LINGUAGGI SPECIALISTICI

XXI Secolo (2009)

Linguaggi specialistici

Riccardo Gualdo

La definizione di linguaggi specialistici è forse quella oggi più in uso, ma non è certo l’unica e non ancora quella su cui concordano tutti gli studiosi (Gotti 2005, pp. 22-25; un esame delle diverse denominazioni, da lingue speciali a tecnoletti o microlingue, in Cavagnoli 2007, pp. 13-17). Ci sembra tuttavia preferibile per due ordini di ragioni: da un lato, se per lingua intendiamo, tipicamente, il codice comunicativo verbale esclusivo della specie umana, tra i linguaggi possiamo accogliere anche l’espressione di concetti mediante mezzi non verbali: simbolici, come per es. le formule; iconici, come diagrammi e grafici, illustrazioni, animazioni e filmati e così via. In questo modo, in un’ideale rappresentazione del rapporto tra i concetti delle scienze e la loro espressione ‘testuale’ (Gotti 2005, p. 39) possiamo immaginare due filoni: quello verbale, che a sua volta si sfrangia nelle diverse lingue specialistiche (italiana, francese, inglese ecc.) e quello non verbale, nelle sue varie declinazioni; i due filoni comunicativi possono tra loro intrecciarsi creando – soprattutto nella divulgazione – una ridondanza che facilita la comprensione e l’acquisizione dei concetti. Dall’altro, l’aggettivo specialistici permette di fissare subito una linea di confine tra le forme di comunicazione che nascono in ambiti di alta specializzazione (tra specialisti, appunto), e che in quegli ambiti sono usate nella loro interezza, e le forme di comunicazione che, pur essendo dotate di un fondo terminologico specialistico, interagiscono in modo continuo e ineliminabile con la lingua comune e sono dirette a un pubblico largo e indifferenziato; questa interazione porta ad attenuare la complessità dei processi di formazione delle parole, a ridurre il numero complessivo dei termini tecnici e al tempo stesso a rendere meno rigida la connessione tra quei termini e i concetti cui si riferiscono, tendenzialmente biunivoca nei linguaggi più formalizzati. È quello che avviene nei cosiddetti linguaggi settoriali, come per es. il linguaggio politico e quello sportivo (cfr. R. Gualdo, Il linguaggio politico e C. Giovanardi, Il linguaggio sportivo, entrambi in Lingua e identità, 2006, rispettivamente pp. 187-212 e 241-68).

Tali distinzioni, ovviamente, rispondono soprattutto a esigenze di praticità: di fatto, tra i linguaggi specialistici e i linguaggi settoriali, così come tra questi e la lingua comune, i confini sono sfumati. Per tale motivo, oltre alla nota articolazione in due dimensioni/stratificazioni (orizzontale, che individua settori e sotto-settori disciplinari, e verticale, che distingue i diversi livelli nei quali possono essere usati, a seconda delle situazioni comunicative e delle tipologie testuali; cfr. Gotti 2005, p. 21, e Cavagnoli 2007, pp. 65-71), nell’ambito degli stessi linguaggi specialistici è corrente la distinzione tra quelli delle cosiddette scienze ‘dure’ (tipicamente, la matematica e la fisica), fondate su pochi assiomi, molto coerenti sul piano teoretico, bisognose di un ridotto numero di termini specifici e in grado di pianificare delle procedure – ripetibili e dimostrabili – assai più complesse da esporre con i mezzi delle lingue naturali; e quelli delle scienze ‘molli’, costrette a differenziarsi dalla lingua comune per affermare il loro statuto. Per quanto riguarda le prime, si sostiene spesso che le loro strutture formali, che condizionano il modo stesso di ‘pensare’ la realtà e i fenomeni (‘evocati’ dalle formulazioni), hanno una forza descrittiva superiore a quella del linguaggio comune (dall’intervento di Carlo Bernardini al convegno internazionale su Lingua italiana e scienze, Accademia della Crusca, 6-8 febbr. 2003); per quanto riguarda le seconde, in genere identificate con le ‘scienze morali’ o ‘umane’ (diritto, economia ecc.) il rigore terminologico è attenuato dall’importanza dell’uso concreto e contingente: è l’uso che una persona fa di un certo termine a determinare il significato che questa persona gli attribuisce (Gotti 2005, p. 48).

Tradizionalmente, gli studiosi si sono rivolti in particolar modo al nucleo più caratteristico dei linguaggi specialistici, il lessico e la formazione delle parole; la ricerca linguistica dell’inizio del nuovo secolo sta valorizzando anche altre peculiarità, come, per es., la sintassi e la tessitura testuale, e sta indagando, con risultati molto convincenti, anche gli effetti che i canali e i contesti d’uso, o le necessità pragmatiche (cioè come il linguaggio si adegua agli intenti della comunicazione e al rapporto tra emittente e ricevente), producono sui linguaggi specialistici. Tale allargamento di prospettive ha reso correnti le formule di «comunicazione specialistica» (Cavagnoli 2007, p. 17) e di «discorso specialistico» (cfr. Gotti 2005).

Linguaggi specialistici e lingua comune

Gian Luigi Beccaria ha osservato acutamente che oggi «tra vocabolario comune e vocabolario tecnico-scientifico si alzano barriere sempre più esili e le scienze immettono con sempre maggiore frequenza neologismi nella lingua corrente» e che se «un tempo la persona di media cultura conosceva poche parole scientifiche, oggi ne conosce un gran numero» (Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi, 2006, pp. 55 e 56). La presenza della terminologia specialistica nella lingua comune si avverte soprattutto in quelle discipline o in quei campi del sapere che intrattengono rapporti più intensi con la vita quotidiana. Occasionale, rapido e superficiale è il contatto tra profani e scienze teoriche e sperimentali più o meno ‘dure’, quali la matematica, la fisica delle particelle, la mineralogia, la biologia molecolare; ma analogo discorso vale per quelle scienze umane meno esposte all’attenzione mediatica o all’attrito con la quotidianità, quali la biblioteconomia, la filosofia, la storiografia, la linguistica teorica e applicata. Altre scienze, per es. quelle biomediche, sono notoriamente al primo posto tra gli interessi della collettività; anche il contatto con il linguaggio giuridico, soprattutto nella sua versione burocratica, avviene per necessità, mentre la pervasività delle nuove tecnologie nella vita quotidiana porta grandi masse di parlanti a familiarizzare con le relative terminologie tecniche. Spesso, a far da tramite, sono scritture specialistiche particolari, quali i foglietti illustrativi dei medicinali o i referti degli accertamenti diagnostici; le circolari e i bandi di concorso ovvero le comunicazioni degli enti pubblici e privati con il cittadino; i manuali di istruzioni e d’uso, le etichette. I mezzi di comunicazione di massa agiscono poi da propulsore e da moltiplicatore delle informazioni, funzionando da filtro e da pialla. Con ciò si intende dire che dall’insieme complesso e coerente del lessico specialistico vengono filtrati solo i termini di maggior risonanza occasionale; al tempo stesso, la divulgazione ‘pialla’ i termini smussandone le asperità concettuali (e le ambiguità proprie della speculazione scientifica), proponendoli al pubblico di massa in forme più banali ma più luccicanti, attraenti per il loro prestigio: «Oggi sono i linguaggi specialistici i rappresentanti di una lingua alta, di prestigio, ricca di modelli testuali differenziati e funzionali, che si devono conoscere e saper utilizzare» (Cavagnoli 2007, p. 25). Tale prestigio, tuttavia, si addensa soprattutto intorno al significante, formalmente diverso dal vocabolo d’uso comune, eppure immediatamente riconoscibile, in virtù delle sue proprietà fonetico-ortografiche (esotismi: mutui subprime), formali (morfologia: defibrillatore, cartolarizzare «trasformare i crediti di aziende o enti pubblici in titoli che possano essere negoziati sul mercato» VIT, Vocabolario della lingua italiana Treccani), contestuali (microsintassi: «impostazione di una relazione Bluetooth per file transfer», esempio di costruzione nominale fortemente ellittica, tratto da un testo di informatica in Internet). Costituisce, invece, un fattore di dispersione e di appannamento la circolazione della documentazione in rete, che interessa in modo diretto i testi specialistici.

Nei tre paragrafi successivi proveremo a fornire qualche esempio di come sta evolvendosi il rapporto tra i linguaggi specialistici e la lingua comune, focalizzando l’attenzione sui primi anni del nostro secolo e su tre ambiti disciplinari: la medicina, la legge e le nuove tecnologie, in particolare l’informatica. Ambiti, non discipline specifiche, in quanto ciascuno di essi funziona da catalizzatore di terminologie specialistiche di altri domini, che sono attratti nella sua orbita pur non entrandovi totalmente: così la medicina, in senso ampio, attrae intorno a sé tematiche quali la cura del corpo e della mente e quindi lo sport, l’alimentazione e la psicologia; la legge coinvolge l’insieme dei rapporti tra individui e istituzioni, attirando nel suo ambito discipline quali l’economia e l’amministrazione e intrecciandosi con temi di natura etica, ma anche con bisogni immediati dei cittadini (burocrazia, difesa dei diritti fondamentali ecc.); le nuove tecnologie e i nuovi media formano una galassia che rappresenta, rispetto alle altre due, l’elemento di maggior novità di questo scorcio di secolo: la rapidità del loro evolversi, la presenza diffusa e palpabile fin nei gesti più quotidiani, l’enorme rilievo economico che ne accompagna la circolazione ne fanno il tramite di vocaboli provenienti sia dall’area specificamente tecnologica (informatica, elettronica, trasmissione satellitare ecc.), sia da infiniti altri settori che si servono di strumenti tecnologici per progredire e consolidarsi. Terremo invece esclusi dall’analisi, così come dagli esempi, i codici artificiali, pur se basati su lingue naturali (come quelli in uso nelle comunicazioni aeree o via mare: airspeak e seaspeak), e i linguaggi di programmazione (FORTRAN-FORmula TRANslator, COBOL-Common Business Oriented Language-, Java ecc.).

Le vie principali per la formazione e il consolidamento dei linguaggi specialistici sono, com’è noto, la rideterminazione semantica di termini della lingua comune (navigare, penna di memoria ecc.), realizzata soprattutto attraverso procedimenti metaforici ma nella quale possiamo far rientrare anche i fenomeni di conversione grammaticale, cioè di passaggio da una classe a un’altra, spesso per ellissi («insufficienza della mitrale [valvola]», in Serianni 2005, p. 200; «privilegiare la [pubblicità] tabellare», da un testo in Internet, e cfr. Lanzarone 2007, p. 332; «cavo di collegamento a corto raggio tra PC e [unità] periferiche», esempio tratto da Internet). Il transfert lessicale, ossia il trasferimento di vocaboli ed espressioni da una scienza già consolidata a una scienza o tecnica in via di sviluppo (tali metafore tecniche possono essere d’uso corrente presso gli specialisti o apparire soprattutto nei testi divulgativi). La creazione di neologismi per derivazione o per composizione (si osservi che la percentuale dei composti e la loro lunghezza media sono molto più alte che nella lingua comune, cfr. Gotti 2005, p. 74). La composizione con elementi greco-latini, che combina elementi non liberi, cioè non vitali autonomamente, tratti dalle lingue classiche, ancora molto attiva in quasi tutti i linguaggi specialistici, naturalmente con le debite differenze. L’uso di sigle e acronimi, talora ‘motivati’ cioè esternamente identici a nomi propri o comuni, come ELISA (Enzyme Linked Immunosorbent Assay) o EDIT (Error Deletion by Iterative Transmission). L’accoglimento di forestierismi, in forma integrale o adattata o, ancora, attraverso il calco semantico.

Infine, nel lessico dei linguaggi specialistici hanno una parte consistente i cosiddetti tecnicismi collaterali, cioè «particolari espressioni stereotipiche, non necessarie, a rigore, alle esigenze della denotatività scientifica, ma preferite per la loro connotazione tecnica» (un esame dettagliato in Serianni 2005, pp. 127-59); in questa categoria possiamo accogliere anche tipi morfologici. Degno di nota è il sintagma ‘nome + prep. a + nome’, per es. «reti a struttura accoppiata», «algoritmi di FFT a decimazione in frequenza», modulo non nuovo, ma in espansione perché adatto a rispondere ai composti nominali molto presenti nell’inglese scientifico; e, allargando un po’ le maglie della definizione, i tratti stilistici tipici di certi generi testuali del discorso specialistico (l’articolo scientifico, la recensione, la nota a sentenza, il referto autoptico, la ricetta, la presentazione di un software) che, pur non rispondendo ad alcuna reale necessità comunicativa, sono altamente formalizzati e si sono consolidati nel tempo, soprattutto nell’uso scritto, così da riprodursi per inerzia nella scrittura degli esperti e da risultare facilmente riconoscibili dall’esterno.

Sul piano della sintassi e della testualità, che hanno significative ricadute pragmatiche e comunicative, nei testi specialistici dei primi anni del 21° sec. si confermano alcune tendenze generali, quali quella alla nominalizzazione e al parallelo depotenziamento semantico del verbo, ridotto alle funzioni di ausiliare o di copula (il 44% dei verbi nei testi tecnici contro il 28% nei testi ‘generali’), e all’uso di forme indefinite (participi presenti e passati, gerundi, infiniti, anche allo scopo di eliminare o ridurre i costrutti relativi); alla deagentivizzazione, ossia l’intento – di lontana matrice positivista – di mettere in risalto il fenomeno descritto nascondendo l’agente (l’autore) mediante l’uso del passivo o di forme impersonali. Entrambe queste soluzioni sintattiche, unite a una preferenza sempre più spiccata per la coordinazione contro la subordinazione, producono effetti di semplificazione e concisione del testo. La nominalizzazione agisce anche sulla testualità, poiché conferisce linearità e coesione, e ha interessanti risvolti pragmatici, poiché infonde più oggettività alle opinioni dell’autore (Gotti 2005, p. 39). Tuttavia, se la struttura superficiale del periodo si semplifica (anche grazie al ricorso, a partire da un modello anglosassone favorito dalle modalità della scrittura elettronica, alla suddivisione del testo in blocchi numerati o paragrafi), la nominalizzazione e l’ellissi aumentano la complessità concettuale; così pure, l’alta frequenza di forme indefinite (infiniti, participi, gerundi ecc.) accentua i caratteri di implicitezza e costringe il ricevente a un notevole sforzo per ricostruire la struttura profonda soggiacente alla frase (Gotti 2005, pp. 83-84).

La medicina

Tra i lessici specialistici, quello medico vanta la presenza più alta nei dizionari, circa il 5,45% del totale (Serianni 2005, p. 115). Un indice di radicamento nella storia del lessico italiano, ma anche di continuità nel tempo che non accenna a rallentare: l’apporto delle scienze biomediche alle nuove accessioni dei maggiori dizionari dell’uso è secondo, quantitativamente, solo a quello della politica. Se ci si sofferma a osservare alcuni vocaboli registrati dalla lessicografia e dai repertori di neologismi solo dal 2000 in poi (fonti primarie degli esempi – da qui in avanti – saranno i due maggiori dizionari dell’uso della lingua italiana, VIT e GRADIT, Grande dizionario italiano dell’uso), risulta ancora largamente sfruttato il capiente serbatoio della composizione con elementi greco-latini, quasi sempre poco trasparenti per il parlante comune, che – quando abbia familiarità con le lingue classiche – potrà al massimo associarli a formati più noti (acroagnosia «mancata percezione delle sensazioni provenienti da un proprio arto e conseguente incapacità di riconoscerne la posizione nello spazio», bigenitalità «l’insieme delle caratteristiche psichiche e fisiche di chi presenta ermafroditismo», cistoplegia «paralisi della vescica», facosclerosi «sclerosi degenerativa del cristallino»); in uroperitoneo «presenza di urina nella cavità peritoneale» notiamo come, analogamente al già ben radicato pneumotorace «presenza di gas, per lo più aria, nella cavità pleurica» (cfr. l’ottima definizione del prefissoide pneumo-1 in VIT), il valore del confisso uro- sia forzato a una semantica più ampia che condiziona quella del secondo elemento.

Più interessante la crescita di formati ricalcati su modelli esogeni, come bondaggio «tecnica per fissare apparecchi ortodontici» (< inglese bondage), contragestivo «di farmaco, come la pillola del giorno dopo, che impedisce l’inizio della gestazione nella donna dopo un rapporto sessuale a rischio di concepimento» (< fr. contragestif) o nutraceutico «di sostanza estratta in forma pura da alimenti naturali e associata all’alimentazione in preparati quali pillole, ovuli e sim.» (dall’unione di nutrizione e farmaceutico, sul modello dell’ingl. nutraceutical). Sebbene calmierato dagli organismi di controllo internazionali, è ancora frequente il ricorso a denominazioni eponime, cioè fondate sul nome dello scopritore di una patologia o di una cura.

Un settore del lessico medico in forte espansione è quello rappresentato dai tecnicismi collaterali, a conferma di una progressione – accertata anche nelle altre grandi lingue di cultura occidentali – che ha avuto inizio nel 19° sec. e che probabilmente dipende dall’aumento dei testi divulgativi.

Nella stratigrafia lessicale il latino è ormai diventato «un relitto inerte [...] che potrebbe persino sfuggire ai medici più giovani che non abbiano studiato la lingua di Cicerone» (Serianni 2005, pp. 171 e sgg.). Molto più evidente è, invece, l’ingresso degli anglicismi, che talora si spingono a scalzare lessemi di altra origine: per es., al francesismo mentoniero «relativo al mento» si accosta, nello stesso significato, l’anglicismo mentale in sintagmi quali spine mentali «piccole apofisi», foro mentale o protuberanza mentale (che Luca Serianni, 2005, p. 180, ritiene inaccettabile per omofonia con il derivato da mente). Oppure vi si aggiungono, formando serie di doppioni lessicali nuove rispetto a quelle già presenti in diacronia (latinismo/grecismo, come tra fegato/epatico ecc.). Il modello dell’inglese intacca anche i formanti: al prefisso latineggiante sessuo- «sessuale» tende a sostituirsi la forma semplificata sesso- (sessodipendente, sessodipendenza, sessomane, sessoterapia ecc.) visibilmente modellata sui composti inglesi con sex. Agli esempi forniti da Serianni (2005, pp. 186-88) ne aggiungiamo qualche altro, con alcune riflessioni di commento: metodiche di imaging (diagnostica per immagini) è confortato dal più recente neuroimaging (tecnica per monitorare il sistema nervoso), che tuttavia ammette anche l’italianizzazione neuroimmagine; ancora nella serie di forme caratterizzate dal suffisso -ing citiamo clapping «sbattimento, sollevamento (del torace)», flushing «diarrea, dolori addominali» (letteralmente «arrossamento»), strapping «fasciatura con bende adesive»; nella ricca serie di sostantivi formati con una preposizione inglese, che sembrano essere particolarmente ostici alla trasposizione in italiano, come follow-up «visita o controllo periodico per seguire il decorso di una malattia e verificare l’efficacia della terapia» (VIT) o burn-out «tipo di sindrome depressiva», si aggiungono forme ibride (preposizione latina + accorciamento di parola inglese) come pre-op e post-op (pre e postoperatorio). Appare significativo che l’inglese funga da traino anche per formazioni di tipo metaforico, come open window (calo generalizzato dell’attività del sistema immunitario in condizioni di forte stress fisico; letteralmente «finestra aperta»), o che l’anglicismo sia preferito, evidentemente per ragioni di prestigio, a equivalenti altrettanto validi, come nel caso di shunt «raccordo» (da cui anche il gergale shuntare «fare da raccordo»), spike «picco» o stroke «ictus». Infine, particolarmente insidiosi per le strutture morfologiche sono gli anglicismi terminanti in vocale, come, per es., bite (apparecchio per l’allineamento dei denti formato da sottili mascherine di resina trasparente; letteralmente «morso», da pronunciarsi /bajt/).

Sul piano della sintassi, oltre a tratti già noti e comuni ad altri linguaggi specialistici, quali la nominalizzazione e la deagentivizzazione, sono significative alcune tendenze, che esemplifichiamo da reali referti diagnostici: la soppressione dell’articolo indeterminativo («presenza di # prolungato segmento intercalare interposto fra l’apice bulbare ed il ginocchio duodenale superiore»), la preferenza per forme del verbo non pronominali (originare piuttosto che originarsi), la scelta di nessi preposizionali diversi da quelli in uso nella lingua comune, l’uso di non + sostantivo per indicare l’assenza del relativo fenomeno o patologia («non alterazioni parietali organiche», dove manca un elemento che svolga la funzione predicativa, come richiesto dalla norma). Riguarda il settore della testualità, e deriva dal modello inglese, la violazione della norma secondo la quale il soggetto rematico è posposto al predicato, violazione assai frequente nei foglietti illustrativi presenti nelle confezioni dei medicinali: «I seguenti effetti indesiderati sono stati descritti durante l’uso di PRADIF» (Serianni 2005, p. 184).

Il parlante comune può imbattersi in tecnicismi medici grazie alla cronaca sportiva (l’ematocrito, «rapporto tra il volume del plasma e quello dei globuli rossi», VIT, ricordato da Serianni 2005, pp. 84-85, a proposito della vicenda del ciclista Marco Pantani) o entrarvi in contatto in occasione di eventi straordinari per il loro impatto sociale (morbo della mucca pazza o encefalopatia spongiforme bovina o BSE; sindrome laterale amiotrofica o morbo di Kreuzfeld-Jacobs; influenza aviaria o peste aviaria ecc.); in queste ultime serie, che sono assurte all’inizio del 21° sec. all’onore della cronaca, osserviamo la coesistenza di definizioni popolari ed espressive (morbo della mucca pazza, di diffusione internazionale), di composti con elementi greco-latini (encefalopatia spongiforme), di eponimi (morbo di Kreuzfeld-Jacobs), di sigle (BSE, basata sulla sequenza inglese), di varianti sinonimiche (influenza/peste aviaria).

In questi casi è facile che il tecnicismo entri, per brevi periodi, nella competenza passiva di un alto numero di parlanti. Caso speculare è quello dei referti diagnostici, che l’analista scrive rivolgendosi a un altro medico e che risultano in larga parte incomprensibili per il paziente; se questi potrà ricorrere a un vocabolario per risalire al significato dell’aggettivo ilare «relativo all’ilo» nella frase «regolare morfologia e densità delle ombre ilari» (niente a che fare con ìlare «allegro»), avrà difficoltà di gran lunga maggiore a decifrare un testo come il seguente: «Esofago: regolare per calibro e decorso, erosione di 2 mm a carico del terzo distale, linea zeta a 39 cm dall’ads, risalita in toto di 2 cm dalla giunzione esofagogastrica, e con una risalita a fiamma di 1 cm, si eseguono biopsie della risalita a fiamma (provetta1) e della risalita in toto (provetta2) per sospetto esofago di Barrett. Stomaco: con lo strumento in retroversione si visualizza cardias beante, lago mucoso chiaro, rossa la mucosa. Duodeno: indenne la mucosa sino all’area vateriana».

In questo esempio, insieme ad alcuni dei tratti tipici del linguaggio specialistico (nominalizzazione e riduzione all’essenziale dei costrutti verbali, solo per descrivere le operazioni eseguite, eponimi, eliminazione degli articoli, abbreviazioni), notiamo interessanti usi metaforici, come risalita a fiamma (con il sintagma sost. + a + sost.), lago mucoso e anche linea zeta (linea a zig-zag di passaggio tra esofago e stomaco).

La proliferazione sinonimica, patologia della quale il lessico della medicina è affetto sin dalle sue origini, non riesce a essere controllata e irreggimentata dagli organismi internazionali, che tuttavia riescono a garantire – attraverso soprattutto gli archivi informatizzati che si possono consultare in rete – una facile riconoscibilità dei tecnicismi.

La legge

Tra i linguaggi specialistici il linguaggio giuridico è quello che più si ‘sporca’ con la lingua comune; si potrebbe dire che il suo lessico si distribuisce in tre cerchi concentrici: nel più interno «applicando un criterio di natura semantica» si può far rientrare «l’insieme dei significanti che hanno come significato nozioni e concetti di tipo giuridico»; in quello intermedio, legato agli ambiti d’uso, saranno raccolti «i lemmi e i sintagmi che, a prescindere da una definita semantica giuridica, ricorrono in testi giuridici poiché appartengono a vario titolo al repertorio di usi e abitudini lessicali degli operatori del diritto (legislatore, giudice, teorico del diritto, giurista ecc.) nella concreta produzione di diversi tipi di testo giuridico (normativo, applicativo, interpretativo)» (Dell’Anna 2008, p. 99); infine, nel cerchio maggiore, i cui confini sfumano progressivamente in quelli del lessico comune, rientrano tutti i termini in vario modo rilevanti per la vita associata, compresi quindi quelli appartenenti ad altri linguaggi specialistici e compresi, anche, aggettivi, verbi, persino parole ‘vuote’ della lingua (articoli, preposizioni, congiunzioni e così via) che, per esempio, possano essere oggetto d’interpretazione da parte degli operatori del diritto.

Il linguaggio giuridico possiede tecnicismi specifici (come enfiteusi, fideiussione, peculato, promissario), la cui presenza e distribuzione dipendono dalla materia trattata, indipendentemente dal tipo di testo; riformulazioni o rideterminazioni giuridiche, cioè termini di uso comune o provenienti da altri linguaggi specialistici ma utilizzati con accezioni particolari (vi spiccano le parole generali come bene, cosa, fatto, persona, la cui genericità non è ostacolo ai requisiti di precisione e chiarezza, ma è funzionale a «sussumere con un nome di ampia latitudine semantica l’infinita serie dei casi particolari che possono avere interesse giuridico», L. Serianni, Italiani scritti, 20072, p. 113). Torna utile euristicamente, a questo proposito, la concezione della ‘vaghezza’ del lessico giuridico, vaghezza da distinguersi, naturalmente, sia dall’ambiguità derivante da omonimia e polisemia, sia dalla genericità per cui una data espressione si applica a tutti i membri di una data classe (su questo tema, cfr. Vagueness in normative texts, ed. V.K. Bhatia, J. Engberg, M. Gotti, D. Heller, 2005). La lingua della legge, infine, è molto ricca di tecnicismi collaterali, ai quali Maria Vittoria Dell’Anna (2008, pp. 106 e sgg.) suggerisce di aggiungere la nuova categoria dei prassismi, quei termini, cioè, «diffusi nell’uso giuridico per prassi di scrittura o di composizione», frequenti anche nella comunicazione orale del settore e costituiti il più delle volte da «sinonimi cólti dettati da esigenze di innalzamento del registro»; tipici delle scritture di tipo argomentativo, i prassismi vengono scelti unicamente per ragioni stilistiche: acclaramento, adduzione, assorbente agg., assumere, conferente agg., confliggere e confliggente, controdedurre, delibativo e delibatorio, novellazione, reiettivo e così via.

Sul piano sintattico e testuale, i testi giuridici – differenziati in varie tipologie – condividono alcuni tratti di altri testi specialistici, presentandoli semmai con maggior frequenza: la soppressione dell’articolo (proporre ricorso, presentare istanza ecc.; cfr. Rovere 2005, pp. 35 e sgg.); la ricerca di concisione e impersonalità; la preferenza per forme passive del verbo (ma, come nota Gotti 2005, p. 99, nei contratti, dove contano di più le persone interessate da diritti e doveri che non i diritti e i doveri fissati tra le parti, la forma attiva prevale sulla passiva). Altri tratti, quali i costrutti avverbiali strumentali, l’uso idiosincratico di alcuni connettivi testuali, la diversa gradazione delle valenze verbali, sono stati studiati nel linguaggio recente da Giovanni Rovere (2005). A rendere spesso oscuri i testi giuridici contribuiscono la spiccata intertestualità (cfr. anche Gotti 2005, p. 106) e la tendenza alla ‘trattatistica’, cioè all’appesantimento del testo mediante copiose allegazioni dottrinali. A questi difetti intrinseci si sono, nel tempo, assommati altri due fattori di complicazione: l’assenza di un’adeguata attenzione alla scrittura nella formazione professionale dei giuristi, costretti di fatto ad affidarsi al modello trasmesso dai loro maestri oppure a coniarsi un loro stile individuale, e la tendenza, nella redazione ormai quasi soltanto informatizzata di alcuni testi (per esempio, gli atti difensivi), alla ‘composizione a mosaico’, in termini più rozzi al ‘taglia e incolla’ di dati dottrinali e giurisprudenziali preconfezionati.

Anche nel campo del diritto la lingua italiana sta perdendo il suo ruolo di collante identitario con l’antichissima tradizione di studi e di riflessione giuridica del nostro Paese. A prenderne il posto sono da un lato l’inglese, lingua veicolare internazionale, dall’altro i linguaggi dell’informatica, o meglio i sistemi di reti semantiche o reti concettuali, sostenuti da potenti software informatici (con la loro relativa terminologia), che progressivamente vanno a costruire un supporto ineliminabile per garantire l’intercomprensione tra specialisti del diritto che appartengono a tradizioni linguistiche molto diverse.

Anche di questi fatti portiamo solo alcuni esempi tratti dal lessico entrato in italiano all’indomani del nuovo secolo: in ordine di tempo, le denominazioni inglesi dei contratti di lavoro a tempo determinato introdotti dalla l. 30/2003, job on call e job sharing, cui l’uso concreto affianca vari equivalenti, ancora instabili, fluidi, sia nella prassi comunicativa degli operatori (giuslavoristi, avvocati ecc.) sia nelle fonti ufficiali; il concetto di soft law «spec. nel diritto internazionale, insieme delle regolazioni e raccomandazioni, talora di carattere deontologico, emanate da imprese, consorzi, consociazioni nazionali o internazionali che, pur prive di formalità e cogenza, incidono sui comportamenti anche privati» (GRADIT), ennesimo caso di prevalenza, nell’uso degli specialisti, della dizione inglese rispetto ai vari equivalenti italiani in circolazione, almeno cinque (legislazione non vincolante, legge mite o legislazione mite, legislazione debole, strumenti normativi non cogenti), e in genere segnalati dalle virgolette o accompagnati dall’originale inglese tra parentesi, indizio di incerta stabilizzazione; un ultimo esempio, introdotto nel 2007, è quello di class action: mentre gli esperti discutevano giustamente sulla difficoltà di rendere questa espressione con un equivalente italiano (azione collettiva? causa collettiva? azione legale di categoria?) e mentre molti comuni cittadini lamentavano la poca trasparenza della locuzione inglese, appellandosi a quello che L. Serianni ha chiamato il «comune senso del pudore linguistico» (Prima lezione di grammatica, 2006, pp. 40-41), l’uso giornalistico e il tempo contribuivano al suo progressivo radicarsi nel vocabolario.

Le istanze unificanti della globalizzazione internazionale, rappresentate da interventi delle maggiori istituzioni europee (Parlamento, Commissione, Corte di giustizia), incoraggiano l’armonizzazione terminologica e negli ultimi anni – nonostante i continui appelli alla difesa del multilinguismo – puntano in modo evidente al monolinguismo inglese, cui oppongono resistenza, per un verso, le tradizioni giuridiche nazionali (con il loro vivo apporto di nuovi concetti e nuovi termini), per un altro, la difficoltà di attribuire a un significante inglese le stesse proprietà concettuali che hanno gli equivalenti delle altre lingue. Il cammino verso l’uniformazione, sicuramente avventuroso e difficile, può giovarsi tuttavia di una riflessione teorica ormai pluridecennale, maturata negli anni Novanta del secolo scorso specialmente nel settore del diritto comparato, e soprattutto di una più raffinata e potente strumentazione informatica: in particolare, l’elaborazione di lessici semantici, cioè di reti concettuali costruite attraverso le relazioni di significati, sperimentalmente nella prima metà degli anni Novanta del 20° sec. su un modello teorico, sviluppato da George Miller presso la Princeton University e concretizzatosi nella rete Wordnet; ormai corrente, per indicare tali reti concettuali fondate su relazioni ontologiche (quale, per es., la relazione parte/tutto), è il termine ontologie, altro calco dalla lingua inglese.

Il principale lavoro da fare nei prossimi decenni sarà la creazione di strumenti terminologico-concettuali multilingue per consentire anche al non esperto, e in futuro al comune cittadino, di orientarsi nella documentazione giuridica italiana e internazionale (Palazzolo 2006, p. 24). In questa prospettiva, la principale difficoltà sta nell’esistenza di una doppia serie parallela di linguaggi del diritto: «gli studi di terminologia giuridica ci insegnano che vi è una lingua italiana [...] del diritto privato dell’Unione che è diversa dalla lingua italiana del diritto interno» (G. Ajani, Prefazione a Diritto contrattuale europeo, 2008, p. XV); il linguaggio comunitario impiega termini che sono per loro natura innovativi rispetto alle tradizioni giuridiche nazionali, oppure si serve di termini già noti negli ordinamenti nazionali, rideterminandone la semantica sulla base delle specifiche esigenze comunicative derivanti dall’adozione degli atti: neologismi semantici sono, per es., direttiva, sussidiarietà, ravvicinamento delle legislazioni, rinvio pregiudiziale, transazioni commerciali; termini che entrano non solo nel lessico italiano, ma anche in quello multilingue, attraverso prestiti e calchi (P. Rossi, La trasposizione delle direttive comunitarie nel diritto privato italiano: questioni di terminologia e di redazione dei testi, in Diritto contrattuale europeo, 2008, pp. 94 e sgg.); anche in questo settore l’italiano tende a essere più permeabile ai prestiti integrali, come nel caso del francesismo acquis (communautaire), reso nella nostra lingua con acquis comunitario, dove il tedesco ha gemeinschaft­licher Besitzstand e lo spagnolo acervo comunitario.

Il fatto che il lessico specialistico in uso nei testi comunitari non sia perfettamente sovrapponibile a quello nazionale è un problema molto sentito in ambito giuridico, ma non è un fatto esclusivo di questo linguaggio specialistico: per fare soltanto un paio di esempi, nella direttiva europea sulla firma digitale si usa autenticazione nel senso di ‘identificazione’ e autorizzazione nel senso di ‘abilitazione’ (Palazzolo 2006, p. 15 e nota) o, ancora, nella direttiva europea 85/577 sui diritti del consumatore vengono usati come sinonimi recesso e rescissione per riferirsi alla possibilità di una parte di recedere unilateralmente dal contratto, ma le norme italiane di recepimento hanno preferito adottare il solo recesso per evitare ambiguità con il sistema lessicale nazionale (B. Pasa, Diritto contrattuale europeo ed inconsistenza terminologica, in Diritto contrattuale europeo, 2008, pp. 15-16).

Per converso, nella sintassi dei testi giuridici comunitari sono state notate tendenze alla semplificazione, che accomunano tutte le versioni nelle ormai 23 lingue ufficiali: una minore propensione ai costrutti impersonali e alla forma passiva, una maggior frequenza della disposizione lineare e naturale degli elementi (soggetto, verbo, oggetto) che compongono le frasi, un ricorso più marcato alla paratassi, un diverso utilizzo dell’interpunzione e, in generale, la preferenza per un registro meno formale (P. Rossi, La trasposizione delle direttive comunitarie nel diritto privato italiano, in Diritto contrattuale europeo, 2008, pp. 95-96).

Le nuove tecnologie e i nuovi media

Caratteristica dei linguaggi specialistici in questo settore è la netta separazione tra il momento teorico della ricerca e il momento pratico della commercializzazione e dell’uso. La divaricazione, nei primi anni del 21° sec., è sempre più evidente, al punto che anche uno specialista può non essere del tutto consapevole dei processi e della scienza che si nasconde dietro l’effetto che si produce allo sfiorare uno schermo, al premere un pulsante, all’inviare un comando vocale. Sarà opportuno, pertanto, distinguere tra il versante del linguaggio specialistico osservato dall’ottica del produttore (industrie ad alta specializzazione, in stretto rapporto con la ricerca applicata) e il versante con cui si confronta il consumatore. Il primo è caratterizzato da un altissimo tasso di dispersione e di frammentazione terminologica (in via di normalizzazione solo di recente e soltanto in alcuni settori, v. oltre), il secondo da una ridotta quantità di termini, di alta densità concettuale, di alto uso e frequenza, ma anche destinata a rapida mortalità. I due versanti entrano in contatto attraverso canali ufficiali, quali le norme di standardizzazione internazionali e i manuali di istruzioni; e attraverso il canale, più diretto, degli scambi con tecnici più o meno competenti, i quali, a loro volta, hanno sviluppato un sistema di comunicazione gergale il cui lessico, tributario di quello tecnico, si mescola e si confonde con la lingua comune, diversamente da quanto accade negli ambiti medico e giuridico.

Anche per l’informatica esemplifichiamo alcune tendenze in atto ricorrendo a neologismi entrati nell’uso dal 2000 in poi. Lo strumento più usato per l’arricchimento del lessico in questo settore è la derivazione ma, rispetto al linguaggio della medicina, è di gran lunga inferiore il ricorso a elementi greco-latini (unico caso il composto bibliositografia, ‘bibliografia e sitografia su un argomento’); molto più corrente è la derivazione sostantivale in -zione. Prefissazione e suffissazione sono intensamente influenzate dal modello inglese, che impone serie compatte di suffissati (con -er per i nomi d’agente, -ing per i nomi d’azione e con il più recente -ie per indicare i neofiti di una disciplina) o di prefissati (con cyber-, preferito a info-, più ambiguo e meno connotato come innovativo), ormai trasparenti anche per il parlante italiano (su questo cfr. Gotti 2005, p. 197); sono molto numerosi anche gli ibridi anglo-italiani, con effetti sulla grafia e sulla pronuncia, come in bloggista, pronunciato con g velare, o in customizzare, con pronuncia oscillante tra la riproduzione di quella inglese /kastomid dzare/ e quella italiana; in linkografia, ‘raccolta di link a siti riguardanti un determinato argomento’, e in blogosfera, ‘insieme dei blog esistenti nella rete’, si può osservare la scelta della vocale connettiva -o- (per evitare incontri consonantici inaccettabili per la fonetica italiana), ormai nettamente prevalente su soluzioni alternative, come la -i- o la -a-, ancora utilizzate nei decenni passati. Altissima è la frequenza di composti con e- ‘elettronico’, con web- o con net- nel significato di ‘rete, relativo alla rete’, tra i quali cresce il numero degli ibridi con sequenza anglosassone determinante-determinato (net-azienda ‘azienda che opera usando la rete’; e-farmacia ‘farmacia virtuale che commercializza i farmaci in rete’ ecc.); in adware, ‘software distribuito gratuitamente in cambio della visualizzazione di pubblicità’, notiamo la fusione di ad(vertisement) ‘pubblicità’ con -ware, estratto da software e ormai grammaticalizzato come suffissoide per indicare genericamente qualsiasi programma. Molto complesse e variegate sono anche le forme di composizione (numerosi esempi sono documentati da De Santis 2005).

Non sembra arrestarsi il fenomeno dell’adattamento gergale di anglicismi, la cui motivazione metaforica, trasparente per un anglofono, si opacizza nell’italianizzazione (i sinonimi bannare e kikkare, ‘escludere da una chat o da un forum’, rispettivamente dai verbi inglese to ban ‘bandire’ e to kick ‘prendere a calci’) quando non produce fastidiosi (voluti?) effetti di risonanza con omonimi o omografi italiani di significato diverso (come nel caso di quotare ‘citare’ da to quote; scrollare ‘scorrere (una pagina di rete)’ da to scroll; mirrorare ‘duplicare una serie di dati, spec. con riferimento a siti Internet, da un supporto magnetico a un altro’ da mirror ‘specchio’. Altrettanto immotivata per il parlante italiano è la serie, in continua proliferazione, delle sigle che appaiono identiche a parole inglesi d’uso comune, come POP per Post Office Protocol, LED per Light Emitting Code, PIN per Per­sonal Identification Number, o che sfruttano l’omofonia per effetti di concisione, come P2P per Peer to Peer (grazie all’omofonia tra cifra e preposizione).

A differenza degli altri due linguaggi specialistici esaminati, quello dell’informatica è ricco di elementi iconici, riconducibili schematicamente a due serie: le icone che riproducono un oggetto o un comando, per es. il disegno di una casa a indicare il pulsante virtuale che consente di spostarsi alla pagina iniziale (in inglese home page) o il disegno di un carrello della spesa per indicare il pulsante che consente di raccogliere e acquistare merci in rete; oppure le icone che, combinando caratteri alfabetici e segni della tastiera del computer, servono ad arricchire la comunicazione in rete (posta elettronica, chat, blog ecc.) di sfumature espressive ed emotive (le cosiddette faccine o emoticone, in inglese smileys o emoticons). La prima serie è connaturata al carattere prettamente visivo della comunicazione telematica, sempre più decisamente orientata verso la rappresentazione per oggetti di azioni, luoghi virtuali, parti o funzioni dei programmi. La seconda ha invece un rapporto meno diretto con il relativo linguaggio specialistico, e dipende fondamentalmente dalle caratteristiche del trasmesso digitato, che combina la fissità e l’aridità dello scritto con l’immediatezza del parlato.

I casi di transfert da altri settori, matematica, ingegneria, fisica ed elettronica in prima istanza, ma anche biologia (ambiente, virus, clone ecc.) e linguistica (si pensi a sintassi, giudizio, linguaggio ecc.), si stanno un po’ alla volta riducendo; viceversa, è sempre consistente il ricorso alla metafora: coda (di stampa), cavallo di Troia (per un tipo di virus), dorsale ‘ciascuna delle linee principali di collegamento con maggiore ampiezza di banda e maggiore lunghezza’ (calco sull’ingl. backbone), foglia ‘ognuno dei file contenuti in un disco di memoria, come parte terminale della struttura ad albero di un archivio’, portale (cfr. De Santis 2005 ad voces), in ossequio alla ricerca di maggior trasparenza. Così come in altri campi di conoscenze, come la medicina, la biologia o la chimica, dove la terminologia è stata rivista in base a regole speciali per nominare elementi, malattie e composti, quando un corpo sufficiente di conoscenze si è accumulato, anche nella lingua dell’informatica è stato possibile dare un certo ordine alla terminologia e fornire il sistema funzionale per la continua evoluzione che la disciplina richiede (Gotti 2005, p. 201).

Intensamente anglicizzate sono anche la terminologia della pubblicità e quella della televisione digitale: la prima, tuttavia, presenta tratti peculiari, quali gli adattamenti di composti alla sequenza italiana determinato-determinante (target media in alternativa a media target per ‘complesso dei mezzi necessari per attuare una campagna pubblicitaria’) e serie abbastanza compatte di rideterminazioni semantiche di termini d’uso comune (diapason, scudi, trespoli, totem, maxitotem ecc., cfr. Lanzarone 2007, pp. 330 e 334); la seconda rappresenta un tipico esempio di linguaggio specialistico allo stato nascente, caratterizzato da notevole fluidità semantica e ipertrofia sinonimica: per il concetto di ‘ricevitore che converte il segnale in arrivo dal formato digitale a quello analogico’ vengono usati, in ambito italiano, perlomeno dieci sinonimi; un loro esame raffinato, che tenga anche conto della dimensione diastratica e di quella sociolinguistica, ci permette tuttavia di distinguere, in questa serie, le varianti preferite dalle aziende produttrici, dai tecnici e dai negozianti (per es., ricevitore, decoder, set top box) rispetto a quelle adottate dagli esperti di tecnologie delle comunicazioni e dell’informazione (l’insieme dei due acronimi STB, Set Top Box, e IRD, Integrated Receiv­er Decoder; su questo argomento cfr. Prandi 2008).

Verso una globalizzazione delle terminologie?

Sebbene la diversità delle lingue sia un valore culturale da difendere, in una prospettiva di ecologia linguistica, e nonostante il fatto che, da un punto di vista strettamente fisiologico, il multilinguismo dovrebbe nel tempo avere comunque la meglio sul monolinguismo, i primi anni del nuovo secolo hanno visto decisamente aumentare la pressione a favore dell’uso di una sola lingua (o di poche lingue) nella comunicazione specialistica. A spingere in questa direzione sono fattori politici, come il predominio degli Stati Uniti nello scenario internazionale, consolidatosi nell’ultimo decennio del 20° sec.; fattori economici, quali gli interessi delle grandi multinazionali, anch’esse concentrate soprattutto in area angloamericana e che comunque dialogano tra loro tendenzialmente in inglese (sia pur nelle forme semplificate del broken English o del globish); infine, fattori che potremmo definire interni al sistema di comunicazione che caratterizza l’età attuale, su tutti la diffusione di informazioni tramite le reti telematiche, sempre più rapida e quantitamente rilevante, e i cui vettori sono spesso programmi informatici sviluppati in lingua inglese.

Ricerche recenti hanno misurato l’estendersi a macchia d’olio della lingua inglese nella comunicazione scientifica specialistica (Serianni 2005, p. 183): antiche e prestigiose riviste italiane di medicina, di biologia, di fisica pubblicano ormai da anni solo contributi in lingua inglese, talora dopo avere anglicizzato persino la loro testata. L’italiano è relegato alla manualistica e alla divulgazione, oppure alla messa in circolazione dei risultati più significativi della ricerca sperimentale. Gli scambi di informazione tra esperti attraverso i canali telematici (soprattutto la posta elettronica, ma anche le messaggerie istantanee) avvengono in un inglese semplificato nella grammatica ma ricco di tecnicismi specifici: un dato significativo della colonizzazione anglofona della rete in campo scientifico è la percentuale di siti e biblioteche virtuali di testi in lingua inglese, vistosamente più alta di quelle raggiunte da altre lingue. Stesso scenario nella didattica; lo dimostrano i corsi in lingua inglese aperti nei primi anni del 21° sec. in numerosi atenei italiani e gli incentivi che alcuni di loro, come il Politecnico di Torino, hanno ritenuto di fornire agli studenti che si iscrivano a quei corsi (dall’anno accademico 2007-08). La tendenza è in atto, pur se in misura meno evidente di quanto non sia già accaduto in altri Stati europei, come la Svezia, i Paesi Bassi o la Germania.

La moltiplicazione delle possibilità di scambio di informazioni offerta dalla comunicazione digitale e la crescente rapidità con la quale tale scambio avviene ostacolano adattamenti e traduzioni, favorendo invece la circolazione di ‘pacchetti’ di informazioni redatte in un inglese semplificato sia nel lessico sia nella sintassi, ma comprensibile per una fascia sempre più ampia della popolazione.

Due gli effetti negativi a breve e a medio termine: a breve termine, la fretta di adeguarsi rapidamente alla comunicazione internazionale favorisce il fenomeno dei calchi semantici e morfologici, sempre più spesso formati secondo regole ‘sbagliate’ (Cavagnoli 2007, p. 21); a medio termine, le strutture interne alla lingua italiana rischiano di atrofizzarsi per lo scarso uso, come paventato alla fine degli anni Ottanta dallo storico della lingua Arrigo Castellani (Morbus anglicus, «Studi linguistici italiani», 1987, 13, pp. 137-53). I linguaggi specialistici sono oggi il principale vettore degli anglicismi nel lessico italiano. Tullio De Mauro, nell’Introduzione all’ottavo volume del GRADIT (aggiornamento 2007), afferma che «gli xenismi [...] sono, in questo supplemento, 2677 [tra questi, gli anglicismi sono 1267, ivi, p. X]; i vocaboli tecnico-scientifici di nuova accessione sono 6957, ma sono comuni ai due insiemi ben 1978 termini. La capacità che l’italiano ha conquistato nel Novecento per rispondere con proprie neoformazioni alle esigenze dei diversi campi delle tecniche e delle scienze continua a essere evidente. Ma è anche indubbio che sono proprio i linguaggi specialistici la principale porta d’accesso di anglismi e altri esotismi» (p. IX). L’urgenza di introdurre neoformazioni tecniche e specialistiche e l’assenza di una rete di strumenti e di organismi capaci di rispondere in modo rapido ed efficiente all’ingresso di prestiti integrali o di calchi semantici, rende particolarmente cedevole il lessico scientifico italiano all’accoglienza dei forestierismi. Agli esempi e alle osservazioni svolte nei paragrafi precedenti a proposito dei prestiti integrali dall’inglese aggiungiamo qualche considerazione sui calchi semantici e morfologici.

È senz’altro vero che i calchi semantici sono in genere «forme pienamente amalgamate nelle strutture della lingua ricevente, che si limitano a produrre polisemia in unità lessicali preesistenti, secondo un processo del tutto normale nella storia delle lingue naturali» (Serianni 2005, p. 186); ed esistono ormai mezzi abbastanza sicuri per evitare che – com’è realmente accaduto – il concetto fisico di momento di inerzia sia reso da un traduttore automatico con una formula che, nella lingua d’arrivo, significava «attimo d’abbandono». Ciò nonostante, è sempre più frequente che termini del lessico specialistico inglese, derivati dal latino ma con sviluppo semantico autonomo, siano riprodotti ‘di peso’, è il caso di dire inerzialmente, in italiano, con rischiosi effetti di interferenza. Due soli esempi: in ecologia, fertilisation reso con fertilizzazione, laddove la traduzione corretta sarebbe fecondazione; in linguistica, occurrence reso con occorrenza, laddove ricorrenza sarebbe del tutto appropriato.

Discorso analogo per i calchi morfologici, la cui proliferazione è particolarmente insidiosa per la tenuta delle strutture più profonde della lingua; anche qui, solo un paio di esempi: in fisica delle particelle, l’ingl. collider reso con collisionatore per ignoranza della regola italiana di formazione delle parole che, fondandosi sulla morfologia latina, prevede l’unione del suffisso dei nomi d’azione al tema del participio perfetto latino (quindi: collisore); in linguistica, implicare – o addirittura implicitare – usato per rendere tanto implicate ‘implicare necessariamente’ quanto imply ‘suggerire’.

Altre lingue, com’è noto, reagiscono molto più attivamente; quanto ai prestiti integrali, prendendo spunto dal lessico dell’informatica e delle nuove tecnologie si possono citare il caso di spam ‘messaggi di posta elettronica non sollecitati’ (questa la definizione corretta, anche se poco diffusa nella lingua comune), che il francese rende con il neologismo pourriel, ottenuto dalla fusione dei termini poubelle ‘cestino della spazzatura’ e courriel ‘posta elettronica’ (a sua volta coniato per giunzione delle sillabe iniziali di courrier ed electronique); o quello del marchionimo I-pod reso con baladeur (da balader ‘gironzolare’), da cui è stato possibile trarre baladodiffusion o baladiffusion per rispondere all’inglese podcasting. Restando nell’ambito delle principali lingue neolatine, lo spagnolo risulta meno creativo, ma tende comunque a preferire gli adattamenti grafici e morfologici rispetto all’accoglimento di prestiti integrali e persegue, comunque, un’attenta politica di osservazione e filtro dei forestierismi, dopo essersi dotato di solidi strumenti di analisi morfologica dei neologismi (si vedano per esempio i materiali, per il castigliano e il catalano, disponibili nel sito http://www.termcat.cat/, 12 maggio 2009).

Prospettive locali e globali

Il dibattito scientifico nel 21° sec. si è progressivamente spostato dalle riviste a stampa alle pubblicazioni telematiche (tra cui comprendiamo non solo le riviste accreditate, ma anche le liste di discussione, i forum, i diari in rete o blog). Ai vantaggi per lo scambio di informazioni – si pensi solo alla possibilità di spostare con enorme rapidità quantità di dati sempre maggiori nella ‘seconda generazione’ della rete, che all’inizio del 2008 è stata denominata grid (‘griglia’) per distinguerla dal web – si accompagna però un proliferare sempre più vorticoso della terminologia specialistica, caratterizzata da volatilità e obsolescenza, anche a causa della difficile verificabilità delle fonti.

Concludiamo la nostra trattazione prendendo in esame due prospettive che offrono interessanti possibilità di analisi: la dimensione divulgativa dei linguaggi specialistici e la standardizzazione terminologica.

La divulgazione

La prospettiva divulgativa è utile a comprendere meglio le difficoltà di comunicare i linguaggi specialistici, legate non tanto, o non solo, all’uso di un lessico raro, ma alla «logica interna delle scienze che fa apparire le difficoltà [e] costituisce l’impedimento maggiore alla significazione» (Cavagnoli 2007, p. 19). Nel nostro Paese, dove per molti decenni è stata la Cenerentola della produzione editoriale e mediatica, sta conoscendo una rapida evoluzione soprattutto la comunicazione divulgativa veicolata dai grandi mezzi di comunicazione di massa, in primo luogo la televisione. In generale, si respira un clima di maggior attenzione alle iniziative per diffondere la conoscenza della scienza, come i vari ‘festival’ promossi, con buon successo di pubblico, all’inizio del 21° sec., o come le pubblicazioni che si accostano ai giovani e ai non specialisti con uno stile comunicativo più leggero, per es. facendo intravedere insospettate intersezioni tra le scienze e altri campi del sapere (cinema, arte, letteratura).

In questo contesto le poche, benemerite, trasmissioni di lungo corso, prodotte da alcune emittenti televisive nazionali e purtroppo non tutte premiate da ascolti significativi, sono state affiancate da sempre più numerose trasmissioni di approfondimento, dedicate soprattutto alla salute, alle nuove scoperte scientifiche, ai principali problemi che affliggono il pianeta (come il riscaldamento globale e le sue conseguenze, l’impatto dell’uomo sull’ambiente, i problemi etici legati allo sviluppo della genetica e così via).

A proposito della divulgazione scientifica televisiva, sarà bene distinguere tra una semplificazione banalizzante (già definita scherzosamente facilese) o, peggio, incline a una pericolosa spettacolarizzazione che mira a presentare come misteriosi e incomprensibili fenomeni ben noti agli esperti, e gli esempi virtuosi, capaci di cogliere le grandi opportunità offerte dalla possibilità di accendere nel largo pubblico – che ormai entra in contatto con il mondo esterno solo attraverso la televisione – la scintilla della curiosità e la partecipazione emotiva essenziale per l’assimilazione dei concetti, con gli strumenti che solo quel mezzo può mettere in campo (ripetitività, ‘meraviglioso’ delle immagini, realismo). Come ha affermato Carlo Bernardini, «il segreto della divulgazione risiede nel far capire dove sta il problema e perché sarebbe importante risolverlo, perché questo crea almeno l’interesse per ‘come’ quei problemi si risolvono» (De Mauro, Bernardini 2003, p. 31).

Ci riferiamo a trasmissioni come Superquark (prodotto da RAI 1), dove il conduttore, in uno studio virtuale e con l’aiuto di filmati realizzati in computer grafica, illumina i collegamenti tematici e logici fra gli argomenti mostrando oggetti e documenti con stile comunicativo pacato, studiato nelle pause e ricco di domande retoriche e di gestualità; o come Gaia, il pianeta che vive (prodotto da RAI 3), che sfrutta in modo intelligente «la drammatizzazione dei contesti scientifici, il superamento del linguaggio settoriale e la preferenza per la terminologia non specialistica, l’uso estensivo dell’animazione, la personalizzazione della conduzione, il filmato di qualità» (Guidotti, Mauroni 2008, pp. 122-23). L’analisi di questi prodotti televisivi ha mostrato efficacemente come anche argomenti di una certa complessità (nuove frontiere della fisica nucleare, etologia animale e umana, medicina ecc.) possono essere proposti con successo a un pubblico di massa ed estremamente variegato per età, cultura, classe sociale. Ciò può avvenire se sono presenti almeno due elementi: una meditata tessitura testuale e argomentativa, consapevole delle peculiarità del mezzo, e un’accurata preparazione dei testi. Nella testualità, formule di ripresa e ridondanze garantiscono la coesione, presupponendo la fruizione discontinua del flusso televisivo; un accorto uso di deittici, in funzione indicale, ma anche ostensiva e attualizzante, tiene viva l’attenzione del telespettatore; i termini più specialistici sono introdotti in periodi lineari, accompagnati da glosse introduttive o riepilogative, magari rafforzate da elementi non verbali. I testi sono per lo più concepiti in forma scritta, per essere letti da una voce fuori campo o ‘detti’ a ritmo lento dal conduttore; si evita, inoltre, la spiccata nominalizzazione; anzi, il discorso divulgativo preferisce i verbi di alta accessibilità, mentre «l’apparizione di tecnicismi è limitata alla presentazione di ‘oggetti’ o concetti che non intaccano la chiarezza del discorso» (Guidotti, Mauroni 2008, p. 125), ma possono essere facilmente appresi proprio perché ben isolabili e circoscritti.

Anche nella divulgazione si conferma una tendenza già in atto alla fine del secolo scorso, vale a dire l’apertura a forme linguistiche e testuali sperimentate nell’intrattenimento; un processo analogo avviene nei testi enciclopedici, scolastici, divulgativi, sempre più inclini ad annacquare il rigoroso dettato scientifico ricorrendo a glosse semplificanti, tratte dal linguaggio comune («ipertermia, cioè la febbre alta»; «enuresi notturna (pipì a letto)» o a traslati brillanti (i macrofagi detti cellule-spazzino, e simili), a preferire titoli accattivanti (per es., Dal pendolo al quark piuttosto che Manuale di fisica), ad avviare il discorso con aneddoti, esempi, battute, dando agli argomenti trattati una spiccata forma narrativa. Per facilitare la lettura, sono ridotti o eliminati del tutto alcuni tratti sintattici tipici dei linguaggi specialistici, quali lo stile nominale e l’uso del passivo e di forme impersonali, e si fa leva sull’emotività e sulla personalizzazione, caratteri comuni ai testi persuasivi e alle forme narrativizzate della comunicazione scientifica (Gotti 2005, pp. 35-36). Nella testualità, i tecnicismi sono accolti all’interno di strutture discorsive esplicitanti, introdotte da domande didascaliche. Infine, a confermare l’influsso della comunicazione multimediale sulla divulgazione a stampa, l’apparato iconografico occupa uno spazio molto più ampio che in passato, e particolare attenzione è rivolta ai testi delle didascalie (esempi e spunti di riflessione ricavati dall’intervento di Maurizio Dardano al convegno su Lingua italiana e scienze, Firenze, Accademia della Crusca, 6-8 febbr. 2003).

Un fenomeno in crescita, apparentemente speculare a quello sin qui tratteggiato, è l’infiltrarsi di terminologia e di concetti scientifici in spazi che in passato ne erano privi come, per es., nei cartoni animati, sebbene sia stato osservato che la scienza, anche nelle sue versioni più aggiornate, faceva capolino nei testi (e nei disegni) dei fumetti di fantascienza sin dagli anni Trenta del 20° secolo. Un esempio recente, di portata internazionale, è la serie dei Simpson, che accoglie quasi in ogni puntata tematiche connesse con il rapporto tra scienza e vita quotidiana (ambiente e climatologia, genetica, biotecnologie, energia), trattate con pungente sarcasmo, ma inserite in contesti non gratuiti e ricorrendo a un lessico tutt’altro che impreciso e generico (M. Malaspina, La scienza dei Simpson. Guida non autorizzata all’universo in una ciambella, 2007).

La standardizzazione terminologica e i suoi strumenti

L’imponente sviluppo tecnologico e industriale che ha caratterizzato gli ultimi decenni, unito alla iperspecializzazione dei vari settori produttivi, rende essenziali i processi di standardizzazione delle terminologie e di adeguamento delle norme nazionali a quelle internazionali. A questo scopo è volta l’azione di specifici organismi: l’ISO (International Organization for Standardization) e l’UNESCO (United Nations Educational Scientific and Cultural Organization, che cura l’edizione di vocabolari settoriali in più lingue) e, per l’Italia, l’UNI (Ente Nazionale Italiano di Unificazione) e il CEI (Comitato Elettrotecnico Italiano).

È tuttavia indispensabile che vi sia un anello di congiunzione tra l’attività di tali organismi, così come dei tanti centri di produzione di terminologia tecnica e scientifica, e il parlante comune, anche colto, che con quei termini entra in contatto quotidianamente. Che questo anello di congiunzione si creasse e si rafforzasse con l’appoggio delle istituzioni auspicava, sul finire del secolo scorso, Giovanni Nencioni, esortando alla redazione di dizionari del lessico scientifico dinamici, accessibili, correggibili e responsivi (oggi diremmo interattivi), d’impianto non puristico ma plurilingue, e alla creazione di osservatori neologici per sorvegliare l’incessante produzione di neologismi tecnici (G. Nencioni, Verso una nuova lessicografia, «Linguistica computazionale», 1987, 4-5, pp. 133-50); in questa stessa direzione opera, dal 1991, l’Ass.I.Term (Associazione Italiana per la Terminologia), di cui Nencioni è stato il primo presidente.

Forse non siamo troppo lontani dalla realizzazione di quell’auspicio, grazie all’esperienza della rete REI (Rete di Eccellenza dell’Italiano istituzionale), un progetto lanciato a Bruxelles nel novembre del 2005. Nel sito della REI (http://reterei.eu) dal 2007 è disponibile una biblioteca virtuale in cui sono state già messe in comune banche dati informatizzate di glossari specialistici plurilingui in grado di fornire, a specialisti, traduttori, linguisti, strumenti autorevoli e affidabili per la ricerca delle risorse in rete.

Michele Prandi (2008), in un’intelligente messa a punto dei rapporti tra lessici specialistici e lingua comune, ha proposto di distinguere, nel sistema linguistico, i concetti endocentrici, saldamente radicati nel sistema di correlazioni e relazioni del lessico di una lingua naturale, e i concetti esocentrici, ancorati alla struttura di un’esperienza indipendente da quella linguistica (per es., nel concetto identificato dal termine pervinca è essenziale la stabilità del suo rapporto con una classe di oggetti concreti): la spinta alla normalizzazione e alla standardizzazione tende a contrastare la componente endocentrica dei concetti, che li vincola a un determinato sistema linguistico specifico e ostacola il trasferimento interlinguistico. La ricerca terminologica rappresenta l’avamposto della lessicologia sul fronte dei concetti esocentrici, e il potenziamento degli strumenti terminologici è necessario per una migliore comprensione dei meccanismi di crescita dei linguaggi specialistici e per uno sforzo più razionale e consapevole di uniformazione internazionale.

Bibliografia

Grande dizionario italiano dell’uso (GRADIT), diretto da T. De Mauro, Torino 1999 (6 voll., cui si aggiungono i supplementi di aggiornamento del 2003 e del 2007).

T. De Mauro, C. Bernardini, Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture, Roma-Bari 2003.

Vocabolario della lingua italiana Treccani (VIT), diretto da A. Duro, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 20032.

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