MIGLIORATI, Lodovico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 74 (2010)

MIGLIORATI, Lodovico.

Anna Falcioni

– Figlio di Antonio, di nobile e antica famiglia, fratello di Cosmato (Cosma) Migliorati papa Innocenzo VII, e di una non meglio identificata Antonella, il M. nacque presumibilmente tra il 1370 e il 1374 a Sulmona. Oltre al M. i genitori ebbero un altro figlio, Gentile, militare valente ed esperto politico, che rimarrà sempre intimamente legato al destino del fratello. Nel 1421 la regina Giovanna II d’Angiò revocò al padre Antonio i privilegi concessi ai suoi predecessori, il che fa ipotizzare una caduta in disgrazia dello stesso. Forse proprio in seguito a quegli avvenimenti, per noi sconosciuti, la famiglia approdò in Fermo, facendone una nuova patria d’elezione.

Il M. uscì prepotentemente dall’ombra ormai trentenne, sul finire del 1404, allorché fu convocato a Roma da Innocenzo VII. La venuta del M. a Roma era dovuta al legame familiare che lo univa al pontefice. Quest’ultimo si trovava in una posizione a dir poco rischiosa perché la città era in preda alla rivolta popolare, fomentata dalle famiglie Colonna e Savelli nonché da Ladislao d’Angiò Durazzo, re di Napoli. Innocenzo VII aveva affidato la difesa dello Stato della Chiesa al condottiero Mostarda da Strada, ma stimò opportuno chiamare in suo soccorso anche l’allora sconosciuto M., prontamente nominato capitano delle milizie pontificie. A tale incarico seguì, nell’aprile 1405, la nomina del M. a rettore di Todi.

Il 6 ag. 1405 la tensione tra il popolo romano e il papa raggiunse il culmine; lo scontro si giocò sul controllo del ponte Milvio, conquistato dalla fazione popolare. Questa aveva inviato undici rappresentanti a trattare con il papa, ma la situazione sfuggì di mano. Volarono ingiurie che scatenarono l’ira e lo sdegno del M.; la sua reazione fu immediata e sanguinaria. I rappresentanti popolari furono assaliti in piazza S. Spirito, catturati e brutalmente uccisi per mano dello stesso M., il quale si assicurò che i cadaveri fossero gettati dalle finestre del palazzo dei Capitani. Il suo gesto fece precipitare una situazione già critica: Innocenzo VII scampò a Viterbo, la fazione popolare si impadronì di Roma e il M. attirò su di sé le ire dello zio, costretto a punire l’irruente condottiero con la scomunica, che fu revocata solo nel luglio dell’anno successivo. Il rapporto tra i due però non si era realmente incrinato, perché Innocenzo VII continuò a rinnovare al nipote i benefici su Todi; di contro le uccisioni romane diedero al M. una grande notorietà.

Lo ritroviamo infatti agli stipendi di Firenze, nel momento in cui questa stava vivendo un’accesa fase dell’interminabile guerra con Pisa. In tale frangente i Pisani avevano assoldato i condottieri Angelo Della Pergola e Gasparo Ubaldini, per contrastare l’assedio dei Fiorentini; il M. riuscì a impedire l’unione degli eserciti dei due condottieri, sconfiggendoli poi, nelle campagne di Volterra, nel dicembre del 1405. Nel frattempo la crisi romana era rientrata, il papa aveva fatto ritorno in città (13 marzo 1406) e, rappacificatosi, come già detto, con il nipote, lo inviò con Paolo Orsini a Napoli, per trattare la pace con Ladislao d’Angiò Durazzo. Il successo arrise ancora al M. che, il 6 agosto dello stesso anno, portò a Roma la notizia dell’accordo raggiunto. Nel trattato il M. compare già come rettore della Marca anconetana e principe di Fermo; doveva dunque aver ricevuto i titoli al momento dell’assoluzione. Fu così che, tra il 17 e il 18 ott. 1407, scortato da Paolo Orsini e Ceccolino da Perugia (Ceccolino Michelotti), prese possesso di Fermo, stabilendosi nell’imponente castello del Girifalco e donando alla città la non esigua somma di 400 ducati d’oro. La situazione della Marca non era certamente delle più floride e Fermo, in modo particolare, era reduce dalla tirannia di Antonio Aceti. Questi, dopo aver rinunciato volontariamente al governo, era rientrato nei ranghi e ora occupava uno dei posti preminenti all’interno della nobiltà locale. Lo scontro tra i due non tardò ad arrivare: l’Aceti mal sopportava la dipendenza dal nuovo signore, che da parte sua vedeva in lui un pericolo ancora troppo reale. Il 1° sett. 1407, in occasione delle elezioni dei nuovi priori, l’Aceti si oppose fermamente alle nomine fatte dal M., giungendo a offenderlo pubblicamente. Il nuovo signore, che doveva consolidare il proprio dominio, colse l’occasione per sbarazzarsi del rivale e della sua discendenza. La sera stessa Antonio Aceti fu decapitato nella piazza di Fermo; condivisero lo stesso destino anche il figlio Giovanni, il fratello Aceto e un certo maestro Domenico da Tolentino.

Con la morte di Innocenzo VII (6 nov. 1406) il M. perse il suo più grande protettore, e la salita al soglio di S. Pietro del veneziano Angelo Correr, che assunse il nome di Gregorio XII, non lo favorì perché questi era dichiaratamente ostile. Quando il M. si recò a Roma, con 300 lance, per offrire i propri servigi al papa, non solo non fu ricevuto, ma da lì a breve fu privato della carica di rettore della Marca anconetana. Allora si dichiarò ribelle alla Chiesa romana e trovò un alleato in Ladislao di Durazzo, allettato dalla promessa di ottenere Ascoli e i castelli limitrofi. Il M. mantenne l’impegno e il re di Napoli lo ricompensò con la nomina a conte di Manopello, l’attuale Monopoli. Nel frattempo Macerata, Loreto e Monte Santo si erano sottratte al dominio del M., il quale vedeva la schiera dei nemici farsi sempre più pericolosa. Per di più, il vescovo di Montefeltro, Benedetto, inviato nella Marca nelle vesti di rettore generale (giugno 1407), assoldò il signore di Camerino, Rodolfo da Varano, e Andrea Fortebracci (Braccio da Montone) contro il Migliorati. Anche la Comunità di Rocca Contrada si sollevò e il M. dovette porla sotto assedio; i castellani decisero allora di ricorrere all’aiuto del Fortebracci che non tardò ad arrivare. Aggirato sapientemente un tranello teso dal M., Braccio riuscì a entrare a Rocca Contrada e, nel giro di pochi giorni, si impadronì di Caldarola, Castiglione e Montalto. I due giunsero infine allo scontro diretto, nei pressi di Arcevia. Il M. poteva contare su un esercito molto più numeroso, ma il Fortebracci dimostrò tutto il suo valore sopperendo con la tattica al deficit iniziale. Parecchi soldati abbandonarono il signore di Fermo per passare al fronte avversario; diversi castelli, inoltre, si diedero spontaneamente al Fortebracci. Nel luglio del 1407 il M. fu dunque costretto a chiedere una tregua al rettore pontificio e per un breve momento sembrò persino che si potesse giungere alla pace. Le condizioni poste da Benedetto risultarono però troppo gravose e il M. abbandonò le trattative. Il rettore promosse allora una nuova lega, cui aderirono Berardo da Varano, Chiavello di Guido Chiavelli e Braccio da Mon;tone. Questi, nel giro di pochi giorni, espugnò e occupò Servigliano, Belmonte, Monte San Pietro Morico, Monte Leone e Monte Ottone. Il M. capì che da solo non poteva resistere alla forza d’urto dei Bracceschi e si rivolse a Ladislao di Napoli, che inviò in suo aiuto Conte da Carrara e Martino da Faenza (Martino Bernabucci). Il M. si scagliò contro la compagine nemica e, nell’agosto dello stesso anno, cercò lo scontro in campo aperto nel piano del Chienti, presso Montecosaro. Ancora una volta la superiorità numerica non costituì un vantaggio reale. Il M. fu perciò costretto a chiedere la pace e a incontrare il Fortebracci a Cingoli, dove si siglarono gli accordi, giurandosi reciproca amicizia e sostegno negli anni a venire. Il sodalizio fra i due diede subito i suoi frutti: il Fortebracci inviò alcuni soldati al M. affinché se ne servisse per la riconquista di Ascoli, recentemente ribellatasi, così che non solo il M. riguadagnò la città, ma entrò anche in possesso di molti dei territori perduti, muovendo insieme con Martino da Faenza anche contro Camerino. La Marca era in armi, territorio di scontro fra le mire di Ladislao, del M., del rettore pontificio e i collegati dell’una o dell’altra fazione; la situazione era giunta a un punto critico e da più parti si levò la richiesta di una tregua. Nel gennaio del 1408 si arrivò infine alla pace, annunciata nella piazza di Fermo.

Siglato l’armistizio, i rapporti fra Ladislao e il M. tornarono amichevoli, tanto da indurre quest’ultimo a recarsi in visita ufficiale a Napoli. Nel contempo lo scisma d’Occidente era entrato nella sua fase più acuta: all’obbedienza romana, rappresentata da Gregorio XII, si contrapponeva quella avignonese la cui guida era nelle mani del catalano Pedro de Luna, che aveva assunto il nome di Benedetto XIII. Ladislao e il M. cementarono la loro alleanza proprio in opposizione a Gregorio XII. Il 18 apr. 1408 il re di Napoli, forte di un esercito di oltre 24.000 uomini, guidato da capitani quali il M., Conte da Carrara e Gentile da Monterano, occupò Ostia. Roma cadde il 25 aprile e fu occupata fino al giugno dello stesso anno; allontanato il pericolo di un rientro imminente di Gregorio XII, Ladislao ritenne opportuno sciogliere l’esercito. Il M., accompagnato da Martino da Faenza e da Ceccolino Michelotti, ritornò nella Marca, in veste di capitano generale delle genti in armi, ma nel corso del concilio di Pisa (1409), al quale parteciparono i maggiori esponenti delle due obbedienze, si consumò il nuovo passaggio di fronte di Ladislao, che si dichiarò fedele a Gregorio XII, ospite dal novembre di quell’anno di Carlo Malatesta, signore di Rimini. Il M. e Ladislao si ritrovarono nuovamente su posizioni opposte, tanto più che il re di Napoli aveva ripetutamente tentato di occupare alcune città marchigiane, revocando al M. il titolo di conte di Manopello. In realtà il distacco fra i due era già avvenuto il 5 dic. 1408, quando il signore di Fermo fu scelto capitano della lega contro Gregorio XII, formata da Bologna e Firenze.

È in tale frangente (maggio 1409) che il M. fece giustiziare per tradimento il nipote Giannocchio che, posto alla custodia delle fortezze di Monterubbiano e Marano, era venuto segretamente a patti con i capitani di Ladislao e Rodolfo da Varano con lo scopo di sottrarre il potere allo zio.

Tra il 25 e il 26 giugno 1409 giunse la decisione del concilio che dichiarò decaduti e scomunicati Gregorio XII e Benedetto XIII, eleggendo un nuovo pontefice nella figura di Pietro Filargis che assunse il nome di Alessandro V. La crisi, ben lungi dall’essere risolta, si era dunque complicata con la presenza di tre papi, ognuno sostenuto da alleati influenti. Ladislao di Napoli continuava nel frattempo la sua azione militare ai danni del territorio fermano, scontrandosi con il M., che prima lo batté a Monte Urano, poi fu a sua volta sconfitto dal re nei pressi di Massa Fermana. In Alessandro V, però, il M. aveva trovato un altro protettore influente che, il 15 luglio, lo elesse vicario di Fermo e di tutte le altre terre della Marca. Successivamente il M. inviò a Firenze, attaccata da Ladislao, 500 uomini per rafforzarne le difese; a fianco dei confederati, comandati da Malatesta Malatesta signore di Pesaro (Malatesta dei Sonetti), egli partecipò inoltre alla presa di Roma (2 genn. 1410). La notizia fu accolta a Fermo con grandi festeggiamenti e il M. contraccambiò il valore dimostrato dai suoi soldati con una munifica ricompensa.

L’improvvisa morte di Alessandro V, avvenuta il 3 maggio 1410, e la successione al soglio pontificio di Baldassarre Cossa, che assunse il nome di Giovanni XXIII, misero il signore di Fermo in una posizione difficile. La Marca poteva vantare molti sostenitori di Gregorio XII e del suo influente alleato, Carlo Malatesta. Per non rimanere isolato, il M. decise allora di giurare fedeltà a Gregorio XII, ottenendone in cambio il perdono e la liberazione di alcuni suoi congiunti che erano stati imprigionati; così egli si ritrovò di nuovo alleato di Ladislao e confederato di una lega contro Giovanni XXIII. La coalizione, costituita il 21 genn. 1411, annoverava tra i suoi aderenti anche i Malatesta di Rimini, di Cesena e di Pesaro; i Manfredi, gli Ordelaffi e i da Varano. Lo schieramento avverso era capeggiato da Ludovico d’Angiò, rivale di Ladislao per il trono di Napoli, il Fortebracci e Paolo Orsini. Le due fazioni si scontrarono a Roccasecca il 19 marzo 1411 e l’esito dell’accanita battaglia fu favorevole ai sostenitori di Giovanni XXIII, ma la vittoria si rivelò effimera. Nel giro di breve tempo, infatti, l’esercito di Ludovico d’Angiò, fiaccato dalle malattie, retrocesse progressivamente fino a tornare, nell’agosto dello stesso anno, in Francia.

Una volta incassati i compensi dovuti dal pontefice e dal re di Napoli, il M. compì un clamoroso passaggio di fronte, abbandonando Gregorio XII, per passare dalla parte di Giovanni XXIII che, a sua volta, gli conferì la seconda nomina a rettore della Marca (21 sett. 1412). La risposta di Gregorio XII e dei Malatesta, suoi protettori, non tardò ad arrivare e il 5 febbr. 1413 Andrea Malatesta, dopo aver conquistato diversi territori dell’Anconetano, occupò Recanati. Contestualmente anche Monterubbiano si ribellava al M. e nominò come proprio signore Carlo Malatesta che, spalleggiato da Angelo Della Pergola, invase anche i territori confinanti. Giovan;ni XXIII mandò in aiuto del M., impegnato nell’assedio di Monterubbiano, Paolo Orsini e 1600 cavalieri, ma al condottiero romano non fu possibile trattenersi a lungo perché Roma e Giovanni XXIII erano ancora minacciati da Ladislao; prima di abbandonare le file del signore di Fermo, gli consegnò Montegiorgio e lasciò un presidio di 200 uomini a Macerata. Mentre l’Orsini, trovata sbarrata la via per Roma, si ritirava in Rocca Contrada, i Recanatesi, di nuovo in armi, assaltarono il castello di Monte Santo, ma grazie all’invio di aiuti da Montecosaro e Montegranaro, la vittoria arrise al Migliorati. La sua posizione restava comunque critica: da una parte Ladislao, forte dell’occupazione di Roma, faceva pervenire cospicui rinforzi nella Marca; dall’altra Carlo Malatesta aveva ripreso a insidiare castelli e territori del Fermano. Nell’agosto del 1413, infatti, il signore di Rimini non solo aveva sottratto Francavilla d’Ete al M., ma era riuscito a trattare la resa dei castelli di Cerreto, Alteta e Montegiorgio. Privato di buona parte dei suoi domini e sostenuto dalla mediazione di Rodolfo da Varano, il M. chiese una tregua (3 nov. 1413). Arbitro del trattato fu Ladislao, con cui il signore di Fermo venne a patti e al quale inviò, in segno di pace, i servigi del fratello Gentile e di 400 uomini (29 genn. 1414). Nell’agosto di quello stesso anno il re di Napoli morì e tale avvenimento favorì un momento di riconciliazione nella Marca. Tramite gli ambasciatori dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, il M., i Malatesta, i da Varano e i loro confinanti, siglarono un’intesa che doveva essere il giusto preludio al concilio indetto a Costanza.

In realtà l’accordo fu di breve durata: Carlo Malatesta riprese le incursioni nel Fermano e, nel novembre del 1414, giunse a minacciare la città che resistette, spronata da un agguerritissimo M., costringendo il nemico a rivolgere la propria offensiva verso gli altri castelli della zona. Alla fine del 1415 il signore di Rimini aveva però, di fatto, conquistato gran parte dei possedimenti del signore di Fermo, costringendo nuovamente il M. a chiedere una tregua. Fu Braccio da Montone a offrirgli la possibilità di liberarsi dalla pressione malatestiana. Egli, coadiuvato dai Bolognesi, era infatti penetrato in Romagna e la stava mettendo a ferro e fuoco. Riconosciuta l’impossibilità di combattere su più fronti, i Malatesta trattarono una tregua con il M., i da Varano, Braccio e la città di Ancona.

Nel luglio del 1415, al concilio di Costanza, si giunse alla rinuncia di Gregorio XII. Eventuali ripercussioni nella Marca, fedele al pontefice deposto, furono prevenute dai padri conciliari con l’invio in loco di commissari pontifici e con la creazione di una nuova lega, siglata a Fermo, fra Ancona, Fermo e Camerino. La compagine aveva nel M. il proprio capitano, nominato per la terza volta rettore generale della Marca, che ne approfittò per recuperare i territori sottrattigli dal Malatesta nella Marca meridionale. I due giunsero, infine, allo scontro diretto sotto le porte di Ancona: il M. uscì vincitore e, con il sostegno dei confederati, attaccò e occupò Senigallia. Il Malatesta stava affrontando un momento critico: nominato capo dell’esercito perugino per difendere la città, assediata da Braccio da Montone, fu però sconfitto ad Assisi il 12 luglio 1416 e, insieme con suo nipote Galeazzo, cadde prigioniero del Fortebracci, lasciando così al M. piena possibilità di recuperare quasi tutti i castelli del contado e di impossessarsi delle fortezze attorno a Sanseverino. Antonio Smeducci, signore del luogo, si appellò al commissario ecclesiastico il quale, per evitare il sacco della città, ricorse alla stipula di un accordo alla presenza del M. e dei da Varano (17 ag. 1416).

Fra tanti vittoriosi avvenimenti, il signore di Fermo fu però colpito dalla morte della moglie Bellafiore, avvenuta nel settembre 1416 nel castello di Girifalco.

Il M., che si trovava nel territorio di Montegiorgio per debellare le ultime resistenze dei Malatesta, ottenutane l’obbedienza, sciolse l’assedio e ritornò a Fermo dove celebrò le onoranze funebri della consorte tanto amata. Bellafiore, figlia di Conte da Carrara dei signori di Ascoli, aveva dato al M. una prolifica discendenza: i maschi Giacomo e Pietro, ambedue destinati a ricoprire il vescovado di Fermo, e Firmano che sposò Caterina Riccardi, figlia di Francesco signore di Ortona nonché maresciallo del Regno di Napoli. A questi erano seguite Costanza e Antonella, maritate rispettivamente con Ostasio III da Polenta, signore di Ravenna, e con Giosia d’Acquaviva, duca d’Atri.

Grazie all’operato di Pandolfo III Malatesta e degli ambasciatori veneziani e fiorentini, che s’incontrarono a Camerino con il M., Rodolfo da Varano e Braccio da Montone, nel febbraio 1417 fu bandito finalmente un compromesso fra i Malatesta e i collegati. Intervenuti i procuratori delle parti in causa, si pattuì il libero commercio nei territori di Fermo, Perugia, Camerino e Pesaro, insieme con la liberazione di Carlo e Galeazzo Malatesta, verificatasi di fatto nel marzo di quell’anno, dietro pagamento di un oneroso riscatto. A indebolire la situazione dei Malatesta e a favorire di contro quella del M. giunse dal concilio di Costanza la notizia dell’avvenuta elezione a pontefice del romano Oddone Colonna che prese il nome di Martino V (11 nov. 1417). In segno di gratitudine per il costante sostegno prestato al concilio, il neoeletto papa riconfermò congiuntamente al M. e al fratello Gentile il vicariato in temporalibus su Fermo, Montegranaro, Monterubbiano, Montecosaro e Montefiore. A suggello della pace ritrovata e della nuova alleanza con i Malatesta, il 16 genn. 1418 il M. si unì in seconde nozze con Taddea, figlia di Malatesta Malatesta signore di Pesaro.

Solo nel 1426 l’unione fu benedetta dalla nascita di un maschio, chiamato Cosma come il più illustre rappresentante di famiglia, papa Innocenzo VII, ma l’erede morì pochi mesi dopo la nascita. Il M. aveva avuto anche due figlie naturali, di cui ignoriamo il nome: una aveva sposato, nel 1420, Marizeno da Francavilla, l’altra nel 1426 un Branciotti da Monterubbiano.

A dispetto degli accordi appena raggiunti, nel corso del 1418 la situazione mutò velocemente. In seguito a contrasti territoriali sorti con i da Varano e gli Smeducci, il Fortebracci inviò ambasciatori al M. dal quale pretendeva un versamento di 4000 ducati, per il riscatto dei prigionieri nelle guerre passate. Il M. compì un significativo errore tattico e liquidò bruscamente gli uomini di Braccio, che per vendetta irruppero nei castelli di Petriolo, Mogliano, Massa, Falerone dando il via a saccheggi e distruzioni. Il M. inviò troppo tardi il danaro richiesto: Braccio lo rifiutò e, portatosi sotto le mura di Fermo, si scontrò con il M. e lo sconfisse.

I cronisti non sono concordi nel riportare la notizia di una prigionia del M.; certamente la sua leggerezza gli costò 8000 ducati d’oro e la consegna di uno dei suoi figli come garanzia di pagamento. L’ingente spesa andò ad aggiungersi ai 4560 ducati che egli rimborsò ad Ancona, in relazione a prestiti ottenuti per il finanziamento delle sue precedenti azioni belliche.

La primavera del 1420 vide il M. e Braccio da Montone questa volta alleati al soldo di Martino V nella guerra contro Bologna, dove si era fatto signore Antonio Bentivoglio. Questi, sconfitto dall’esercito pontificio anche grazie al prezioso apporto militare del M. (17 maggio 1420), fu costretto ad abbandonare la città, che ritornò alle dirette dipendenze della Chiesa.

Frattanto l’iniziativa e l’opera del signore di Fermo si erano trasferite su un terreno di maggiore responsabilità, soprattutto in seguito ai recenti legami parentali con i Malatesta, che lo chiamarono a prendere parte alla guerra di Pandolfo III, signore di Brescia, contro Filippo Maria Visconti. Pandolfo si trovava infatti ormai isolato nella sua lotta contro il duca di Milano e inesorabilmente pressato dalle truppe di Francesco Bussone detto il Carmagnola. A sostegno del fratello, Carlo Malatesta inviò il M. in qualità di comandante generale di un ingente esercito che, passando per il territorio veronese, si congiunse nel Bresciano ai contingenti malatestiani. Appena ne ebbe notizia, il Carmagnola si diresse presso Montichiari e gli inflisse l’ultima, rovinosa sconfitta (8 ott. 1420). Il M. fu fatto prigioniero e condotto a Milano, ma la cattività fu tutt’altro che spiacevole. Liberato dal Visconti, nel marzo del 1421, mandò il figlio Firmano alla corte lombarda, affinché fosse istruito e imparasse l’arte del combattere e del governare.

Ritornato a Fermo, il M. rimase costantemente obbediente e fedele alla Chiesa. La protezione di Martino V era fondamentale per il benessere della signoria fermana e il M. fu perciò costretto a tradire Braccio da Montone. Si sottomise infatti all’ingiunzione papale, che vietava a chiunque di soccorrere il Fortebracci, impegnato nella vana difesa del dominio umbro. Sollevato dagli impegni bellici, che lo avevano condotto su più fronti della penisola italiana, nel 1425 il M. assegnò al fratello Gentile e a Giacomo Caldarola la spedizione voluta dal pontefice contro il ribelle Antonio Smeducci, signore di Sanseverino.

Pur in condizioni difficili, il M. ebbe tempo ed energie da dedicare alla cura e all’amministrazione della sua signoria, rafforzandone le strutture. In primo luogo riformò le magistrature cittadine, separando l’ordine dei magistrati da quello dei consoli, per ottenere così un’autorità propria, indipendente. Vietò inoltre ai procuratori di comparire in tribunale, in modo da indurre una partecipazione diretta dei contendenti; istituì una procedura sommaria seguita anche nei secoli successivi. Il prestigio raggiunto fu tale da giustificare ampiamente il rinnovo del diritto di coniare i bolognini marchesani, recanti l’arme dei Migliorati, una cometa, impressa nel rame.

Nel 1427 fu duramente colpito nei suoi affetti per la morte della madre Antonella e della consorte Taddea, entrambe stroncate dalla peste. Il M. morì a Fermo il 29 giugno 1428.

Il fratello Gentile dimostrò ancora una volta l’amore e la fedeltà che da sempre lo legavano al Migliorati. Anziché approfittare della lontananza di Firmano e impugnare la signoria, tenne nascosta la morte del M. e richiamò in fretta il nipote da Milano, affinché venisse a prenderne possesso. I funerali si tennero solo il 15 luglio e dopo la tumulazione della salma nella chiesa di S. Francesco, i due si ritirarono nel castello di Girifalco in attesa della reazione pontificia. Questa non tardò ad arrivare. Nonostante l’esplicita richiesta rivolta a Martino V dal Consiglio fermano, inerente alla riconferma del vicariato ai discendenti del M., il pontefice ordinò al rettore Astorgio Agnese di intervenire militarmente. Fermo fu occupata il 10 ag. 1428, benché la fortezza del Girifalco risultasse imprendibile. Fiaccati dal lungo assedio, il 22 nov. 1428 Firmano e Gentile trattarono la resa: in cambio della loro capitolazione, ottennero il Ducato di Spoleto e 1100 ducati d’oro da dividersi equamente. Il 16 dicembre dello stesso anno, il rettore Astorgio prese formalmente possesso dell’ultimo baluardo dei Migliorati, sancendo così la fine della loro signoria nella Marca.

Fonti e Bibl.: Archivio segreto Vaticano, Reg. Vat., 333, cc. 216v-217, 218-219v; Reg. Vat., 336, cc. 28v-29; Reg. Vat., 337, cc. 193v-203, 216; Antonio di Pietro Dello Schiavo, Diario romano, a cura di F. Isoldi, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XXIV, 5, pp. 8, 14, 28, 30, 33 s.; Cronaca volgare di Anonimo Fiorentino, a cura di E. Bellondi, ibid., XXVII, 2, p. 334; G.A. Campano, Braccii Perusini vita et gesta, a cura di R. Valentini, ibid., XIX, 4, pp. 19 s., 29, 31-33, 37 n. 1; Antonio di Nicolò, Cronaca della città di Fermo, a cura di M. Tabarrini, in Documenti della R. Deputazione di storia patria per le provincie della Toscana, dell’Umbria e delle Marche, IV, Firenze 1870, pp. 29-34, 36 s., 45-48, 50 s., 55-57, 59; Theodorico de Nyem, De scismate libri tres, Lip;siae 1890, p. 231; G. Broglio Tartaglia, Cronaca malatestiana del secolo XV, a cura di A.G. Luciani, Rimini 1982, pp. 12, 14; C. Lilii, Dellhistoria di Camerino, II, Macerata 1652, p. 133; P. Pellini, Dell’historia di Perugia, II, Venezia 1664, pp. 161 s.; L. Bonazzi, Storia di Perugia dalle origini al 1494, I, Perugia 1875, p. 617; L. Tonini, Rimini nella signoria de’ Malatesti, Rimini 1880, pp. 62, 69; C. Pinzi, Storia della città di Viterbo, III, Viterbo 1899, pp. 484-486; P. Brand, Innocenzo VII e il delitto di suo nipote L. M., in Studi e doc. di storia e di diritto, XXI (1900), pp. 1-39; P. Partner, The Papal State under Martino V, London 1958, ad ind.; N. Valeri, L’Italia nell’età dei Principati, Milano 1969, pp. 349 s., 400; La signoria di Pandolfo III Malatesti a Brescia, Bergamo e Lecco, a cura di G. Bonfiglio Dosio - A. Falcioni, Rimini 2000, pp. 214, 242 s., 363-365, 396, 398; La signoria di Carlo Malatesti, a cura di A. Falcioni, Rimini 2001, pp. 160, 177, 183, 189 s., 192 s., 196 s., 226, 251, 263, 268 s., 378, 382, 387, 393, 396, 622 s., 625, 633, 682, 728, 730, 732, 738; G. Patrignani, Le donne del ramo di Pesaro, in Le donne di casa Malatesti, a cura di A. Falcioni, Rimini 2005, pp. 818-829.

A. Falcioni

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