Lombardia

Enciclopedia Dantesca (1970)

Lombardia

Giorgio Baruffini
Pier Vincenzo Mengaldo

Se si eccettua un accenno al Po, fiume lombardo, in Rime XCV 3, la prima menzione della L. nell'opera dantesca si trova in VE I X 7, ove la regione è annoverata tra le parti in cui si divide la lingua del ‛ sì ', e precisamente tra quelle poste alla sinistra degli Appennini. Per i confini della L. secondo D. e per le considerazioni di lui dal punto di vista linguistico, v. oltre.

Il primo contatto diretto con la realtà lombarda per D. avvenne tra il 1303 e il 1304, quando giunse a Verona ospite dei Della Scala. Per breve che possa essere stato questo soggiorno - che forse potrebbe avere per termine ad quem il documento lunigianese del 6 ottobre 1306 e fu tale da far parlare di un D. fattosi lombardo, come attesta il sonetto Dante Alighier, s'i' so' bon begolardo (v. 8) dell'Angiolieri, riportabile al 1303-1304 - D. dovette aver modo di accostarsi all'ambiente culturale lombardo, improntato a quel " moralismo " padano sulla cui importanza nell'evoluzione dantesca insiste l'Apollonio (Uomini e forme..., cit. in bibl., pp. 345-346).

Intorno ai primi anni del Trecento la L. si presentava a D. come una regione profondamente diversa dalla Toscana. Il mondo comunale, ormai in piena trasformazione, vi vedeva la progressiva espansione delle nuove forze signorili: a nord gli Scaligeri, volti tanto a oriente (Vicenza e Padova) che a mezzogiorno; da Milano i Visconti, che, pur nella precarietà della loro situazione per la costante minaccia interna dei Torriani, si erano sbarazzati del marchese di Monferrato ed erano ormai liberi di estendersi in ogni direzione; lungo il basso corso del Po, infine, gli Estensi, tendenti a una penetrazione a sud, nel modenese e nel reggiano, per controllare le vie appenniniche. Stretta tra questi ‛ grandi ', tutta una serie di signorie minori, sempre ondeggianti tra l'aspirazione a un'azione autonoma e la soggezione ai maggiori. Non pare che, durante questo primo soggiorno, D. prestasse soverchia attenzione alla situazione politica: lo interessava soprattutto ciò che del costume feudale sembrava sopravvivere nel mondo padano, e non sarà fuor di luogo osservare che proprio a una problematica tipica del tardo mondo feudale sono legate alcune delle memorie lombarde: al concetto di nobiltà i nomi di Asdente, di Alboino della Scala, di Guido da Castello (Cv IV XVI 6), dei Visconti di Milano (XX 5), dei Santo Nazzaro (XXIX 3); alla crisi del mecenatismo cortese il ricordo di Giovanni di Monferrato e di Azzo VIII d'Este (VE I XII 5); al valore e alla cortesia ancora Guido da Castello e Corrado da Palazzo (Pg XVI 124-126).

Al solito non è possibile seguire le tracce di D. in questo suo primo rifugio lombardo: ma i riferimenti ai luoghi presso il Garda (If XX 61-81) e il ricordo di Corrado da Palazzo potrebbero presupporre un viaggio da Verona a Brescia; anche sostenibile dovrebb'essere un soggiorno reggiano presso Guido da Castello, forse al momento dello spostamento in Lunigiana.

È noto che tra la fine del 1306 e i primi del 1311 mancano sicure notizie di D.; non accettando il racconto boccaccesco del viaggio a Parigi, si potrebbe immaginarlo nuovamente in L., ma non v'è alcun indizio che possa suffragare l'ipotesi. Sicura è invece la presenza di D. nella regione in occasione della calata di Enrico VII. Il re dei Romani era entrato in Italia alla fine dell'ottobre 1310 e, attraverso le terre del conte di Savoia, era giunto prima ad Asti poi a Milano, ovunque portando pace " come fusse uno agnolo di Dio " (Compagni III 24). A Milano, nell'Epifania del 1311, l'eletto ricevette solennemente la corona d'Italia. È il poeta stesso che ci testimonia questa sua presenza, quando, scrivendo a Enrico, gli ricorda l'incontro: velut decet imperatoriam maiestatem benignissimum vidi et clementissimum te audivi, cum pedes tuos manus meae tractarunt et labia mea debitum persolverunt (Ep VII 9). Nessun riferimento però al luogo in cui l'incontro avvenne: forse ad Asti, dov'erano convenuti esuli toscani, o più facilmente a Milano. Certo, se in questa città, non il giorno dell'incoronazione: a parte il fatto che D. non è menzionato tra i presenti alla cerimonia - e la sua notorietà era già tale che una sua presenza non sarebbe passata inosservata -, l'epistola non vi accenna minimamente, e non si vede come l'aver assistito a un fatto così esaltante - almeno per il poeta - potesse non lasciar traccia nella lettera. In ogni caso si trattò di una comparsa molto rapida, perché già il 31 marzo si trovava nel Casentino, donde datava la lettera ai Fiorentini. È innegabile che, nonostante la brevità di questo secondo soggiorno, D. si volse con maggior attenzione alla situazione politica: ma la pacificazione regionale non gli parve determinante per il buon esito dell'impresa imperiale. La presenza di potenti signorie ghibelline, quali Visconti e Scaligeri, lo assicurava sulla possibilità di controllare l'area padana, nonostante le ribellioni di Lodi e di Cremona. Era invece la Toscana, e soprattutto Firenze, il luogo dove si sarebbero decise le sorti dell'impresa: si spiega quindi come D. si recasse nel Casentino, che costituiva un buon posto di osservazione, e di lì scrivesse le due epistole ai Fiorentini e a Enrico. La prima contiene solo un rapido cenno alla L.; ma, animato da tono profetico più che politico, il poeta si volge al passato, alle gesta degl'imperatori svevi e al terribile esempio delle città ribelli punite: non prendano ardire i Fiorentini ab inopina Parmensium fortuna che ha consentito la distruzione di Vittoria, ma tengan presenti i fulmina Federici prioris, e ascoltino ciò che dice Milano (Ep VI 19-20). È da notare che quest'esortazione sembra presupporre un qualche racconto popolare della distruzione della città, udito forse durante il soggiorno milanese e che abbia particolarmente colpito D., dal momento che anche in Pg XVIII 119-120, la cui composizione dovrebbe risalire all'incirca a quel tempo, ne torna la citazione: lo 'mperio del buon Barbarossa, / di cui dolente ancor Milan ragiona. La seconda lettera è invece assai più ‛ politica ', e quindi la situazione lombarda è fatta oggetto di maggior attenzione; tuttavia, confermando esplicitamente quella sua visione dei fatti che lo ha portato a scendere in Toscana anziché restare presso l'imperatore, D. insiste sulla minore importanza della L. ai fini dell'impresa: che otterrà Enrico, piegando la cervicem Cremonae... contumacis? nonne tunc vel Brixiae vel Papiae rabies inopina turgescet?: le città lombarde non sono che i rami spinosi di una pianta che ha le radici in Firenze (Ep VII 22).

Non è chiaro se D. abbia subito ripassato l'Appennino e si sia portato a Verona immediatamente dopo la morte di Enrico VII o qualche tempo prima (secondo l'ipotesi del Petrocchi); certo il ricordo della vittoria riportata da Cangrande sui Padovani al palude / ... che Vincenza bagna (Pd IX 46-47) potrebbe costituire un indizio della sua presenza nella zona, secondo quanto suppone il Chimenz. Il secondo soggiorno veronese di D. fu tale da permettergli di seguire da presso la politica del suo ospite e soprattutto l'azione che i signori lombardi venivan conducendo contro Giovanni XXII e Roberto d'Angiò: la profezia di Cacciaguida sulle cose / incredibili a quei che fier presente (Pd XVII 92-93) operate da Cangrande, che sembra animata dalla speranza di veder presto i frutti della lega ghibellina, di cui appunto il Veronese fu creato capitano generale il 18 novembre 1318, e la polemica sulle scomuniche (XVIII 127-129), che, come vide il Parodi, pare alludere a quella scagliata contro Cangrande alla fine del 1317, dovrebbero permettere di sostenere la presenza di D. alla corte scaligera almeno nel biennio 1317-1318. A Verona ce lo mostra, ancora all'inizio del 1320, la Quaestio (§ 87); ma non è detto che non potesse trattarsi di un temporaneo e occasionale ritorno.

Oltre ai passi precedentemente richiamati, vicende personaggi luoghi della L. compaiono sovente nell'opera dantesca, né sarà qui il caso di elencarli. Basterà ricordare che D. pare sintetizzare la sua esperienza lombarda, almeno quella dei primi anni dell'esilio, per bocca di Marco Lombardo (Pg XVI 115-141): la regione è addotta come esempio delle disastrose conseguenze prodotte dalla confusione dei poteri, che ha provocato corruzione generale, ove, prima che Federigo avesse briga dai pontefici, solea valore e cortesia trovarsi.

Bibl. - Manca ancora un'opera su D. e la L., per cui sarà necessario ricorrere agli studi sui rapporti tra il poeta e i singoli luoghi: per questo si veda alle varie voci. Per il periodo storico è utile la consultazione di C. Cipolla, Storia delle Signorie, Milano 1881; P. Orsi, Signorie e Principati, ibid. 1900; R. Caggese, Duecento e Trecento, Torino 1939; L. Salvatorelli, L'Italia comunale, Milano 1940; L. Simeoni, Le Signorie, ibid. 1950; I.F. Cognasso, L'unificazione della L. sotto Milano, in Storia di Milano V, ibid. 1955, 1-154.

Per i confini della L. medievale: P. Azarii, Liber gestorum in L., a c. di F. Cognasso, in Rer. Ital. Script.² XVI 4, Bologna 1926, 8.

Per gli aspetti linguistici l'introduzione e il commento di Marigo, De vulg. Eloq.; per la Commedia: G. Agnelli, La L. e i suoi dialetti nella D.C., in " L'Alighieri " III (1892) 377-400; IV (1893) 1-22, 99-114.

Per la scomunica a Cangrande: Lettere di Giovanni XXII riguardanti Verona e gli Scaligeri, a c. di C. Cipolla, Verona 1909 (rec. del Parodi in " Bull. " XVIII [1911] 72-73).

Per i rapporti di D. con la cultura lombarda: M. Apollonio, Uomini e forme nella cultura italiana delle origini, Firenze 1943², 344-346.

Lingua. - La L. è per D. (VE I X 7-8) una delle regioni della ‛ sinistra ' d'Italia, limitata dalla Romagna e dalla Marca Trevigiana (per la cui estensione v. sub v.). Come sempre nel Medioevo, il termine ha valore assai più ampio di quello odierno, ma mentre ad es. per l'anonima Descriptio situs Lombardiae del 1327 la L. contiene fere la Liguria, le ‛ Alpi Cozie ', l'Emilia e Venezia (o il Veneto), D. ne esclude non solo la Marca gioiosa e Venezia, ma anche la Januensis Marchia (VE I X 7), avvicinandosi quindi, anche da questo lato, alla partizione di Brunetto Latini (Tresor I CXXIII 10) che comprende nella L. Bologna, Milano e Ferrara; incerta la posizione del Piemonte, che per D. del resto (VE I XV 8) è regione linguisticamente meticcia (Brunetto non nomina il Piemonte nella sua rassegna, mentre ad es. per G. Villani [VI 79, VII 142] Torino e Alessandria si situano in Lombardia). Come città poste in L., D. nomina via via Ferrara e Piacenza (VE I X 9), poi ancora Ferrara e Modena, Reggio, Parma (XV 4), e infine, implicitamente, Cremona (XIX 2). Quanto a Bologna, essa apparterrà pure alla L., o meglio si collocherà al confine tra questa regione e la Romagna (cfr. XV 2-3); e per la posizione di Verona v. la voce relativa e Marca Trevigiana. Nella Commedia l'attributo di ‛ lombardo ' riferito a un personaggio potrà alludere a una realtà geografica più estesa nel caso di Marco (Pg XVI 46), se veramente costui era originario di Venezia o della Marca (ma v. Benvenuto: " Denominatus est Lombardus, quia familiariter conversabatur cum Dominis Lombardiae tempore suo... "); valore estensivo (‛ dell'Italia settentrionale ') potrebbe avere anche il Lombardi di If XXII 99.

Nel De vulg. Eloq. vengono passati in rassegna più o meno rapidamente vari dialetti appartenenti alla L. (cfr. in particolare per il milanese e il bergamasco VE I XI 4), distinti da loro caratteristiche peculiari. Una caratterizzazione comprensiva e generica delle parlate ‛ lombarde ', sia pure in riferimento ad alcuni dialetti emiliani, viene fornita in VE I XV 3-4: in contrapposto alle vicine parlate romagnole, con la loro morbidezza e mollezza, ferraresi e modenesi si distinguono per una certa ‛ garrulitas ', quae proprie Lombardorum est e che D. ritiene rimasta a quei popoli ex commixtione advenarum Longobardorum; di essa partecipano anche i Reggiani e, ancor più, i Parmigiani che dicono monto per ‛ molto ' (la connessione tra Lombardi e Longobardi ritorna, in chiave politica, in Ep V 11, love D., rivolgendosi ai riottosi signori lombardi, li apostrofa: Pone, sanguis Longobardorum, coadductam barbariem).

A causa di questa garrulitas, da cui non riescono a liberarsi, gli abitanti di quelle città non riescono ad accostarsi al volgare aulico sine quadam acerbitate, e perciò non si trova nessuno di essi che abbia poetato con senso d'arte. Dal contesto è evidente che garrulitas si oppone a lenitas e mollities e si coordina ad acerbitas, cioè " asprezza " (v. FERRARA: Lingua); il suo significato resterà quindi nell'ambito di questa categoria, fondamentale nel De vulg. Eloq., ma non è facile precisarlo maggiormente, orientandosi fra le varie proposte avanzate (" gorga ", " gutturalità ", " gracchiamento ", ecc.; certamente da escludere sarà il semplice " loquacità ", o anche " cinguettio "). La particolare connotazione deriverà comunque dall'accostamento, tradizionale nella lessicografia medievale, di garrulitas a graculus o a rana (Isidoro da Siviglia Etym. X 114, XII VI 58 e VII 45; Papias, ecc.: cfr. R. Klinck, Die Lateinische Etymologie des Mittelalters, Monaco 1970, 143), che si salda all'uso classico del vocabolo per significare un suono inameno e rauco di uccelli (v. in particolare Ovidio Am. II VI 26 per lo psittaco, Met. V 678 - passo ben noto a D., cfr. VE I II 7 - per la gazza, ecc.). Forse l'equivalente più appropriato sarà allora il pur dantesco ‛ chioccio ', sinonimo più risentito e icastico di ‛ aspro ' in If XXXII 1 (S'ïo avessi le rime aspre e chiocce). Un giudizio critico non lontano da quello di D. sulla parlata dei Lombardi è quello del Passavanti (Specchio, ediz. Lenardon, Firenze 1925, 353) che li accusa di " incrudire " la Scrittura col " volgare bazzesco e croio ".

A un volgare proprium... Lombardiae D. si riferisce ancora in VE I XIX 2, nel corso di un ragionamento astratto teso a cogliere la realtà concreta di un vulgare latium (cioè italiano): come esiste, egli ragiona, un volgare di Cremona, così via via ne esiste uno lombardo, uno proprio di tutta la parte sinistra d'Italia e infine uno quod totius Ytaliae est, e come illud cremonense, ac illud lombardum, et tertium semilatium dicitur, sic istud quod totius Ytaliae est, latium vulgare vocatur. L'evidente procedimento per successive astrazioni del passo (si veda soprattutto la nozione del tutto ipotetica di vulgare semilatium) toglie verosimiglianza all'ipotesi del Marigo che qui D. possa riferirsi, come per Cremona alla produzione del Patecchio e di Ugo di Perso, così per la ‛ Lombardia ' all'ampia letteratura didattica fiorita tra Milano e Verona nel '200 (Bonvesin, Giacomino, ecc.): a questa letteratura, la cui conoscenza da parte di D. è problematica, egli attribuirebbe così una fisionomia linguistica sovra-municipale o di koinè che, mentre non è confermata dalle odierne cognizioni sull'argomento, non sembra neppure coerente all'impostazione critica del De vulg. Eloq., tesa sempre a sottolineare il carattere municipale dei prodotti letterari non ‛ illustri '.

Si ricordi che nella fictio della Commedia D. attribuisce una volta esplicitamente al mantovano e ‛ lombardo ' Virgilio (cfr. If I 68-69) l'uso della parlata della zona, caratterizzandola con lo spiccato dialettalismo istra, " ora ": O tu a cu' io drizzo / la voce e che parlavi mo lombardo, / dicendo " Istra ten va, più non t'adizzo "... (If XXVII 19-21).

Bibl. - F. D'Ovidio, Il trattato De vulg. Eloq. di D.A., in Versificazione romanza. Poetica e poesia medievale, II (= Opere di F. D'O.., IX II), Napoli 1932, 311-312; G. Crocioni, Il dialetto di Reggio nel De vulg. Eloq., in " Giorn. d. " XVI (1923) 34-35; P.G. Goidanich, in " Arch. Glottol. It. " XX (1926) 120; Marigo, De vulg. Eloq. 84-85, 124, 126-128, 158; D.A., Oeuvres complètes, a c. di A. Pézard, Parigi 1965, 571; Pagliaro, Ulisse 447-448, 456 ss. Per la nozione di L. nel Medioevo cfr.: E. Levi, Francesco di Vannozzo e la lirica nelle corti lombarde durante la seconda metà del sec. XIV, Firenze 1908, X-XI; M. Zweifel, Untersuchungen iiber die Bedeutungsentwicklung von Langobardus-Lombardus, Halle 1921; L. Negri, Il nome ‛ Lombardia ' nel Medioevo, in " Arch. Stor. Lombardo " LVI (1929) 148-157; B. Migliorini, Lingua e cultura, Roma 1948, 231-234.

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