Cortigiana, lingua

Enciclopedia dell'Italiano (2010)

cortigiana, lingua

Riccardo Tesi

Definizione

Con la locuzione lingua cortigiana (o cortegiana o cortesiana) ci si riferisce a un’espressione usata nel dibattito di primo Cinquecento in relazione agli usi linguistici delle corti italiane (Milano, Mantova, Ferrara, Urbino, Roma, Napoli, ecc.), coincidenti nei tratti principali con le realizzazioni delle lingue comuni regionali (dette lingue di koinè; ➔ koinè) di fine Quattrocento.

Gli studiosi che si erano per primi interessati a definire in termini più precisi i contorni linguistici della lingua cortigiana avevano pensato di trovarsi di fronte a una ‘lingua ipotetica’, un ‘fantasma’ (per es. Rajna 1901), data l’assenza di documenti, soprattutto letterari, che riflettessero in maniera organica un codice cortigiano. Ricerche più recenti (Durante 1981; Drusi 1995; Giovanardi 1998) hanno ripreso il problema giungendo alla conclusione che un codice linguistico cortigiano, sia pure non strettamente unitario o standardizzato, è ipotizzabile sulla base di documenti non letterari, privati o ufficiali, provenienti dagli ambienti delle varie corti italiane, in particolare dalla corte pontificia di Roma (§ 4).

I numerosi testi di carattere pratico a cui si potrebbe dare questo appellativo, ai quali potremmo aggiungere, nel campo della lingua poetica, la vasta produzione petrarcheggiante tardoquattrocentesca (Vitale 1992), pur non presentando spesso tratti linguistici omogenei, mostrano una fisionomia linguistica relativamente uniforme. Gli ingredienti basilari che accomunano la maggior parte di questi documenti sono:

(a) scarsa o bassa incidenza dell’elemento linguistico locale o dialettale;

(b) rilevante presenza di ➔ latinismi, che sostituisce spesso l’espressione locale o troppo marcata in senso dialettale;

(c) presenza non sporadica di tratti fonomorfologici e lessicali toscani, in particolare fiorentini, in alcuni casi coincidenti con fenomeni riscontrabili in testi settentrionali o meridionali: per es. il tipo io ero per il trecentesco io era (Giovanardi 1998: 24, in nota); e si consideri che, sotto alcuni punti di vista, il fiorentino colto d’età laurenziana potrebbe essere considerato una lingua cortigiana a tutti gli effetti.

Non stupisce che sulla scorta di questi fenomeni alcuni linguisti abbiano avanzato l’ipotesi che il codice cortigiano rappresenti, pur nella sua frammentarietà di realizzazioni, un primo, se non il primo, tentativo di uniformazione linguistica su base non toscana operante sul territorio italiano (Durante 1981: 151-156). I riflessi di questa incipiente ‘italianizzazione’ si trovano sparsi a livello di teorizzazione nel dibattito su una vasta produzione di scritti sulla norma, tradizionalmente nota col nome di ➔ questione della lingua, che contrassegna i primi tre decenni del Cinquecento (§ 2).

L’eclissarsi delle posizioni cortigiane, sopravanzate dal modello di lingua letteraria fiorentina trecentesca propugnato dalle Prose della volgar lingua di ➔ Pietro Bembo (1525), destinato a diventare il canone nel settore della produzione scritta di livello colto, può essere imputato a vari fattori concomitanti:

(a) la decadenza politica degli stati regionali italiani, che avevano sostenuto fino al tardo Quattrocento una produzione autonoma – anche linguisticamente – dal modello letterario toscano;

(b) la mancanza di una grande letteratura cortigiana (e poi di un’autonoma codificazione grammaticale; sulla grammatica cortigiana del Trissino v. § 3) da mettere a confronto con quella toscana, sia medievale sia umanistico-rinascimentale: Bembo, in un passo famoso delle Prose, liquida l’ipotesi cortigiana affermando che «non si può dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore» (Bembo, 1966: I, cap. XIV, p. 110);

(c) le condizioni della diffusione libraria e del mercato editoriale dei primi decenni del Cinquecento (lo stesso Bembo era un apprezzatissimo editor della tipografia veneziana di Aldo Manuzio; ➔ editoria e lingua), dove le opere a stampa, intervenendo a normalizzare i fenomeni di polimorfia, rinforzano e irradiano il prestigio indiscusso del toscano letterario a una élite di utenti assai più numerosa della ristretta cerchia di lettori del libro manoscritto medievale (Trovato 1994: 20-22; Trovato 1998: 170).

Sulla base di questi fattori l’uscita di scena dei sostenitori del codice cortigiano, pressoché ultimata alla metà Cinquecento, causò quel fenomeno di ‘rimozione’ completa i cui effetti si sono protratti fino a tempi recenti, cioè al momento in cui si è iniziato a ricostruire la storia linguistica italiana affiancando allo studio dei testi letterari le testimonianze dei documenti di carattere privato o pratico (lettere, bandi, ordinanze, relazioni di ambascerie, ecc.) provenienti dalle cancellerie quattrocentesche (una sintesi in Tavoni 1992: 47-55). Questo ribaltamento della prospettiva prevalentemente letteraria non solo ha portato a considerare la lingua cortigiana non più un ‘fantasma’ del dibattito cinquecentesco, ma ne ha fatto un fattore chiave della vicenda linguistica italiana, che prefigura la formazione di varietà regionali a base non toscana (un quadro d’insieme in Bruni 1992; 1994): una specie di fiume sotterraneo caratterizzante le scritture regionali di livello colto non destinate alla pubblicazione, ma riaffiorante qua e là anche in testi di carattere letterario ben oltre la soglia critica di metà Cinquecento (§ 5).

La lingua cortigiana nel dibattito linguistico cinquecentesco

Nei primi decenni del Cinquecento la scelta arcaico-toscanizzante del Bembo si venne a trovare in aperto contrasto con l’uso effettivo delle corti italiane (soprattutto quelle dell’area settentrionale), dove la convergenza linguistica (operata sulla base dei tre punti sintetizzati al § 1) aveva prodotto uno strumento linguistico duttile, calibrato più per le esigenze pratico-comunicative che per la letteratura (cfr., in sintesi, Vitale 1984: 56-72; Trovato 1994: 96-110).

Sostenitori e teorici di un uso cortigiano, caratterizzato da una spiccata polimorfia, furono il tortonese Vincenzo Colli detto il Calmeta (il primo, secondo testimonianze indirette, a impiegare a inizio Cinquecento il termine lingua cortigiana, nel suo trattato, poi perduto, Della volgar poesia), il frusinate Mario Equicola, il marchigiano Angelo Colocci, il mantovano ➔ Baldassarre Castiglione, il vicentino ➔ Gian Giorgio Trissino, per citare i nomi maggiori che operarono a vario titolo nelle corti italiane del tempo, fino ad arrivare al bolognese Giovanni Filoteo Achillini, autore delle Annotationi della volgar lingua (1536), un trattato che rappresenta «l’estremo tentativo di accreditare un modello di lingua comune in parte discosto dal toscano» (Giovanardi 1998: 69).

Uno dei testi più rappresentativi per i suoi aspetti programmatici e per la foggia linguistica cortigiana è la redazione manoscritta del Libro de natura de amore (circa 1508) di Equicola (1999), segretario di Isabella d’Este vissuto a lungo negli ambienti della corte pontificia. Dal brano seguente (tratto dalla dedicatoria) è possibile sintetizzare le idee e la prassi linguistica della cosiddetta lingua cortesiana romana (su cui v. § 4), che Equicola segnala come varietà colta del volgare usato negli ambienti della curia pontificia in aperto contrasto col modello toscano-fiorentino:

Havemo la [lingua] cortesiana romana, la quale de tucti boni vocabuli de Italia è piena, per essere in quella corte de ciascheuna regione preclarissimi homini. Chi in corte non è pratico accostese alla latina (de’ docti parlo). Et volemo tucto il tusco idioma imitare per havere Dante, Boccaccio et Pulci non dico da imitare, ma robare? Cosa de imbecillo ingegno! Che, se dicti auctori si deperdissero, paricchi muti ad dito monstraremo che a presente impieno le carte de insomnii […]. Non observo le regule del toscano, se non tanto quanto al latino sono conforme et le orecchie delectano. Per ho de et di troverai senza lo articulo, Dio non Iddio, benché sequente vocale, in modo che, dove li imitatori de la toscana lingua totalmente ogni studio poneno in lontanarse dalla lingua latina, io ogni cura et diligentia ho usato in aproximarme ad quella (Mario Equicola, Libro de Natura de amore, pp. 213-214).

Equicola mira a proporre un modello alternativo al toscano arcaizzante impiegato dal Bembo nei suoi Asolani (1505), ma anche al fiorentino coevo, facendosi sostenitore di una lingua che, nel nome di una urbanitas stilistica di retaggio umanistico, eviti il ricorso sia a forme antiquate sia a modi popolari.

Su una linea più morbida, nell’opera più importante di Castiglione, il Cortegiano, pubblicato a Venezia nel 1528, ma in una veste linguistica ampiamente rimaneggiata in direzione toscana, l’ideale di una lingua letteraria composita, formata con materiali eterogenei, trova la sua affermazione più prestigiosa. In sintonia con un equilibrato rifiuto di ogni affettazione, nel Cortegiano la «discrezione» del letterato presiede, umanisticamente, al suo dettato linguistico:

Per questo laudo io che in quella [lingua toscana] si scriva, cioè che se seguiti quella regola e quella forma nelle dictioni, ma non però estimo che non si possino usare li termini che usano adesso li toscani et ancor gli altri italiani, perché sì come li greci hanno cinque lingue et in tutte scrivono e spesso confondano l’una con l’altra senza biasmo, così credo a noi sia leccito torre termini italiani d’ogni sorte, e basti che se servino le regole gramaticali e che l’uomo sii discreto e cauto in ellegere belle parole, ma però consuete nel comun parlare, et in tal modo ne resultarà una lingua che si potrà dire italiana, comune a tutti, culta, fiorita et abondante de termini e belle figure; e se averemo scrittori, li quali abbino dottrina, ingegno e iudicio e ponghino cura di scrivere cose belle et arichire questa povertà della lingua, in poco tempo la vedremo perfettamente fiorire e capace che in essa si scriva così bene, come in qualsivolglia altra (Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, p. 44).

La base di questa lingua comune, che Castiglione come Trissino chiama senza mezzi termini italiana (sui vari nomi della lingua tra medioevo e rinascimento cfr. Ghinassi 1988: XIX-XXI; Giovanardi 1998: 75-109), è costituita dal toscano e dalle sue regole grammaticali, ma solo qualora tali regole e scelte lessicali siano confermate su scala più vasta di quella regionale. Castiglione non accetta gli arcaismi toscaneggianti di Bembo, né l’uso toscano contemporaneo. Quel che manca a tale lingua è una tradizione di classici (problema già sollevato in ambito umanistico da ➔ Leon Battista Alberti), cioè un uso letterario che possa proporsi come esemplare, non essendo sufficiente, in tale prospettiva rigorosamente umanistica, l’esempio dei grandi trecentisti toscani.

Il maggior teorico della corrente cortigiana o italianista di primo Cinquecento è il vicentino Giovan Giorgio Trissino, a cui si deve la riscoperta e la traduzione in volgare del De vulgari eloquentia e la sua immissione nel dibattito primocinquecentesco compiuta attraverso il dialogo Il Castellano (entrambe le opere vennero pubblicate a Vicenza nel 1529, ma la circolazione manoscritta della traduzione dantesca è precedente). Per dare un esempio di come Trissino renda attuale e funzionale alla propria teoria il De vulgari eloquentia, basta controllare alcune rese traduttive di termini danteschi particolarmente problematici: vulgare curiale, per es., viene tradotto con lingua cortigiana, vulgare latium con volgare italiano (Tesi 2007: 199). Esiste dunque un volgare illustre italiano, per Trissino identificato tout court con la lingua cortigiana, che non si identifica con nessuno dei singoli volgari locali, ma ne rappresenta la manifestazione più prestigiosa. Ecco come Trissino traduce un brano del capitolo finale del primo libro del De vulgari eloquentia:

Questo volgare adunque, che essere Illustre, Cardinale, Aulico, e Cortigiano [= lat. curiale] havemo dimostrato, dicemo esser quello, che si kiama volgare Italiano; perciò, che sì come si può trovare un volgare, che è proprio di Lombardia, et un altro, che è proprio di tutta la sinistra parte d’Italia; e come tutti questi si ponno trovare, così parimente si può trovare quello, che è di tutta Italia; e si come quello si kiama Cremonese, e quell’altro Lombardo, e quell’altro di meça Italia, così questo, che è di tutta Italia, si chiama volgare Italiano [= lat. vulgare latium] (Gian Giorgio Trissino, De la volgare eloquentia, c. 13v).

L’idea di un volgare illustre comune (già problematica in ➔ Dante) rappresenta dunque un’utopia linguistica su cui Trissino costruisce la propria posizione, molto distante da Equicola o da Castiglione. Nei confronti del modello toscano-trecentista di Bembo, per es., Trissino presenta quella che potremmo definire un’ipotesi concorrente di lingua letteraria pancronica: per questo il canone dei boni auctores del Castellano, molto più ampio che nelle Prose bembiane, prevedeva «un blocco italianista che saldasse i siciliani, la lirica toscana del Duecento, i grandi poeti del Trecento, gli autori moderni non vernacolari» (Castelvecchi 1986: XLVII). Dal punto di vista delle scelte linguistiche, invece, i riflessi di tale posizione teorica generano un modello grammaticale eclettico (su cui v. § 3), dove le forme della tradizione antica coesistono con gli esiti moderni, andando ad alimentare ulteriormente la polimorfia del codice linguistico cortigiano.

Tratti linguistici delle grammatiche e dei testi cortigiani

Alcune caratteristiche linguistiche dei testi cortigiani, in parte coincidenti con gli esiti grammaticali delle lingue di koinè quattrocentesche, sono ben visibili nel brano di Equicola riportato al § 2:

(a) uso del latinismo grafico-fonetico nei tipi tucti, docti, observo, e simili;

(b) monottongo con conservazione del vocalismo tonico latino (homini, boni), tratto distintivo di fonetica cortigiana, cfr. la nota di Trissino, Epistola (1524): «In molti vocaboli mi parto dall’uso fiorentino e li pronuntio secondo l’uso cortigiano, com’è homo dico e non huomo» (Pozzi 1988: 115);

(c) esiti metafonetici condizionati da -i e -o finali (dicti, paricchi, deperdissero);

(d) vocalismo atono non toscano in accostese, approximarme, robare, delectano, vocabuli, regule, ecc.;

(e) preferenza per morfemi verbali non toscani nella prima pers. plur. del presente indicativo (havemo, volemo) e nella terza plur. (poneno, impieno), o non specificamente fiorentini (come -ar- nel futuro di monstraremo); ecc. (per una sintesi di altri tratti cortigiani, cfr. Durante 1981: 154).

Si tratta di fenomeni in larga parte presenti in tutti i testi ispirati al codice cortigiano, che saranno censurati nel terzo libro della Prose di Bembo, anche con prese di posizione contrastanti con l’uso ben più oscillante degli stessi trecentisti: «Semo e Avemo, che disse il Petrarca, non sono della lingua, come che Avemo eziandio nelle prose del Boccaccio si legga alcuna fiata, nelle quali si potrà dire che ella, non come natìa, ma come straniera già naturata, v’abbia luogo» (Bembo 1966: III, cap. XXVII, p. 230). Una panoramica più allargata confermerebbe questo dato di fatto. Il revisore del Cortegiano di Castiglione, per es., sulla scorta di Bembo, interviene a rendere più toscana la redazione definitiva del trattato, espungendo una serie cospicua di tali tratti cortigiani dell’autore (Ghinassi 1963).

Lo stesso Trissino, in linea con la sua teorizzazione italianista, ammette nel suo uso una notevole polimorfia, dove esiti trecenteschi (per es. i tipi truova, pruova, brieve, priego; io era, io amava, io sentiva, ecc.) coesistono con quelli più moderni delle scritture cortigiane. E una infiltrazione di forme moderne cortigiane è ancora presente nella prima grammatica del volgare pubblicata, le Regole grammaticali della volgar lingua (1516) del pordenonese Giovan Francesco Fortunio, ispirata ai modelli letterari trecenteschi ma notevolmente aperta a ospitare forme che saranno condannate nelle Prose di Bembo: per es. nel presente indicativo chiamiamo, dobbiamo, diciamo a lato a ritrovemo, dovemo, dicemo, seguimo; nel passato remoto noi dicemmo a lato a noi scrivessimo «scrivemmo», ecc. (Fortunio 2001, pp. 219-220).

L’accostamento tattico di forme italiane e toscane viene codificato da Trissino nella sua Grammatichetta, pubblicata nel 1529, che rappresenta un importante tentativo di normalizzare la spiccata polimorfia dell’italiano cortigiano e di conferirgli, appunto, uno statuto grammaticale autonomo o almeno paritetico rispetto alle scelte arcaizzanti di Bembo (Giovanardi 1998: 111-137). È soprattutto la morfologia verbale il settore dove le forme italiane contrastano con le varianti toscane scelte da Bembo. Trissino prima dà la forma verbale cortigiana, poi fa seguire quella toscana: il condizionale italiano in -ia nei tipi saria, haveria, che si ritrova nei siciliani, ma anche in Dante e Petrarca, oltre a essere forma viva settentrionale, precede dunque haverei e haverebbe, nella prima pers. plur. haveressimo, sentiressimo e seressimo precedono haveremmo, sentiremmo e saremmo, e così via. Solo nella prima pers. plur. del presente indicativo il paradigma trissiniano prende posizione in favore di -emo, -imo (noi leggemo, noi sentimo), in netto contrasto con la desinenza toscana -iamo, e con la scelta di Bembo, che, su questo come su altri punti grammaticali, sarà destinata a diventare la norma della lingua letteraria.

Un caso particolare: la lingua cortigiana romana

L’ambiente cosmopolita della curia romana di fine Quattrocento rappresenta un caso eccezionale. Il forte afflusso di popolazione non originaria del luogo sotto i papati medicei produsse nel volgare romanesco la perdita di tratti linguistici meridionali e lo spostamento del dialetto locale verso la varietà toscana (in sintesi, Trifone 1992: 28 segg.; ➔ Roma, italiano di). Così Roma divenne tra Quattro e Cinquecento a tutti gli effetti il «centro egemone di una koinè italiana aulica» (Trifone 1992: 39).

Il formarsi negli ambienti curiali di una lingua cortigiana romana è testimoniato da alcuni protagonisti del dibattito cinquecentesco. Bembo per es. riporta nelle Prose un’affermazione di Calmeta secondo cui «lingua cortigiana egli [Calmeta] vuole che sia quella che s’usa in Roma, non mica da’ romani uomini, ma da quelli della Corte che in Roma fanno dimora» (Bembo 1966: I, capp. XIII e XIV, p. 107). Nella Giunta (1572) di Lodovico Castelvetro si delineano meglio i contorni di tale «forma nuova di lingua differente da tutte le altre lingue d’Italia»:

Si proferiscono i fini delle parole distintamente e si distinguono i primi casi de’ vicenomi dagli altri casi e nel torcere le maniere de’ verbi si seguitano i toscani per lo più, percioché i primi cortigiani dotati di sottile intelletto, come il più di loro sono, videro che, se così facevano, erano per essere più lodati che se si fosse usata la proferenza confusa di Lombardia o d’altra contrada che non l’avesse così chiara e distinta. E appresso non si guardarono da prendere molti corpi di parole latine e molti modi di dire non usati nella favella italica per potersi fare intendere agli stranieri cortigiani (Pozzi 1988: 659).

Le ricerche più recenti (Drusi 1995; Giovanardi 1998: 29-74) hanno cercato di mettere meglio a fuoco i tratti di questa specie di interlingua-esperanto o «lingua veicolare, di scambio, costituita su base italiana […] e valida tanto per la comunicazione scritta quanto per quella orale» (Giovanardi 1998: 45). Le analisi dei documenti, e in particolare delle lettere di papa Alessandro VI Borgia (Drusi 1995: 146-147), hanno evidenziato l’esistenza di una varietà in uso negli ambienti colti della curia che non si identifica né col toscano né col romanesco toscanizzato degli strati medi e popolari della città.

Sull’interpretazione generale del fenomeno esistono opinioni divergenti. Giovanardi (1998: 62) pensa che il romanesco toscanizzato, effettivamente scritto e parlato dalle classi colte cittadine, «abbia rappresentato la piattaforma di riferimento dei teorici cortigiani gravitanti attorno alla corte di Roma»; Drusi (1995) pensa invece a una lingua veicolare di gruppi molto ristretti, che non ha alcun rapporto con la realtà sociolinguistica della popolazione romana, ma che anzi se ne distanzierebbe consapevolmente, come dimostrerebbero alcuni fenomeni grammaticali fortemente reattivi nei confronti del volgare locale adoperato fuori dalla curia pontificia. Entrambe le interpretazioni tendono a proiettare sulle attestazioni scritte delle epoche passate dei parametri interpretativi messi a punto dalla linguistica e dalla dialettologia contemporanea per un tipo di produzione prevalentemente parlata (Ghinassi 1976).

Tracce postrinascimentali della lingua cortigiana

La verifica linguistica sui documenti privati o non letterari ha confermato che una forma di lingua cortigiana dai tratti grammaticali non unitari ha rappresentato un ingrediente importante del panorama linguistico italiano, al di là della sua fugace apparizione nel dibattito cinquecentesco (ben più importante di quanto apparisse nelle storie della lingua di taglio tradizionale, per es. Migliorini 1960).

Nelle affermazioni dei teorici del Cinquecento dunque si veniva a riflettere una reale situazione linguistica che caratterizzava il territorio italiano e la prassi delle scritture umanistico-rinascimentali di livello colto. Significativa la posizione di Bembo, che nelle Prose esclude a priori la lingua cortigiana (della curia pontificia) come «idioma (favella) senza letteratura (lingua)», sulla base di un presupposto classicista che non metteva in dubbio l’effettiva esistenza di questo volgare comune, ma ne limitava la sua capacità di costituire un modello, così come avrebbe precisato Castelvetro (Drusi 1995: 144). Questo dato porta a considerare le cospicue tracce che tale realtà ha continuato a lasciare nei documenti postrinascimentali, specie in quelli privati o nondestinati alla pubblicazione di scriventi colti non toscani, vale a dire la stragrande maggioranza di testi italiani prodotti dal Cinquecento fino alla soglia del Novecento.

In questi documenti non letterari affiorano tratti che possono riflettere in certi casi reali abitudini di uso della lingua comune anche nella sua esecuzione parlata, e che sembrano prefigurare una sorta di italiano regionale ben distinto dalle varietà dialettali sottostanti. Alcune forme addirittura si sono inserite stabilmente nella fonetica di alcuni dialetti: per es., in milanese il suffisso -àr che si distingue sia dall’esito dialettale -è, sia dal toscano -aio, o la realizzazione [z], in corrispondenza dell’affricata mediopalatale del toscano, in zima «cima» per il dialettale scima, e in altre forme quali prezèt «precetto», azzàa «acciaio», prenzìpi «princìpi», e simili (Sanga 1990: 15, in nota), abitudine documentata agli inizi del Seicento nel «parlà par zetta» che caratterizzava nel teatro di Carlo Maria Maggi i tentativi delle dame milanesi di distanziarsi dalla pronuncia dialettale (e su analoghe condizioni del ‘parlar finito’, testimoniato sempre a Milano agli inizi dell’Ottocento da Alessandro Manzoni; Ghinassi 1988: XXIII).

Nei testi postrinascimentali non toscani i riaffioramenti di tratti riconducibili all’uso cortigiano sono tutt’altro che sporadici. Si tratta nella maggioranza dei casi di fenomeni di solito severamente censurati dai grammatici ufficiali di taglio bembiano, e fino a oggi considerati tra gli errori più comuni commessi a scuola nei primi anni di apprendimento delle regole grammaticali. Un esempio significativo è la prima persona plurale del passato remoto e del condizionale (Tesi 2005: 113-114). In questo caso la persistenza in autori non toscani delle forme fossimo «fummo» e avressimo «avremmo», per di più localizzata in verbi di alta frequenza, è spia di un diffuso affioramento di usi linguistici spontanei che dovevano trovare sostegno nella varietà regionale della lingua comune effettivamente parlata da ciascun scrivente.

Tali forme del passato remoto e del condizionale, per giunta, avevano ricevuto una precoce istituzionalizzazione nelle grammatiche prebembiane e ‘italianiste’ di primo Cinquecento (§ 3), per poi iniziare a essere stigmatizzate nel momento in cui la norma prescrittiva si irrigidì attorno al canone toscano: dal Sei al Settecento le censurano le grammatiche più influenti degli ecclesiastici (per es. nelle Regole di Salvatore Corticelli), e stesso trattamento ricevono nelle innovative grammatiche di tipo ‘ragionato’ (per es. in quella di Francesco Soave, istruttore del giovane Manzoni). Nel Settecento e nel primo Ottocento sono ancora molto diffuse in lettere private di scriventi colti (Antonelli 2003: 157, 163-164), ma anche nello scritto di autori (in genere settentrionali, ma anche romani o marchigiani) solitamente molto controllati (allo stesso Giacomo Leopardi sfuggono nello Zibaldone un avressimo e un dovressimo). Nel passato remoto, dove il tipo cortigiano resiste più a lungo, forme come ebbimo «avemmo», fecimo «facemmo», apersimo «aprimmo», risimo «ridemmo», dissimo «dicemmo», giunsimo «giungemmo», misimo «mettemmo», vidimo «vedemmo», pur censurate dai grammatici, sono impiegate per tutto l’Ottocento sia in scritture private sia più raramente in opere scritte per la pubblicazione, per poi estinguersi a cavallo tra Ottocento e primo Novecento: ancora sei esempi di ebbimo nella Coscienza di Zeno di Italo Svevo, e un caso sporadico in ➔ Gabriele D’Annunzio ‘notturno’ («Come i fastelli si furono consumati ed ebbimo attorno attorno i sermenti e gli stecchi …»), solo per citare due scrittori inconciliabili per scelte stilistiche.

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