LIONE I, CONCILIO DI

Federiciana (2005)

LIONE I, CONCILIO DI

GGirolamo Arnaldi-Ovidio Capitani

Con il pontificato di Innocenzo IV (1243-1254) si concluse la lunga vicenda, più che trentennale, della lotta fra il papato e Federico II, che morì all'incirca alla metà del regno di quel pontefice. Se, dopo il 1250, non cessò la guerra contro i suoi discendenti ed eredi (Corrado IV, Corradino, Manfredi), la fase precedente delle ostilità coincise con il punto culminante del conflitto, che segnò l'avvio del tramonto della potenza sveva e dello stesso Medioevo.

Nella valutazione del pensiero politico-teologico di Innocenzo IV ha svolto un ruolo, forse eccessivo, com'è avvenuto anche per gli altri papi 'federiciani' (Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX), la preoccupazione di stabilire se, nel percorso intercorrente fra Innocenzo III e Bonifacio VIII, la posizione di papa Fieschi sia stata più vicina a quella di Lotario di Segni o a quella di Benedetto Caetani. Impostazione indubbiamente legittima, che comunque riguarda più l'evoluzione ‒ ammesso che di evoluzione si possa parlare ‒ del pensiero ecclesiologico che non la contestualità storico-politica che poterono suggerire certe prese di posizione di Innocenzo IV nello scontro con Federico II. È fuori dubbio che questo scontro, per la durata che ebbe e per le conseguenze che comportò nel campo di una revisione radicale dei rapporti fra papato e Impero, assunse anche il carattere di una tappa fondamentale nel processo ideologico della formazione della monarchia papale (Melloni, 1990, pp. 143 ss. e 247-256). Ma proprio la circostanza che fosse il concreto impatto dell'ideologia con la prassi politica del conflitto con lo Svevo a spingere l'ideologia verso sviluppi che, nei predecessori di Innocenzo IV, non si erano manifestati, accentuò un certo carattere di anticipazione di atteggiamenti drastici e sbrigativi, che si sarebbero ritrovati poco meno di mezzo secolo dopo in Bonifacio VIII.

L'evento che caratterizza il pontificato di Innocenzo IV è il concilio che si svolse a Lione fra il 26 giugno (seduta preparatoria) e il 17 luglio 1245. Tredicesimo della serie degli ecumenici, vi presero parte tre patriarchi, circa centocinquanta vescovi, nonché esponenti del mondo monastico e laici, fra i quali l'imperatore latino di Costantinopoli, Roberto di Courtenay, e Taddeo da Sessa, legato di Federico II. In maggioranza i vescovi erano francesi, spagnoli, inglesi e italiani. Assenti i siciliani e i tedeschi per timore dell'imperatore.

Le lettere di convocazione, che portano la data del 3 gennaio 1245 e dei giorni seguenti, prospettata l'opportunità che "ipsa ecclesia per fidelium salubre consilium et auxilium fructuosum status debiti possit habere decorem" (si noti che nella formula "consilium et auxilium" erano sintetizzati gli obblighi del vassallo nei confronti del suo signore), indicavano le emergenze di carattere politico-militare di cui si sarebbe trattato in sede conciliare: necessità di soccorrere la Terrasanta (Gerusalemme l'estate precedente era caduta in mano dei mercenari turchi corasmi al soldo del sultano d'Egitto Ayyab) e l'Impero latino d'Oriente, e di arginare l'invasione dei tartari, nonché ‒ at least, but not last ‒ di adoperarsi "pro negotio, quod inter ecclesiam et principem vertitur" (Conciliorum, 1973, p. 273). In realtà, il concilio, nelle sue tre sessioni ordinarie (28 giugno, 5 e 17 luglio), oltre ad avere affrontato anche temi di carattere giuridico (per esempio, l'usura), trattò prevalentemente del negotium inter ecclesiam etprincipem ed è perciò sul punto dei rapporti fra Innocenzo IV e Federico II, prima, durante e dopo il concilio, che concentreremo la nostra attenzione per contestualizzare sotto il profilo storico-politico le prese di posizione dottrinali di Innocenzo. Per ciò che concerne i punti seguenti, rimandiamo invece alla voce Innocenzo IV: atteggiamento di Sinibaldo Fieschi, allora cardinale prete di S. Lorenzo in Lucina, al momento della prima scomunica di Federico II (10 ottobre 1227) da parte di Gregorio IX e durante la fase preparatoria del concilio, che questo papa nel 1241 intendeva convocare a Roma, essendone però impedito dall'assalto di una flotta pisana al convoglio genovese che trasportava i prelati che avrebbero dovuto parteciparvi (Isola del Giglio, 3 maggio 1241; v. Giglio, battaglia del); mancata partecipazione dell'ormai papa Innocenzo IV al progettato incontro di Narni con l'imperatore (7 giugno 1244) e sua partenza clandestina, via mare fino a Genova, con destinazione Lione, città imperiale, ma non lontana ‒ il che costituiva una valida garanzia di sicurezza contro un eventuale nuovo colpo di mano dell'imperatore ‒ dai confini sudorientali del Regno di Francia; ulteriore rinnovo (dopo quello del 20 marzo 1239, decretato sempre da Gregorio) della scomunica di Federico, compiuto il 13 aprile 1245 da Innocenzo, due mesi e mezzo prima dell'apertura dei lavori del concilio; sintesi dei lavori conciliari; ritardo nella pubblicazione dei decreti.

Appena eletto papa ad Anagni (25 giugno 1243), Innocenzo IV avviò tempestivamente trattative per una composizione delle vertenze che opponevano il papato a Federico II. La reazione di quest'ultimo alla sua elezione dà l'impressione di svolgersi sulla falsariga di un cauto attendismo di fronte a un evento che poteva preludere sia a una conclusione del conflitto complessivamente accettabile da entrambe le parti, sia alla scelta da parte di Innocenzo di una linea di continuità con la politica di Gregorio IX. Non solo il biografo e cappellano di Innocenzo, Niccolò Calvi, che ha dedicato i primi cinque capitoli della sua biografia alla narrazione degli ultimi tempi del suo predecessore, ma la storiografia più recente, forse con l'unica eccezione della ponderata ricostruzione di Melloni, ha ritenuto o di sorvolare sul primo approccio fra Innocenzo IV e Federico II, o di interpretare l'azione del papa come un'ovvia, immediata opzione per la politica di Gregorio IX.

Al di là delle abituali accuse di ipocrisia, di riserve mentali, di disegni segreti, contenute negli scritti polemici che papa e imperatore si scambiarono ‒ ma solo dopo la mancata partecipazione di Innocenzo all'incontro di Narni e la convocazione del concilio di Lione ‒, i due contendenti concordavano sul punto che era necessario porre fine allo stato di gravissima crisi in cui versava la cristianità occidentale per il conflitto fra il papato e l'Impero, il cui protrarsi rafforzava nei due contendenti il convincimento di non poter fare conto su un consenso almeno maggioritario nei Regni d'Europa e nelle città-stato italiane. Così si può comprendere appieno il senso della lettera di congratulazioni (Audita summis expetita) inviata da Federico II a Innocenzo IV alla fine di luglio del 1243, nella quale gli annunzia l'invio di suoi legati, fra i quali Pier della Vigna e Taddeo da Sessa, per risolvere le questioni pendenti. È un testo da valutare al di là di ogni banalizzazione (ipocrisia, menzogna, ecc.), pieno di espressioni amichevoli e addirittura di affetto filiale: per la vedovanza della madre (la Chiesa, priva dello sposo, allusione, più che a Celestino IV, a Gregorio IX) gli era stato sottratto il dolce nome di figlio, che ora, con l'elezione di Innocenzo IV, gli veniva restituito. Sulle questioni di principio la lettera non lascia però adito a dubbi sino dall'inscriptio e dall'intitulatio: "Sanctissimo in Christo patri domino Innocentio Dei gratia sancte Romane Ecclesie summo pontifici, Fridericus eadem gratia Romanorum imperator semper augustus, Jerusalem et Sicilie rex" (Historia diplomatica, pp. 104-105).

Per il momento, Innocenzo IV non voleva sollevare questioni di principio. Per condurre trattative con l'imperatore, scelse inviati a lui non sgraditi. Secondo il biografo del papa, la legazione che questi inviò a Melfi precedette addirittura quella imperiale ad Anagni, ma nella lettera di Federico non se ne fa cenno. Si tratta probabilmente dell'abituale preoccupazione di Calvi di sottolineare la benevolenza di Innocenzo e la doppiezza di Federico, che, per il tramite dei suoi legati, si era impegnato in promesse che non avrebbe poi mantenute. Nella lettera enciclica (Assumpto ad regimen), che scrisse nell'agosto del 1244, subito dopo la mancata partecipazione del papa all'incontro di Narni del giugno precedente, Federico ricorda le condizioni che Innocenzo aveva posto agli inviati imperiali ‒ esse prevedevano la restituzione delle terre rivendicate dalla Chiesa e la pacificazione con Milano e gli altri comuni ‒ e il fatto che, solo dopo che egli le ebbe accettate, Innocenzo avrebbe inviata la sua delegazione, precisandone, anche, la composizione: "l'arcivescovo di Rouen [Pietro di Calmieu], ora cardinale vescovo di Albano, il vescovo di Modena [Alberto Moschetti, subentrato a Niccolò Maltraversi, vescovo di Reggio, deceduto nel 1243], ora cardinale vescovo di Sabina, e l'abate di S. Facondo [diocesi di León; Guglielmo di Talliante], ora cardinale prete dei S.S. Apostoli" (M.G.H., Leges, 1896, pp. 341-351, ma cf. p. 342). Tutti scelti, come ci tiene a far sapere il biografo di Innocenzo, perché tunc dicti imperatoris zelabant salutem.

Nell'ottobre del 1243, dopo che Federico ebbe liberati i due cardinali catturati al Giglio nel 1241, che erano ancora suoi prigionieri, il papa poté rientrare a Roma da Anagni, ricevendo, dopo la prima euforia, un'accoglienza non proprio entusiastica. Era il minimo che si potesse attendere. Ma già in settembre, quando i legati imperiali ad Anagni vennero richiamati, era apparso chiaro che il filo che era stato ristabilito con Federico II non avrebbe tenuto a lungo. Sempre in settembre, il 9, era poi scoppiata l'insurrezione di Viterbo contro il dominio dello Svevo.

A provocarla non era stato in prima persona il papa, che, pur essendone stato informato, si limitò a stare a vedere. Dietro gli insorti c'era il cardinale viterbese Raniero Capocci, che già durante il pontificato di Gregorio IX si era scontrato con Federico II proprio per Viterbo. Se non nelle intenzioni di Innocenzo IV, certamente in quelle di Capocci, l'insurrezione aveva lo scopo di rendere impossibile ogni politica di pacificazione, finendo, dunque, coll'apparire in contrasto con la linea seguita fino allora da papa Fieschi, anche se, in realtà, poteva fargli gioco sondare le reazioni dell'imperatore di fronte a un'iniziativa che ricordava l'atteggiamento intransigente di Gregorio IX. Federico reagì militarmente, ma senza successo, e dovette rimanere ugualmente male quando i viterbesi ‒ nonostante l'intervento del cardinale di S. Nicola in Carcere Tulliano, Ottone, che, sostenitore di una diversa politica, aveva negoziato un armistizio fra la città e gli imperiali ‒ persistettero con tenacia nella loro azione, sempre sobillati dal cardinale Capocci. Calvi attribuisce ogni responsabilità dell'accaduto all'imperatore e la vittoria degli insorti a un intervento della divina provvidenza.

Come si evince dalla pubblicistica delle due parti prodotta dopo la convocazione del concilio di Lione, la questione di Viterbo costituì un ostacolo per ogni tentativo di avvicinamento fra papa e imperatore. Nell'ossessiva preoccupazione di evitare che il fronte dell'intransigenza nei riguardi di Federico potesse registrare qualche cedimento, Capocci organizzò una campagna libellistica di preparazione e diffusione delle motivazioni della prevista condanna e deposizione dell'imperatore. Opera di Capocci sarebbero stati i libelli Aspidis ova (primavera 1245), riecheggiante motivi gioachimitici ed escatologici che trovano riscontro nella stessa deposizione, e Iuxta vaticinium Ysaie, del maggio dello stesso anno, quando il patriarca di Antiochia, plenipotenziario del papa, era stato autorizzato a sciogliere dalla scomunica Federico, ove avesse dato soddisfazione alle sue richieste.

Nel tardo autunno del 1244, da Genova, dove aveva sostato a lungo perché malato, Innocenzo IV giunse a Lione. Il 27 dicembre (festa di s. Giovanni Evangelista, patrono della cattedrale) convocò il concilio per la prossima festa (24 giugno 1245) di s. Giovanni Battista. Nella predica pubblica in cui ne diede l'annuncio, intimò all'imperatore di assistervi di persona o mediante procuratori con pieni poteri. "Il papa dichiarava di essere stato indotto a scegliere questo mezzo inusuale perché l'imperatore gli aveva impedito ogni possibilità normale, ciò che lascia pensare che i negoziati fra le due curie erano ufficialmente interrotti dopo il viaggio del papa" (Wolter-Holstein, 1965, p. 52). È difficile sottrarsi all'impressione che Innocenzo non desiderasse incontrare lo Svevo. Vane risultarono le diverse pressioni esercitate su di lui, dagli interventi mediatori dei patriarchi di Aquileia e di Antiochia, alla minaccia di ritorsioni ai danni dei gruppi parentali dei Fieschi da parte di Federico, all'offerta avanzata da quest'ultimo di accettare una pace alle condizioni pattuite nel 1243.

Due mesi e mezzo prima dell'apertura del concilio, il 13 aprile 1245, fu rinnovata dal papa la scomunica contro l'imperatore. Nel discorso che tenne nella seduta inaugurale, Innocenzo elencò i "dolori" che lo affliggevano: la corruzione dei costumi, il pericolo che correva la Terrasanta, lo scisma con la Chiesa greca, i problemi dell'Impero latino d'Oriente, la minaccia dei tartari e la persecuzione della Chiesa da parte di Federico II. Ma, nel corso del concilio, la questione federiciana è prospettata come il male più grave. L'imperatore è accusato di spergiuro: a prova vengono addotti i privilegi imperiali emanati a favore della Chiesa durante i secoli, non però anche il Constitutum Constantini. Ma Innocenzo va ormai delineando una concezione dei rapporti con Federico II, in cui le argomentazioni tradizionali (spergiuro, sospetto d'eresia, sacrilegio, inosservanza dei patti) sono accompagnate e surclassate dalla decisa affermazione di dipendenza dell'Impero e dell'autorità regale dalla potestà papale o, per meglio dire, dal papa in persona. Durante la terza e ultima sessione (17 luglio 1245) fu letta la bolla di deposizione di Federico II (Conciliorum, 1973, pp. 278-283). Nella parte finale, Innocenzo fa sì riferimento alla matura ponderazione compiuta (deliberatione [nel senso di 'esame'] prehabita diligenti) insieme con i suoi confratelli e il "sacro concilio" in merito agli scellerati eccessi dell'imperatore ‒ non solo quelli ivi enumerati, ma anche moltissimi altri ‒, ma si guarda bene dal sottoporre la bolla a una formale approvazione da parte dell'assemblea conciliare, aggiungendo, a scanso di equivoci, che era a lui, vicario di Cristo in terra, che si dovevano intendere rivolte le parole indirizzate da Cristo alla persona di Pietro: quodcumque ligaveris super terram ecc.

Negli Apparatus in quinque libros decretalium, un commento al Liber Extra di Gregorio IX iniziato da Innocenzo IV prima di essere eletto papa e portato a termine dopo il concilio di Lione, si legge che la presentazione della sentenza di deposizione di Federico al concilio aveva avuto uno scopo scenografico: "Praesentia concilii est ad solemnitatem tantum" (Miethke-Bühler, 1988, p. 111; in un altro passo Innocenzo afferma che, come Cristo, mentre era ancora in vita, avrebbe potuto deporre un imperatore, "il suo vicario lo può egualmente").

Queste affermazioni non mancarono di suscitare perplessità anche negli ambienti ecclesiastici. Ma l'aperta reazione di Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln, si sarebbe avuta solo cinque anni più tardi (maggio 1250), con la lettura, durante un concistoro tenutosi proprio a Lione, dove si trovava tuttora Innocenzo IV (ne sarebbe partito, per rientrare a Roma, solo nel 1251), di un suo memorandum che criticava apertamente la politica curiale.

Innocenzo riuscì ad attirare alla sua causa il titubante Luigi IX, agevolandogli la politica di estensione dell'influenza della dinastia capetingia, col favorire il matrimonio del più giovane dei suoi fratelli, Carlo (non ancora d'Angiò: avrebbe ricevuto in appannaggio l'Angiò e il Maine nel 1246), con Beatrice, figlia ed erede di Raimondo Berengario V, conte di Provenza. Buon esito ebbe anche una legazione papale in Germania con il compito di indurre i principi elettori a designare un nuovo re dei Romani e, quindi, un nuovo imperatore. Il 22 maggio 1246 fu infatti eletto dai soli elettori ecclesiastici Enrico Raspe, langravio di Turingia, già alleato di Federico II. Lo chiamarono per beffa rex clericorum.

Frattanto era ancora in corso la repressione della congiura di Capaccio (v.), ordita da Lione ai danni di Federico: "l'unico caso", come scrive Ernst Kantorowicz (Federico II, imperatore, Milano 1976 [Berlin 1927], p. 641), "di un papa che abbia effettivamente tentato di far uccidere un imperatore". Sventato il complotto e puniti atrocemente i traditori, Federico, nella primavera del 1247, partì dal Regno di Sicilia, diretto in Germania, ma passando dal suo Regno di Borgogna, dove intendeva incontrare Innocenzo IV a Lione, pronto, se la mediazione di Luigi IX non avesse avuto successo, a usare la forza contro il papa, assediando la città, come aveva fatto con Roma al tempo di Gregorio IX. Ma, giunto a Torino, fu raggiunto dalla notizia della defezione di Parma. Il viaggio a Lione e la spedizione in Germania furono immediatamente sospesi.

Morto Federico, Innocenzo tornò a Roma da Lione, altera Roma, in cui aveva soggiornato dal dicembre del 1244, senza avvertire il peso di questo prolungato distacco dalla sua sede naturale.

L'identificazione della sua persona fisica con il fondamento stesso dell'istituzione di cui era il titolare pro tempore era giunta al punto di fargli dire che i limina apostolorum, cioè le tombe degli apostoli Pietro e Paolo, erano ubi papa est, quindi non necessariamente a Roma, aprendo così in qualche modo la strada al Papato avignonese.

L'ideologia politica di Innocenzo IV si trova espressa nelle sue dichiarazioni e, soprattutto, negli Apparatus, nonché nello scritto Eger cui lenia (o cui levia), anonimo, dapprima attribuito allo stesso pontefice, poi negato alla sua penna e da ultimo assegnato al suo entourage, non senza la sua cooperazione. Questo scritto fu redatto fra la fine del 1245 e l'inizio del 1246, in polemica con due encicliche di Federico II, Etsi cause nostre (Historia diplomatica, pp. 331-337) e Illos felices (Acta Imperii inedita, pp. 49-51), del luglio-settembre 1245, nelle quali veniva riassunta la storia dei rapporti fra l'imperatore, Gregorio IX e Innocenzo IV.

Ma già nell'agosto del 1244 gli stessi argomenti erano stati esposti nella citata epistola di Federico (Assumpto ad regimen) a proposito del fallimento dei negoziati di pace, che si sarebbero dovuti concludere a Narni ai primi di luglio di quell'anno e che fallirono perché il papa disertò l'incontro e partì per Lione. Proprio la circostanza che l'imperatore avesse ritenuto di documentare minuziosamente, prima che venisse convocato il concilio, l'irreprensibilità della sua condotta nelle trattative svoltesi fra l'elezione del Fieschi e la sua partenza per Lione, sta a dimostrare che, se il papa non riteneva più possibile l'instaurazione di un rapporto tradizionale con lui nei termini in cui aveva tentato di instaurarlo con Gregorio IX, anche Federico era giunto alla conclusione che la mancata partecipazione di Innocenzo al convegno di Narni significava la fine di un disegno politico più generale circa i rapporti fra papato e Impero e l'affermarsi di una nuova concezione della posizione giuridica del pontefice romano in seno alla christianitas.

Non pare infatti possibile considerare come una forma di captatio benevolentiae le parole con le quali l'imperatore aveva annunciato ai suoi fedeli l'elezione di Innocenzo nella lettera dei primi di luglio del 1243 (Excelsus super omnes), nel momento in cui denunciava lo stato di marasma nel quale erano precipitate la Chiesa e Roma stessa dopo la morte di Gregorio IX e di Celestino IV. Il richiamo, non privo di ironia, al pastor utilis, al rector idoneus, che, con la morte di Gregorio IX, la christianitas aveva perduto, aveva anche lo scopo di rammentare che ci si attendeva dal nuovo papa una conclusione della crisi che aveva ingenerato il conflitto non sanato con Gregorio IX (Historia diplomatica, pp. 101-103). A distanza di poco più di un anno, Federico II dichiarava di non avere ritenuta né valida né giusta la scomunica inflittagli a due riprese (nel 1227 e nel 1239) da Gregorio, ma di avere fatto tutto il possibile affinché, per questo motivo, non venisse differito "pacis tractatus et inicium" (Assumpto ad regimen, in M.G.H., Leges, 1896, p. 341).

L'iterazione della scomunica da parte di Innocenzo (13 aprile 1245); il fallimento del tentativo di mediazione esperito da Alberto, patriarca di Antiochia; la dichiarazione del papa di essere lui a deporre Federico, perché lui solo aveva il potere di farlo: sono altrettanti segni della ripresa, su nuovi presupposti ideologici, della politica che Gregorio aveva tentato di svolgere nei confronti di Federico forse con minore consapevolezza. Con papa Fieschi trovano un'attuazione piena e consapevole alcune equazioni giuridiche: la regalità di Cristo è superiore a quella di qualsiasi altro potere, sia spirituale che temporale, all'interno della Chiesa, concepita come società globale degli uomini; essa è stata trasmessa una volta per tutte al papa, la cui giurisdizione è universale, toccando anche gli infedeli; qualsiasi altro potere e giurisdizione che si ponga al di fuori, a giudizio del papa, di quella società globale, è la negazione del disegno divino ed è perciò la più grave delle eresie; esso viene a decadere automaticamente, consentendo al papa di esercitare il suo diritto di sostituzione per il ripristino dell'ordine nella società.

Il concetto di prevalenza del papa sull'imperatore trova un'ulteriore illustrazione e una maggiore organicità nel commento di Innocenzo IV al Liber Extra, 2.2.10 (Licet ex suscepto), che testimonia un continuo processo di affinamento dottrinale sulla natura del potere papale negli anni successivi al 1245. Il rapporto speciale, che unisce il papa all'imperatore, a differenza di ciò che avviene con gli altri sovrani, si fonda sul presupposto che solo questo è l'avvocato del papa, è da lui consacrato, a lui presta giuramento. In altri termini, lo riconosce come suo superiore diretto e ne riceve l'Impero. È per questa ragione che il papa è legittimato a esercitare al suo posto la giurisdizione dell'imperatore, nel caso che quest'ultimo si dimostri 'negligente'.

Il fatto che l'imperatore ‒ e non i re o gli altri principi ‒ si trovi al vertice della società umana e sia inferiore solo al suo giudice prossimo, che è il papa, rinforza ed esalta la posizione di questo come vertice supremo della società stessa. La dipendenza dell'Impero dalla Chiesa è, per così dire, necessaria alla sublimazione del papa. L'Impero, insomma, non è negato, ma fortemente voluto come necessario più al papa che alla società umana. Il dualismo orizzontale si è mutato in funzionalismo verticale e discendente.

Fonti e Bibl.: Historia diplomatica Friderici secundi, VI, 1; Acta Imperii inedita, II, Urkunden und Briefezur Geschichtedes Kaiserreichs und des Königreichs Sizilien in den Jahren 1200-1400, Innsbruck 1885; M.G.H., Leges, Legum sectio IV:Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, a cura di L. Weiland, 1896; Repertorium fontium historiae Medii Aevi, III, Fontes, C, Romae 1970, s.v. Concilium Lugdunense I; Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura dell'Istituto per le scienze religiose, Bologna 1973, pp. 273-301; Repertorium fontium historiae Medii Aevi, VI, Fontes, I-J-K, Romae 1990, s.v. Innocentius IV papa. H. Wolter-H. Holstein, Lyon I et Lyon II, Paris 1965, pp. 11-128; J. Miethke-A. Bühler, Kaiser und Papst im Konflikt, Düsseldorf 1988; A. Melloni, Innocenzo IV. La concezione e l'esperienza della Cristianità come 'regimen unius personae', Genova 1990; Histoire du christianisme, V, Apogée de la papauté et expansion de la chrétienté(1054-1274), Paris 1993, pp. 550-555; O. Capitani, Problemi di giurisdizione nella ecclesiologiadi Innocenzo IV nel conflitto con Federico II, in Friedrich II. Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Romim Gedenkjahr 1994, a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996, pp. 150-162; J. Miethke, De potestate papae, ivi 2000.

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