LATINA, LINGUA

Enciclopedia Italiana (1933)

LATINA, LINGUA

Pier Gabriele Goidànich

Il latino è una lingua indoeuropea e fa parte del gruppo italico di esse lingue (v. indoeuropei; italici).

Una serie di fatti ci addita uno stretto rapporto che in età remotissima della preistoria fu tra popoletti parlanti i futuri dialetti del Lazio e dell'Italia centrale, e popoletti parlanti il celtico (v. celti).

È però pacifico che, se la lingua latina e le affini italiche furono importate in Italia d'Oltralpe, il fondo etnologico rimase, qual'era, il mediterraneo; è pacifico cioè che vi fu un trapasso di linguaggio senza una pari alterazione di razza. Piccoli nuclei allogeni imposero la loro lingua a piccoli nuclei indigeni, e questi successivamente la trasmisero ad altri nuclei di loro consanguinei. Di un tale trapasso di lingua da stirpe a stirpe si possono anche indicare come riprova cospicui ed essenziali fatti di linguaggio. Alludiamo all'accentuazione antichissima e a certi effetti dell'accento nel latino e in altri dialetti italici. Detto molto brevemente, si susseguirono negli antichi dialetti italici due accentuazioni completamente diverse: una molto rude (rappresentata dalle sincopi) e una molto pacata (rappresentata dall'anaptissi); questa è conforme al tipo accentuativo delle parlate attuali centro-meridionali d'Italia.

Per lingua latina s'intende generalmente la lingua di Roma. Ma, come indica il nome stesso, parlari del tutto simili, con maggiore o minore intensità di venature dialettali, si dovevano udire almeno in tutto il Latium vetus: le parlate più prossime alla città erano dagli antichi, col nome di sermo rusticus, distinte dal sermo urbanus. Qualche peculiarità dialettale ricordano i dotti antichi per Lanuvio, Preneste, e s'incontrano in iscrizioni ai margini del territorio latino, a Falerii, Capena e Preneste.

Secondo la tradizione, da tutti nella sua sostanza accolta, la prisca popolazione di Roma era costituita da elementi sabini e latini, organizzati in condominio politico: queste condizioni politiche dovevano riflettersi anche sulla lingua; e un certo ibridismo linguistico, scientificamente dimostrabile, può essere attribuito alla commistione dei due popoli (v. P. G. Goidànich, Varietà etniche e varietà idiomatiche in Roma antica, in Atti del I Congr. naz. di Studî Romani, II, Roma 1929, pp. 396-414). Considerata la scarsa densità della popolazione del Lazio antico, l'estensione della latinità attorno a Roma, la situazione degli abitati sui colli lontano dalle vie di comunicazione, le difficoltà delle comunicazioni stesse, i rapporti di Roma col Lazio o di ostilità o di supremazia, dobbiamo ritenere che scarso assai poté essere l'apporto di elementi dialettali in Roma per irradiazione dialettale geografica. Nessuna fede va concessa alla notizia (in contrasto con altri dati) che Antemnae, Caenina e Crustumerium fossero città sabine, data da Stefano di Bisanzio, s'egli colloca Procida, Sinuessa e Cuma in Sicilia. Viceversa è presumibile che un notevole influsso sulla parlata urbana lo esercitassero più tardi i trasporti e gli afflussi di genti del Lazio in Roma; ma nel senso che ne risultasse rinvigorita la parlata del prisco stanziamento latino e svigorito il sabino.

Molto tempo prima che Livio Andronico, nel 240, desse inizio alla sua attività letteraria, la lingua latina fu usata in Roma con intenti letterarî, in senso largo, e scritta (v. roma: Letteratura). Di questo periodo delle origini pochi cimelî sono giunti fino a noi; e il poco che ci resta conferma la notizia degli antichi sull'oscurità di questi documenti; eccezione farebbe la lingua delle XII Tavole, di cui conosciamo la data esatta: 450 a. C. Più volte distrutte e tramandate a intervalli oralmente, il loro testo fu accomodato alla fonetica dell'uso vivo in varî tempi, ma per il lessico possiamo ritenerle conservate allo stato di redazione o quasi, dacché esse erano il fons omnis publici privatique iuris (Livio) e imparate a memoria di generazione in generazione dalla gioventù della classe dirigente (Cicerone).

Una certa diversità di linguaggio s'era andata costituendo anche tra la parlata aulica e la parlata dei volghi; questa era dagli antichi distinta col nome sermo plebeius o simili. Ma anche tra la lingua letteraria arcaica, specie dei comici, e quella classica, si nota una rilevante differenza, quella dei comici manifestamente apparendo assai vicina al sermo cotidianus; la lingua letteraria del periodo classico deve ritenersi l'effetto di una sistemazione, di un livellamento grammaticale, o in parte grafico, giacché la scrittura mal riproduceva le sfumature della lingua comune.

La stessa lingua letteraria non fu sempre omogenea; né rimane senpre immutata; e a seconda della misura in cui in essa si venivano introducendo le innovazioni e le alterazioni prodottesi o entrate nella parlata delle classi colte, distinguiamo nella lingua letteraria dopo il periodo arcaico, un periodo classico e un periodo post-classico.

I volghi di Roma d'Italia continuarono, intanto, a innovare e alterare il linguaggio di Roma: quella fase del latino popolare da cui trassero gli elementi comuni o locali di data antica, gl'idiomi neolatini o romanzi (v. neolatine, lingue) dell'Iberia, della Gallia, della Rezia, dell'Italia, della Dacia, prende il nome di latino volgare.

Rapporti vivi e antichi fra Roma e i coloni Greci del bacino occidentale del Mediterraneo risultano provati da più fatti. In primo luogo, dal buon numero di antichi accatti di parole elleniche: di grande importanza per la storia della cultura in Roma, in quanto che dimostrano antica la diffusione della cultura greca in Roma e attraverso Roma nell'interno del Lazio, sono in particolare i nomi desunti in antico dal mondo mitologico e dall'epopea greca; in secondo luogo, dalla provenienza dell'alfabeto latino dal calcidico di Cuma e dalla sua elaborazione in modo pare del tutto indipendente da quello degli Etruschi, pur tanto vicini e progrediti e dall'uso antichissimo di esso alfabeto (stele del Foro Romano); in terzo luogo, dalle alterazioni fonetiche dei nomi locali del bacino occidentale del Mediterraneo, da Agrigentum (dal gr. 'Ακράγαντα) fino a Massilia (dal gr. Μασσαλία) per effetto dell'antica accentuazione latina: quest'accentuazione non può essere perdurata fino a tempi relativamente recenti, come mostra la ritmica accentuativa del saturnio: effetti così gravi che non si possono ritenere avvenuti in tempo brevissimo e data la loro omogeneità si devono ritenere tutti coevi in un tempo antico.

Accento.

1. Per l'accento in genere, v. accento.

2. Accento di parola. In età classica può cadere sulla penultima o sulla terzultima. In età arcaica l'accento posava sulla quartultima se le tre prime sillabe erano brevi: es. fácilius (probabilmente da fácilius; v. qui sotto: Consonantismo, n.1). In età preistorica era accentata sempre la prima sillaba.

Nel latino volgare vi fu una progressione d'accento nei dissillabi ie io (es. muliére, vióla) e davanti a muta + liquida (es. tenébrae). Le forme dei nomi delle decine, es. quadráinta (onde ital. quaranta, ecc.) sorsero in proclisi: si sarà passati da *quadraínta hómines a quadrainta hómines (alla proclisi riteniamo dovuto anche, ad es., l'ital. tre per trei o nove per nuove). Effetti di un accento secondario sulla prima sillaba di parole accentate sulla terza devono essere considerati casi come ital. pellegrino da peregrīnus, seppellire da sepelīre.

3. Accento di sillaba. In latino le vocali dovettero avere, come in altre lingue indoeuropee, diverse qualità d'accento: ascendente o discendente con una pronunzia tremula; e precisamente le vocali larghe accento biverticato ascendente, le strette discendente, e a triverticato (v. P. G. Goidànich, L'origine e le forme della dittongazione romanza. Le qualità d'accento nelle lingue indoeuropee, in Beihefte z. Zeitsche für roman. Philologie, V; e Neolinguistica o Linguistica senza aggettivo?, II, in Ital. dialett., VII, p. 182).

4. I grammatici latini parlano inoltre di una diversa accentuazione "circonflessa" o "acuta" sull'ultima, rispettivamente lunga o breve (sõl, mèl), e sulla penultima lunga secondo che l'ultima fosse lunga o breve: Rõmã ma Rómā. Si ritiene che qui si tratti di costruzioni astratte modellate sulla teorica dell'accentuazione greca. Ma, a prescindere che difficilmente quando in Roma s'iniziarono gli studî grammaticali si potesse avere ormai nozione esatta dell'accentuazione greca, il caso di sõl, mél non ha riscontro esatto nel greco, e una doppia accentuazione lene o energica in Rõmă - Rómā (v. Vocal., 31) trova il suo parallelo nel doppione validus-valdē.

Vocalismo.

1. Condizioni indoeuropee e condizioni latine prossime alle indoeuropee. - Nella parlata indoeuropea esistevano, a quanto si può stabilire per i dati delle varie lingue storiche, le vocali á, ē̆, ó, ī̆, ö, i dittonghi ái, ē̆i, ói, áu, ē̆u, óu, inoltre vocali brevi sorte fuor d'accento da vocali brevi e lunghe e di colore indeterminabile, che per convenzione si indicano rispettivamente con e ed ə. L'indoeuropeo əè continuato in lat. con a (es. datus, indoeur. detós; la vocale əanche con a (es. magnus - μέγας), ma non sempre (v. ad es. Vocal., 14, 19). Più tenacemente si son conservate le vocali lunghe; assai bene sotto l'accento le vocali brevi e nel periodo arcaico i dittonghi brevi, meno eu ridottosi a ou; i dittonghi lunghi anteconsonantici anche sotto l'accento si sono abbreviati.

2. Il latino rustico o plebeo s'allontanò più presto che l'urbano da coteste condizioni o seguì altra via, e alcune di tali alterazioni s'insinuarono poi timidamente anche nella parlata urbana delle persone colte; altre s'incontrano solo nel latino volgare o nelle tarde continuazioni romanze. Non è del tutto facile, soprattutto per la mancanza d'informazioni distinguere tra quanto potesse essere solo rustico, e quanto anche urbano. Per dichiarazioni di autori dobbiamo ritenere pronunzie rustiche hedus per haedus (Varrone), Cecilius, pretor (Lucilio); rustico può essere fenus in Catone; ma lēvir, certo forma sabina (per l da d; ē da ae; ī da ē), può essere un sabinismo urbano; saranno imitazioni equivoche di scēna e scēptrum le varianti scaena, scaeptrum, parole che non possono essere state rustiche; lo stesso si potrebbe dire per faeneratricem ricordata da Varrone; parola rustica potrebbe essere stata reda (gallico), onde per imitazione equivoca raeda. Era rustico speca (Varrone), urbano spīca; ma ameci, amecae di Festo potrebbe essere da una varietà urbana. In luogo di a troviamo ae in Aesculapius da gr. 'Ασκλήπιος, e nel prenestino Saeturnus per urbano Saturnus; Aesculapius è forse una variante di Esclapius (con e-a in luogo di a-e, per metatesi, favorita in parola straniera anche da una forma 'Ασκλάπιος); il prenestino Saeturnus può ritenersi un'imitazione equivoca di un *Sēturnus che in città fosse divenuto poi Sāturnus per analogia di sator, satus. Dialettale è il falisco loferta da *loudh- (lat. līberta, v. sotto, n. 11); ma ü per ou appare talora anche in città; dialettale è o per oi (se esatto) in coraverunt (Preneste); dialettale si può considerare cüda (urb. cauda; Diomede, Probo); forse anche ürum, ürata (Festo); forma plebea è il nome proprio Clüdius per Claudius; imitazione equivoca plaustrum per plostrum, aurichalcum (Plaut.), da ὀρείχαλκος e altre. Per ü da ou, v. Vocal., 7. Dialettismi riteniamo anche arc. vocīvus acc. a vacīvus, vocatio (Corp. Inscr. Lat., I, 198) acc. a vacatio, quorta per quarta, quodratus (ibid., III, 14), Codratu (ibid., VIII, 6741), Κοδρατος in iscrizioni greche. Parallelo a questo fatto riteniamo il ridursi di ja- in je- e di ju- in ji- (v. Vocal., 16). Sabinismi urbani saranno da ritenere oltre che il citato lēvir anche für (cfr. ϕώρ; indoeur. ü), cūr, ant. quür (indoeur. *kùūr avrebbe dato *ūr). Nel latino volgare prevalgono alcune forme rustiche: ital. coda, ecc. da cüda: spagnolo seve da *sēpes; seto da *sēptum; fr. foin probabilmente da fēnum; l'italiano Cèsare (anche con s forte) da *Cēsare. Nel lat. volgare si ebbe vocitus (cfr. umbro vaçetum, vocuam, iscr.) onde ital. vuoto, ecc.; *noto lat. volg. per nato: ital. nuoto; *moncus anche, riteniamo, per mancus: ital. monco.

Nel lat. volgare si hanno poi tre grandi alterazioni del vocalismo latino: si è perduta la differenza tra brevi e lunghe; quasi dovunque i e u si sono confusi con ē, ü; su vasta scala si è sviluppata la dittongazione.

3. In contrasto con altri linguaggi, e in sommo grado col greco, caratterizzano la storia del vocalismo latino due serie di fenomeni: alterazioni dovute a elementi contigui e alterazioni dipendenti dall'accento.

Dittonghi. Fenomeni assimilativi e dissimilativi. - 4. Gli elementi del dittongo agiscono assimilativamente l'uno sull'altro, e tendono a fondersi.

5. Il dittongo ai. È conservato, almeno nella grafia, fino al principio del sec. II a. C.: in seguito prevale ae; nella seconda metà del sec. II (circa 140-100 a. C.) si trova più volte aei per ae: es. conquaeisivi (Corp. Inscr. Lat., I, 551: anno 132), Caeicilius (ivi, I, 547 b: anno 141 o 116), ecc.; ma questi ei non sono che scrizioni inverse per e stretto, dacché ei s'era ridotto a e, i (v. Vocal., 6). Per amore di arcaismo fu ripresa l'ortografia ai per ae anche più tardi: da Virgilio ("amantissimus antiquitatis", Quintiliano), sotto l'imperatore Claudio, e molto più tardi ancora: es. quai, filiai (De Rossi, I, 400: anno 393 d. C.). Il dittongo ae è monottongato in e già in iscrizioni pompeiane, e finisce col confondersi per timbro con ĕ (é), di cui seguì le sorti negl'idiomi romanzi. Per e (da ai) in territorio rustico e sabino urbano, v. Vocal., 2.

6. Il dittongo ei. Da ei si ebbero due continuazioni: una, più comune, ī, e un'altra, più rara, ē; riteniamo che e non possa essere una fase intermedia tra ei e i dacché in e è prevalso il primo elemento, in i il secondo: riteniamo che e sia un dialettismo urbano antico sopraffatto da ei, e che ī sia sorto poi dall'ei prevalso: abbiamo ploirume in un'iscrizione di tipo ortografico molto arcaico (Corp. Inscr. Lat., I, 32), mentre in Plauto ancora sicuramente ei (p. es. eiram: T'ruc., 262). La scrizione inversa ei per i compare la prima volta in Corp. Inscr. Lat., I, 546 (145 a. C.): poi per più di un secolo si scrisse ī per ei ed ei per ī; ī finisce per prevalere nella scrittura al principio dell'età imperiale, specialmente in documenti privati. Prove del perdurare della pronuncia arcaica e si hanno nelle scrizioni inverse: leigibus (Corp. Inscr. Lat., XIV, 1892: Preneste), inpeirator (II, 5041: anno 189, Spagna), pleib (Eph. Epigr., I, 3, presso Roma; antica), seine (Lex repetund.; anno 123), ed(us) "Idus" (I, 854). Residui di questa variante fonetica ē da ei si possono considerare pomērium, iure dicundo, lēvis, lēvī (cfr. deivos e forse reivos = rīvus, con ei conservati davanti a ù). Forme rustiche o dialettali, v. Vocal. 2.

7. Il dittongo ou. Del tutto parallele alle vicende di ei sono quelle di ou (da ou ed eu, v. Vocal.,1): come s'ebbe ē, ī da ei, così ü, ū da ou; entrambe le alterazioni in ü e ū furono compiute durante il sec. III in due diversi ambienti linguistici e, presumibilmente, da ou si ebbe prima ü, ou, poi, dall'ou prevalso, ū; ou si conserva nella grafia per tradizione letteraria fino al principio dell'impero. Es.: rübus e rübigo accanto a rūbidus, rūfus; rüdus e rūdus (per imitazione equivoca: raudus), arc. nütrix accanto a nūtrix (Quint., I, 4, 16); denontiari e nondin[um] (Lex Bant., anno 133-128); pronontiatio (tre volte, in Lex repet.: anni 123-122); nontiata (Corp. Inscr. Lat., I, 201: circa 100 a. C.); nontius (Cic., Leg.), pronontiatio, -tum (Corp. Inscr. Lat., I, 207, 208: framm. di ant. leggi); noundinae (Senat. cons. de Bacch., anno 186); nuntias (Lex Iul. Mun., anno 45, Lex Rubria: anno 49); üpilio e ūpilio, mümentum, mütus e mūtare, tütus e lat. volg. *tūtus (it. tutto); formüsus e formūsus (App. Probi); gen. sing. domūs e domüs (Augusto). È conservata solo la forma con ü nelle parole: üs, ümentum, tümentum, -pür da *pousos o *pouros, contio (ricostruito in coventionid nel Senat. cons. de Bacch.). L'alterazione anche in ū era già compiuta nel sec. III: es. Lucius (Corp. Inscr. Lat., I, 30), Lucio (I, 32: circa anno 200); poi fu conservato ou per tradizione grafica: Loucanam abdoucit, I, ibid.; noundinum (Senat. cons. de Bacch.); ioudices accanto a iudices (Lex repet., anno 123); nounas (Inscr. Regn. Neap., 3095: 5 d. C.); nountios Loucetios, loumen (ap. Mar. Vict.). Varietà prenestina: losna, Poloces (I, 95). Scrizioni inverse: fortona (I, 1239), proboum (I, 56, monete antiche), navebous (I, 95, Col. rostr., ricostr.).

8. Il dittongo oi. Diventa ū verso il 200 a. C.: ūtier (Corp. Inscr. Lat., I,33), probabilmente attraverso , ou. Di solito si ammette come trafila oe; ma questa scrizione appare relativamente tardi, dopo ou, u; e foneticamente l'altra trafila è assai più agevole. La pronunzia oi dové perdurare presso la classe elevata e conservarsi, ulteriormente alterata in oe, in un noto gruppo di voci. Esempî: a) con oi: ploirume, oino (Corp. Inscr. Lat., I, 32, circa 200); oinvorsei (Senatus cons. de Bacch.); coiravere, loid(os) (I, 566: anno 106), ecc.; b) con oe: loedos (I, 567: anno 106), coeravere (ibid., accanto a murum); coeravit (I, 600: anno 62); coeraver., moer(um) (I, 617: anno 51); moerus anche in manoscritti di Virgilio; loedi (Comm. lud. saec.: anno 17); c) con ou in iscrizioni provinciali, probabilmente più vicine alla realtà fonetica, e lontane dalla tradizione letteraria: couraverunt (I, 1419, Piceno), Cloul[i], plouruma (I, 1297, Amiterno), coraverunt (Preneste); plous (Senatus cons. de Bacch.), plouruma (epitaffio antico). Non solo l'ortografia ma anche la pronunzia si è conservata in un manipoletto di voci delle quali alcune della lingua corrente: poena accanto a pūnio, Poenus di contro a pūnicus, moenia di contro a mūnio, e mūnia pur da moinia; inoltre in foetor, foedus "brutto", coenum, accanto a cūnio, ancūnulentae (inquinare). Provengono da un dissillabo oi e oe in coetus (co-itus), coepi (co-epi), Cloelius da Clovilius, oboedio da *obaùizdiü attraverso *obuīdio; e anche in amoenus che sarà un ampliamento di un nome amáùes-, col suffisso *-ùes- di cadāver, papāver (se da aṃāves-, con ā prima abbreviato, poi sincopato come ē- di bene in *benēficium diventato beneficium e benficium).

Nel latino volgare oe passa ad è (es. it. pèna) probabilmente per la trafila di ö. Tale stadio dev'essere stato raggiunto alla fine del secolo I d. C., come si rileva dalle scritture foen[eratores] (Gruter., 264: Anagni, circa 200 d. C.), foenina (Orelli-Henzen, 7207: Trebula Mutusca, Sabina, anno 243 d. C.). La pron. Moesia (certo connessa con Μῦσία) che si trova già in Plinio deve aver rapporto con una pronunzia locale del nome. Diverso è il caso di γῦρος, che appare in grafia latina goerus appena nel sec. IV in Nonio Marcello, e deve dipendere da una pronunzia di v simile a è, onde ital. cèmbalo da κύμβαλον, ecc. Né l'uno né l'altro servono, riteniamo, a provare una pronunzia ö di oe durante l'impero; né c'è da ricavare nulla sulla pronunzia antica dal giuoco di parole Lydeludus (Plauto, Bacch., 129).

9. Il dittongo au s'è, generalmente (v. Vocal., 2), conservato nel latino volgare ed è divenuto o, separatamente e in varie età nei diversi territorî romanzi.

10. Il dittongo eu diede ou (v. Vocal., 2), riteniamo, nella vita individuale del latino: cfr. Pollouces da Πολυδεύκης; gr. Λεύκιος per Lūcius da *Leucios. Il Carmen Saliare ha Leucesie, -zeul-. Cfr. inclūdo e simili da *inclaudo probabilmente per la trafila *incleudo. Rimane eu nell'interiezione heu, eheu (per ragione d'enfasi) e nei nessi nuovi seu, ceu, deus.

Alterazioni di timbro per influsso di elementi consonantici contigui. - 11. Influsso di l velare. - Come in lingue slave del nord, in latino vi erano due specie di l: uno di timbro velare se seguivano le vocali a, o, u, un'altra consonante, ovvero se era finale; l'altro, di timbro palatino, quando seguivano e, i o se era lungo (ll, -ll). L'l velare produsse due sorta d'influssi: assimilativi, cioè la velarizzazione di el in ol e successive eventuali alterazioni di ol in ul; dissimilativi cioè la palatizzazione, di lu in li e di lou in lei, poi diventato .

I fenomeni assimilativi anche nella loro successione cronologica possono essere rappresentati dagli esempî seguenti: assimilazione, in età preletteraria, da el in ol: es. volo, volt di contro a velle; anche vel è da vell, che risale a *vels. Il gruppo ol poi, di qualunque origine sia, o diviene ul o resta, in diverse condizioni e tempi: in tempo antico ol seguito da consonante diventa ul, meno nel gruppo vol seguito da consonante, che diventa vul solo nella seconda metà del sec. I a. C.: es. arc. molta, multa e volt; poi, anche vult. Si ha inoltre ul in sillaba postonica libera o finale: arc. pocolom, class. poculum; arc. consol class. consul; difficul da *diffcì da *difficli. Resta o in oll: collis (cfr. pellis, pello, ecc.) e, riteniamo, anche in protonica finale di sillaba: olīva, volēbam, ecc., Volumnus, volemum, volumen, vinolentus, sanguinolentus (bucculentus, frustulentus, turbulentus, fraudulentus, truculentus, lutulentus con u dovuto a u della sillaba precedente; esculentus Varr., Cic., pisculentus Plaut., pulverulentus Cic., Lucr. per analogia dei precedenti); violens anche per la precedente vocale come in filiolus, viola.

Fatti dissimilativi: parzialmente lou, loi s'alterano in lei, poi lī, e lu s'altera in li. Esempî: a) ἐλεύϑερος, lat. *leibro- da *loibro da *loubro- (Festo ha loebertatem e loebesum, falsamente per loeberum); ma loumen (Mar. Vict.) = lūmen, lūbricus, glūbricus, glūbo; b) libet accanto a lubet, limpa accanto a lumpa, libs accanto a lubs (Corp. Inscr. Lat., I, 182, 183, Tit. ded. Mars.), linter accanto a lunter; c) clīvos da *cloivos, līmus da loimos; ma lūdus da loidos, glūten forse da *gloiten (gr. γλοιός). Tutti questi fenomeni sono congeneri e perciò effetto di una tendenza endemica. Supponiamo che l'allotropia sia da attribuire a diversi nuclei etnici e linguistici dialettali urbani: sabino e latino.

12. Influsso di ù. Effetti assimilativi: come il dittongo eu diventa ou, così e + u ov: es. novus = gr. νέFος. Effetti dissimilativi: arc. voster, class. vester.

13. Influssi di nasale e r. A risultati dal punto di vista fisiologico eterogenei, cioè o di palatizzazione o di velarizzazione, conduce la contiguità di nasale e di r, che ora restringono ora allargano la vocale, ora la lasciano intatta: onde tali condizioni devono essere ritenute l'effetto o dell'incontro di diverse correnti dialettali o di analogie fonetiche; talora si tratterà della continuazione di vocali ridotte.

14. I gruppi on ed en seguiti da gutturale dànno un e in: fenomeni coerenti, in quanto in entrambi i casi si restringono le vocali: es. uncus = ὄγκος, nuncupo da *nomocapo o *nomencapo, tinguo = τέγγω, sinciput da *semicaput. S'aggiunge ign da ecn, egn: dignus da *decnos: gn era pertanto divenuto ñn. Alieni da questa norma sono longus, tongere (Ennio) e conctos (Carm. Arv.); e poiché tongitionem è detto prenestino (Elio Stilone) e conctus è del Carmen Arvale, apparterranno questi alla corrente dialettale latina. L'ital. lungo presuppone una forma di latino volgare lungus. Anche omb umb: es. umbo, umbilicus di contro a ὀμϕαλός. Come forme di antico latino sono sicuramente dati accanto a fontes, frondes anche funtes, frundes (Velio Longo, Prisciano, Carisio). Tali forme sopravvivono: frunte (Corp. Inscr. Lat., 4936), frute (ibid.): ital. fró???nte, fró???nda, sardo log. frúnûa. Perciò anche funda senza ragione fu ritenuto di etimo diverso che σϕενδόνη.

Non seguito da gutturale, en generalmente non si altera. Tuttavia nell'antico latino si alternano le doppie forme endo e indo, en e in, e nel periodo classico si ha la forma in (prep.); e si ha imbres e imbrex (ind. abhrás "cielo coperto, nuvolaglia", ambhas "acqua"): forme suscettibili di varie spiegazioni.

15. Del pari che in contiguità di nasale, sono incoerenti le alterazioni di vocali precedenti a r; e qui bisogna distinguere forse, tra r da s (v. Cons., 5) ed r etimologico. Con r da s si conservano le vocali medie e, o, e coerentemente si allargano in ĕ, ŏ le vocali estreme ĭ, ŭ: es. Falerii di contro Falisci, foret da *fuset (cfr. osc. fusíd); da *nusus s'ebbero due continuazioni: nurus e norus (cfr. ital. nuora); e poiché l'allargamento della vocale presuppone una notevole apertura orale per la pronunzia di r, e da s a r meglio s'arriva attraverso una pronunzia di s lene palatino, questa r si può presumere avesse un'articolazione arretrata verso il centro del palato. Anche con r etimologico abbiamo due esiti delle vocali; cioè ĕ e ŏ o restano o si restringono in ĭ, ŭ: di contro a mergo, sterno, germen, apertus, ecc., hortus, porcus, corvus, formīdo, adortus, memor, marmor, ecc., stanno: Mircurius, commirciom (attribuiti da Velio Longo agli "antiqui"); purpura (da πορϕύρα), amurca (da ἀμόργη), turpis, currus, curtus, furca, fuscina (da *furscina), furnus (accanto all'ant. fornus e a fornax, formus), urceus (accanto a orca), iecur, femur. Dalle continuazioni romanze si può desumere l'esistenza di *furma (ital. tosc. forma, friul. forme, afr. fourm, prov. furmo "formaggio" il log. continua forma con ŏ) e di *urdo (ital. îrdine, afr. ourne, maced. urdini, romeno urdinà); le fasi lat. forma, ürdo, generalmente postulate, sono dal punto di vista della fonetica latina poco attendibili e non risolvono nulla. Riteniamo che Mircurius e furnus, ecc. siano fenomeni geneticamente omogenei, che presuppongono un r stretto.

16. effetti di j sulla vocale seguente. Molto più vistosi che gli effetti di v (es. vocivus - vacivus) già ricordati (Vocal., 7), ma di natura fisiologicamente identica sono i fenomeni assimilativi per j. In tempo già antico ja diviene je, ma senza sopraffare la pronunzia etimologica: lat. ant. (Plauto) iaiunus, class. ieiūnus (lingue romanze: port. jejum ma nap. ant. jajuná); lat. com. iānuārius, lat. volg. (sec. IV) ienuarius, ital. gennaio, sp. enero; lat. com. ianua, sardo log. ianna, ma camp. enna, calabr. ienna, loren. õæm "cancello"; lat. ianto e iento "far colazione", astur. yintar, spagn. yantar, port. jantar "pranzare"; lat. iacto, ital. getto; ma iam ital. già, ecc. Dall'insieme dei fatti si ricava che sono alterazioni rustiche sporadicamente testimoniate e anche sporadicamente penetrate in Roma; e il lat. volg. iiniperus per iuniperus (App. Probi), ital. ginepro, e il sic. jinizza di contro a iūnix confermano insieme e la natura e la patria del fenomeno.

17. Assimilazione di e a seguente ei. Si ha, p. es., da diei, deei dīs da diis, dieis; il nomin. plur. dei e il dat.-abl. deis sono ricostruzioni letterarie, e neppure forse dell'uso vivo dei dotti (Capro, sec. I d. C.).

18. Alterazioni di vocale in iato in territorio rustico: a) e da i davanti a vocale non palatina: pren. fileai (Corp. Inscr. Lat., I, 54); forse anche conea (Plaut.); aleum (App. Probi); forse anche veha "via" (Varr.); b) viceversa i da e nel latino volgare: es. vinia, ecc.

19. Fenomeni assimilativi a distanza. Sul colore della vocale può agire il timbro di una vocale di sillaba seguente e precedente: p. es. milium - μελίνη, ma melior; homo accanto a hemo (arcaico; cfr. næmo da ne-hemo), ma memor, iecur, iecunanus; anatis accanto ad anitis, vegetus ma genitor, oppodum (Lex Agr., Corp. Inscr. Lat.,1, 200:111 a. C.). L'incostanza di questi fenomeni dipende dalla loro natura: quando, cioè, si tratti di due elementi, contigui, come eu che diventi ou o *kiker che diventi cece, la causa delle alterazioni è sì anche acustica ma prevalentemente di natura articolativa; quando invece in un gruppo due elementi siano separati da un terzo inalterato e inalterante, il fatto può dipendere dalla confusione di due timbri nella memoria (fatti "mnemofisiologici"), e in una società colta la pronunzia corretta delle classi superiori vi può facilmente fare argine. Gli sforzi di spiegare casi ribelli a una presunta norma costante sono, in questo caso, vani. Alcuni dei non pochi esempî potrebbero avere i per e, o essere varianti dialettali, o in mihi e simili la riduzione poteva essere favorita dalla proclisi. Esempî di é - o, che dà ó - o: bonus da prelett. duenos, glomus (e dial. glemus: venez. õemo, può essere da *glemeres). Altri esempî di assimilazione di protonica si daranno dopo aver parlato delle alterazioni di esse sillabe davanti all'accento (Vocal., 26).

Alterazioni di timbro in postoniche mediane. - 20. Vocali brevi. Alterazioni dipendenti unicamente dall'accento. La tendenza generale e costante è il restringimento della vocale. In mezzo alla sillaba si ha i da a, e, o attraverso e, e si ha ü poi i da u; in mezzo di sillaba a s'arresta a e, o a u, le altre vocali restano invariate. Es.: ĭ: invĭdet (vĭdeo), antisto (gr. ἀντί, ind. anti); ĕ: adĭmo, ademptus (ĕmo); ă: effĭcit, effectus (făcio, factus); ŏ: illĭco (in lŏco); vetustus (da vetos); u: lacrima e arc. lacruma (gr. δάκρυ). Posizione fa anche la muta seguita da liquida: genĭtor (*genător) ma genĕtrīx, consubrinus e per assimilazione consobrinus (*consosrinus), colubra e colobra.

21. Dittonghi. I dittonghi con i si riducono a ei, e questo poi indipendentemente dell'accento a ī (v. Vocal., 6); quelli con u: a ou (indi ū). Esempî: indeico, indīco (deico), inceido, incīdo (caedo), anquma (ἀγκοίνη); Pollouces, Pollūx (Πολυδεύκης), pelluceo (indoeur. *loukeëü), incloudü, inclūdü (*incleudo da *inclaudü).

Deviazioni da questi schemi si hanno per gli effetti già contemplati di elementi consonantici contigui (r, l, v, nasale seguíta da consonante) e per assimilazioni a distanza. Es.: cineris (da *cinisis); facere (da *facise); peperi (da *pepari); generis (*geneses); perculsus (da *percelsus - percello), ma fefelli (fallo); Siculus, ma Sicilia; parvolus poi parvulus; depuvio (da pavio): attingo (da *attengo, tango).

22. Nessi dissillabici. Nei nessi dissillabici di vocali si ha e o si resta a e: hieto (*hiatü - hiāscü), societas (da *sociotās) di contro a novitās (da *novotas, cfr. νεότης); parietis (nom. pariēs); filiolus; mediocris; moneo; aureus, Pompeiamts, osc. Pumpaiians. Graiugena e Troiugena di Ennio devono essere considerate forme individuali del poeta, costruite sul tipo greco di nomi in -o- adattato al tipo fonetico latino del nom. Probabilmente ambiegnus è forma dotta per ambegnus.

23. Per l'attrazione assimilativa simultanea di due elementi velari o labiali contigui o a distanza si può avere un oo successivamente un u da a, o, e, e un u da u: arc. Hecoba, class. Hecuba (‛Εκάβη), consobrinus (da *sosrinos), ēvomo (da ēvemü; da esso vomo, come plico da explico e simili); contumax (tumeo). Questo u da o può diffondersi analogicamente: maxu-mus; in tali forme analogiche, mancando il sostegno della velare precedente, u diviene ü poi i; il quale i, alla sua volta, può estendersi analogicamente: si ha così optimus, ma postumus non inteso più come superlativo. Altri esempî: possumus, volumus (ma legimus), occupo, aucupo (ma exigo), autumo, recupero, contubernalis, contubernium, contumelia, contumax, decuplus, decumanus, decuplus, colobro- e coluber; quercubus, pecubus, specubus, acubus, arcubus, lacubus, tribubus (artubus, partubus, analogie forse artificialmente sostenute dai grammatici, per amore di distinzione da artibus, partibus, di ars, pars). Regolari i composti di capio: accipio, ecc., di contro a occupo. Forme analogiche di facile comprensione sono: i superlativi acerrumus, infumus, ecc. (parisuma, Corp. Inscr. Lat., I, 33) e in generale le forme in (-t-)umus: maritumus, finitumus, e invece optimus, proximus, plurimus (ploirume, I, 32); existumo, negumó per autumo; monimentum; testumonium (Lex. Bant.), pontufex, carnufex, aurifex, aucipis, crassupes e sonipes, aucupium, mancupium; decimus e decimanus su septimus e decem (onde rifatto *decemos); reciperare per ricordo di recipere; reciprocē da *recēprocē onde *recĕproce (come benivolus da benēvolus). Le iscrizioni più antiche conservano per tradizione ortografica generalmente le forme con u; nei codici di Cesare prevalgono di molto le forme con i; anche Augusto dové pronunziare i; Augusto, Messala e Agrippa pronunziavano sĭmus (forma di enclisi) per sŭmus (forma d'enclisi più antica); dal 67 al 118 d. C. prevale di nuovo, per moda, la grafia arcaica, che persiste accanto a i fino assai tardi.

24. Di latino volgare ma assai antica e importante per le continuazioni romanze è la riduzione dissimilativa di au + u in a; es.: Capro (sec. I d. C.) "ausculta non asculta"; diffusamente il fatto pare avvenuto anche in altre condizioni fonetiche: ital. Pesaro, fastus per faustus (gloss.) sardo laro "alloro", ecc. (forse per incroci: laro da loro + lauro).

25. Vocali lunghe. Le vocali lunghe restano generalmente intatte: solo in delīnio, suspīcio si vuole che l'ī sia effetto di una metafonesi.

26. Assimilazioni di atona sulle toniche. Si presentano sporadicamente (v. Vocal., 19); alacer accanto ad alicer, it. allegro, sp. alegre (lecc. liegre, log. allegro da *alĕcri-?), calamitas, vegetus, oportet. Per nünus e simili (da presunto *nouenos e simili, v. Conson., 2).

Alterazioni di timbro in sillaba finale. - 27. Vocali brevi. - La parola latina può finire in una consonante, in due consonanti e in vocale o dittongo. E può trovarsi nella proposizione davanti a consonante, davanti a vocale e in pausa: certe incoerenze delle alterazioni possono essere attribuite a tali varie contingenze.

Ciò si nota soprattutto nella continuazione delle vocali brevi: -o si restringe in -e; -i si allarga in -e; es. iste da *isto e mare da *mari. La tendenza all'allargamento di -i finale in -e ripete il suo effetto in heri che, secondo Quintiliano, al suo tempo si pronunziava here (le forme romanze - tosc. ieri, ecc. - partono da una forma *herī, pur legittima).

Davanti a nasale -om dà -um, con ristringimento della vocale; ma -em -en restano: es. agnum, pedem, nomen; anche -an si restringe, ma solo fino a -en: es. cornicen da *cornucan. L'incoerenza può dipendere dalla risonanza nasale; alla stessa ragione può essere attribuito il fatto che, nei temi in -i-, in luogo dell'-im di acc. sing. si trovi -em: omnem e non *omnim; (le difficoltà ad ammettere senz'altro l'analogia dei nomi in consonante sono ovvie: gli esempî in cui si ha -im sono quasi tutti di temi in -ī- (vim, sitim; Neapolim). Per raptim, partim, v. Morf., 21.

Restano -er, -or, conforme alla norma dell'interno di parole: es. agger, memor; iubar (se non è da iubār) e Caesar (se non da Caesār) si devono ritenere forme dialettali.

Davanti ad altra consonante semplice o ed u si continuano con u; ed e, i, a con i (il quale è la forma di schema sintattico antevocalico): bonus, bonum, istud, da -os, -om, -od; sensus, sensum da -us, -um; legis, legit, facis, facit, prodis, prodit da -es, -et, -is, -it, -as, -at. Davanti a due consonanti si hanno le stesse condizioni che si hanno in mezzo di parola: aurifex da *aurifac-s; auspex da *aùispec-s; fornix da *fornic-s; legunt da *ilegont; iūdex (iūdicis) per *iūdix, analogico sul tipo auspex, -icis; così hospes, se non è da un precedente *hostipetis. Precedendo u o ù, l'o atono persiste fino alla seconda metà del sec. I: vīvos, equos, equom, solvont, ecc.

28. Vocalî lunghe e dittonghi lunghi e brevi in finale. Le vocali lunghe non alterano il loro timbro. Così anche le lunghe sorte davanti a -ns: pedes, omnis, apros, sensus. I dittonghi con i brevi e divenuti brevi (v. Vocal., 29) se finali e seguiti da consonanti, in diversi strati sociali, o restano o si riducono primamente a ē; poi da ei che riassume la prevalenza si ha di nuovo ī: es. arc. ploirume (Corp. Inscr. Lat., I, 33), nuges (Corp. Inscr. Lat., I, 1297), accanto a -ei, eis, class. -ī, īs; i dittonghi con u si riducono a ū, ü: noctū, domūs e domüs.

29. I dittonghi lunghi finali con i dovevano: a) conservarsi in pausa; b) perdere il secondo elemento davanti a vocale; c) abbreviarsi davanti a consonante. Esempi di tali condizioni e risultanze sono: a) dat. singolare *animāi in pausa, divenuto poi animae; b) dat. sing. *servüi, *Matutāi davanti a vocale, divenuti servü, Matutā; c) dat. sing. *istüi, *istāi davanti a consonante, divenuti *istŏi, *istăi, onde istei e quindi iste e istei; e da questo istei sopravvissuto, successivamente, istī.

Alterazioni quantitative delle vocali e dei dittonghi. - 30. I dittonghi lunghi e nessi di vocale lunga con nasale o liquida si abbreviavano in mezzo e in fine di parola quand'erano seguiti da consonante: es. vĕntus (da *vēntos), da cui ital. vénto, habĕndo (da habēndü) da cui ital. avéndo; istrum. pl. rosīs, servīs da *rosāis, *servüis, ecc. (per i nessi di vocale + n + s, f, v. Vocal., 34); in mezzo di periodo istī da *istüi, *istāi (v. Vocal., 29), spem di contro a fūr, cūr, sül, può rappresentare la forma anteconsonantica e questi l'antevocalica o di pausa (inoltre, ridotto a spēm poteva abbreviarsi anche davanti a vocale).

Vocali lunghe e dittonghi brevi, e voc. lunga + m finale: si abbreviano davanti ad altra vocale: es. pleü da *plēü, deus da *deios da deivos, seu da *seiu da seive. L'abbreviamento non è impedito da h intermedio: prehendü da *prēhendü da *praihendo; in mezzo di periodo: es. dĕ hordeo (Plaut.), valĕ inquit (Virg.); per spĕm, cioè spĕm, v. sopra; abbreviatasi la vocale + m finale davanti a vocale, la breve si estese a ogni condizione fonetica del periodo.

In serie giambiche e cretiche: benĕ, modŏ, commodă; dall'uso di queste forme in Plauto appare che ciò avveniva in origine in caso di nessi stretti della parola con la parola seguente, dunque in pronomi, avverbî, verbi ausiliari: mihi, tibi; volo scīre, ecc.; quindi generalmente nelle parole composte: calĕfacio e per analogia ārēfacio. In Plauto la riduzione non avviene dopo muta con liquida e qu: putrēfacio, liquēfacio, in casi in cui in latino si può avere posizione o nel romanzo spostamento di sillaba. In Plauto poi s'incontra, viceversa, l'abbreviamento ritmico anche nella seconda di polisillabi accentati sulla 3ª: es. amĭcītia. Per riguardo a siffatti abbreviamenti ritmici, esistono fra l'età arcaica e la classica questi divarî, che in questa età è divenuto rigido ciò che nel periodo arcaico era un effetto vivo e fluido del ritmo; e che nell'età classica vi furono estensioni analogiche in senso vario: così ad es., mentre l'-a del nom. sing. femm. e del plurale neutro è sempre breve, sono rimasti lunghi gli -ā delle decine (trigintā, ecc.) e le vocali finali degli imper. 2ª sing. Tale sistemazione in un senso o nell'altro è dovuta a condizioni più o meno favorevoli (i numerali delle decine erano a esito spondaico) e a più o meno forti analogie.

La stabilità dell'abbreviamento negli esiti di voc. fin. + t nell'età classica sarà dovuta alla prevalenza degli schemi giambici: monĕt da monēt, fuerĭt da fuerīt: sorretta la breve anche dalle forme legĭt, facĭt, fuerĭt. Viceversa, poiché in Plauto avevano ancora lunga la vocale finale forme di tipo calcar, animal, crediamo che effettivamente la pronuncia arcaica qui fosse calcarr, animall, ridotta poi ad -ar, -al come terr a ter e simili.

Dileguo di vocali atone mediane. - 31. Non è molto facile raccapezzarsi in questo punto della fonologia latina. Ciò dipende dal fatto che il dileguo non avvenne nelle stesse condizioni in una stessa età, ma in condizioni diverse, in età diverse, e dal fatto che vi furono continue analogie e ricostruzioni nella derivazione e nella composizione. È possibile la sincope in ogni condizione della parola nel nesso vocale + v + vocale: es. nountius da *noventius; audio da *aùisdio; rursum -us da *roùorsum, iūnior da iuvenior. Si può qua e là intravvedere negli altri . casi un certo rapporto tra i fatti di sincope e il ritmo che ha regolato l'accentuazione classica delle parole e delle sillabe.

A chiarimento di fatti di cui a Conson., 13, 20 e Morfol., 21, 32 valgano queste poche osservazioni. Una norma costante dovrebbe ritenersi questa: il tipo ritmico ⌣̲⌣⌣ (legimus, generis, ecc.) non subisce alterazioni, invece il tipo ⌣̲⌣⌣⌣̲ si riduce a ⌣̲⌣⌣ (es. sinciput da *sēmicaput) e il tipo ⌣̲⌣- si riduce a ⌣̲⌣ (valdē da *valide). Nella flessione si hanno vȧrie estensioni analogiche: da calidus-caldü normali, caldus e calidü analogici; da tegimen-tegminis normali tegmen e tegiminis analogici; volnus non da *volenos, ma su volneris da *voleneris; poi: alter da *aliteros, ma aliter da alitris (per cui cfr. ἀλλότριος con suff. - io - e l'avv. λεχρις corrispondente ad agg. λέχριος); cante da *cante e non da canete.

Dileguo di vocale di sillaba d'esito. - 32. Un'interpretazione razionale delle non chiare condizioni può essere la seguente:

a) -ros, -re, -ris, -los, -lis, -le preceduti da consonante, di norma perdono la vocale, riducendosi -ros, -re, -ris a -er, -los, -le a -ol (poi -ul), -lis a -il;

b) -is, -os preceduti da gruppo di nasale o liquida + consonante perdono la vocale;

c) in età assai recente scompare -e dopo vocale lunga + -r, -l;

d) sono normali i casi con la vocale conservata che non presentano tali condizioni, sono anormali, analogici, i casi che in un modo o nell'altro non obbediscono a queste norme.

Es.: a) tipo ager, nom. sing. e corrispondente vocativo, da *agros, *agre; e tipo acer da *acri-s; famul (Ennio) da *famlos; facul, semol da *facle, *semle (non da *facli, *semli); vigil, pugil e (Ennio) dēbil da *viglis, *puglis, *dēblis. Sono normali con vocale conservata le parole di tipo superus, tremulus; hilaris. Sono anormali per eccesso di sincope: dexter che è analogico su sinister; sui precedenti è analogico prosper; alter anche su uter. Sono analogici su gener (da *gernos), socer e puer. Indizio di una estensione analogica subito sopraffatta: infer, super, citer per inferus, ecc., in Cat. (non è esclusa qui l'immistione dialettale). Celer è un aggettivo originario in consonante (cfr. gen. pl. celerum). Cicur, cicuris dovette essere un tema in -us- parallelo a un tema in -u- (cfr. da un lato ind. manus- accanto a manu-, e ancora più importante concilium cicur Pacuv.). Una forma gnarus, -uris si può ricostruire per le forme acc. pl. gnarurīs (Plauto) gnarurem, ingnarures (Gloss.), il nom. sing. gnaruris (Gloss. Placid.) è o può essere ricostruito; lo stesso va detto di satur (accanto a lit.sotùs), passato poi alla II declinazione. Del pari i tipi armiger, signifer possono anche essere nomi di 3ª passati alla 2ª: cfr. volturus (Ennio) per vultur (gen. vulturis). Sono anormali, per difetto di sincope: famulus se pur esso da famul da *famlos; alacris accanto ad alacer, mediocris (volucris femminile accanto a volucer è anormale apparente, in quanto è aggettivo femminile sostantivato); così pure il femminile ocris per *ocrīs;

b) tipi ars da *artis e fons da *fontis. Analogici: tipo -ās da -ātis sul tipo -ās da -āts indoeur. (cfr. νεότης e simili), anormali per eccesso della sincope. Anormale per difetto è il tipo hortus, e, se non dipende dalla resistenza di u, il tipo portus. I doppioni violens - violentus, opulens - opulentus debbono trarre origine da un tipo normale nom. opulens, dat. opulento, ecc., poi sdoppiato: cfr. deus e deivos, dīvus da un paradigma deus - deivü, dīvü. damnās da damnandus (cfr. certi dammīs esto delle leggi delle XII tavole).

33. Incontri seriori di vocali o dittonghi con vocali. - Tali contatti seriori possono avvenire per giustapposizione e per dileguo delle consonanti h, ë, ù, -m. Accanto a forme eventualmente contratte si trovano forme integre: queste sono proprie della parlata più corretta, conservativa o riflessa (il che è più esatto e comprensivo che dire: "forme del tempo allegro o lento").

Vocali uguali dànno luogo alla lunga corrispondente: p. es. dēsse accanto a deesse; vēmens accanto a vehemens.

Due vocali disuguali non si assimilano quando sia e al primo posto, i al primo o al secondo posto, ovvero una vocale lunga, per natura o posizione, in sillaba ab antico accentata al secondo posto. Esempî: , , nĕŭter, r???ei accanto a reī; aureus; filius; coetus da *coĭtos; sotto l'accento, co-ēgi, co-āctum, a-ēnus (da *aiesno-), de-inde, pro-inde da cóēgī, ecc.; fuori d'accento, secondariamente, d???ein pr???oin (e non *proen), coepisti, ecc., onde coepī; plantēs da plantaiēs, in atonesi primitiva. Sono neoformazioni deambulo e simili.

Si assimilano (e dànno ü): o con e breve: prümo, cümo (da *proemo, *coemo), cügo da coego da coago e simili.

La preposizione prae in composizione diede esiti diversi in età diverse e in diverse condizioni. Il più antico è praemium da *praëemium. Successivamente praida, da *praiheda, per sincope. In un terzo periodo, prehendo per abbreviamento del dittongo davanti a vocale (o h più vocale); prehendo è conservato nella parlata più corretta; in pronunzia trasandata, prendo. A età più recente spettano praebeo e praehibeo: praihibeo cioè è una ricostruzione sul modello di prohibeo, cohibeo, e praebeo sta a praehibeo come prendo a prehendo. A età anteriore appartengono gli altri composti con habeo: dēbeo da *dehebeo, *de-habeo; cübeo e cohibeo da *cohebeo, *co-habeo, ecc.

34. Allungamenti di vocale. - L'allungamento avviene davanti ai gruppi: -ns, -nf, -n seguita da gutturale, gn (nnn). In fine di parola il gruppo vocale + ns dà vocale lunga + s: servüs, consulēs, omnīs, sensūs da *servons, ecc. In mezzo di parola vi erano due varietà di pronuncia: con n attenuato nella lingua aulica o dileguato nella popolare. Cicerone pronunziava almeno -ēsia per -ēnsia: es. Magalēsia (Velio Longo, VII, 79; cfr. Varr., De Lingua Lat., VI, 15; scrizioni come cosol nelle epigrafi possono rappresentare e l'una e l'altra pronunzia). Si ha quīnque (ital. cinque, ecc.) da *quenque, *penque; quīnī da quīncnī; dignus scritto dIgnvs (e poi divenuto *diññus). Dev'essere illusorio l'allungamento di voc. + r + cons.: né qualche apice né qualche lunga in testi greci dell'Impero sono probanti. Per pronunzie quali ital. fîrma, v. Vocal., 14. È da ritenere illusoria la cosiddetta legge del Lachmann, secondo la quale una sonora divenendo sorda davanti a sorda produrrebbe l'allungamento della vocale precedente: essa non si riscontra che in alcune forme verbali con -, o -to-, -tu, dove sono possibili analogie. In parole morfologicamente isolate si ha la breve: tussis da *tud-tis, pessum da *ped-tum. E neppure in tutte le dette forme verbali si trova la lunga: iussus, e iussī da base con -dh-t-; aggressus id.; sessum da base sed-, cessum e cessi (cēdü), scissus, fissus, passus, fossus. Dove la lunga si riscontra, essa o continua condizioni originarie indoeuropee, o è dovuta a fatti analogici. È vero che di contro a dūco si ha dŭctus, ma anche accanto a nūbo si ha nūpta.

35. Frequenti sono i cosiddetti allungamenti di compenso per la perdita di s davanti a consonante sonora (v. Cons., 23).

36. Le cosiddette nasali e liquide sonanti indoeuropee (í, , , ì) sono rappresentate in latino rispettivamente da em, en, or (ur), ol (ul).

Consonantismo.

1. La consonante ë. - i in mezzo di parola fra vocali si dilegua; ad es. omnēs da *'omneëes; con le medie d, g, s sonoro dà ii scritto ordinariamente i: maior da *'magiüs, ma anche ii (maiIorem, Corp. Inscr. Lat., II, 1964; v. Cons., 17, 19, 24). In principio di parola dà ë (j) e assimila d: iam, Iuppiter da *dëeu pater-; dies continua non *dëēus ma *diëēus (cfr. ind. diyāus accanto a dyāuṣ). Dove ë nell'interno di parola è rimasto senza effetto davanti a voc. breve, è divenuto i: medius, ind. madhyas, indoeur. *médhëos; poi ë davanti a vocale lunga; le condizioni storiche sono dovute a livellamenti in un senso o nell'altro.

2. La consonante ù. - Iniziale si dilegua davanti a u etimologico e r, l: urgeo (lit. veräsu); radix, lāna. In mezzo di parola si dilegua davanti a o breve: deorsum (da *dēvorsum), incola (cfr. inquilīnus), mālo (da mage volü attraverso *magùolü, *maùolü); deus da *deios, *deiùos; deivos, equos, ecc., sono ricostruzioni su altri casi. Inoltre, dilegua fra vocali uguali: sīs da sī vīs e simili; se nünus stia per *nounos o per *noùonos non è possibile decidere. Spesso si trova scritto u per uu; ivenis per iuvenis, ma le grafie denuo depuvio e iuvenis corrispondono a differenze reali di pronunzia (cfr. ital. giovane e p. es. gennaio).

3. Le nasali. - Le nasali si conservano in principio di parola e in mezzo di parola fra vocali; davanti a consonanti sono sempre a esse omorganiche: es. māter, dorico μα???τηρ, nüminis, ind. nāmnas; centum, lit. sziṃ???tas, indoeur. këítóm, membrum, indoeur. *mensrom, ind. māsam, a. bulg. mézda. In fin di parola -n è conservato: inguen; -m invece si riduce a spirito nasale, che in unione alla vocale ha gli stessi effetti prosodici della vocale semplice lunga. Fino a circa il 130 a. C. nelle iscrizioni è spesso omessa.

4. Le liquide. - Le liquide sono rappresentate da r, l; ma l ebbe due timbri (v. Vocal., 11).

5. La sibilante s. - Si conserva come consonante forte all'inizio e in generale, meno cioè in pochi casi singolari in gruppi di più consonanti (v. Cons., 36 segg.) davanti a esplosiva forte. Già in età preistorica si dilegua davanti a esplosiva sonora (cfr. Cons., 13 e 23); nel periodo delle origini è conservata ancora davanti a nasale, es. cesna (Festo), poi cena. Fra vocali già in periodo italico passa a sonora e nell'umbro prima della sincope (lat. opera, umbro osā-) in latino dopo la sincope (ornus da *oʃinos) passa a -r-. In fine di parola in periodo arcaico si trova omessa, certo in origine solo davanti a sonora; nell'età classica, per effetto dell'insegnamento grammaticale, viene ristabilita fermamente. Per sr, v. Cons., 14.

6. Le esplosive. - Si ammette che nel periodo indoeuropeo esistessero le seguenti consonanti esplosive semplici: labiali p, o; dentali t, d; tre specie di gutturali: ossia, gutturali pure: k, g; gutturali palatizzate, che per convenzione indichiamo con , ; gutturali labializzate che per convenzione indichiamo con , ; inoltre altrettante aspirate: ph, bh, ecc.

7. Il latino continua generalmente gli indoeur.: 1. p, b; 2. t, d; 3. k, g e 4. , con p, b; t, d; k, g: per es.: 1. pró, gr. πρό; būcina, gr. βύκτης; 2. tenuis, gr. τανυ-; dünum, gr. δῶρον; 3. cancer, gr. κάρκινος, ind. karkaṭas; grāmen, gr. γράστις, ind. grāsas m.; 4. centum, gr. ἑκατόν, ind. śatám; ager, gr. ἀγρός, ind. ájras m. Insomma il latino conserva qui generalmente le condizioni indoeuropee, confondendo solo le due serie k, g e , , i onde trova posto fra le lingue del centum (v. indoeuropei).

8. e . - Lo sviluppo di questi elementi prossimo alle condizioni indoeuropee è in latino e : es. quis da indoeur. *kùis, gr. τίς, inguen da indoeur. *n̥gùēn, gr. ἀδήν. In determinate condizioni fonetiche si elimina o perde uno o l'altro dei due elementi dell'aggregato. E precisamente si ha c per qu davanti a u, ë e consonanti: p. es. secutus, socius di contro a sequi; coctus, coxī di contro a coquere; unxī ma unguere; glans da *gùlans, gr. βάλανος; grossus da *gùrossos, celt. bras. Si dilegua la consonante gutturale iniziale in ubi da *kùubi (cfr. alicubī). In principio di parola si riduce a ù: es. venio da *emëü, ind. gamāmi, gr. βαίνω; in mezzo di parola fra vocali: ūva da *ūgùa, lit. uga, e nel nesso r + + vocale: es. torvus, gr. τάρβος.

9. Aspirate. - Le medie aspirate si continuano in latino in principio di parola generalmente con spiranti sorde, in mezzo di parola generalmente con medie: p. es. dh è continuato con f- in fūmus (indoeur. *dhūmós, ind. dhūmás) e con d in medius (indoeur. *medhëos, ind. mádhyas); nei dialetti italici si ha f anche in mezzo di parola: es. osc. mefia "media". Tali divergenze porterebbero ad ammettere come punto di partenza del sistema italico ???‛, ß‛, ???‛, cioè consonanti medie sorde. La possibilità di uno sviluppo indipendente di spiranti forti da tali elementi nei singoli dialetti italici, da spiranti a esplosive medie in latino è provata da una parte dall'umbro che a -ns risponde con -f, dall'altra dal latino che continua sr con br (v. Cons., 13). Il primo sviluppo italico di queste aspirate dev'essere stato, dunque, ???‛, ß‛, ??? e ???ù.

In principio di parola si ebbe poi: a) f- come corrispondente a indoeur. bh, dh, ghù (e ghë): es. fero da indoeur. bhérü (ind. bharāmi, gr. ϕέρω); fūmus da indoeur. *dhūmós (gr. ϑυμός); formus da indoeur. *ghùormós (ind. gharmas, gr. ϑερμός); fundo da indoeur. *ghùu- (ind. hutás, gr. χέFω, χύτρα); b) da gh e ghë s'ebbe h o, davanti a consonante, ???: hostis da indoeur. *ghostis (ant. bulg. gostĭ); gradior da indoeur. *ghredh- (ind. gr̥dháyati, celt. in-grennim); hiems da indoeur. *ghë (ant. bulg. zima); glisco (lit. älėjà).

In mezzo di parola si ha b da bh: es. nebula, gr. νεϕέλη, ind. nábhas; da dh: a) generalmente -d-: es. medius, ind. mádhyas; b) dai nessi , ßr, ßl, si ha rb, ecc.: es. verbum, ted. wort; glabro-, ant. bulg. gladŭkŭ; stā́bùlum, cèco stadlo; iubeo, iussus (ss da dh-t). Da gh e ghë si ha: a) fra voc. h: prehendo, gr. χανδάνω, ant. bulg. gadajâ; veho, ant. bulg. vezâ; b) in contiguità di consonanti, g: es. longus, gr. δόλιχος, ant. bulg. dlŭgŭ; ango, gr. ἄγχω, ant. bulg. âzŭkŭ; ghù ebbe le stesse sorti di : ninguit, nivis, nix, gr. νείϕει.

Di aspirate forti sono pochi gli esempî indoeuropei e ancor meno i rappresentanti in latino: scindo, gr. σχίξω; tego, gr. στέγος, ind. sthāgati; spūma, ind. phēnas; una spirante h da kh si presume nel lat. habeo per il ted. haben ecc., f da ph in fendicae per l'ind. phaṇÿám.

10. Dentale + demale. - In latino tt (da t-t e d-t) finisce a ss, e ttr a str: es. messus - meto; sessus - sedeo; assessor ma assestrix. Il gruppo tt secondario rimane: cette da *cedate.

11. Aggiungiamo qui alcune particolarità. È notevole che u ed r favoriscano in casi disparati il sorgere di elementi labiali: fundo per *hundo; iubeo per *iudeo; torvus ma unguo; verbum per *verdom; glabro per *gladr-. Questa sintesi fonetica ci garantisce che si tratta di processi indigeni e non, come si poteva sospettare, di accatti dialettali.

Analogiche sono le forme figere in luogo di ant. lat. fivere, per fixi; figura, per fingo; exequiae, per exequi; fefelli, per fallo.

Sono dovute ad assimilazioni bibo, per *pibo (cfr. ind. pibati, celt. [p]ibit); barba, per *farba.

Sono forme dialettali, in parte dialettali urbane: a) bos per *vos; popīna per coquīna; mufrius accanto a muger; rufus accanto a ruber; Alfius accanto ad albus (umbr. alfu "alba"); b) l per d in varie parole anche sicuramente indigene; es. Capitolium accanto a Capitodium, lingua, ecc.; c) mentre in latino dr s'altera in tr (v. Cons., 14), in quadratus e affini abbiamo all'opposto dr per tr: si tratterà di un'imitazione equivoca della parlata schiettamente latina da parte dei Sabini urbani; d) per d si ha r in peres (gramm.), maredus (gloss.): forme dialettali ma di provenienza incerta. Invece meridies sarà dovuto a dissimilazione. Né riterremmo dialettale la forma ar- per ad-, dacché troppi sono i casi in cui si ha ar davanti a labiale (arbiter, arfuisse, ecc.) e un'estensione analogica di una preposizione ad altre consonanti iniziali (es. arger accanto ad agger da *adger) è bene ammissibile; proprio or ora si notava una, per dir così, simpatia fonologica fra r e labiali (verbum per *verdom ecc.); e) vigintī, septingentī e simili, per *vīcentī ecc. acc. a vicies, ducentī, ecc. Si può ritenere che l'alterazione avvenisse nella forma *vīcn̥ti (cfr. ilignus, v. sotto); f) certo dovuti a dialettismi e a imitazioni equivoche fra dialetti contigui sono gli scambî fra f ed h: si trovano accanto a faba, fordus, febris, forctus, Fauni, in cui f- è normale, altre forme con h- anormale: haba, ecc.; e all'incontro sono citati, accanto a forme con h normale, hordeum, hircus, holus, hostis, hariolus, haedus, hostia, forme con una f anormale: fordeum ecc.; e infine, senza il corrispettivo normale con h, si ha in latino con f-: fovea (cfr. gr. χειά), faux (cfr. χάος) e fel (cfr. χόλος); e fordus e hordus. La stessa confusione che in Roma s'avverte anche in dialetti ai limiti del Lazio: a Falerii (foied per hodie, haba per faba; il nome proprio Halesus leggendario fondatore di Falerii), a Preneste (Foratia, Horatia), in Sabina (fasena, fircus, fedus, per harena ecc.). Forse la confusione fu originata da condizioni del sabino, dove sembra fosse costante f anche per h (cfr. sab. fasena ecc.); onde fovea per hovea ecc. potrebbero essere sabinismi urbani, e hordus per fordus ecc. imitazioni equivoche sabine della parlata romana; si noti che Hordicidia accanto a Fordicidia, Hordicalia accanto a Fordicalia erano nomi di un'antichissima festa urbana, delle curie.

12. Incontri di consonanti. - Nei gruppi di consonanti che o per eredità indoeuropea o per dileguo di vocale latina vennero a trovarsi a contatto, vi furono grandi successive semplificazioni, che mutarono essenzialmente il carattere armonico della lingua latina temperando asperità del primo periodo della sua vita individuale.

13. Gruppi di due consonanti. - Delle consonanti la più resistente è l (che si è conservata anche nei nessi più affastellati): l si assimila: d (es. sella da *sedla, Pollux da Πολυδεύκης; longus da *dlongus, cfr. δόλιχος); n (corülla da *corünola); r (puella da *puerola: cfr. puer); s (collum da *colsom, ted. Hals; lābī da *slabei, germ. slaf); ù (pollen da *polùen, cfr. pulvis; lana da *ùlana, lit. vílna, ted. Wolle); altera m precedente in f- o p- (flaccus e plecto di contro a mulcare); elimina t in principio di parola (latus da *tlatus, cfr. tollo) e lo riduce a c in mezzo di parola (vehiclum da *vehetlom).

14. Segue in resistenza r, che, se cede ad l (puella), assimila invece n precedente (irritus da *inr-); s seguente (torreo da *torseëü, cfr. gr. τέρσομαι, ind. tarṣáyāmi); riduce ad f- o -b- un s precedente (frīgus da *srīgos, slov. srěž "gelo"; funebris da *funesris, cfr. funus), e un m precedente (formica da *mr̥mica, gr. μύρμηξ), e a t un d precedente (taetro da *taedro, cfr. taedet; per quadratus v. sopra Cons., 11); assimila l's sonora, in forme ricostruite, con allungamento della vocale precedente (dīrumpo per dis-r-).

15. Seguono per il grado di resistenza le esplosive e le spiranti forti e le nasali, in confronto alle esplosive leni e a s lenito al contatto di sonora.

16. Di queste ultime, la più debole è d: di dr e dl abbiamo detto (Cons., 13, 14); inoltre il d viene assimilato in: df: es. afficio da *adf-; dg: es. agger da *adg-; dë: es. Iuppiter da *dëeu-, peior (da *pedëüs); dm-: es. materies da *dm- (admoneo e simili sono ricostruzioni); dn: es. annuo da *adn-, mercen(n)arius da *mercedn-; dp: appello da *adp-, sēpono da sēdp-; ds: persuāsi, assequor; : es. bis da *dùis-, bellum, arcaico anche duellum, bonus arc. duenos, bellus da *dùenelos, suāvis da sùādù- (si ha cioè b- all'inizio, ù in mezzo di parola); da dhù si ha non solo f- ma anche -b-: fores, lumbus da *londhùo-.

17. b (anche se da p) cede a c: succumbo da *subc-, e, come tutte le altre labiali cede alle nasali: summoveo da *subm-, Dumnorix da gall. Dubnorix; somnus da *sop-, cfr. sopor e Samnium da *Safn-.

18. g cede a ë e ù: maior, mālo (v. Cons., 1 e 2); a n: nātus e arc. anche gnātus; cognātus (pron. coñnātus o conñnatus).

19. La stessa riduzione anche in cn: ilīgnuis che va con ilex, nīxus e gnīxus (da *cnīxos, got. hneivan "piegarsi"; vorāgo, vorāginis, che sta per *vorāco (cfr. vorāx, vorācis) *vorāgnis, pare dovuto a successivi livellamenti: dopo essersi livellato voraco su *voragnis, a sua volta *voragnis si livellò per il g su vorāgo così da aversi qui gn e non nñn, e perciò l'epentesi come in dracuma da δράχμη e simili.

20. Da gm si ebbe, riteniamo: a) mm dopo vocale breve: es. flamma; b) m, dopo vocale lunga e davanti ad sm: contāmino, cfr. contāgium; iūmentum, arc. preletterario iouxmentom; subtēmen, cfr. texo; exāmen da *exagsmen; c) gm, in casi di sincope di vocali: tegminis da *tegemenes ecc. (v. Voc., 31); d) da cm, probabilmente, gm: segmentum, cfr. secare, seppure non è riformato su *seg(e)men-; stimulus non viene da una base *stig- ma da *sti-: cfr. stilus.

21. ù. - Dopo labiali dilegua sempre: aperio da *apùerio, imperf. -bam, futuro -bo da -*bhù-; dopo forti gutturali e dentali all'inizio ora si perde ora resiste alterando, eventualmente, la consonante; canis ma vapor da -, e tesqua ma paries da -; poiché in mezzo di parola, in e preceduti da vocale o liquida, ù resiste, il v- e il p- di vapor e paries possono essere ritenuti forme iniziali o postconsonantiche di frase, e tesqua ("Sabinorum lingua" Schol. ad Horat., Ep., I, 14, 19) e canis forme dialettali. Parallelo al p- da è il b- da - (Cons., 23). Da ùr- si ha r: radīx. Per ll da , l da ùl, e ù da , v. sopra.

22. j. - Il gruppo cj- dà c-: ceveo; hj- dà h-: heri; sj- dà s: südes.

23. s (s lene). - Per fr- da sr- e -br- da -sr- e le eliminazioni in cl-, -sl- v. sopra, Cons., 13,14. Del pari si elimina davanti a tutte le altre leni medie o spiranti: sb: dībucino; sd: trēdecim; sg: ēgredior; sj: majus, eius da *eisëos; : pruīna da *prusùīna.

24. Delle forti la meno resistente è t: oltre a -tl- > cl- e tl- > l- su ricordati (Cons., 13) si ha: tn > nn (annus, got. aîn; tc > cc: peccare che va con *pet- "cadere".

25. n. - Per ns, v. Vocal., 23.

26. Gruppi di tre o più consonanti. - Meno in pochi nessi terminati in esplosiva con liquida: p. es. astrum, cultrum, antrum e simili, e nel gruppo nx: anxius, vinxi, dopo le continue r, s, l, n, m e anche e soprattutto avanti a s in varie età si sono perdute una o più consonanti di gruppi di tre o più consonanti.

27. Davanti a s: se(k)stus (sextus, per ricordo di sex, conservato o ricostruito) se(k)scentī, mi(k)sceo, e(t)sca, a(t)sto, su(p)scipio, su(p)spicio, su(p)stineo, a(p)sporto, di(tk)sco, pi(n)stum, mo(n)stellum (monstrum è analogico su moneo), ter(s)tis (osc. tristaamentum), to(r)stus, tu(r)scus; Ma(r)- spiter; e in seguito a caduta d'altra consonante po(rk)scü, po(rk)stulo. Nei nessi seguenti si è dileguato anche l's davanti a sonora, attraverso s lene con allungamento della vocale precedente: iu(ks)mentum, preletterario iouxmentum; (ks)na, prenestino losna; a(ks)la, cfr. axilla; (ks) > vīlla; to(ns)lae, cfr. tonsillae; tra(ns)no, tra(ns)meo; tra(ns)iectus, tra(ns)- versus, tra(ns)duco, su(ps)mo, a(ps)vello; e(ks)vello, e(ks)iicio; e(ks)mergo; e(ks)do; e(ks)bibo. Tre elementi sono dileguati in sca(nds)la.

28. Dopo s: pas(k)tus, con successivo dileguo anche di s: po(st)ne, po(st)merium, pa(st)nis, cfr. pastillum.

29. Dopo m: lam(p)terna > lanterna.

30. Dopo n: quin(k)decim, quiñ(k)ni > quīni.

31. Dopo r: decer(p)mina; tor(k)mentum, for(k)tis, quer(k)neus, por(k)- sco, onde posco (Cons., 27), or(d)no, ur(k)sus, ver(t)mina, Mar(t)cus.

32. Sono dileguate successivamente due consonanti in far(ks)nus, cfr. fraxinus, tre in mante(rgs)le.

33. In derbiosus, con bi da *dùi, come lumbus da *londùos.

34. Dopo l: ul(c)tm, ful(c)mentum, gil(s)vos, al(s)nus.

35. ncl ngl: anglus, cfr. ancus.

36. In rss da rts e rtst vi sono due continuazioni: rs e s: la prima si deve ritenere la forma aulica ricostruita; la seconda, la forma popolare; si noti infatti che la forma senza r è la forma romanza: ital. ritrîso, suso, giuso; già in latino costantemente possideo (da r + s forte).

37. Per le numerose altre particolarità che non rientrano nelle norme ricordate si rinvia ai trattati speciali.

38. Riduzione o geminazione di consonanti. Il fenomeno della riduzione consonantica avviene in sillaba tonica in varie età dopo vocali lunghe, o in sillaba atona; geminazioni consonantiche avvengono, invece, in sillaba tonica. I fenomeni del primo genere appartengono ai fatti inconsaputi, sono l'effetto di particolari condizioni accentuative della sillaba e sono in rapporto con la sua costituzione fonetica; i secondi possono essere anche di natura enfatica, affettiva, esprimenti cioè un particolare stato d'animo: d'ammirazione, derisione, affettuosità, ecc.; ma non è escluso che in qualche settore di popolazione l'accento vibrato prodotto dalla lunga finale (Rümā da Rõmā) producesse alla sua volta esso l'allungamento della consonante. I casi di geminazione possono anche in parte essere dovuti a imitazioni equivoche, modellati su doppioni di forme enfatiche o no, imitazioni equivoche avvenute col trapasso della lingua da una società a un'altra, da una generazione a un'altra. Di uno stato d'animo di esaltazione religiosa può essere stato effetto la geminata del voc. Iuppiter; al sentimento carezzevole del linguaggio rivolto all'infanzia o a imitazione del linguaggio infantile possono essere attribuite forme come Varro, e come bucca, puppa; origine spregiativa possono avere le geminate in parole di tipo gibber, lippus; di natura fisica può essere la rr in narrü, di contro a gnārus; a imitazione equivoca indigena od esotica littus accanto a lītus. Una sistemazione esatta dei non scarsi esempî secondo le loro cause non la riteniamo effettuabile, date le molteplici possibilità di esse cause.

Es. di riduzioni: a) dopo ton. lunga rūmentum da *rūpm; aemidus da *aid-, rīma da *reicma; suāsī da *suādsai (di contro a summus da supmos, sella da *sedla, mamma da *madma, flamma da *flagma; gessí). Di queste riduzioni l'ultima per data è quella di ss, perché, come informa Quintiliano (I, 7) in manoscritti originali di Cicerone e di Virgilio erano ancora usate forme come caussae, cassus, divissiones: poco importa per l'origine recente della riduzione che queste forme potessero anche esser dovute a tradizione grafica. Nell'età di Tiberio si comincia a scrivere milia accanto a mille. b) Esempî di riduzione dopo protonica: ofella (offa), mamilla (mamma), omitto (*ommitto), redūco (*redduco), ecc.

39. Assimilazioni. - Notevoli: quinque da *quenque per *penque (πέντε); coquo da *quequü, bulg. pekâ, gr. πέσσω da *pekùëü; quercus da *perquùs, celt. Hercynia da p-, got. fairguni "monte" (propr. "*bosco di querce e); bibo da *pibü, ind. pibāmi; barba da *farba, ted. Bart.

40. Dissimilazioni. - Notevoli: simulacrum accanto a vehiclum, caeruleus per *caeluleus, meridies per *medidies. In maggior numero nel latino volgare: pelegrinus (ital. pellegrino), lat. lett. peregrënus; cinque (ital. cinque ecc.), lat. lett. quinque.

41. Consonanti finali. - Gruppi di consonanti: rd, rt, nt, ct, e forse st, ld, perdono l'ultima consonante: cor da *cord, gen. cordis (in Plauto davanti a vocale ancora cord), iecur da *jecurt, indoeur. *ëekùr̥t, ind. yakr̥t; *dant da dan, onde, rideterminato, arc. danunt; lac, gen. lactis; e anche forse os da *ost (gen. ossis sul tipo mel mellis, fel fellis, che risaliranno a *mell, *fell da *meld, *feld). La finale -nt si ritiene da alcuni desse in italico -ns; ma non è probabile. Il lat. quotiens è certo morfologicamente vicino a ind. kiyat; ma proverrà direttamente da *kùotients; ferens può essere non il succedaneo di indoeur. ferent, ma d'un più o meno antico ferents; e l'-ns di 3ª plur. italica non il succedaneo di -nt ma di -nts, o -ns, con un -s aggiuntosi alla desinenza di 3ª plur. per imitazione delle doppie forme -mo -mos, -te -tes. Un fatto analogo è avvenuto in parte della Francia dove si ha una desinenza di 1ª plur. *-mo che dev'essere sorta sulle doppie forme -tis -te. La fase intermedia con la lunga per posizione è conservata nell'antica poesia in hocc da *hodce (anche in Virgilio, En., II, 664, probabilmente per arcaismo), in terr da *tris (cfr. terruncius), in ess "tu sei", da *essi (ricostruito; cfr. ind. asi, gr. εἱ), prodess, e in -ss da ts (miless); invece nel nominativo singolare in -er da -ros, -ris, attraverso *ers e quindi err (macer, celeber) è prevalsa la forma anteconsonantica. La finale -ons, ecc. diede -üs, ecc.

42. La finale -m. - Nella poesia di tutti i tempi, vocale + m davanti a vocale seguente può dar luogo a elisione od eventualmente a iato: dice anche Quintiliano che fra vocali "parum exprimitur" e "velut nota est ne ipsae coeant" (IX, 4). In composizione dà luogo a contrazione (cügo), a elisione (animadverto, veneo) e dittongo (circuitus). Tale diversità dipende dall'età diversa in cui il composto ha avuto una sistemazione. Davanti a consonante nelle più antiche iscrizioni è frequentemente omesso; in poesia fa posizione, né v'è alcuna indicazione di grammatici circa una sua pronuncia fievole in tale condizione. Questi fatti andranno nella loro genesi interpretati così: -m si attenua in pausa. Trasportato così attenuato in mezzo della proposizione, davanti a vocale progredisce nell'attenuarsi fino alla condizione di spirito nasale, onde la vocale lunga precedente s'abbrevia; davanti a consonante si trasporta una tal forma; ma con l'andar del tempo, per effetto dell'insegnamento scolastico, della cultura più diffusa e della scrittura, nelle classi colte la nasale si rinvigorisce, restando però breve la vocale già lunga; la forma attenuata per analogia fonetica si estende anche a parole proclitiche come circum; con poteva essere anche enclitico e quindi finale assoluto nei pronomi, e, come mostrano gli altri dialetti italici, anche nei nomi.

43. La finale s. - Nell'antica poesia, fino ai "poetae novi", davanti a consonanti poteva non fare posizione; poteva cioè non esser pronunziato. Tale condizione si conservava ancora nell'età classica nella lingua popolare: "quod iam subrusticum videtur" dice, infatti, Cicerone (Orator, 58) alludendo al fatto. Nelle antiche iscrizioni -s è frequentemente omesso (dopo vocale breve o lunga): es. Cornelio L.F. (Corp. Inscr. Lat., 31); matrona (I, 167 segg., Pesaro) per matronās; pisaurese (I, 173) per Pisaurenses (ib.); maio (I, 108) per Maiüs (Preneste). Il dileguo deve aver avuto luogo davanti a consonante lene per la trafila -h, perché se fosse sorto in pausa non si spiegherebbe come non si usasse anche davanti a vocale; l'h poi o si è perduto davanti a consonante forte senza traccia, onde si hanno forme come optimŏ davanti a consonante, o forme come optimo sono un compromesso tra *optimü e optimŏs. Le condizioni della parlata dotta del periodo classico si devono, come in -m, all'azione sistematrice dell'insegnamento grammaticale.

44. La finale -t indoeur. diviene in italico -d: es. deded, ant. lat. feced (iscr. di Duenos): -t in laudāt è normalmente da -ti, in lēgit, fidit, laudabat ecc. è analogico.

45. La finale -d si conserva dopo vocale breve, si dilegua dopo vocale lunga. Il dileguo è dovuto a uno spostamento della sillaba davanti a certe consonanti: hau multum come caelum di contro a *sedla da sella, assimilato più tardi (v. Italia dialettale, VII, p. 155 segg.).

46. Iato ed elisione. - Da un passo di Cicerone (Orator, 44, 150) risulta chiaramente che ai suoi tempi nella parlata volgare e dotta lo iato non era ammesso, e che non fosse norma costante neppure nell'età letteraria arcaica, che anzi in quell'epoca vi fosse diversità dell'uso tra poeta e poeta; viceversa e Cicerone ricorda di aver ammesso lo iato nella sua traduzione di Arato, e se ne hanno esempî in poeti dell'età di Augusto. Queste circostanze vanno spiegate così: in un'età anteriore all'arcaica letteraria lo iato dovette essere la norma o quasi nel parlare comune; nell'età letteraria arcaica, sia per tradizione letteraria del periodo delle origini, sia per conservatorismo fonetico di famiglie colte, lo iato fu usato saltuariamente, ma abbondantemente; poi si usò di rado o per mera tradizione letteraria o per enfasi del periodo: forme come circuire, venire (da venum ire), animadvertere si sono fissate nella lingua o in diverse età o in un'età di transizione. Rispetto a datuiri, la forma datum ire è forma ricostruita; laudatas, laudatast sono forme antiche sul cui modello possono essere state create la 2ª pers. laudatus e la 3ª laudatumst. La dichiarazione di Probo (ap. Gell., XIII, 21) che Virgilio scrivesse con intenzione turrim in praecipiti in luogo di turrem per eufonia, non può essere ritenuta una prova contro l'elisione affermata da altri, perché, anche ammessa l'intenzione in Virgilio, poteva, come suole, essere che in "scribendo oculus prospiceret quid sequeretur".

47. Nel latino volgare fenomeni più antichi e cospicui sono lo spirantizzarsi di -b-, l'inizio delle palatizzazioni, il dileguo di h di pronunzia debole già in latino, il dileguo di -m, -n, e di n in -ns-.

Morfologia e sintassi.

Nomi. - 1. Il latino conservò i tre generi grammaticali dell'indoeuropeo (maschile, femminile, neutro). 2. Dei numeri, perdette il duale: restano, come reliquie fossili, duo e ambo.

3. Dei casi obliterò la forma propria del locativo e dell'istrumentale. Forme fossili di locativo: domī, bellī, humī, Romae e simili, Tiburī e simili, Athēnīs e simili; di istrumentale: bene, modo, multum e simili, non più riconoscibili come tali. Fu espresso con l'ablativo il complemento di allontanamento anche nei nomi di 3ª, 4ª e 5ª. Nel latino volgare l'accusativo divenne il caso preposizionale, per ragioni fonetiche e sintattiche. Perdutosi cioè l'-m di accusativo e abbreviatesi le atone nella lingua popolare, venivano a confondersi accusativo e ablativo nel singolare dei nomi di 1ª, 3ª, 4ª e 5ª. E la maggioranza delle preposizioni anche esprimenti un concetto di stato in luogo si erano venute usando col solo accusativo già in latino; d'altra parte l'ablativo essendo un caso fortemente sincretico non aveva una individualità ideologica spiccata che potesse dargli forza di resistenza.

4. Temi. - Il latino conservò assai bene distinti i tipi tematici dell'indoeuropeo; non così la loro flessione.1. Temi in -ā, masch. e femm., e ëā: es. anima, verna, materia (la cosiddetta 1ª declinazione). 2. Temi in -o/e, masch., femm., e neutri: servos, serve; hic lupus, haec lupus; templum; s'aggiunsero per analogia alcuni neutri di 3ª: es. volgus; anche con genere analogicamente mutato: modus (cfr. i derivati modestus, moderare) (2ª declinazione). 3. Temi in consonante, in -i/-ei, -ē/-ei, -ī, -ū e dittongo -āu, -eu, -ou: es. milit- ecc.; can-i-, civi-, omni-, sēdē-, -, -; nāv-i-, bou-/bü-, *jou- -ppiter (3ª declinazione). Passarono a questo tipo di declinazione anche gli aggettivi in -u-: es. suāvis da *sùādù-i-s 4. Temi in -u- m. f. e n.: es. sensus, anus, pecö (4ª declinazione). 5. Temi in --: es. matēriēs, speciēs (5ª declinazione). Passarono a questa declinazione un tema in -eu: diēs, dall'acc. diem (cfr. nudiūstertius da *nudieustertius e me dius fidius; e ind. ved. dyãm, nom. dyāús, Ζῆν, nomin. Ζεύς); un tema in -ēi-: rēs (ind. n. plur. rāy-as); e qualche tema in ēs: plēbēs (cfr. plēbeius che sarà da *plēbesëos) e fidēs (cfr. fidēlis da *fideslis); spēs (cfr. arc. speres,. ecc.; sperare).

5. Vi sono tracce di politematia: arc. alis, alid, acc. aliom; pater patris come πατήρ πατρός, caro carnis; orīgü orīginis per *orignis; igni- ignei- (nom. sing. igni-s; n. pl. ignēs da *igneë-es, cfr. ind. agníṣ- agnáyas); sensus, gen. sensūs da sensous (cfr. ind. sūnús- gen. sūnüs); büs bovis, cfr. dor. βῶς βοFός). Alternative di e/o: in genus generis (cfr. γένος γένεος), servos -serve (cfr. ἄνϑρωπος ἄνϑρεπε).

6. Casi. - Nominativo sing. maschile e femminile. - Salvo alterazioni fonetiche, non si hanno modificazioni sostanziali delle condizioni primitive indoeuropee: vi sono due tipi di nominativi maschili e femminili: asigmatici e sigmatici. Sono asigmatici i nomi in -ā (anima, cfr. χώρᾶ), in liquida (pater), in nasale (origo), e necessariamente i temi in -s (honüs e honor, pubēs, degener); sono sigmatici, dei temi in -ā, i due cimelî arcaici hosticapas, paricidas (attribuibili al sabino urbano); i temi in -o- (da cui asigmatici con -r da -ros: vir, ager ecc.); temi in -i/-io-: alis, Cornelis; temi varî di 3ª decl.: ignis, ars per *artis, acer da *acris, arc. ocris per *ocrīs, vīs, sūs, rēx, ecc.; temi di 4ª decl.: sensus, quercus; temi di 5ª decl.: speciēs ecc.

7. Accusativo singolare maschile e femminile. - I nomi in vocale hanno generalmente la desinenza -m, quelli in consonante la desinenza -em (da indoeur. -í): p. es. -animam, servom, omnem, vīm, sensum, seriem; suem; Iovem, bovem, per analogia, forse d'età remota: patrem, ecc.

8. Nomin.-accus.-voc. singolare neutro. - I temi in -o- hanno la desinenza -m: es. templum. Gli altri sono senza desinenza: es. mare da *mari, pecö (v. sotto); nümen da indoeur. *nümn̥ (ind. nāma, gr. ὄνομα); ūber (ind. ūdhar), iecur (ind. yokr̥t; -t appartiene forse al tema), cicer, caput, lac da *lact, cor da *cord, marmor, genus, üs, maius, arc. robus cl. robur (cfr. robustus), animal(e), calcar(e).

9. Vocativo singolare maschile e femninile. - Poche tracce: 2ª decl. serve, fīlī. Le forme arcaiche in -ie (filie Liv. Andr., Vergilie, Mercurie), o corrispondenti a un nom. -ios, o ricostruzioni grammaticali di poeti stranieri, non attecchirono. Legittimo l'arc. puere (Voc., 32). 3ª decl.: Iuppiter corrisp. a omer. Ζεῦ πάτερ, con allungamento enfatico della consonante. Il voc. del pronome è la forma del genitivo. Nel linguaggio quotidiano il vocativo è comunemente usato solo coi nomi o appellativi di persona; quindi espressioni quali voc. ocellus meus di Plauto corrispondono assai bene a una realtà psicologica e quindi linguistica: ocelle è anzi una forma di linguaggio riflesso.

10. Genitivo singolare. - Desinenze indoeuropee del genitivo singolare sono: -ī -sëo, -so nei temi in -o-; -es/-os, -s negli altri temi. In latino, nei temi in -o- si ha la desinenza -ī: servī; nei temi in consonante desinenze arcaiche -es/-os, -is/-us, classica -is; es.: arc. (epigr.) Salutes, Diovo, Venerus, class. salutis, patris, suis, Iovis, bovis ecc.; -is da -es anche nei temi in -ē-, e -i-; sēdis, avis; i temi in -u- hanno come desinenze: a) -s: senātūs, cornūs; b) -is da -es, e -os: senātuis da *senātoves, senātuos (Corp. Inscr. Lat., I, 196) da *senātovos. In origine avevano -s anche i nomi di 1ª e 5ª decl.: si trovano forme come escās, Monētās, viās ecc. nell'epica antica (non nella drammatica, ossia non più nella lingua popolare); familiās nel linguaggio giuridico (pater familias e simili); arc. faciēs, diēs e altri, isolati. Una prima innovazione latina s'ebbe per dileguo di -s davanti a conson. sonora, onde: Diovo, cornū (gen. neutro di 4ª decl.), diē, faciē, *animā; in seguito, del tipo Diovo nessuna traccia; il tipo cornū rimase; il gen. di 5ª decl. tipo diē, e di 1ª decl. tipo *animā fu rideterminato con l'-ī dei temi in -o- le desinenze risultatene ēī, āī in parte per alcun tempo rimasero tal quali; poi diedero successivamente luogo a varie alterazioni secondo varî contatti con altri elementi.

11. Dativo singolare. - 1ª declinazione. Terminazione originaria -āi. Da questo: a) dav. a voc. -ā: Matuta (epigr.); b) in pausa -āi; (rosāi produce rosae); c) dav. a cons. *-ăi onde -ei, -ī (istī). 2ª declinazione. Terminazione originaria -üi, onde: a) -ü (servü); b) non testimoniato; c) -ei, -ī (istī). 3ª declinazione. Terminazione originaria -ei o -ai, onde -ei, -ī (patrei, patrī, *omneë-ei onde omnei, omnī). 4ª declinazione. Terminazione -ai, -ei, onde -ei, -ī: *sensoùei produce sensuī; in luogo di cornuī, per anal. di servü, Matutā e, v. sotto, fidē, s'ebbe cornū. 5ª declinazione. Terminazione originaria: nei temi in -ëē: ëēi; onde: dav. a voc.: -ëē (facie, Lucilio); dav. a cons. -ëĕi da cui -ëī (arc. facii, facī); in pausa -ëēi onde -ë???ei (monosillabo in Plauto); le forme class. -iēī -, hanno -ī dalla 3ª e 4ª declinazione.

12. Istrumentale-locativo-ablativo singolare. - Terminazioni classiche: 1ª -ā, 2ª -ü, 3ª -e, -ī, 4ª -ū, 5ª -ē. Condizioni assai diverse dalle indoeuropee: nell'indoeuropeo caratteristica dei temi in -ŏ- fu per l'abl. -ü-d; in tutti gli altri temi il complemento di allontanamento fu espresso con la forma del genitivo. Nell'italico la desinenza -d si estese agli altri temi: es. arc.: sententiād, coventionīd, dictatored, marīd (epigr.). Davanti a certe consonanti il -d si dileguò. Da ciò due conseguenze:1. Già in età arcaica, nel linguaggio popolare (in Plauto), la forma in -d cadde in disuso; se si trova invece il -d nelle epigrafi, queste forme devono essere considerate proprie del linguaggio aulico, e la loro conservazione dovuta a tradizione culturale, fatto storicamente molto importante; 2. quando il -d cominciò nell'italico a dileguarsi, la forma in -ü di ablativo veniva a confondersi con l'istrunentale; onde la forma con -d s'applicò anche per il complemento istrumentale (es. facillumēd); ma anche il dat. in -üi e il loc. -ŏi venivano a confondersi per essersi il dat. ridotto ad -ŏi dav. a cons.; per entrambi i casi prevalse poi la forma del dat. e precisamente la forma in -ü; inoltre anche nel plurale venivano a confondersi in -ŏis (da cui poi -īs) il loc. -ois(i) e l'istr. -üis. Per tali e altre coincidenze una sola forma valse per questo caso sincretico abl.-istr.-loc. Nei temi in consonante la terminazione -e poté essere la desinenza -ĭ (forma indoeuropea di loc.) o anche istrumentale; nei nomi in -i ed -u le terminazioni -ī e -ū possono continuare indoeur. -ēi, -üu (es. noctū, ind. aktāu, serb. noću); nei nomi in cons. -ī è analogico; nei nomi in -ëē di 5ª declinazione, l'-ēi del locativo davanti a vocale doveva ridursi ad -ē, ed -ē poteva essere la desinenza dell'istrumentale; la terminazione -ē fu poi sostenuta dalle des. -ā, -ü, -ī, -ū delle altre declinazioni.

13. Nominativo (e vocativo) plurale maschile e femminile. - Terminazioni classiche: 1ª -ae, 2ª -ī, 3ª -ēs, -īs, 4ª -ūs, 5ª -ēs. Nella 1ª declinazione il nominativo plurale terminava in -ās (forma conservata dai dialetti italici); in latino la desinenza -ai è modellata su quella dei nomi in -o-; anche il greco ha αι (χῶραι); ma tra la forma greca e la latina nessun rapporto storico (non solo un antico -ăi ma anche un recente -ăi dava in lat. -ei, -ī: perciò la forma alterata -ăi dev'essere ritenuta assai recente). Il tardo sportulaes (iscr.) è analogico sui temi di 3ª, 4ª, 5ª, In luogo di -ī di 2ª, l'arc. ha -ē ed -ei (da -oi, desin. dei pronomi); l'indoeur. -üs, desinenza dei nomi, si ha ancora nei dialetti italici. In periodo arcaico nella lingua popolare (testimoniata in drammi e iscrizioni) s'era iniziata un' alterazione, che poi fu eliminata; e deve intendersi eliminata dalla diffusione nel linguaggio cittadino della parlata tradizionalmente più corretta: fatto degno di nota dal punto di vista culturale. Ossia, sul modello dei plur. di quis, aliquis si modellarono anche i plurali dei dimostrativi: heis (Corp. Inscr. Lat., I, 1059), heisce (ibid, I, 568) e in Plauto davanti a vocale sempre hisce, illisce, istisce; per il doppio influsso di queste forme e dei nominativi plurali di 3ª, 4ª, 5ª declinazione terminanti tutti in -s, in iscrizioni del 100 a. C. circa si trova la terminazione -eis estesa anche a nomi in -o: p. es. heisce magistreis (Corp. Inscr. Lat., I, 565: Capua, 108 a. C.). Per -ī da - in di e simili v. Vocal., 33. Nella 3ª declinazione la desin. -ēs era la forma propria dei temi in -i e di accusativo plurale dei temi in consonante, -īs era la forma propria di acc. plur. dei temi in -i-; avvenuto il sincretismo fra le due specie di temi in consonante e in -i-, entrambe le forme -ēs e -īs poterono essere adoperate per entrambi i casi. L'-ūs di 4ª declinazione è la forma di acc. da -ŭns. L'-ēs di 5ª declinazione può essere tanto un accusativo quanto un nominativo originario. Il plurale non ha una forma propria per il vocativo. Il che dipende da condizioni oggettive del pensiero e quindi naturali del linguaggio.

14. Accusativo plurale maschile e femminile. - 1ª decl. -ās (i. e. *-ās); 2ª decl. -üs (i. e. *-ŏns); 3ª decl. -ēs, -īs (i. e. *-n̥s, *-ĭns), 4ª decl. -ūs (i. e. *-ŭns), 5ª decl., temi in -ëē: -iēs (i. e. *-ëēs).

15. Nominativo-accusativo plur. neutro. - 2ª decl. -a, 3ª decl. -a, -ia; 4ª decl. -ùa. Le terminazioni -ia ed -ua di 3ª e di 4ª declinazione sono probabilmente rifacimenti sulla 2ª; la terminazione genuina probabilmente solo in trī-gintā ("*tre decine"). Anche la 4ª decl. doveva avere -ū; ma abbreviatosi questo -ū, davanti a vocale e in esito giambico, la forma in -ŭ che ne risultava veniva a coincidere con la forma in -ŭ del nom. sing.; da ciò due conseguenze: che si creasse o consolidasse nell'uso la forma analogica -ua per il n. pl., e che le due forme in -ŭ ed -ū venissero usate entrambe solo per il singolare. L'-ā di 2ª declinazione era lungo; per il solito abbreviamento v. Vocal., 30. È prevalsa la forma con -ā nei nomi delle decine, antichi neutri.

16. Genitivo plurale. - 1ª decl. -ārum da *-āsüm; 2ª decl. -um, -ürum da *-üm, *-üsüm; 3ª decl. -um, -ium da *-üm, *-i-üm; 4ª decl. -uum, -ūm da *-oùüm; 5ª decl. -ērum da *-ēsom. Di -um per -ürum sono abbondanti le forme nell'età arcaica (es. verbum, amicum e simili, Plauto); poi se ne sono conservati solo pochi esemplari nel linguaggio del culto, del giure e del commercio (deum, socium, nummum, biduum e simili).

17. Dativo, locativo, ablativo, istrumentale plurale. - 1ª decl. arc. -eis, cl. -īs; -ābus; 2ª decl. arc. -eis, cl. -īs, arc. preletter. -ois (privicloes, Carm. Sal.); 3ª decl. -i-bus, -bus; 4ª decl. -u-bus; 5ª decl. -ē-bus, -iēbus. La forma -ois, -eis, -īs di 2ª declinazione continua l'istrumentale indoeur. -üis e probabilmente anche il loc. -ois(i). La forma -eis, -is di 1ª declinazione è analogica sulla 2ª; forma antica era -ā-bus conservata ancora per amore di distinzione dai corrispondenti maschili nel linguaggio dotto, del culto e del diritto: deābus, filiābus, libertābus. Questo -bos, -bus risale a indoeur. -bho-s; esso è la desinenza conservata nei temi di 3ª, 4ª, 5ª declinazione: es. arc. trebibos; -bos si conserva anche nelle forme di duale, fossili: duübus, duābus, ambübus, ambābus.

18. Aggettivi. - Flessione. - Genericamente identica al nome. Il vocativo dei temi in -io- è sempre -ie: la forma tradizionale -i è obliterata per il poco uso. Per la desinenza pronominale -ius, -i v. qui sotto, n. 24.

Generi grammaticali. - Una distinzione dei generi grammaticali si conserva in latino negli aggettivi in -o, -ā (-us, -a, -um), nei comparativi -ior da -iüs, -ius da -ios, e in parte negli aggettivi in -i-, dove una stessa forma vale di solito per il maschile e il femminile: omnis m. f. e omne, ma acer, acris per *acris, acre. Per -er da -ros e -ris v. Vocal., 32.

Comparazione. - Suffissi di comparativo: 1. indoeur. -iüs, n. -ios: lat. arc. preletterario meliosem, maiosibus, meliosibus: arc. -ior, n. -ios e -ior (es. bellum punicum posterior Cass. Hem.); class. -ior, -ius. 2. Suff. -to-: meltom meliorem (exc. ex Fest.), e forse in vetustus rideterminato poi in vetustior, che supplisce il comparativo di vetus; 3. minüs, cl. minor, minus (probabilmente con la composizione inversa che il suffisso -es-ni- del lituano. -i[s]on- del greco; suff. -n- in πρίν).

Suffissi di superlativo: a) -mo-, -emo-: es. summus da sup-mo-s, arc. purime (exc. ex Fest.), clarimum (gloss.); b) composti: 1. -t -emo- o -to-mo: in-timus, ecc.; optimus, pessimus da *ped-timos (cfr. per il -to- i gr. -τα-το e -ισ-το-); 2. -ssemo- da -t-temo.: mitissimus (la desinenza -issimo- in origine solo nei temi in -i-; analogica nei temi in -o- per *-essimo-); 3. -s-emo-: facillimus da *facli-semo-s, acerrimus da *acri-s-emo-s, maximus da *magesemos o *mag-semo-s; anal.: veterrimus, minerrimus (exc. ex F.), miserrimus; 4. minüs, cl. minor, minus (probabilmente con la composizione inversa che il suffisso -es-ni del lituano, -i[s]on- del greco; suff. -n- in πρίν); 5. suprēmus da *suprē-smo- o *supre-es-mo-, o forma dialettale per *supreismo-s da *supraismos. 6. -istemo-: sollistimus.

19. Significati del comparativo e loro origine. - Maior vale "più grande; alquanto grande; troppo grande": è probabile che quasi tutti i suffissi (non solo quelli di comparativo) avessero assunto in principio un significato alterativo o, in senso lato, ipocoristico; onde ad es. maior fratre equivalesse in origine quanto: "grandino, grandetto, grandotto, grandone" rispetto al fratello; riteniamo in sostanza che il comparativo come categoria psicologica e grammaticale sia seriore. Infatti è assai facile il passaggio da un concetto ipocoristico al comparativo, e non viceversa. Inoltre le varie lingue hanno per il comparativo suffissi diversi; gli stessi elementi suffissuali che compongono il comparativo si trovano anche nel superlativo; le lingue slave, così arcaiche per tante forme e costrutti, hanno lo stesso tema per il comparativo e il superlativo; e il superlativo è una forma alterativa o in senso lato ipocoristica, per eccellenza; gli stessi suffissi di comparativi servono a formare derivati ipocoristici: matertera "matrastra", ἀγρότερος "agreste", ind. gütāma- n. pr. (letteralmente "bovino"), ecc. Solo l'invalere del suffisso -temo- in valore di superlativo ha indotto i parlanti a inquadrare optimus nella gradazione di bonus (cfr. finitimus, maritimus) o βελτίων in quella di ἀγαϑός, ecc.

20. Nel latino volgare le forme caratteristiche della comparazione andarono quasi del tutto in dissuetudine, restarono cioè più o meno vive quelle per espressioni di concetti elementari; ciò perché più frequenti e quindi più vive nella memoria, del resto prevalsero forme perifrastiche con plus, magis, multum, ecc.

21. Avverbî da nomi. - Gli avverbî da nomi sono in parte formati con casi fossili, in parte con suffissi speciali. Sono per considerazioni ideologiche da ritenere risalenti in età più o meno antica a istrumentali: gli avverbî in -ĕ (da -ē), -ē, -ēd, -ŏ (da -ü), -ü: bene, male, modo, facilumēd, facillimē, fortuītü, ecc.; multum, minimum accanto a minimē, ecc.; e perché ritenuti, per la coincidenza, forme neutrali, su esse forme modellati facile, facilius; possono essere forme di ablativo genuino extrā(d) e simili; di locativo, forīs; più prossimo ideologicamente all'accusativo forās; col suff. -tos, caelitits, funditus, ecc. Sono forme di istrumentale gli avverbî in -im (da *-oim(i); raptim, cursim ecc.); su questi analogico (o da *partitim), partim. Il suffisso -ter di aliter ecc. proverrà da -tris (v. Vocal., 31).

Nel latino volgare s'ebbe una neoformazione per gli avverbî di modo con l'istrumentale mente. Gli avverbî di luogo di origine pronominale dànno origine a particelle pronominali: es. inde (it. ne, fr. en), deunde (fr. dont); souvent (onde l'ital. sovente) proverrà da *saepenter, modellato su frequenter. Può aver contribuito anche il doppione *come- *comente.

22. Pronomi. - Personali e riflessivo. - Nominativo arcaico egó (Vocal., 30), class. egŏ, tardo lett. egü; ; nüs, vüs forme di accusativo (cfr. avest.). Genitivo class. meī, tuī, suī, nostrī nostrum, vestrī vestrum; arc. anche nella 1ª e 2ª pers. , mīs, , tīs; riteniamo che l'indoeuropeo avesse me-ī̆ t[ù]e- ī̆, meëo, t[ù]eëo (cfr. ind. mē tē, gr. μοι σοι) e che, per l'aspetto che queste forme avevano di un genitivo di un possessivo, già ab antico si andasse via via formando l'impressione che il genitivo del pronome personale si esprimesse col genitivo del possessivo: infatti il possessivo storico proviene dal genitivo e non viceversa; inizialmente nessuna distinzione. Dativo mihi, , tibi, sibi (nübīs, vübīs istrumentale): ind. mahya(m), umbro mehe, av. taibyā, umbro tefe, osco sífei, ant. pruss. tebbei sebbei; ind. istrumentale asmā́-bhiṣ. Accusativo , , , nüs, vüs: avest. , celt. , avest. îvā, nā???, vā???; per le forme di accusativo arc. mēd, tēd, v. sotto. Ablativo mēd, tēd, sēd, onde , , (Cons., 45); per la coincidenza di queste con le forme di acc. tale valore acquistarono anche mēd, tēd, sēd; , , potovano essere forme di istr.: ind. mayā, tvayā; e tali erano nübīs, vübīs.

Nel latino volgare si fa più comune l'uso dei pronomi personali; e come pronomi di terza persona si cominciarono ad usare i dimostrativi, più frequentemente ille.

23. Possessivi. - Temi: meo-, tuo-, suo-, arc. sovo-, nostro- (ἡμέτερος), arc. vostro- class. vestro-. Altre forme: arc. sam, sās, süs, sīs sono di enclisi indoeuropea. La flessione è generalmente identica ai temi in -o-, -ā.

24. Dimostrativi. - Is. Temi: c) i-, b) ei-, a) eëto-; a) is, id, arc. im, e per analogia dei nomi, em; b) nom. eis analogico; gen. eius da *eisëos; dat. class. ĕī, arc. ēī, , ???ei; da *eëei; arc. anche ībus; c) eëo-, nelle altre voci: eum ecc.; forme normali di nom. e dat. pl. , iīs (, eīs sono forme ricostruite); eiei, Corp. Inscr. Lat., I, 201, su ei-ius; gen. pl. arc. eum e eorum, class. eorum, dat. pl. arc. anche ībus e eabus.

Īdem, eadem, idem. Composto in apparenza con -dem, in realtà con -em: l'illusione fu generata dal neutro id-em (cfr. ind. id-ám) e dall'abl. eüd-em, eād-em. Nominativo sing. īdem per *isdem. Forme notevoli: nom. sing. ricostruito isdem (Plaut.); acc. sing. emdem (gloss.). Gen. pl. eundem accanto a eorumdem.

Hic. Tema ho-, -, hoi-, hāi-; -c per -ce in proclisi. Flessione: sing. nom. hic e arc. hec, iscr. hicc; hĭc può essere da hoc o hec in proclisi, oppure da hīc per abbreviamento giambico (es. quís hic est); e hīc o da hoic in proclisi, o da heic, o illusorio per hicc analogico su hocc, femm. haec da *ha + i + ce; neutro hocc seguito da vocale (Enn. II, 664) e hoc; gen. hoiusce (Corp. Inscr. Lat., II, 198); in procl. huius; dat. hūīc (Plaut.) da hoi + ei + ce; arc. hoic, class. h???uic; acc. arc. honc hanc per *homc *hamc; class. hunc; abl. hüc hāc da *hüd-ce *hād-ce; n. pl. m. *hoi in proclisi hei (Corp. Inscr. Lat., I, 1012), poi ; rideterminato heis (Corp. Inscr. Lat., I, 1059), heisce (I, 565, e dramm.); femminile generalmente hae ma anche haec, neutro haec da *hā + i + ce; gen. hürum, hārum e anche hürunc, hārunc; dat. abl. hīs(ce) e arc. anche hībus, dal tema hoi-.

Iste, ista, istud forse da indoeur. *i + s + to-, o con i analogico su altri pronomi (cfr. umbr. esto-); per -ud v. Vocal., 27.

Ipse, ipsa, ipsum.

Ille, illa, illud, e accanto a questo olle (Festo), ollus (Varr.): inoltre ülim, ultra da *oltra; umbr. ulo da *ülo-; dunque una base el/ól + -so-, o + -no-. Olle in periodo letterario può considerarsi come un arcaismo. Ne sono testimoniate le forme: sing. nom. olle, ollus, olla; dat. olli; pl. nom. olli, n. olla; gen. olorum, ollarum; dat. oloes, olleis, ollis; acc. ollos; avverbio ollic.

Forme di iste ed ille con l'endittico -c(e): a) iste: arc. sing. nom. istĭc, istaec, istuc, dat. istīc, acc. istunc, istanc, istuc; istoc (Plaut. per anal. di hoc); abl. istoc, istac; pl. nom. fem. e n. istaec; b) ille: singolare nom. illic, illaec, illuc; gen. illiusce; dat. illīc, acc. illunc, illanc, abl. illoc, illac e illace; plurale nom. m. illisce, f. e n. illaee, dat.-abl. illisce, acc. illosce, illasce.

Le desinenze del gen. -ī, -ĭus, -īus riteniamo sistemabili così: -ī conservato in schemi fossili: istīmodī e simili, e diffuso per analogia: istī formae (Ter.); -ĭus: illĭus ecc. da *illo-sëo-s *illisëos: forma aulica e class.; -īus, per contaminazione di -ī ed -ĭus (es. illīus), arc. e Quint.: dev'essere stata -īus la forma popolare; si spiega così agevolmente il suo apparente risorgere dopo la parentesi letteraria classica di -ĭus.

25. Nel latino volgare i dimostrativi hic, is, ille, iste cominciano a perdere i loro significati differenziali; attenuatisi nella significazione i dimostrativi, sorgono da essi gli articoli; nuove forme di dimostrativi vanno formandosi con ecce, eccum, atque; e, per equivoco di analisi, da memet ipse, e forse memet *ipsimet si ha me metipse, me met ipsimus che sostituiscono idem. Anche forse ipsimus di Petronio, forma volgare per ipsimet.

26. Interrogativi, indefiniti, relativi. - Temi qui-, quo-. L'uso come relativo è un'alterazione italica. Singolare nom.: m. quis (interrogativo, indefinito; arcaico anche rel.); arc. quoi (da *quo + ī), onde fuori d'accento quei e poi quē quī (Vocal., 6); class. relativo; nella lingua popolare arcaica (Plauto) anche interrogativo indefinito; specie se usato come aggettivo e specie davanti a consonante in Plauto: quī proverrà da nessi quī vir da *quis vir (cfr. Cons., 23); femm. interr. arc. quis (cfr. τίς m. e f.), class. quae (da *quā + ī); relat. arc. e class. quae; dopo particelle, indef. quă (da nessi in cui quā precede vocale); neutro: interr. indef. sost. quid, agg. e rel. quod. Genitivo singolare: quoius, con ùo conservato fino alla seconda metà del sec. I, poi in proclisi cuius, come huius; in iscrizioni cuiius; in composizione quoi- e cui-: cuimodī, quoimodī. Dativo: quoi da *quoi + ei, poi cui come cuius; quŏī Plaut., c???ui classico. Accusativo: quem (da quim o per quim). Ablativo: quü, quā, quü; frequente anche quī. Plurale nominativo: arc. interr. indef. ques da *queëes, arcaico rel. e class. interr. indef. rel. quī da *quoi, femm. quae, neutro quae, arcaico anche qua in sī qua e simili. Genitivo: arc. quoium accanto a quürum, class. quürum. Dativo-ablativo: quibus ed anche quīs da *quois. Accusativo: quos, quas, quae (qua); ques (gramm.).

Composti: aliquis, f. aliqua ed aliquae, n. aliquid e aliquod, vedi sopra; neutro pl. solo aliqua; dat. pl. anche aliquis; ecquis, ecpa ed ecquae, n. ecquid, ecquod (vedi sopra); quisque m. (anche, in Lex Bant., 2ª metà del sec. II, queique), arc. anche femm. (Ter.) e quemque m. e f. (Plaut.); n. quicque, ricostruito quidque; quīdam per *quisdam, n. quiddam e quoddam; pl. nom. anche quēsdam; quisquis arc. anche femm. (quirquir in Varr., = ubiubi?); gen. anche in -ī in cuicuimodi; n. quicquid, ricostruito quidquid; quisquam, arc. anche f. (Plaut. e Ter.), abl. anche quīquam (Plaut.); quispiam, quaepiam, quippiam quidpiam, quodpiam (c. s.); quilibet quaelibet, puod- o quidlibet (c. s.).

Nel latino volgare si vengono formando composti nuovi con unus: alicunus, ne ipse unus, nec unus e col gr. κατά: cataunum; acquistano valore di indefiniti homo, persona, res, res nata. La forma negativa it. niente forse è una nasalizzazione di un *ne ette (ital., logudor. ette).

27. Aggettivi pronominali. - Ūnus, arc. oinos; ūllus da *oinolos; nūllus da *ne-oinolos; sülus; tütus da *tüvetos; uter da *qùutros (necuter, iscr.); nĕŭter e neuter da *ně-uter; uterque da *utro- + que; alter; alius arc. alis, ha il neutro in -d: aliud arc. alid scritto aled (iscr.); gli altri nel neutro tutti -m. Il genitivo e il dativo hanno -ius, -ī, ma, accanto a queste, anche forme della flessione nominale: gen. alii (Varr.), aliae dat. aliü; gen. alterī̆us anche per alī̆us; alīmodī come istīmodī; per aliī aliīs anche alì, alìs.

Nel lat. volgare tütus va equivalendo ad omnis ed alter ad alius.

28. Numerali. - Cardinali. - Ūmus, -a, -um, arc. oinos, indoeur. *oinos; duo m. e n. da *duùü solo masch.; il femm. duae è analogico sui nomi; trēs m. e f. da *treies, n. tria (analogico per trī: cfr. trīginta); dal 4 in su indeclinabili: quattuor da *etùüres; quinque da *penkùe; sex da *sĕks; septem da *septí, octü da *okëtü, novem da neùí; decem da *dekëí. Dal 10 al 17, si procede per somma: 1 + 10 ecc., con alterazioni fonetiche del primo aggregato e con decim in luogo di *dicem per metatesi provocata probabilmente dall'analogia di decem e aiutata da decimus; 18 e 19, come nei corrispondenti nessi di 8 e 9 con le ventine, per sottrazione. Nei numeri delle decine si ha -gintī o -gintā in luogo di *-centī, *-centā, indoeur. *këítī, *këítā; - in 20 è sicuramente un duale, trī- in 30 manifestamente il plur. di "3"; -ā nei numeri delle decine da 30 in su è la forma neutrale; le basi del primo componente sono variamente alterate. Centum da indoeur. këítom (antichissima ellissi di un'espressione "dieci decine"). Mīlle, mīlia è variamente interpretato dal punto di vista etimologico.

29. Ordinali. - Prīmus da prīsmos (cfr. peligno prismuu f.; la base si ha πρί-ν); secundus agg. verb. di sequor; alter, quando si tratta di due; però in unione con le decine da 20 in poi, nel periodo classico unus e alter per primus e secundus; tertius, da ter- o tri-; quartus forse da *tquertos, metatesi di *qtuertos; quintus da *penk-tos; sextus per *sestus (n. pr. Sestius), septimus, cfr. ind. saptamás, octāvus da *octeùos con la lunga per analogia di octü(u), nünus (cfr. Vocal., 7, Cons., 2), decimus, cfr. ind. daśamás, undecimus, duodecimus, tertius decimus ecc., undevicesimus, duodevicesimus; i numerali delle decine vīcēsimus, trīcēsimus (o anche vīgēsimus. trīgēsimus), quadrāgesimus ecc. (anche -censimus) da *vīkíttemos ecc.; per estensione, col suffisso -esimus anche centēsimus e mīllēsimus.

30. Moltiplicativi e distributivi. - Semel è da ritenere da *semels (cfr. ἅπαξ, per -s) e questo da *semals, indoeur. *se-məls con se- di ἑ-κατόν e məl fase ridotta di mēl (got. mēl "tempo" ted. -mal in ein-mal ecc.); singulī: riteniamo che il secondo componente debba essere riconnesso in qualche modo all'ind. sa-kr̥t "una volta", saptá kr̥ivas "sette volte" ecc., e alle voci corrispondenti sl. kratŭ, lit. kãrtas "volta"; ammettendo una base (s)kere col significato di "dividere" (lat. cerno, ant.- alto-ted. sceran) si può arrivare a singlī attraverso *semkroi. Gli altri distributivi sono formati col suff. -no- dal moltiplicativo: bis da *dùis, bīnī da *dùisnoi; ter da *tris, trīnī e ternī l'uno o l'altro analogico; quater modellato su ter; quaternī; il suffisso - è costante per tutti i distributivi, e da 5 in poi per i moltiplicativi la desinenza è iens che proverrà da *-ients. La forma della base è quanto mai irregolare.

Gli aggettivi moltiplicativi sono composti con -plo-s e -plex da - *plax: es. simplus, simplex, duplex, umbr. tuplac; essi hanno un'esatta corrispondenza nel greco: es. ἁπλός, δίπλαξ.

Nel volgare, oltre a pochi ordinali, non sono conservati che i cardinali. Di questi divenne indeclinabile anche 3; fu obliterato il sistema della sottrazione e sostituito con le decine seguite da 8 e g; si disse dece et septe e anche di dece ac septe ecc.; i nomi delle decine ebbero alterazioni per la proclisi (v. Accento, 2).

31. Verbo. - Le lingue indoeuropee non ebbero in origine una forma diversa per esprimere l'asserzione o la volontà, ma solo forme per il reale o come tale concepito e per il problematico (P. G. Goidànich, Indogermanische Forschungen, Anzeiger, XI, p. 127). Così in latino un tema unico serve all'indicativo e all'imperativo e lo stesso tema del cosiddetto congiuntivo e ottativo serve per esprimere o un pensiero o una volontà in forma attenuata o, come si dice, potenziale.

Ma in origine il verbo indoeuropeo non valse a esprimere né tempi né modi, ma solo espresse che l'azione o il fatto erano continuativi iterativi, puntuali, terminali, incoativi, definitivi o simili: niente altro che le cosiddette qualità dell'azione espressero in origine le basi semplici o con suffissi tematici dei tempi e dei modi tutti quanti. Il che se è importante per intendere la genesi del verbo indoeuropeo non è meno importante per porre il sistema verbale latino nella sua giusta luce e intenderne il processo evolutivo. Ma tali condizioni hanno una portata ancora più vasta: se a base del sistema verbale stanno nomi di agente o di azione, se fra base nominale e verbo sussistette un rapporto quale ad es. in italiano tra saltello e saltellare, risulta confermato in pieno che i suffissi tematici ebbero fin dalla più remota antichità valore "alterativo" o, in senso largo, ipocoristico.

32. Indicativo presente e Imperativo. - A) Verbi senza alcun suffisso presenziale: a) senza la cosiddetta voc. tematica; b) con voc. tematica: a) sum (Varr. esum) sumus, sunt, es (Plaut. ess), est, estis, siem, sīmus, imp. es, estü, estote, sunto; (eo), īs, īt, īmus, ītis, imp. ī, īto, arc. eis, ecc.; (edo, edis ecc.), ēs, est (ricostruito, per *ess da *edt), inf. esse; (volo), volt, voltis, imp. vel da *vels "vuoi", o (Plaut. vell), velle velim; (nülo) ecc., nülim, nolīte onde nülī; (fero), fers (rideterminato per *ferr), fertis, fer, ferte, ferre; () dămus, dătis, (), ce-do, dăte, cette, dăre; redupl. (reddü) reddis da *redidas, redde (analogico su reddü), reddere a redĭdăre ecc.; rad. *dhē-: con-dere ecc.; rad. stā-: stătus; stās, stāmus (anal.); redupl. (sisto) sistĭs ecc.; rad. -, redupl. (sero da *siso), serimus da *sisămos, seris da *serăs analogico; rad. *bheùe-, bhu-: fu (Carm. Arv.; veramente imperativo aoristo); basi trā-, plē-: intrās, implēs; base can-: cante (Carm. Sal.; Varr., De Lingua Lat., VII, 27 e v. Vocal, 31). b) Temi con vocale tematica -e- -o- e vocalismo radicale e: lego, arc. deicü, arc. doucü da *deucü, -́pluo, arc. plovo da *pleùo; reduplicato gigno.

B) Temi con suffisso presenziale: a) temi in nasale: sterno (strāvī), sperno (sprēvī), lino (lēvī); consternare, aspernarī; sternuo; con nasale assimilata: tollo, pello (pepuli); compellare da *tolno ecc.; col cosiddetto infisso nasale findo (fidī), scindo (scidī), rumpo (rupī), conquiniscor (conquexī); con nasale fossile: iungo iunxī (iugum), pungo punctum (pupugī), nanciscor nanctus (e nactus). b) Temi in -ëo- -i- ed -ëo- -ī-: *coirā-ëü onde cūro, *rube-ëo, da cui rubeo, facio facimus, audio audīmus, cūstüdio cūstodīmus (forme analogiche sporadiche facīs, facīt, adgredīmur, adgredīri, morīrī, effodirī Plaut., morīmur Enn., adorītur Lucr.; comune orīrī), statuo da statuëü. c) Temi in -eëo- (antichi causativi ed intensivi): moneo. d) Temi in -te-/-to-: pecto cfr. πέκτω e πέκω plec-to e plic-o; temi in -se-, -so-: vīso, arc. veissü da *veid-; quaeso da *quais- e quaero da *quaisü; incesso da *incēd- (incēdo). e) Temi in -sco- (antichi incoativi [risultati da base puntuale con suffisso -s- mediante l'aggiunta di un suffisso continuativo]), posco da *porcscü; cfr. procus, precor, umbr. persclom; disco *di-dc-scü, perf. di-dic-ī.

Temi particolari di qualità d'azione vivi nella lingua: cantitare (Ter. e a.), pensitāre (Cic. e a.) cursitāre (Ter. e tard.), essitare (Plaut. e tard.); sullaturio (Cic.); -es-so-, -is-: capesso ("desidero capere" Prisc.); arc. petissere ("saepius petere" Fest.); -culo: gesticulo; -illo: conscribillo; -ro: lambero; -igo: gnarigavit (Liv. Andr. "narravit"); -ūtīre -uttīre: balbūtio, friguttio; prestito greco: -isso da gr. -ίζω: atticisso, ἀττικίζω, graecisso.

33. Imperfetto. - È, come nelle lingue slave, perifrastico: nello slavo formato dalla base es- (ant. bulg. nesěachŭ ecc.), in latino col sinonimo di essa base bheùe- bhùā- (laudābam ecc.); bam da -bhùām ed eram da esām sono propriamente basi aoristiche, e il loro uso come forme dell'azione continuativa dipende dal fatto che le basi semplici rappresentano un periodo ancora più remoto della morfologia in cui non era espressa neppure la qualità dell'azione: esempio: εἷμι "vado" (azione continuativa) e "andrò" (azione momentanea); indoeur. esti "è", gr. ἔσται "sarà".

34. Futuro. - Anche il futuro latino nella sua struttura si dimostra sostanzialmente identico a quello delle lingue slave. Nel russo ad es. l'imperfettivo forma il futuro colla perifrasi di budu, il perfettivo è un futuro per sé stesso: es. ja broèu (inf. perf. brósitĭ), ja budu brosati (inf. imperf. brosatĭ); in lat. amabo, monebo [dicēbo, servībo] fut. imperfettivo; dixo amasso, amā(ve)-ro, legam legēs futuro perfettivo. Le alterazioni sintattiche del latino avvennero in doppio senso: che le forme in -so- si adattarono alla nuova categoria grammaticale del futuro esatto, sorte dalla categoria indoeuropea del perfettivo e le forme di tipo legam legēs soprattutto per l'estensione al tipo serviam, per la loro identità col tema del presente, servirono per l'espressione futura pura e semplice. In modo analogo agl'incoativi in -s-k?ü, i futuri in -s-ëü sono forme d'"iterativi" su basi puntuali.

35. Perfetto. - Nel perfetto latino si sono sincretizzate in un'unica categoria di tempo passato tre tipi tematici: quello cosiddetto di aoristo asigmatico con vocale tematica (fidī di contro a findo), quello di aoristo sigmatico (dīxī, rēxī) e quello di perfetto iterativo-compitivo (il carattere iterativo originario è manifestamente dimostrato dalla reduplicazione: meminī, pepulī). Di contro a vīdī, üdī, la forma vīderam üderam da *vīdesām, *üdesām (ind. avēdiṣam, ἐFείδεα da ἐFείδεσí) si presentava come la base puntuale di un compitivo o di un iterativo compitivo: onde la categoria ideale e formale del piucchepperfetto latino e le sue estensioni analogiche alle basi già aoristiche di tipo fidī, dīxī.

Perfetti in - ed -. - Dal lato formale, intrāvī implēvī, occupāvī dēlēvī corrispondono ai perfetti indiani in -āu (sono precisamente, i latini, perfetti in -āu -ēu rideterminati col suffisso di prima persona del perfetto medio *-ai diventato *ei e quindi ī); i perfetti di tipo secuī monuī risultano da -ău, -ĕu, fase anteconsonantica delle terminazioni -āu, ēu, e rideterminati con lo stesso *-ai, -ei: -ăùei, -ĕùei dovevan necessariamente ridursi ad - (P. G. Goidànich, Aor. e Perf. latino, in Atti Acc. di arch., lett. e belle arti di Napoli, XIX, 11). Gli stessi fatti nei dialetti italici: umbr. subocau = lat. subvocavī, hahust = hahuerit da *habueset.

36. Congiuntivo presente. - Consta di forme puntuali in *-ā e in *ëē: legam, arc. advenam poi adveniam, arc. attulam poi attollam; moneam per una perfettivazione antica della base imperfettiva *moneëü o per estensione del suffisso perfettivo-potenziale -am quando da *moneëēs, -ēt ecc. si ottenevano forme coincidenti con l'indicativo. Forme di cosiddetto ottativo in -ëē-, -ī- si hanno nel cong. pres. di prima: laudēm, e in qualche verbo in consonante: siēm sīmus, poi sim sīmus. La potenzialità con una forma dell'indicativo presente (es. possum) si spiega col fatto del doppio valore continuativo e puntuale delle basi radicali (v. Morf., 33). Anche l'*-ëē- dell'ottativo non sarà altro che un suffisso puntuale, ottenutosi in remota età indoeuropea da un tema continuativo *-ëe- cui si aggregasse un suffisso *ē̆, per un processo estensivo simile a quello per cui si ebbe in latino adveniam per advenam, faciam per *facam, moneam (per *admonem perfettivo preposizionale). Il suffisso -ëē divenne un suffisso indipendente quando ad es. uno *stā-ëē-t primordiale, perfettivazione di una forma continuativa stā-ëe-t mediante l'aggregazione di un suffisso perfettivo ē, fu opposto formalmente a stā-t invece che a *stā-ëe-t.

37. Altre forme del congiuntivo. - Sono tutte, per esprimerci nel linguaggio consueto, congiuntivi-ottativi (*-ēm o *-īm) aoristi: in realtà, etimologicamente, rideterminazioni di basi puntuali con suffissi puntuali. La forma in -rēm, il cosiddetto imperfetto congiuntivo, divenne poi la forma continuativa del passato per un processo tutto proprio del latino ossia per essersi modellata sullo schema infinitivale laudare - laudasse: dicebat se laudare [laudasse] - non dubitabat quin laudaret [laudasset].

38. Attivo, passivo e deponente. - L'indoeuropeo originario non ebbe una forma speciale per il passivo, ma forse solo forme per il transitivo e l'intransitivo, distinte da intonazioni simili a quelle dell'indocinese e della lingua Ewe, intonazioni trasformatesi poi in accenti espiratorî, meccanici: basta riflettere sulle doppie forme di suffissi personali -ti -tai (ind. per esempio dvēṣti - dviṣtē) o a doppie forme tematiche come τρέπειν τραπῆ-ναι per intuire tali condizioni. (Tutta l'accentuazione preindoeuropea fu cromatica).

Dall'intransitivo s'è sviluppato il medio e nel periodo postindoeuropeo il passivo: vehor "mi sento trasportato" passò a significare "vengo trasportato". Il "deponente" latino continua formalmente l'intransitivo medio indoeuropeo.

39. Forme di numero e persona nel verbo finito. - Come nei nomi, anche nel verbo l'indoeuropeo aveva tre numeri: e come nel nome anche nel verbo gl'Italici obliterarono il duale. Dei suffissi personali indoeuropei alcuni sono evidentemente antiche forme nominali fossilizzate (es. lat. laudant, laudaminī, arc. laudaminü, umbro persnimu, laudā, lege, lauda + tüd, arc. lege + tüd), altre non sono da avvicinare a temi pronominali (per es. 2ª pers. -s, -si, -sai); solo nella prima persona: -mi, -mes ecc. ma non sempre (ind. pres. dviṣē, imp. adviṣi) i suffissi ricordano il tema pronominale. Molto probabilmente in origine anche le forme personali e di numero erano distinte da intonazioni.

Le desinenze storiche si sogliono dividere in principali e secondarie (geneticamente fu proprio l'opposto; l'uso sintattico delle desinenze secondarie o "congiunte" appare chiaro dal celtico).

Le desinenze latine -ü, -m, -s, -t arc. -d, -men, -tis, -te, -nt possono essere ricondotte a indoeur. -ü, -m, -mi, -s, -si, -ti, -t, -men, -tes (-thes), -te, -nt(i) (-nti ancora conservato nel tremonti del Carmen Saliare). Delle desinenze particolari di perfetto, -ī, -re, -ro (Pesaro dedro) continuano le desinenze indoeuropee di perfetto medio: -ai (ind. es. bubhudē), -re -ro (da cui, con un -i analogico l'ind. -); -ront è la forma di 3ª plur. medio che s'incontra nell'ottativo ind. ā́sīran; -stī risulta dall'unione di -s- carattere dell'aor. + -, e questo è un continuatore di -tha (greco οἷσϑα), con -ī per simiglianza alla prima persona: tanto la forma di prima -a, quanto la forma di seconda -tha furono obliterate. La desinenza -tüd (iscr. arc. datod) che si ritrova in più persone e numeri dell'imperativo anche nell'indiano, probabilmente, è sorta in verbi esprimenti un movimento (ind. yātāt, lat. ītod, quasi "vanne, vadasene"). Non ha nulla a che fare con un "imperativo futuro". L'illusione dei grammatici è sorta per questa ragione: la forma, conservata solo per tradizione letteraria, si presentava comunemente in norme sentenziose d'indole giuridica di effettuazione nel futuro (cfr. ad es. e spec. damnās estü per "damnandus esto", v. Vocal., 32). Contaminazioni di due tipi di desinenze sono -tüte, -ntüd; del pari una contaminazione di forme infinitive con imperative sono gli italici -müd, -menüd.

Nel deponente-passivo sono desinenze caratteristiche quelle in -r (lat. -or, -tur, -mur, -ntur, -tor, -ntor). Molto interessante è che anche il celtico abbia nel deponente-passivo forme identiche o del tutto simili. Tale coincidenza soprattutto induce a pensare a una remota unità italo-celtica, o a pensare almeno a strettissimi rapporti fra i due popoletti in età remota. Fuori del campo italo-celtico si trovano desinenze con. -r solo nell'ario: qui sono limitate alla 3ª plur. attiva o media (ind. perf. babhūvur "sono stati", med. 3° plur. imp. áduhra "mungevano", pres. śē- κείται). La seconda persona singolare ha le desinenze -re, -ris, e arcaico anche -ros (es. utarus, Corp. Inscr. Lat., I, 1267): forma originaria: -so, onde, per rideterminazione, -sos. da queste -re e -ros, da cui -rus; e da -re per nuova rideterminazione anche -res, da cui -ris. L'imperativo ha sempre solo -re. La desinenza -minī di seconda plurale si ritiene una desinenza d'infinito usata primamente nell'imperativo.

40. Infiniti. - Presente -se (esse), dopo voc. -re (amāre). Aoristo -se (amas-se). Futuro -urum, -am, -um, -üs, -ās, -a (amaturum ecc. [esse]). Accanto a -re nell'attivo arc. anche -ri (dari, Festo): probabilmente forma di medio. In età arcaica si trova adoperato il partic. in -ūrum in questa forma di maschile per tutti i generi e numeri: es. non putavi hoc eam facturum (Laber.), credo ego inimicos meos hoc dicturum (C. Gracco). Riteniamo che questa forma in -ūrum sia stata del sabino urbano, e precisamente un accusativo di un tema in -tür, -sür (per ū, cfr. cūr, fūr: Vocal., 2) e che vada riconnessa al futuro indiano perifrastico dove ad esempio dātā "datore" è usato nella 3ª sing. per tutti i generi; in latino ci sarebbe stata un'estensione anche al plurale.

Nel passivo, le desinenze sono -ī, arc. anche -ier. La forma originaria sarà stata -iai, dativo di un nome di azione in -i- (cfr. ind. patyē): questo -ëai rideterminato con -r diede -ier, e nella forma semplice -iei, da cui -ī. L'infinito passivo (amatum, ecc.) e il fut. (amatum īrī) sono perifrastici: questo è il passivo di un *amatum īre. Altra forma d'infinito è il cosiddetto supino in -tum e -, rispettivamente forme di accusativo ed ablativo di temi d'azione in -tu-. Per il gerundio, v. sotto.

41. - Participî. - Presente -ens da -ents (v. Cons., 41). Passato passivo -to- (lectus); nei temi in dent. -so- (missus); per anal. -so- anche in altri temi (fīxus su fīxi); -gretus per *greditus (analogico) per aplologia; comestus per comēsus, rideterminato. Con valore attivo in hortatus ecc., pütus ecc. Il participio futuro è una derivazione dell'infinito futuro, dove la forma in -ūrum fu considerata participiale come laudatum. Il partic. in -ndus pensiamo (con K. Brugmann) che provenga da un suffisso -tno- (per la fonetica cfr. pando da pat--), che doveva avere valore di participio di necessità da remota età: coincide infatti per il significato ed è quasi identica per il suffisso la forma lituana in -tinas: es. minetinas "memorandus". Dal part. in -ndus sorse poi il gerundivo (ante condendam urbem) e il gerundio (mittere ad condendum).

42. Alterazioni nella sintassi del verbo. - L'alterazione fondamentale nella sintassi del verbo fu che quasi solo i temi sigmatici conservarono il loro valore di temi dell'azione puntuale; onde quando la significazione di qualità fu trasferita a funzione temporale le basi sigmatiche espressero nella correlazione dei tempi l'azione passata: così le basi puntuali in -ā-/-ē- del futuro espressero l'azione futura pura e semplice e quelle in -s- o -r- (da -s-) il futuro anteriore; la base puntuale con -ā- del congiuntivo e a fortiori quelle in -- /-ī di tipo sīem ecc. il presente e le basi in s o -r- da -s- il passato. Per la differenza seriore nell'uso delle forme viderem e vidissem, v. Morf., 37. Un confronto delle sintassi indiana e greca mostrerebbe che il cosiddetto ott. esprime sempre un grado di potenzialità più attenuato che il cosiddetto congiuntivo. Il fatto poté avere origine dalla formazione sopraindicata dell'ottativo, che sarebbe stata una forma puntuale seriore su fondo continuativo o iterativo (Morf., 36). Questo valore potenziale attenuato dell'ottativo potrebbe giustificare l'uso del cosiddetto perfetto congiuntivo (ottativo aoristo) nelle proposizioni consecutive che espongono un fatto e non un rapporto ideologico fra due pensieri: ita clamavit ut multi eum audierint e ita clamavit ut multi eum audirent e sempre clamabat ut (finale) multi audirent.

43. Accusativo con l'infinito. - È una costruzione che è comune al greco e al germanico. È sorta per un semplicissimo procedimento: per l, aggiunzione di un infinito come oggetto all'oggetto del verbo: es. video te currere ("ti vedo correre"; "ich sehe dich laufen") come si dice video te currentem; trasportata la costruzione a verbi che non avevano di solito un oggetto personale: es.: iubeo te abire (non si dice, assolutamente: iubeo te), tutta la frase doveva apparire come una frase oggettiva.

44. Ablativo assoluto. - Costruzioni participiali assolute sorsero indipendentemente in varie lingue da espressioni complementari. In latino l'ablativo assoluto proviene da complementi istrumentali: Caesar omnibus machinis adhibitis urbem oppugnavit. Naturalmente tali costruzioni presuppongono una piena adesione del participio al sistema verbale, quale non si ebbe né in origine né compiutamente di poi (noi diremmo traducendo: "con l'uso di tutte le macchine").

Bibl.: Grammatiche storiche: Lindsay-Nohl, Die lateinische Sprache, Lipsia 1897; F. Sommer, Handbuch der lat. Laut- u. Formenlehre, 2ª ed., Heidelberg 1914; Stolz-Schmalz, Lateinische Grammatik, Laut- u. Formenlehre. Suntax u. Stilistik, 5ª ed., a cura di M. Leumann e J. B. Hofmann, Monaco 1928; A. Meillet, Esquisse d'une histoire de la langue latine, Parigi 1928.

Vocabolarî etimologici: A. Walde, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, 3ª ed. a cura di J. B. Holmann, Heidelberg 1931 segg.; A. Ernout e A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Parigi 1932.

Per riviste e opere sussidiarie, v. la bibl. di questi volumi.