazio; Einstein accetta il valore del quanto e lo mantiene in forma di granulo radiante muoventesi rettilineamente con la velocità della luce. È quindi quella di Einstein una vera teoria corpuscolare della luce. Su questa base, oltre che dare spiegazione delle già note particolarità dell'effetto fotoelettrico, fu possibile prevedere che le energie cinetiche massime degli elettroni eietti dovevano, a meno di una costante caratteristica del metallo, essere uguali al quanto di energia incidente. La conferma di questa importante previsione è stata tardiva (1912), ma completa e precisa. Analogamente, la concezione dei quanti di luce faceva prevedere che nei raggi Röntgen la lunghezza d'onda doveva essere inversamente proporzionale all'energia dell'elettrone incidente, il che è stato confermato sperimentalmente per molte vie. Non si può dissimulare il contrasto palese fra teoria einsteiniana e maxwelliana perché soprattutto il fenomeno d'interferenza appare inspiegabile nella teoria quantistica. Forse per questo Einstein, presentando la sua ipotesi dei quanti di luce, la indicava come "euristica", ma questo aggettivo prudenziale fu presto abbandonato e la teoria della discontinuità della radiazione s'impose, specialmente dopo le prime conferme sperimentali sull'effetto fotoelettrico. Ma anche per altre vie, vedremo, doveva acutizzarsi il contrasto Maxwell-Einstein, nuovo aspetto del vecchio contrasto Huygens-Newton.

24. Intanto nuovi importanti contributi sperimentali e teorici venivano portati alla fisica. Nel 1912 P. Knipping, W. Friedrich e M. Laue assegnano inconfutabilmente i raggi Röntgen alla categoria delle radiazioni luminose e aprono la strada alla feconda istituzione della röntgenspettroscopia, dalla quale risulta che le lunghezze d'onda dei raggi Röntgen sono intorno ai 10-8, 10-10 cm.; similmente gli studî sulla radioattività rendono ormai certo che le radiazioni γ altro non sono che radiazioni luminose di lunghezza d'onda ancor più breve di quella dei raggi Röntgen, intorno ai 10-11 cm. (unità X). Immensa è dunque ormai la scala delle radiazioni luminose (in significato estensivo): dalle hertziane ai raggi γ il rapporto fra le lunghezze d'onda estreme è di circa 1018. Nel 1913 N. Bohr propone il suo modello atomico quantistico. Rimandando alla voce atomo per maggiori particolari, qui basti ricordare che le concezioni di Bohr, sia pure attraverso generalizzazioni, complicazioni, incongruenze, ecc., hanno valso in circa dieci anni a dare una buona, se non completa, interpretazione dell'enigma dei fenomeni spettroscopici di emissione e di assorbimento, anche alterati da campi magnetici (fenomeno di Zeeman) o da campi elettrici (fenomeno di Stark, 1914) e più in generale dei processi di scambî energetici degli atomi.

Ma ecco cosa queste interpretazioni rivelavano. Se si risale all'origine delle onde hertziane, si trova un oscillatore elettrico avente sempre la stessa frequenza dell'onda irraggiata; ma questa semplice relazione tra la frequenza propria del sistema che provoca le onde e la frequenza delle onde emesse non è più sostenibile per le radiazioni luminose (in senso stretto) e per quelle di maggior frequenza: tutti i modelli atomici pre bohriani, coi quali si tentò di dare una spiegazione dell'emissione, hanno urtato in difficoltà che sostanzialmente provengono da questa impossibilità, la quale, con la teoria di Bohr, è introdotta senz'altro, come dato di fatto, implicitamente nei postulati. Avviene dunque che quando ascendiamo per frequenze crescenti nella gamma delle radiazioni, muovendo da quelle hertziane verso le luminose, a un certo momento la frequenza della radiazione emessa non è più quella propria del sistema irradiante. Tutto ciò corrisponde ed è connesso col fatto che nel primo caso si hanno elettroni oscillanti liberi nel vuoto (triodi) o pseudoliberi nei metalli; nel secondo caso invece, in cui i processi di emissione sono più intimi, gli elettroni emittenti sono legati agli atomi: si entra così in un altro mondo di fenomeni fisici organato su altri ordini di grandezze (si passa dalla cosiddetta macrofisica alla cosiddetta microfisica). A questa forma atomica di emissione sono particolarmente applicabili i concetti einsteiniani dei quanti di luce, o più propriamente, in questa seconda forma di emissione i fotoni presentano nei fenomeni una migliore individualità. E ciò dipende dal fatto che nei processi di rivelazione è palesemente tanto più facile isolare i quanti e sentirli singolarmente, quanto più energici e radi essi sono, cioè, a parità di energia ricevuta, quanto più alta ne è la frequenza. Soprattutto quindi nelle radiazioni Röntgen e γ le discontinuità einsteiniane risulteranno appariscenti. Assegnate al fotone generico hν in conseguenza delle teorie relativistiche una massa hν/c2 e una quantità di moto hν/c, sì da formare di esso un vero corpuscolo luminifico lanciato con la velocità della luce, si può domandare se è possibile porlo in evidenza direttamente con particolari processi, per esempio, con urti contro altri fotoni o contro atomi o contro elettroni. Mentre il primo caso, pur tentato sperimentalmente (G. E. M. Jauncey, 1930), è ancora sub iudice, e il secondo presenta troppa sproporzione fra massa atomica e massa fotonica, l'ultimo caso è il più significativo, perché, se la radiazione luminosa (raggi Röntgen) è sufficientemente dura (lunghezza d'onda di qualche unità X) può la massa fotonica essere confrontabile con quella dell'elettrone e anche decisamente esserne maggiore. Ora, nel fatto, urti di fotoni lanciati contro elettroni sono stati sperimentati (1923) da A. H. Compton e fotografati col metodo della camera di C. T. R. Wilson. L'elettrone colpito e il fotone si comportano nell'urto come due sferule perfettamente elastiche: l'elettrone acquista energia e quantità di moto, corrispondentemente il fotone perde energia e quantità di moto, il che equivale a una diminuzione della frequenza originaria. Questa concezione corpuscolare della luce agevola grandemente l'interpretazione di numerosissimi fenomeni di scambio d'energia radiante e trova ogni giorno maggior credito. La luce è ormai con tal franchezza trattata come composta di fotoni che, p. es., la radiazione nera contenuta in una cavità la si considera come un gas, meglio come un vapore saturo di fotoni: tanto che adattando i metodi statistici della teoria cinetica si giunge agevolmente (S. N. Bose, 1924) a ritrovare la funzione di Kirchhoff. Né è mancato chi (K. Šapošnikov, 1926), sebbene con poco seguito, abbia applicato addirittura la legge newtoniana di attrazione fra massa materiale e massa fotonica, arrivando così, senza passare attraverso le concezioni einsteiniane, a calcolare lo spostamento del raggio luminoso per effetto del campo gravitazionale. Ritornando per un momento alla questione dei processi intimi dell'irraggiamento e dell'assorbimento, non possiamo tralasciare di ricordare che il primo ibrido modello atomico di Bohr (v. atomo) fu poi successivamente modificato (1925-1926) su basi più razionali e coerenti con l'uso della meccanica quantistica e di quella ondulatoria (v. quanti).

Ma, nonostante ciò, il meccanismo intimo dell'emissione luminosa rimane un mistero. Si può dire solo che ogni volta che l'atomo, attraverso alterazioni più o meno profonde, passa da uno stato energetico stabile a un altro, e varia, in conseguenza, la sua energia di ΔW, l'atomo stesso emette o assorbe una radiazione di contenuto energetico uguale al salto subito e di frequenza ν = ∣ΔW∣/h. Circa poi la maniera nella quale l'energia radiata si costituisce, o in onde, o in quanti, occorre osservare che la concezione fotonica presenta sempre, come l'antica corpuscolare newtoniana, gravissime difficoltà; fenomeni come quelli d'interferenza, per i quali sembra che l'unica interpretazione non possa essere che ondulatoria, rimangono d'insormontabile difficoltà a essere interpretati in una concezione che voglia essere esclusivamente corpuscolare.

25. Già osservammo che la concezione einsteiniana relativistica ci portava a negare l'esistenza di un mezzo ove appoggiare i vettori E, H. Qui aggiungiamo in proposito altre considerazioni. Qualunque possa essere la nostra concezione sulla luce, quello che effettivamente noi constatiamo sono azioni a distanza fra corpo irraggiante e corpo irraggiato, ritardate nel tempo, alle quali si riconnette un corrispondente trasferimento d'energia anch'esso ritardato nel tempo. Quello che succede durante il tempo del trasferimento non ci è dato ancora sapere. Pertanto noi non possiamo dire ove sia la luce, non possiamo dire di "vederla" se non assorbendola su atomi o su elettroni e ciò porta sostanziali alterazioni alla propagazione successiva e quindi al fenomeno luminoso in esame. Se ora ammettiamo, con W. Heisenberg, che non si debbano introdurre in fisica enti che non siano definibili con esperimenti, almeno concettualmente possibili, corretti e coerenti con lo scopo dell'indagine, siamo costretti a rifiutare d'introdurre il cammino del quanto o dell'onda compiuto dalla sorgente fino al corpo illuminato, perché è impossibile, anche concettualmente, realizzare un esperimento che riveli il passaggio del quanto o dell'onda lasciando che essi si propaghino indisturbati e inalterati. In altri termini, il verbo "propagarsi", caratteristico della descrizione dei fenomeni luminosi, non ha senso nel significato di un qualche cosa (corpuscolo) o di un qualche stato (onda) che si muova. Basta, del resto, ricordare che la propagazione si introduce, p. es., dall'equazione di d'Alembert, presupponendo, il che è impossibile, che l'osservatore si sposti con la stessa velocità di propagazione della luce, o altrimenti presupponendo di essere effettivamente di fronte al movimento reale di un qualcosa o di un qualche stato. In realtà dunque nulla ci obbliga, anzi, tutto ci sconsiglia di accettare ed estendere per la luce i concetti di movimento di particelle o di propagazioni d'onde in un fluido e, in generale, i concetti cinematici: i quali, derivati dall'osservazione dei corpi materiali, vengono, sì, anche nelle accezioni del linguaggio comune, estesi alla luce, ma non per questo con giustificata ragione. L'applicazione alla luce è analogia puramente apparente perché basata sulla tacita presunzione di. un'azione mediata. Non esistono dunque propagazioni luminose; ciò che esiste sono soltanto azioni a distanza ritardate nel tempo, che la sorgente luminosa provoca sul corpo o sui corpi in presenza, le quali sono diverse, a seconda dei corpi stessi e delle loro posizioni relative; p. es., quando questi siano gli specchi di Fresnel, o lo schermo a due fori di Young, e quando, o gli specchi, o lo schermo siano opportunamente disposti rispetto alla sorgente, sulla lastra fotografica o sulla retina dell'occhio, si hanno le frange. In realtà il fatto che occorre un certo tempo al trasferimento dell'energia dal corpo luminoso all'illuminato è l'origine del concetto della propagazione della luce; inquantoché un po' spontaneamente, un po' per suggerimento e analogia con i fenomeni meccanici, nei quali il trasferimento dell'energia è istantaneo, e per i quali è istantaneo anche il trasferimento delle quantità di moto, la nostra mente è stata portata a immaginare che, durante il tempo di trasferimento, l'energia e l'impulso s'immagazzinassero, per così dire, in un qualche cosa (corpuscolo) o in una qualche alterazione (onda) che funzionasse da veicolo. Si può dire che è stata la preoccupazione istintiva di salvare il principio di conservazione dell'energia anche nel tempo, cioè di mantenerlo valevole a ogni istante, senza discontinuità, che ha introdotto la concezione della propagazione; rinunciando alla quale la c si riduce a una costante universale, che originariamente e sostanzialmente ha il significato di coefficiente di ragguaglio fra le misure di tempo e quelle di spazio, e che è atta a fornirci i ritardi del trasferimento dell'energia radiante.

26. Ora, riferendoci, per appoggiare il discorso, per es., all'esperimento delle frange, cui sopra abbiamo accennato, la teoria ondulatoria ci insegna a calcolare in ogni punto della lastra fotografica una funzione I, che ci dà la distribuzione delle frange sulla stessa lastra e che, in quella teoria, viene interpretata come densità di potenza radiata sulla lastra stessa, e, nella concezione dei fotoni, può, prescindendo dal meccanismo col quale si formerebbero le frange, rappresentare la densità dei fotoni giunti sulla superficie nell'unità di tempo. Aboliamo queste due definizioni e concezioni particolari, anzi rifiutiamo qualsiasi concezione sulla natura della luce, e interpretiamo la funzione I come probabilità che nel punto considerato della lastra questa subisca quelle alterazioni (riduzione dei granuli d'argento), che fanno apparire le frange. Dove I = 0 avremo le frange oscure (chiare sulla lastra negativa) per le quali, con la concezione ondulatoria avremmo detto che "per interferenza" la luce è annullata, e per le quali possiamo ora dire che la probabilità di avere l'alterazione è nulla. Postisi allora in quest'ordine di idee, potremo interpretare tutta la teoria maxwelliana (introdotte ove occorrano le concezioni relativistiche einsteiniane) come una teoria che ci offre statisticamente la probabilità di dove si ritrovano i varî quanti d'energia radiata sui corpi in presenza, o, più correttamente, la probabilità di avere sui corpi in presenza quelle certe alterazioni che indicano l'acquisto o la perdita di energia radiante. E si può dire, in pura rappresentazione, che le onde diventano onde di probabilità dei fotoni. Ma perché l'interpretazione statistica possa aver luogo, cioè perché possano applicarsi in questo senso le equazioni di Maxwell, occorre che i processi elementari di emissione o di assorbimento siano estremamente numerosi; quando ciò non avvenga prende il sopravvento la costituzione discontinua della luce e la trattazione diviene corpuscolare. In questo modo le due particolari visioni, la maxwelliana ondulatoria e la einsteiniana quantistica, si possono ridurre ad aspetti particolari di un'unica visione di sintesi, nella quale la prima porta le onde di probabilità, l'altra porta la discontinuità degli scambî, mentre ambedue rinunciano al concetto di propagazione della luce. Così la teoria ondulatoria e quella corpuscolare, in secolare dissidio fra loro, par che si concilino infine in un'unica teoria che sa, assai meglio di ciascuna di quelle, dirci ciò che avviene, ma che ci toglie l'illusione di sapere come avviene. Ancora una volta il progresso è segnato dalla rinuncia a un idolo.

Opere speciali: F. M. Grimaldi, Physico-Mathesis de lumine, Bologna 1666; C. Huygens, Traité de la lumière, Leida 1690; I. Newton, Optice, Londra 1719; Th. Young, Lectures on natural philosophy, Londra 1807; A. Fresnel, Øuvres, Parigi 1866-70; L. Foucault, in Comptes rendus, XXX (1850); H. Fizeau, in Comptes rendus, XXXIII (1851); G. Lamé, Leçon sur la théorie mathémat. de l'élasticité, Parigi 1852; J. C. Maxwell, A treatise on Electricity and Magnetism, Londra 1873; A. Michelson, in The American Journal of Science (1881); H. Hertz, Gesammelte Werke, voll. 2, Lipsia 1894-95; G. Kirchoff, in Poggendorf's Annalen, CIX (1860); M. Planck, in Verhand. der Deutschen Physik Gesell., 1900; A. Einstein, in Drude's Annalen, XVII (1905); A. H. Compton, in Physic. Review, XXI (1923); W. Heisenberg, in Zeitsch. für Physik, 1925-27; trattati: H. Geiger e K. Scheel, Handbuch der Physik, I, XX, XXI, XXIII; W. Wien e F. Harms, Handbuch der Experiment. Physik, XVIII, XXII; Müller-Pouillets, Lehrbuch der Physik, II. - E. Hoppe, Geschichte der Physik, Lipsia 1926.

La luce nell'arte.

La luce è spesso oggetto di emozioni artistiche, tanto più vive quanto maggiore è l'interesse dell'artista di fronte allo spettacolo della natura. L'ideale greco, che identifica bellezza umana e perfezione plastica, subordina la luce al chiaro e allo scuro che definiscono la forma plastica; l'arte ellenistica, per il suo maggior interesse a motivi naturalistici, offre i primi saggi di ricerca diretta di valori luminosi. I soggetti episodici, talvolta umoristici, trovano vivacità espressiva in rapidi effetti di luce integrati dai riflessi del bronzo e dal brillar del mosaico; le ombre portate indicano la situazione delle figure nello spazio e i fondi, per lo più chiari, determinano pittoricamente le figure. Le ricerche di luce si sviluppano col prevalere di motivi paesistici (sec. I a. C.) e, dalla pittura (p. es. affreschi delle storie di Ulisse), si estendono alla scultura (stucchi della Farnesina) e all'architettura (decorazioni prospettiche a sfondo di paese). Il cosiddetto impressionismo antico non disgiunge mai l'esperienza della luce da quella della forma; nei rilievi, dal sec. II al IV, le forme s'infittiscono, negli edifici abbondano i particolari decorativi, perché la luce abbia maggiore varietà e intensità di motivi. Attraverso le pitture cimiteriali cristiane, determinate da sommarî contrasti di luce e di ombra, l'impressionismo antico ritorna nei mosaici romani; in S. Pudenziana (sec. IV) e in S. Maria Maggiore (sec. V) esso suggerisce compiutamente la forma, sebbene poi questo senso formale si attenui vieppiù col prevalere del puro colore. Nell'arte bizantina e nei suoi riflessi a Ravenna, la luce perde il contatto naturalistico con la forma per cercare un contatto mistico col colore; il mosaico riflette la luce come specchio; la forma si appiattisce per ridursi tutta alla superficie brillante; le architetture si vestono internamente di mosaici, come a S. Sofia a Costantinopoli, nella quale Paolo Silenziario vedeva un simbolo della luce celeste. L'arte romanica non varia di molto, rispetto alla luce, la tradizione bizantina. Ma il gotico traduce nel tenuissimo chiaroscuro dei suoi tenui colori le lumeggiature auree bizantine, riduce la luce a elemento architettonico filtrandola nei colori delle vetrate e impegnandola nel giuoco aereo di guglie e pinnacoli; non esce, nella pittura e nella miniatura, dall'astratta concezione della luce immedesimata col colore. In Italia da Nicola e Giovanni Pisano a Giotto a Simone Martini ai Lorenzetti, problemi di luce sorgono a lato di nuove ricerche lineari e formali. Il problema della luce, già risolto naturalisticamente dai van Eyck, ha in Italia nuovi aspetti nel sec. XV, quando a Firenze si forma un più cosciente orientamento naturalistico. Nell'arte toscana l'effetto di luce è subordinato a quello di rilievo, secondo il concetto albertiano; ma il chiaroscuro masaccesco è così intenso da attuare contrasti di luce e di ombra; nei rilievi di Donatello la forma si schiaccia per realizzare, col fondo, un contrasto di luce e ombra che supera, ma comprende l'effetto plastico. Un'equivalenza stilistica tra forma e luce è, in varî modi, attuata da Paolo Uccello, D. Veneziano, A. Baldovinetti, e, più, da Piero della Francesca, nell'opera del quale la forma geometrica ora è ridotta da una luce universale a trasparenza cristallina, ora è resa più compatta da una luce diretta. Ricerche analitiche sulla luce e i suoi rapporti con la prospettiva aerea, conducono Leonardo a conciliare, in un'atmosfera che avvolge e sfuma la forma, luce e chiaroscuro. Da Leonardo dipende l'interpretazione della luce nella pittura del '500 nell'Italia centrale: Raffaello, nei ritratti, se ne vale per sottolineare morbidezze di carni e di stoffe, mentre nei contrasti drammatici della Stanza di Eliodoro risente influenze veneziane; nel Correggio, lo sfumato di Leonardo congiunto a più vivaci motivi luminosi veneti, impasta e altera la forma, esalta luci, sprofonda ombre. A Venezia i valori di luce subordinano i valori formali, investendo tutto il problema dell'arte. Giovanni Bellini educato dal Mantegna agl'ideali spaziali del Rinascimento, riduce i suoi colori puri a indicare valori di spazio immergendoli in una luce universale che penetra la forma senza trovare possibilità di contrasti di ombre. Giorgione fonda l'accordo dei colori sulla quantità di luce ch'essi ricevono; e poiché la luce, per meglio penetrare il colore, attenua chiaroscuro e contorni, egli compone per grandi masse avvolto nella luminosità che i colori stessi sprigionano. Tiziano, continuando la ricerca dei valori tonali, finisce per assorbire i singoli colori nel contrasto di luce e di ombra; il suo massimo chiaro è dorato, il suo massimo scuro bruno; in questa gamma, ristretta per maggior intensità, la forma si riduce a suggerimento; la luce, che sommariamente la indica, ha spesso sorgenti particolari, affinché sia più definita la funzione delle ombre. La luce particolare, che indica brevemente le forme con guizzi chiari sul prevalere dell'ombra, è il risultato della ricerca del Tintoretto d'includere nel tono tizianesco il disegno di Michelangelo: il luminismo del Tintoretto cerca effetti notturni, guizzi di folgori, repentini luccichii di riflessi. A questo tragico luminismo è opposta la luminosità del Veronese, che accorda squillanti colori puri tra grigio perlaceo d'ombre e bianco di luci. All'interpretazione del mondo, che diede la pittura veneziana attraverso effetti di luce, si congiungono, in Spagna, il Greco, che esalta nel colore tragici contrasti di luce, nelle Fiandre, Rubens, la cui pittura ha sempre per punto di partenza intensi valori di luce. Il problema della luce e dell'ombra occupa tutto il '600; il Caravaggio costruisce solidamente la forma con pochi piani di ombra e di luce; per seguaci e oppositori il luminismo è pretesto di scenografiche grandiosità e di umili, ma vive, intimità pittoriche; il predominio dei partiti d'ombra, onde il nome che a quei pittori fu dato di "tenebrosi" esalta per contrasto i vividi accenti di luce. In Olanda, Rembrandt e Vermeer van Delft ripetono, in un mondo più intimo, il contrasto che fu tra il Tintoretto e il Veronese: il primo riduce il colore a luce e ombra, con predominio dell'ombra, il secondo esalta l'alta qualità luminosa dei toni locali; il primo cerca effetti di luce particolare, il secondo di luce universale. Nel '700 la luce tende a esaltarsi nel libero tocco del colore come valore a sé, predominante sull'ombra; la fastosa fantasia del Tiepolo attua questo ideale nelle grandi composizioni decorative, la delicata sensibilità del Guardi in sottili fusioni della luce nell'atmosfera. In Francia, Watteau e Fragonard cercano in tenui luci cangianti, la grazia pittorica dei fragili temi; in Spagna, il Goya altera la forma nel violento contrasto di luce e di ombra, ridotto all'antitesi di bianco e di nero. A queste correnti si lega l'impressionismo dell'800, appoggiato da indagini ottiche sulla luce e il complementarismo dei colori: Manet, attraverso la ricerca tonale di luce e di ombra, giunge a distendere, con valore compositivo, pure zone di colore; Renoir cerca nel plein-air un supremo rapporto tra luce e colore; la luce esaurisce la forma nella "macchia" del Fattori; anima gli accordi coloristici di Spadini, scompone la forma nella scultura del Rosso. Tra gli ultimi aspetti del problema della luce nell'arte è il divisionismo, teorizzato dal Previati: tentativo di disintegrare e reintegrare la luce nei suoi componenti coloristici, onde darne la rappresentazione integrale, non mediata da impasti pittorici. Non luce, ma una luminosità che si confonde con l'atmosfera e non ha limiti di spazio né rapporti con la natura, è quella che fa del mondo un miraggio fantastico nella pittura cinese e giapponese, dalle lontane origini ai tempi recenti.