LIBERTÀ

Enciclopedia Italiana (1934)

LIBERTÀ (lat. libertas; fr. liberté; sp. libertad; ted. Freiheit; ingl. freedom o liberty)

Gioele SOLARI
Giulio PAOLI
Spartaco RUFFO MANGINI
Augusto GUZZO
Emilio CROSA
Federico CELENTANO
Giovan Battista DE MAURO

Filosofia. - Si può storicamente affermare che nel mondo moderno la vera libertà politica sia stata chiesta dopo la libertà religiosa: entrambe per un senso più vivo e una coscienza più concreta della libertà morale che l'uomo attinge quando fa il bene. La libertà morale, a sua volta, non si riduce alla libertà psicologica, al cosiddetto libero arbitrio, ma lo presuppone.

Prima delle filosofie dell'età ellenistica non fu rigorosamente posto il problema del rapporto tra libero arbitrio umano e Provvidenza. I presocratici, Socrate, Platone, Aristotele, tutti credono in una condotta razionale della vita dell'universo; ma tutti parlano di meriti e demeriti degli uomini: meriti e demeriti che presuppongono un volere umano responsabile dei proprî atti e, se responsabile, libero. Né Socrate e Platone, che volentieri parlano di divine ispirazioni che trattengono o arricchiscono l'uomo, pensano che questi aiuti divini interrompano o tolgano la spontaneità degli atti umani. Come la generale credenza in un'universale necessità assunse presso gli stoici rigore di dottrina coerente e intransigente, così la generale fiducia nell'accordabilità di iniziativa umana e necessità divina cedette il posto alla rigorosa domanda, se convenisse sacrificare l'uno o l'altro dei due dogmi, o si potesse pensare l'iniziativa umana iscritta essa stessa nell'ordine razionale degli eventi di natura. Epicuro negò la necessità universale, anzi la stessa razionalità o provvidenzialità del corso del mondo, per poter affermare la libertà dell'iniziativa umana, in un universo dove tutto è spontaneità non preceduta da cause. Gli stoici, al contrario, per poter affermare la rigorosa connessione causale dell'intero universo, inclusero l'agire umano nella trama degli eventi del mondo. Ma ritennero l'uomo libero di accettare e amare l'universale necessità che foggia la sua vita come quella di tutti gli altri esseri esistenti, o invece disconoscerla e maledirla, sottraendosi col pensiero e con la nemica disposizione dell'animo a quel potere che pur lo trae ineluttabilmente. Libero di aderire o riluttare alla vita universale, egli è saggio e beato se aderisce, pazzo o infelice se rilutta.

A Crisippo, che affermava quest'unica libertà umana, Carneade rispose che anche l'adesione o ribellione dell'uomo dovrebbe essere determinata dal fato, senza merito o demerito umano; e che, se invece si attribuisce all'uomo, e non al fato, l'iniziativa dell'aderire o del riluttare, si può ben riconoscere in generale che le libere iniziative umane non interrompono la connessione causale, ma vi s'inseriscono come causa tra cause.

Grandissima risonanza ebbe nel mondo della posteriore cultura occidentale l'affermazione eclettica ciceroniana sì della ineludibile concatenazione causale come della libertà e della responsabilità del volere umano: credenze assai difficili a conciliare, ma entrambe così spontanee all'uomo da non poter essere abbandonate. Né si pone su un piano diverso Boezio nel V libro del De consolatione Philosophiae. Ma in lui la posizione e la tentata soluzione del problema risentono, sebbene alquanto fiaccamente, del significato che la questione aveva assunto per il pensiero cristiano, specialmente dopo Agostino.

Questi aveva trovato nelle Epistole di Paolo - che a sua volta l'aveva trovata nell'intera Scrittura - l'affermazione energicissima che Dio volle, o vuole, ab aeterno tutto ciò che avviene nell'universo, ivi comprese le sorti degli uomini: delle quali eterne decisioni l'uomo non può chieder conto a Dio, perché il Creatore fa le creature secondo un suo disegno certamente sapientissimo e santo, ma comprensibile solo dalla mente divina che vede i singoli nel tutto, e incomprensibile alla mente umana posta dinnanzi a frammenti del disegno universale e incerta nella ricostruzione del tutto. Agostino trovava in Paolo e nella Scrittura, parimenti energica e risoluta, l'affermazione che l'uomo fa il male perché vuol farlo, e, anzi, è inescusabile appunto perché, potendo non farlo, e avvertito e ammonito di non farlo, tuttavia lo preferisce al bene. Né nella Scrittura, né in Paolo la menoma preoccupazione che il prestabilito disegno divino possa far apparire illusorio il senso che gli uomini hanno d'agire liberamente, o che, viceversa, una reale facoltà umana di determinare il corso dell'umana vita possa smentire o sospendere il prestabilito decreto di Dio. Agostino sentì prima - nella polemica antimanichea - la necessità d'affermare che è tutta dell'uomo l'iniziativa per la quale, volgendo le spalle al bene, a cui natura stessa lo inclina, si dà al male. Fu la polemica pelagiana ad avvertirlo che è altrettanto fondamentale l'affermazione di un prestabilito disegno divino: donde la necessità di provarsi a pensare insieme predeterminazione divina e responsabilità umana. Alla necessità di affermare la predeterminazione divina Agostino giunse con chiara coscienza quando sentì l'impossibilità di ammettere che un volere da sé liberamente degradatosi nel male trovi in sé stesso, così degradato, l'energia di ritornare al bene. Egli sentì e pensò che un volere indebolitosi nella colpa solo dal principio stesso del Bene può essere ricondotto alla virtù. Ma se l'intervento del principio stesso del Bene non può esser fatto dipendere dalle umane aspirazioni e sforzi per ottenerne l'aiuto - ché tanto varrebbe ritenere il volere degradatosi nella colpa capace, dal fondo di tale degradazione, di provvedere da sé a ritornare al bene - è inevitabile ammettere che il principio del Bene intervenga quando vuole, con un rapporto alle umane aspirazioni e sforzi che Agostino afferma tanto più energicamente in quanto per lui tali aspirazioni e sforzi sono già frutto e segno del cominciato intervento, ma con un rapporto che non è di dipendenza dell'intervento divino dagli sforzi umani, altrimenti sarebbe di nuovo affidata l'iniziativa bastevole del ritorno al bene a quello stesso volere che volle defletterne.

A Pelagio, che affermava che il volere umano, dopo il peccato, può anche volgersi al bene, Agostino risponde che certamente "può"; ma la maniera onde riesce concretamente a volere quel bene che "può" volere è che le reali forze di volerlo gli siano date da quello stesso vivente Bene a cui volse le spalle. E a Giuliano d'Eclano Agostino risponde che la predeterminazione divina non annulla ma include il libero arbitrio umano e le sue scelte, e che, se Dio concede il suo aiuto a chi vuole, ciò non toglie che con un volere libero, sebbene ridestato dall'aiuto divino, l'uomo riesce a volere il bene, sicché un reale merito, per quanto reso possibile solo dalla grazia, è premiato con la salvezza. Per Agostino, anzi, la grazia, lungi dall'annullare o rendere parvente il libero arbitrio umano, è la sola che lo elevi a "libertà": giacché la semplice "possibilità" di volere o il male o il bene diventa reale volizione del bene solo quando la grazia fa maturare in una sicura forza quella che era un'irrealizzata velleità.

Nell'adottare per sua la dottrina di Agostino, la Chiesa occidentale insistette molto nel precisare che neppure la grazia è irresistibile: chi la riceve deve accettarla per giovarsene, ed è libero di accettarla o non accettarla. Dopo il Medioevo, nel quale la soluzione agostiniana è accolta, da taluni, con più intensa accentuazione dell'onnipotenza della grazia nel volere umano, da altri con maggiore preoccupazione di mostrare che il libero arbitrio non è tolto neppure dall'onnipotenza della grazia; e dopo l'Umanesimo, in cui il Valla, riprendendo il problema da Boezio, ripete che è incomprensibile umanamente come si concilino libero arbitrio umano e prescienza e predestinazione divina, in cui il Pomponazzi ripropone, in filosofia, la soluzione stoica del problema, senza pregiudizio della fede che può "credere" al libero arbitrio umano anche se alla filosofia non riesca di ammetterlo, il Cinquecento è il secolo nel quale la questione è ridiscussa tutt'intera. Da un'interpretazione di Agostino sorgono le dottrine di Calvino e di Lutero, entrambe negatrici d'ogni libero arbitrio umano, entrambe affermatrici d'una "libertà" nel bene che coincide con la più rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Di contro alla negazione dei riformatori, parve soprattutto ai gesuiti che non bastasse la comune interpretazione del tomismo, che affermava la resistibilità della grazia, e quindi l'assoluta libertà dell'arbitrio anche nella salvezza, ma insisteva quanto lo stesso Agostino sull'assoluta gratuità della grazia, e quindi sull'origine dell'iniziativa dell'umana salvezza da parte di un libero, anche se incomprensibile, decreto divino, e non dagli sforzi umani, che presuppongono essi stessi quel decreto. Alcuni tentativi fatti al tempo di Agostino dai semipelagiani di Gallia già avevano cercato di fare, sì, dipendere i meriti umani dal decreto divino, ma questo stesso decreto dalla previsione avuta da Dio di quelli che sarebbero stati i meriti umani qualora la grazia fosse stata concessa. Analogamente, ma senza subordinare l'iniziativa divina ai meriti umani neppure previsti, il Molina attribuì a Dio, tra la scienza dei puri possibili e la scienza delle cose esistenti in tutti i tempi, una scienza media, di quel che ciascuna volontà creata è liberamente per fare quando riceva la tale o tale grazia, onde, aggiunse il Suarez, è da ritenere che Dio, prevedendo quali grazie risultino congrue con una volontà e quali no, conceda agli eletti le grazie da lui previste congrue e perciò efficaci.

Nel Seicento le posizioni teologiche determinatesi circa il rapporto di libero arbitrio umano e predeterminazione divina si ripresentano nel dominio della filosofia. Mentre il Bruno, alla fine del Cinquecento, aveva affermato in Dio coincidere libertà e necessità (donde aveva concluso che necessariamente l'universo è generato da Dio), ma aveva, nondimeno, affermato la libertà dell'arbitrio umano contro le dottrine dei riformatori, lo Spinoza, circa un secolo dopo, include il volere e l'agire umano nell'universo, che afferma necessitato per la stessa coincidenza, già affermata dal Bruno in Dio, di libertà e necessità. Lo Spinoza ripristina il concetto stoico dell'universale necessità e il concetto, parimenti stoico, di una "libertà" che non presuppone, anzi nega il libero arbitrio, ed è fatta consistere nella conoscenza e nel riconoscimento e accettazione della necessità universale. Agli stoici tuttavia lo Spinoza contesta che il savio riesca a debellare interamente le passioni che riducono l'uomo in servitù: la "libertà" non è mai così raggiunta che l'uomo non debba ancora adoperare tutte le energie e tutte le arti per rendere razionale, cioè "libera" la sua vita.

Notevolissima è però la dottrina spinoziana della volontà identificata con le volizioni concrete, e quindi non concepita come un poter volere" anteriore al volere effettivo. Parimenti notevole è l'analisi fatta dal Locke della volontà per mostrare l'assurdità d'ammettere un "poter volere" anteriore al volere: un "poter volere" al quale solo, se fosse ammissibile, potrebbe essere riconosciuta quella "libertà d'indifferenza" escogitata da taluni scolastici come una facoltà di volere, immotivatamente e indifferentemente, l'una o l'altra di due cose contrarie, o anche nessuna delle due. Contro una tale fantastica "libertà d' indifferenza" si può dire definitiva la critica lockiana, che mostra come un simile potere renderebbe impossibile l'agire. Come, Spinoza e come Locke, il Leibniz nega energicamente la "libertà d'indifferenza", ma il suo intento è di contrapporsi a Spinoza, affermando una libertà del volere intesa come spontaneità delle monadi.

Una funzione centrale ha il riconoscimento della libertà del volere nel pensiero di Kant. Egli non eccettuerebbe nulla dal determinismo meccanico onde la fisica newtoniana pensava l'intera natura, se la presenza della legge morale in noi non lo costringesse ad attribuire all'uomo il potere di obbedire alla legge resistendo alle sollecitazioni sensibili che tendono a determinarlo. Così la moralità gli diviene ratio cognoscendi della libertà. E poiché la conoscenza non può intendere cosa alcuna, e siano anche le azioni umane, se non con la categoria della necessità causale, il pensiero può e deve ammettere che l'uomo sia dotato di una causalità libera che gli consente di resistere alla causalità meccanica delle passioni ma senza che tale ammissione, lecita e doverosa nel campo dell'azione, abbia diritto di trasformare la "conoscenza" dell'universo o anche solo del mondo umano, da conoscenza per cause in conoscenza che consideri la causalità stessa espressione d'una profonda e interna libertà. Tuttavia quel che non è consentito alla conoscenza e alla scienza, vincolate, secondo Kant, a una visione meccanica dell'intero universo anche umano, è lecito alla "fede", che dalla presenza in noi della legge morale è condotta a legittimamente postulare, in noi, la libertà della scelta tra il seguire la causalità empirica, che rende il nostro volere eteronomo e patologico, e l'obbedire alla legge morale che, esprimendo l'essenza più profonda del nostro Io, rende autonomo e, così, libero il nostro volere; ed è altresì condotta a legittimamente postulare che, come l'essenza profonda del nostro essere è libertà, così all'origine dell'intero universo, che alla scienza si presenta determinato, stia il libero volere d'un Essere intelligente, che ordini teleologicamente ciò che alla nostra conoscenza appare invece meccanicamente causato.

La libertà come autonomia morale dell'uomo e sua intima dignità è il grande concetto che Fichte trovava così in Kant come in Rousseau. In Schelling e in Hegel ritorna il motivo spinoziano della coincidenza della libertà - da essi però affermata, non negata - con la necessità. Anzi in Hegel la polemica contro la fantastica "libertà d'indifferenza" è volta in favore di un concetto della libertà che non s'appaga di pensarla come autodeterminazione, ma intende pensarla come intima, spirituale necessità.

Questa coincidenza di libertà e necessità conduce Hegel a una visione della storia affine, ma, negl'intenti, opposta a quella del Vico. Giacché Hegel intende la razionalità e provvidenzialità di tutto ciò che avviene, come tale libertà che nell'intimo è necessità; mentre il Vico, espressamente opponendosi agli stoici, ai riformatori e a Spinoza, aveva affermato che gli uomini con una scelta realmente libera eseguono inconsapevoli il disegno divino, prestabilito ma ignoto a loro.

Al determinismo positivistico - a volte preoccupato di salvare almeno una spontaneità capace di rendere ragione dell'imputabilità degli atti - reagirono tutte le filosofie del "ritorno a Kant", intese a salvare la libertà, ratio essendi, per Kant, della moralità. E, nel quadro del ritorno all'idealismo classico dei principî dell'Ottocento, i movimenti neohegeliani insistettero, quali più risolutamente quali meno, sulla hegeliana coincidenza di libertà e necessità, rinnovando la polemica contro la libertà psicologica, ancora intesa in talune filosofie spiritualistiche come libertà d'indifferenza, ma anche accentuando talora il significato di necessità interiore che, applicato alla libertà, modifica profondamente i concetti d'imputabilità, responsabilità e valutazione.

Tutt'altra via tenne la difesa del concetto di libertà intrapresa dal contingentismo, per il quale nella libertà è da vedere anzitutto indeterminazione; e spontaneità, piuttosto che autodeterminazione, cioè autonomia, è la libertà per la filosofia dello "slancio vitale", che considera quasi istintivo - dunque spontaneo, piuttosto che autonomo - l'aderire all'obbligazione sociale, e intende, come un seguire "l'appello dell'eroe", l'amare tutte le creature in Dio.

Pur intesa in maniera profondamente diversa, la libertà è oggi considerata come la spiritualità stessa, e si percepisce distintamente che un universo che contiene in sé qualcosa di spirituale e di libero non può essere meccanico e necessitato: non è possibile cioè professare un'etica della libertà senza ch'essa postuli una metafisica della libertà, s'intenda poi questa metafisica della libertà sia come coincidente con la stessa etica, sia come presupposto presente in essa e da essa ricavabile.

Bibl.: v. etica.

Diritti di libertà.

L'espressione "diritti di libertà" significa in generale la capacità giuridica di svolgere senza ostacoli e senza ingerenze estranee la personalità in tutte le sue forme e direzioni, e di pretendere per tale svolgimento il riconoscimento e la tutela dello stato. Condizione di sviluppo della personalità è la libertà: di questa si acquista coscienza per gradi, per cui il riconoscimento dei diritti di libertà è formazione psicologica e storica lenta e laboriosa. In ragione della natura e dell'estensione di tali diritti, della loro garanzia, acquistano valore e significato gli ordinamenti politici. I diritti di libertà da un lato si realizzano in forme sempre più ampie e alte, dall'altro lato si estendono a classi sempre più numerose della società.

In Grecia la libertà è ancora soprattutto libertà politica, cioè diritto spettante non all'uomo come tale, ma al cittadino. Non può certo credersi che i Greci abbiano ignorato il concetto della personalità e della libertà: essi le affermarono così nel loro significato empirico e soggettivo, come nel loro significato intellettuale e morale. Se non che la personalità e la libertà ebbero presso di essi valore non assoluto, ma condizionato dall'esistenza dello stato e dall'appartenenza a esso. Solo nello stato e nella partecipazione attiva alla vita di esso l'uomo è persona e realizza la sua libertà. In nessun caso si poteva in antico parlare di difesa giuridica del singolo di fronte allo stato. Il singolo non ha diritti verso lo stato, ma solo doveri: esso non trae da sé la norma dell'operare, ma questa deriva dall'ordine politico che a sua volta è il riflesso di un ordine naturale o ideale. La libertà politica di cui godevano gli antichi non era incompatibile col riconoscimento e con l'esercizio della più ampia libertà di pensiero e di parola; ma tale libertà, più che esigenza di vita spirituale interiore, era considerata come condizione di vita politica più perfetta.

In Roma si perfeziona il concetto di libertà e di personalità giuridica e politica. Il diritto già vi si afferma come espressione di volere sulle persone, sulle cose. Ma la capacità di volere, come persona, è limitato ai cittadini romani. Col graduale estendersi della cittadinanza, la capacità giuridica perde il carattere di privilegio senza mai pervenire a significato morale e spirituale. Nell'esistenza dello stato romano, nell'ordine oggettivo da esso rappresentato, trovano fondamento e limite la personalità e la libertà dell'individuo.

Col cristianesimo lo stato perde il carattere di valore supremo e riconosce sopra di sé la legge divina, di cui è organo visibile la Chiesa. Alla quale spettano ormai principalmente i compiti di cultura e di educazione, mentre l'attività propria dello stato si restringe di fatto ai beni esteriori e terreni della pace e della sicurezza. Vincolati da una duplice legge religiosa e civile, gl'individui hanno libertà esterna derivata, non originaria. Possono sottrarsi all'osservanza delle leggi umane, ma solo quando esse si trovino in opposizione con la legge divina e naturale. Non può comunque negarsi che all'ombra del cristianesimo si affermarono i diritti della personalità. Questa non si svolse solo dalla dottrina della comune natura spirituale e morale, ma soprattutto dal principio che l'uomo è un essere libero e ha insita una forza originaria che lo rende strumento operoso e responsabile della vita morale. A misura che l'uomo partecipa alla legge morale realizzandola nelle opere, si afferma di fronte allo stato un diritto della coscienza, una sfera di soggettività autonoma. Nel sec. XVI col sorgere del protestantesimo, imperniato sulla dottrina del libero esame, lo sviluppo della libertà e della soggettività autonoma venne in teoria favorito e accresciuto. Benché in pratica nelle prime attuazioni storiche dello stato protestante si negasse la libertà religiosa a danno dei cattolici, come dimostra la dottrina politica del cuius regio eius religio, sta il fatto che il protestantesimo, spinto dalle sue intime esigenze per cui sottrae l'individuo all'oppressione della gerarchia e delle leggi ecclesiastiche, contribuì efficacemente all'affermazione dei diritti di libertà. La libertà di fede, di coscienza, si poneva come un vero e proprio diritto che lo stato nuovo, essenzialmente laico, sorto sulle rovine dell'universalismo medievale, doveva riconoscere e tutelare.

Come attraverso le lotte religiose si svolse il senso della libertà di coscienza, così nelle lotte sostenute dall'individuo contro lo stato assoluto si svolse il senso della libertà civile e politica. L'individuo cerca ormai in sé, nella sua natura spirituale, il fondamento del diritto e questo gli si rivela essenzialmente come libertà e precisamente come facoltà di svolgere, senza ostacoli e senza freni non necessarî, la sua personalità empirica e razionale nei rapporti esterni. Da questo presupposto si svolse la teorica dei diritti di libertà, proprietà, eguaglianza. Poiché la personalità giuridica preesiste allo stato, deve essere possibile, indipendentemente da questo, costruire tutto un intero sistema di diritto naturale come svolgimento logico dell'idea di libertà esterna. La quale non trova per Locke altro limite che l'eguale libertà degli altri e la possibilità di ogni uomo di difendere il suo diritto contro le sopraffazioni altrui. Kant perfezionava il sistema del diritto naturale fondato sulla libertà, sotto un duplice aspetto: riducendo i diritti fondamentali dell'uomo all'unico originario diritto di libertà esterna; intendendo il rapporto giuridico fondamentale non come rapporto tra l'uomo e le cose, ma come rapporto tra soggetti che regolano la coesistenza dei loro arbitrî secondo il principio del rispetto assoluto della persona.

In corrispondenza a questa concezione della libertà civile e naturale si svolse la concezione dello stato giuridico e della libertà politica. La realizzazione dei diritti naturali non poteva concepirsi senza riconoscere all'individuo il diritto di privata difesa che nel fatto doveva rivelarsi come diritto di privata violenza. A garantire lo svolgimento e il godimento pacifico della libertà naturale, gli individui creano col loro consenso lo stato. E mentre Locke concepiva il patto costitutivo dello stato empiricamente in rapporto alla sua effettiva realizzazione storica, Kant lo elevava a condizione ideale di ogni libero ordinamento politico. La libertà politica veniva per tal modo a costituire il necessario complemento della libertà civile e naturale. Partecipare allo stato costituisce, per l'individuo, non solo un diritto, ma anche un dovere, poiché solo nello stato, sorto per libero consenso, i diritti della personalità trovano difesa e possibilità di sviluppo. Lo stato limita la libertà di ciascuno, per meglio garantire la libertà di tutti. Nel riconoscimento e nella difesa della libertà esso trova la ragione e il limite della sua attività.

Contro la teorica dei diritti di libertà s'iniziò una reazione nell'età stessa del razionalismo giuridico per opera di quei pensatori (Hobbes, Spinoza, Rousseau) che, per salvare l'unità e la ragione dello stato contro la logica della libertà sovrana dell'individuo, ricorsero al patto per giustificare da un lato giuridicamente la rinunzia dell'individuo ai suoi diritti naturali, per creare dall'altro con lo stato le condizioni di una nuova libertà, quella giuridica, in luogo della naturale, fonte di corruzione e di disuguaglianza. Dopo avere distrutto lo stato storico per amore dell'individuo e della sua libertà, essi lavorarono a ricostruire razionalmente lo stato nella pienezza della sua autorità sovrana come strumento di libertà giuridica e morale. Gli stessi rappresentanti del liberalismo giuridico e politico più puro (Kant, Rosmini), pure ammettendo la libertà come facoltà originaria dell'uomo e condizione ultima di ogni diritto, non accolsero la teoria dei diritti innati e concepirono il diritto come rapporto tra soggetti liberi insieme conviventi secondo una norma razionale e morale. Posta la relazione come condizione formale del diritto soggettivo, veniva meno la nozione di diritti originarî.

Una reazione ben altrimenti profonda e radicale contro i diritti della personalità si ebbe in conseguenza dello storicismo giuridico e dell'idealismo post-kantiano. Dopo Kant il moto degli spiriti fu per reintegrare l'individuo nell'ordine morale, sociale e politico. La priorità del diritto soggettivo fu negata e con essa l'idea dei diritti dell'uomo, del contrattualismo politico. E mentre Savigny invocava la coscienza collettiva nella sua formazione storica come fonte ultima del diritto, Hegel poneva in rilievo il processo dialettico per cui la libertà astratta dell'individuo diventa reale nello stato. Trendelenburg, a sua volta, affermava che chi invoca i diritti innati di libertà deve prima riconoscere il tutto, in cui si trovano le condizioni della propria esistenza e del proprio svolgimento. Da ultimo Comte concepiva i diritti di libertà in funzione della vita sociale. In tutte le sue più caratteristiche direzioni il pensiero filosofico del sec. XIX fu portato a intendere i diritti di libertà in funzione di una realtà etica oggettiva, di cui l'individuo è parte e a cui deve cooperare.

Il nuovo orientamento filosofico doveva riflettersi nella dogmatica del diritto pubblico. Due dottrine vi tennero il campo: la dottrina organica e la dottrina giuridica dello stato; da entrambe si trassero argomenti contro l'esistenza dei diritti di libertà. Se infatti lo stato, a somiglianza degli organismi naturali, ha vita e volontà sua propria, rispetto a cui la vita e la volontà degl'individui sono accidentalità transitorie, non si può parlare di diritti originarî dell'uomo che postulano il valore assoluto e autonomo della persona individuale. D'altro canto i giuristi, che non aderivano al naturalismo antropomorfico della dottrina organica, arrivarono allo stesso risultato movendo dal presupposto della personalità giuridica dello stato. Il quale, come autore dell'ordinamento giuridico oggettivo, non può ammettere sopra e contro di sé l'esistenza di diritti soggettivi dell'individuo, né considerarsi a essi sottoposto. Perciò a negare tali diritti fu portata la pubblicistica tedesca nei suoi più autorevoli rappresentanti, nel Gerber, nel Laband, nel Bornhak.

Se non che l'abbandono della dottrina dei diritti dell'uomo e delle esigenze in essa implicite non avvenne neppure in Germania senza contrasti e reazioni. Per merito soprattutto del Jellinek l'antica teoria dei diritti dell'uomo rinacque in forma nuova come teoria dei diritti pubblici soggettivi e rinacque depurata da ogni teoria naturalistica e idealistica in armonia col principio della personalità dello stato, con le esigenze di una progredita scienza giuridica. Anche per Jellinek il diritto è volontà diretta a un fine, ma tale volontà e tal fine sono dello stato, non dell'individuo. Il diritto soggettivo postula l'ordinamento giuridico oggettivo; da ciò non segue la negazione dei diritti dell'individuo. Il diritto, come Kant aveva insegnato, è idea di relazione, e ciò vale anche per i rapporti di diritto pubblico. Il rapporto di dominazione diventa giuridico solo se riveste la forma peculiare del rapporto giuridico, da cui si genera una serie di diritti e doveri reciproci tra individuo e sovrano. Lo stato giuridico moderno, che vuol esistere nell'interesse dei governati, è portato a riconoscere la personalità dei singoli e riconoscendola entra in rapporto di diritto con essi e limita sè stesso. Poiché personalità relativa è personalità limitata. Diritti originarî assoluti, come non esistono per l'individuo, così non esistono per lo stato. Il quale, autolimitandosi, dimostra coscienza di sé, del suo vero fine che è la garanzia dei diritti soggettivi da cui dipende nella vita moderna l'interesse generale. Secondo il Jellinek l'autolimitazione dello stato si svolge in una triplice direzione: nel riconoscere all'individuo una sfera sempre più larga di libertà, nell'attribuire all'individuo il diritto di esigere la cooperazione attiva dello stato e quello di partecipare alla sua vita.

Non è difficile rilevare nella dottrina del Jellinek un residuo di giusnaturalismo, in quanto è in essa implicita la necessità di un autolimite dello stato e un corrispondente diritto del cittadino. Lo stato giuridico di Kant risorge in forma nuova: non più lo stato organo del diritto concepito come attributo della persona individuale in rapporto con altri, ma lo stato che mediante l'ordinamento giuridico s'impone dei vincoli nell'interesse degl'individui governati.

Per quanto ingegnosamente costruita, la dottrina dei diritti di libertà del Jellinek, essenzialmente liberale, era in contrasto con le direzioni speculative post-kantiane, soprattutto con le esigenze storiche provocate dai moti socialisti, dalla guerra mondiale, dal prevalere di partiti istintivamente avversi alla dogmatica giuridica liberale nella duplice forma francese e tedesca. Una reazione contro la dottrina del Jellinek può già riscontrarsi in Germania nella concezione dei diritti pubblici soggettivi come semplici diritti riflessi del diritto sovrano dello stato. Diritti e obblighi corrispettivi sono possibili solo tra soggetti sottoposti allo stesso ordine giuridico. Lo stato, fonte di tale ordine, non può considerarsi a esso sottoposto, per cui non può parlarsi di diritti spettanti ai sudditi verso lo stato. Perciò, quando diritti pubblici sono attribuiti dall'ordinamento giuridico all'individuo, essi devono intendersi concessioni dello stato revocabili e modificabili. Questa dottrina dei diritti riflessi, spesso confusa con la concezione organica o con quella nazionalistica dello stato, fu accolta da Alfredo Rocco, il quale ebbe ad affermare "che come tutti i diritti individuali anche la libertà è una concessione dello stato.

Per la dottrina più propriamente fascista, v. Fascismo.

Bibl.: D. G. Ritchie, Natural rights, Londra 1895; J. E. Acton, The history of freeedom, Londra 1919; G. Jellinek, Sistema dei diritti pubblici soggettivi, traduz. it. di G. Vitagliano e pref. di V. E. Orlando, Milano 1912; G. Grasso, L'individuo e lo stato, Roma 1910; G. Solazzi, Note critiche sulla libertà giuridica individuale, Bologna 1910; V. Miceli, La personalità nella filosofia del diritto, Milano 1922; G. Del Vecchio, Diritto e personalità umana, 3ª ediz., Bologna 1917; Fr. Ruffini, Diritti di libertà, Torino 1925; P. Martinetti, La libertà, Milano 1928; A. Rocco, La trasformazione dello stato. Dallo stato liberale allo stato fascista, Roma 1927; A. Pagano, Sul fondamento e sui limiti della libertà giuridica di manifestazione del pensiero, Tivoli 1927; B. Croce, La libertà degli antichi e quella dei moderni, Napoli 1930.

La libertà nel diritto costituzionale.

L'affermazione costituzionale dei diritti di libertà s'inizia negli stati moderni con le dichiarazioni dei diritti (Bills of rights), proclamate nei varî stati dell'America Settentrionale dopo la dichiarazione d'indipendenza (1776) e quindi, a imitazione del metodo americano, in Francia nel 1789.

Ma il principio dell'affermazione costituzionale dei diritti di libertà eruppe nella stretta della prima rivoluzione inglese. La libertà religiosa nei suoi elementi di libertà di coscienza e di libertà di culto, da cui si dedusse la libertà di stampa, di associazione, ecc., ebbe la maggior parte in questa elaborazione che proseguì storicamente nelle colonie americane. Le dichiarazioni dei diritti storicamente si contrappongono alle limitazioni dello stato assoluto. Non vi ha perciò un'elencazione completa di tutte le manifestazioni della libertà, ma piuttosto di quelle che in relazione alle restrizioni dello stato assoluto più importava di affermare. Tali dichiarazioni si hanno nelle costituzioni dell'epoca rivoluzionaria e si trovano anche nelle costituzioni italiane di tale periodo. Con la carta francese della Restaurazione del 1814, la dichiarazione costituzionale dei diritti di libertà fu incorporata nel testo della costituzione come un riconoscimento dello stato: non si ebbe più cioè un'affermazione apodittica in relazione a un diritto superiore al diritto stesso dello stato. La libertà come diritto del singolo è riconosciuta e procede esclusivamente dallo stato. Lo statuto albertino si riallaccia al sistema della Restaurazione e riconosce diritti di libertà, con differenze tuttavia in particolar modo notevoli per ciò che riguarda la libertà religiosa.

Nel diritto moderno la libertà è considerata come l'interesse dell'uomo a disporre della propria persona e ad agire secondo la propria volontà: interesse che lo stato riconosce e protegge giuridicamente, elevandolo così a diritto subiettivo. La potestà che ne deriva al singolo è potestà d'ordine giuridico e perciò stesso limitata. La libertà in senso lato può comprendere ogni manifestazione che non sia dal diritto positivo vietata. Ma si deve tuttavia distinguere fra libertà di fatto, cioè giuridicamente irrilevanti, per cui nel diritto positivo non esiste alcuna norma né per autorizzarle, né per proibirle, e libertà giuridiche, cioè manifestazioni espressamente contemplate da una norma di diritto positivo, la quale limita la potestà dello stato o di altri soggetti che esercitano funzioni pubbliche. Occorre ancora distinguere fra libertà politiche, secondo l'espressione accolta anche nel linguaggio legislativo, cioè diritti che spettano al singolo in quanto esercita una funzione pubblica e quindi guarentigia di questa funzione, dalle libertà civili relative all'esercizio di determinate attività nei limiti stabiliti dal diritto positivo, senza che entro questi limiti sorga impedimento da parte di soggetti superiori e in particolar modo da parte dello stato.

Lo statuto elenca le maggiori manifestazioni della libertà. L'art. 26 dispone: "la libertà individuale è garantita". In questa norma si comprendono diverse manifestazioni. Anzitutto l'inviolabilità personale, diritto limitato dalla potestȧ punitiva dello stato, che deve tuttavia conformarsi alla disposizione dello stesso art. 26: niuno può essere arrestato o tradotto in giudizio se non nei casi previsti dalla legge e con le forme che essa prescrive. La potestà d'arresto può quindi esercitarsi esclusivamente in base alle disposizioni di legge, intesa in senso formale, e secondo la procedura dalla legge stabilita. Tuttavia l'arresto di carattere amministrativo, ossia per misura di pubblica sicurezza o per misura disciplinare nei riguardi dei militari o degli appartenenti a corpi militarizzati, per gli alienati e per gli ammoniti, condannati a vigilanza speciale, vagabondi, ecc., ha carattere di larga discrezionalità. Durante lo stato di pericolo pubblico, dichiarato dal ministro dell'Interno o dal prefetto, l'autorità di pubblica sicurezza può ordinare l'arresto di qualsiasi persona se lo consideri necessario per il ripristino o per la conservazione dell'ordine (art. 220 legge di pubblica sicurezza). L'inviolabilità personale non è poi invocabile in caso di necessità per determinate categorie di persone, quali militari, agenti della forza pubblica. Neppure può essere invocata contro prescrizioni sanitarie intese a prevenire o combattere epidemie. Rientrano pure in questo gruppo le libertà di soggiorno e di locomozione, tuttavia sottoposte a molteplici limitazioni per ragioni di polizia di sicurezza, di polizia sanitaria per diverse categorie di persone pericolose alla società o per gli stranieri (legge di pubblica sicurezza, art. 143 segg.; 154 segg.). L'inviolabilità del domicilio è anche affermata dallo statuto (art. 27) "niuna visita domiciliare può avere luogo se non in forza della legge e nella forma ch'essa prescrive"; e il codice penale (art. 614) contempla i delitti contro l'inviolabilità del domicilio e nell'art. 615 punisce il pubblico ufficiale che abusi dei poteri inerenti alle sue funzioni. Questo diritto di libertà è soggetto a limitazioni derivanti dalle esigenze dell'esercizio della giustizia penale (art. 224, 333, ecc., cod. proc. pen.) e civile (art. 42, 596, 850 cod. proc. civ.) o da quelle di poteri amministrativi riguardanti la polizia di sicurezza, sanitaria, doganale, fiscale. Del pari è garantita l'inviolabilità della corrispondenza sia postale sia telegrafica e telefonica, ossia è vietato di prendere cognizione del contenuto delle corrispondenze e di divulgarne il contenuto quando per ragioni d'ufficio se ne abbia conoscenza (art. 616 cod. pen.), con limitazioni previste dal codice di procedura penale (art. 226). A questo gruppo appartengono anche le libertà cosiddette professionali e patrimoniali. La libertà professionale consiste essenzialmente nelle facoltà di scelta della professione, libertà affermata come reazione al regime delle corporazioni professionali prima della formazione dello stato moderno. Tale libertà è però limitata, in quanto per l'esercizio di determinate professioni si richiedono requisiti di capacità tecnica, come l'esercizio professionale da parte di chi ne è legittimamente autorizzato prevede ancora limiti dovuti a ragioni di pubblica sicurezza, di ordine sociale, quali per il lavoro notturno, per le donne e bambini, per ragioni di polizia sanitaria, dei costumi, ecc. La libertà patrimoniale ha la sua affermazione costituzionale nell'art. 29 dello statuto, per cui "tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili", quindi proprietà immobiliare, mobiliare, individuale, collettiva, artistica, letteraria, industriale, ossia la titolarità di ogni diritto patrimoniale. Anche questo diritto incontra varî limiti, fra i quali preminente l'espropriazione per causa di pubblica utilità con la corresponsione di una giusta indennitȧ.

Il gruppo di libertà che vanno sotto il nome di libertà di pensiero comprendono essenzialmente la libertà religiosa e la libertà di stampa. La libertà religiosa ebbe singolare importanza nella formazione teorica e storica dello stato moderno e i dibattiti intorno a essa costituirono la caratteristica preminente della prima rivoluzione inglese e della successiva evoluzione americana. La libertà religiosa si scinde in libertà di coscienza e libertà di culto. Lo statuto albertino non riconobbe appieno la libertà religiosa, ma nelle more stesse della concessione vennero riconosciuti i diritti civili e politici ai valdesi e successivamente nel marzo 1848 agl'israeliti. Il processo seguì poi ininterrotto sino alla legge 19 giugno 1848, n. 735, che sancì: "la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all'ammessibilità alle cariche civili e militari". In seguito i culti diversi dalla religione cattolica, tollerati secondo lo statuto, furono considerati culti ammessi. Il codice penale tutela la religione dello stato e i culti ammessi. Gli articoli 402-406 puniscono il vilipendio alla religione dello stato, a chi la professa e alle cose che formano oggetto di culto, e chiunque impedisca o turbi funzioni religiose. Gli stessi delitti sono puniti se commessi nei riguardi dei culti ammessi, ma la pena è diminuita. Esplicito riconoscimento ha la libertà di stampa, altro diritto di libertà tenacemente asserito nel periodo di formazione dello stato moderno. L.'art. 28 dello statuto, affermando questa libertà, rimanda al successivo svolgimento legislativo per la repressione degli abusi. I limiti cui è soggetto questo diritto di libertà sono di ordine penale quando lo stampato costituisca reato, di polizia quando siano offesi la morale, il buon costume, la decenza, ecc. L'autorità locale di pubblica sicurezza può ordinarne il sequestro in via amministrativa. Particolare assetto ha la stampa periodica. Ogni giornale deve avere un direttore responsabile, non senatore né deputato, che abbia ottenuto il riconoscimento nei modi di legge. Quando il giornale con notizie false o tendenziose nuoccia agl'interessi dello stato, si darà luogo alla diffida del responsabile. Alla diffida seguita per due volte può succedere la revoca del riconoscimento.

Pure garantita dallo statuto è la libertà di riunione (art. 32). Si distinguono le riunioni private da quelle pubbliche. Sono private le riunioni che si tengono in luogo chiuso cui si accede per invito personale, pubbliche senza invito personale, o che, pure avendo questo requisito, per il numero delle persone invitate, per lo scopo od oggetto della riunione non possono considerarsi private. Le riunioni private, tenute pacificamente e senz'armi sono lecite. Quando si commettano reati o la riunione sia diretta alla preparazione di reati o avvengano con armi, l'autorità può impedirle o scioglierle. Non sono soggette a preavviso le riunioni elettorali.

Lo statuto e l'ordinamento giuridico italiano non hanno una norma generale che sancisca la libertà di associazione. Permane pertanto come libertà di fatto contenuta nei limiti precisi previsti dal diritto positivo. Particolare assetto hanno le associazioni professionali (v. corporazione; sindacato). Il codice penale contempla le associazioni a delinquere, le cospirazioni a commettere delitti contro la sicurezza dello stato. Sono vietate le associazioni segrete e sono comminate pene ai funzionarî dello stato o impiegati che vi appartengano. Il prefetto può sciogliere le associazioni che svolgano azione contraria all'ordine nazionale dello stato.

Delitti contro la libertà.

I delitti contro la libertà offrono al trattamento giuridico, e particolarmente al trattamento giuridico comparativo, difficoltà notevoli, sia perché a molte legislazioni è totalmente sconosciuta una tale classe (per es., nel codice penale francese); sia perché non in ogni legislazione, anche dove la classe esiste, il raggruppamento procede dallo stesso criterio sistematico (p. es., nel codice penale germanico); sia per l'incertezza e oscillazione del concetto astratto di libertà, o comunque per la difficile differenziazione fra le varie specie di libertà e tra questo bene e altri beni giuridici affini; sia per il fatto che una serie di delitti, ove l'offesa alla libertà è mezzo e non fine, debbono necessariamente classificarsi tra i reati che offendono i beni-fine, trascurandosi, per la classificazione, il bene offeso come mezzo; sia perché in sostanza tutti i reati che offendono la personalità umana, poco o assai, sempre anche attaccano la libertà.

Rilevò F. Carrara che, dopo il diritto alla conservazione della propria esistenza e della propria integrità fisica e morale, il diritto che immediatamente segue in ordine d'importanza è quello della libertà individuale, vale a dire della costante facoltà che ha l'uomo di esercitare le facoltà proprie, così fisiche come morali, a servigio dei suoi bisogni e al fine di raggiungere la sua destinazione nella vita terrena (Programma, § 1558). Certo è che qui interessa la nozione di libertà in quanto essa sia penalmente tutelata, e ciò neanche in tutte le forme di tutela penale, ma solo quando essa sia protetta direttamente come bene-fine, e non anche quando essa sia protetta come bene-mezzo.

Per rendersi conto della difficoltà in questa materia dal punto di vista della sistemazione astratta e della conseguente collocazione, basterebbe considerare come, in Italia, essa veniva disciplinata dal codice cessato e come viene disciplinata dal codice attuale, e basterebbe leggere, al riguardo, quanto ne è detto nelle due insigni relazioni ai progetti definitivi: quella Zanardelli del 1887 (II, 35) e quella Rocco del 1929 (II, 407).

Saranno segnalate più oltre le differenze tra i due codici.

Nel diritto attico non si ha una precisa configurazione del reato contro la libertà individuale. Reati che le legislazioni moderne fanno rientrare in questa categoria erano sentiti soprattutto come un'aggressione contro il principio animatore della πόλις, la quale non puo sussistere e avere coesione se a tutti i cittadini non siano assicurate condizioni uguali nello sviluppo dell'attività individuale, e potevano eventualmente essere perseguiti con la γραϕὴ ὕβρεως (sopraffazione). Solo per il reato di ἀνδραποδισμός (ridurre o tentare di ridurre in schiavitù un libero), vi era una legge (νόμος τῶν κακούργων) che ipotizzava anche altri reati (tra i quali la violenta violazione del domicilio) e vi era una procedura speciale.

Il diritto romano non conobbe una classe di reati contro la libertà, ma non è dubbio che la protezione di essa appare caratteristicamente in varie ipotesi delittuose. Ricordiamo il crimen vis (reato di larga applicazione, ma che comprendeva, fra le tante fattispecie, anche la violenta restrizione della libertà personale, sino all'ipotesi del carcer privatus); il plagium (consistente nel ridurre in soggezione il cittadino libero: altra forma, che potrebbe dirsi impropria di plagium, consisteva nell'incitamento alla fuga del servo, nel suo nascondimento, nella sua vendita); l'ambitus o, meglio, il crimen de ambitu (che sostanzialmente ipotizzava forme dirette o indirette di mercimonio di voto). Non sembra invece che i cosiddetti delitti di religione fossero in Roma - come pure taluno pensa - avvisati quali delitti contro la libertà: il delitto di religione fu prima considerato come crimen maiestatis, poi, al tempo dell'impero cristiano, come offesa a Dio e alla Chiesa, come un genus sacrilegii, nelle quali concezioni l'offesa alla libertà non apparisce in alcun modo avvertibile. Notevoli leggi romane riguardanti delitti contro la libertà sono: la lex Iulia de vi publica (crimen vis); la lex Iulia de ambitu, la lex Fabia de plagiariis (plagium), la lex Cornelia de falsis (proteggente il segreto epistolare), ecc.

Neanche il diritto germanico conobbe una classe di reati contro la libertà, ma poiché presso quei popoli era molto considerata la libertà individuale, logica conseguenza del pregio in cui si teneva la personalità dell'uomo libero, ebbe essa larga, se non sistematica, tutela penale, quantunque la repressione fosse affidata prima alla faida poi al guidrigildo, per non essere, come è noto, ivi ancora avvertita l'offesa che il reato recava alla società tutta e, di conseguenza, la necessità della diretta repressione statuale, se non nei delitti contro lo stato. La vendita dell'uomo libero era parificata all'omicidio; punito il sequestro di persona e il carcere privato; punita la violenza privata (concepita, questa, come illegittimo divieto di libera circolazione: hominen simpliciter viam ambulantem antestare), punita la violazione di domicilio (crimen fractae pacis domesticae), ecc. Poco operò, in questa materia, il diritto canonico, per il rigore con cui introduceva il principio di autorità, anche in materia spirituale. Comunque varie ipotesi di delitti contro la libertà furono, più tardi, particolarmente contemplate nel concilio di Trento.

In Italia il codice del 1889 considerava in un titolo a parte (il 20 del libro II) i delitti contro la libertà, distinguendoli nei capi seguenti:1. delitti contro la libertà politica; 2. contro la libertà dei culti; 3. contro la libertà individuale; 4. contro l'inviolabilità del domicilío; 5. contro l'inviolabilità dei segreti; 6. contro la libertà del lavoro.

Il codice del 1930 non ha un titolo che particolarmente disciplini i delitti contro la libertà; essi sono contemplati in uno dei capi (il III) del titolo che prevede i delitti contro la persona (il XII). Invero sotto il titolo "delitti contro la persona" il codice vigente disciplina al capo I i delitti contro la vita e l'incolumità personale; al capo II i delitti contro l'onore; al capo III, infine, i delitti contro la libertà individuale; questo capo si divide in cinque sezioni:1. delitti contro la personalità individuale; 2. contro la libertà personale; 3. contro la libertà morale; 4. contro l'inviolabilità di domicilio; 5. contro l'inviolabilità dei segreti.

Per giustificare questa sistemazione, scrisse il ministro - riproducendo quasi testualmente un pensiero già da tempo espresso dal Manzini - che oggetto della tutela penale non è già la libertà astrattamente considerata, ma gl'interessi giuridici che provengono dallo stato di libertà. "In definitivo la legge penale tutela non la libertà come tale, in sé e per sé, ma la persona in quel complesso di manifestazioni che più direttamente attengono alla libertà individuale" (rel. cit.).

Le più salienti differenze di collocazione fra il codice del 1930 e il codice del 1889 sono le seguenti: i delitti contro i diritti politici del cittadino, che nel codice del 1930 si trovano fra i delitti contro la personalità dello stato (art. 294), mentre nel codice dei 1889 erano collocati tra i delitti contro la libertà, pur conservando, nell'uno e nell'altro codice, quasi identica la intitolazione del capo. Ancora, i delitti contro la libertà dei culti, previsti dal codice del 1889 al secondo capo del titolo contro la libertȧ (art. 140-144), che il codice del 1930 sistema con miglior criterio classificativo in un titolo a parte: "Dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti" (art. 402-413).

Infine, i delitti contro la libertà del lavoro che il codice del 1889 classificava al capo IV del titolo contro la libertà (art. 165-166) e il codice del 1930 classifica nel titolo VIII: "Dei delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio". Non è dubbio che, essendo stato inserito nel codice del 1930 questo titolo particolare, i delitti contro la libertà del lavoro non potevano che essere ivi esattamente sistemati.

La sezione 1ª (delitti contro la personalità individuale) prevede i seguenti casi: riduzione in schiavitù, tratta e commercio di schiavi, alienazione e acquisto di schiavi, plagio. La sezione 2ª (delitti contro la libertȧ personale) comprende: sequestro di persona, arresto illegale, indebita limitazione di libertà personale, abuso di autorità contro arrestati e detenuti, perquisizioni e ispezioni personali arbitrarie. La sez. 3ª (delitti contro la libertà morale) comprende: violenza privata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, minaccia, stato d'incapacità procurato mediante violenza. La sez. 4ª (delitti contro la inviolabilità del domicilio) comprende: violazione di domicilio commessa da labilità dei segreti) comprende: violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza, cognizione, interruzione e impedimento di comunicazioni, rivelazione del contenuto di corrispondenza, reati suddetti commessi da persona addetta al servizio delle poste telegrafi e telefoni, rivelazione del contenuto di documenti segreti, rivelazioni di segreto professionale, rivelazione di segreti scientifici o industriali.

Deve rilevarsi che escono dalla classe dei delitti contro la libertà e prendono collocazione diversa quei reati nei quali, pure essendo offesa propriamente la libertà, il soggetto passivo ha personalità cosiffatta che l'offesa medesima deve apprezzarsi non più come diretta contro la libertà, ma invece come diretta contro quella particolare personalità. Tanto nel codice del 1889 quanto nel codice del 1930, le offese alla libertà del re, del reggente, dei membri della famiglia reale, dei capi di governi esteri, dei rappresentanti esteri accreditati presso il governo, si trovano situati fra i delitti che nel codice del 1889 si dicevano contro la sicurezza, e nel codice del 1930 si dicono contro la personalità dello stato. Il codice del 1930, prevede tra questi anche i delitti contro la libertà del capo del governo.

In sostanza, come il reato esce dalla classe dei delitti contro la libertà, quando l'offesa a questo bene è mezzo e non fine, così si è giustamente considerato che, nell'offesa alla libertà delle persone sopra indicate, non deve intendersi prevalentemente attaccato il bene della libertà individuale, ma il principio, l'idea che dette persone riassumono e a così dire esprimono. Esattamente rileva il ministro, a questo proposito, che, in tali casi, il delitto muta la sua oggettività giuridica ordinaria, e assume quella di lesione della personalità dello stato (rel. cit.).

Dal punto di vista tecnico deve osservarsi che il codice del 1930 considera nei rapporti delle persone suddette due specie di reati contro la libertà, e cioè reati attinenti alla libertà personale (art. 276, del re, del reggente, della regina, ecc., 280, del capo del governo, 295, dei capi di governi esteri), e reati attinenti alla libertà senz'altro predicato (art. 277, del re, del reggente, ecc., 281, del capo del governo, 296, dei capi di governi esteri), stabilendo per i secondi pene di gran lunga più miti.

Per intendere il valore di questa distinzione deve farsi ricorso alla disciplina legislativa cui sono sottoposti i delitti contro la libertà, ricordando che la sez. 2ª considera i delitti contro la libertà personale e la sez. 3ª quelli contro la libertà morale, e ci si deve dunque riferire ai primi quando si parla di libertà personale del re, del reggente, della regina, ecc., e riferire agli altri quando si parla semplicemente di libertà; rilevando inoltre che nel concetto di libertà personale dovrebbero intendersi compresi anche quei fatti, quantunque di ipotesi inverosimile e irrealizzabile, che sono considerati nella sez. 1ª, e precisamente i delitti contro la personalità individuale (es., riduzione in schiavitù. E pertanto, astrattamente supponendo che uno di questi delitti fosse commesso contro la persona del re, del reggente, della regina, ecc., dovrebbe intendersi violata la libertà personale, non puramente la libertà, e dovrebbero quindi applicarsi gli articoli 276, 280, 295.

Bibl.: F. Carrara, Programma, ecc. (Parte speciale), Firenze 1906-1909, II, § 1558 segg.; E. Pessina, Elementi di diritto penale, Napoli 1883-85, II, p. 151 segg.; III, p. 37; G. Impallomeni, Codice penale italiano, II, Firenze 1890, p. 111 segg.; F. Tuozzi, Corso di diritto penale, III, Napoli s. d., p. 114 segg.; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV, 2ª ed., Torino 1926, p. 362 segg.; E. Florian, Delitti contro la libertà, in Trattato di diritto penale, III, Milano 1923; A. Negri, Dei delitti contro la libertà, in Trattato del Cogliolo, II, i, Milano 1888, p. 376 segg.; E. Noseda, Dei delitti contro la libertà, in Pessina, Enciclopedia, VI, Milano 1909, p. 237 segg., e amplissima bibliografia a pp. 1113-23; A. Baccaglini, Delitti contro la libertà, in Digesto italiano, XIV, Torino 1902-05, p. 815 segg.; C. Peratoner, Dei delitti contro la libertà, Catania 1891; L. Maino, Commento al codice penale, II, Torino 1911, sub art. 139-158; C. Saltelli e E. Romano Di Falco, Commento del nuovo cod. penale, II, ii, Roma 1930; E. H. Rosenfeld, Verbrechen und Vergehen wider die persönliche Freiheit, in Vergleichende Darstellung des deutschen und ausländischen Strafrechts, Bes. Teil, V, p. 385 segg., e bibliografia ivi; F. W. Tittmann, Beiträge zu der Lehre von den Verbrechen gegen die Freiheit, ecc., Meissen 1806; K. Blackstone, Commentaires sur les lois anglaises, trad. di Chompié, IV, Parigi 1823; A. D. Chauveau-F. Helie, Théorie du code pénal, II, Bruxelles 1845, pp. 107, 251, 508, 515; R. Garraud, Traité théorique et pratique du droit pénal franåais, VI, Parigi 1898-1902, passim. Per il diritto romano: C. Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, in Pessina, Enciclopedia, I, Milano 1905; E. Costa, Crimini e pene da Romolo a Giustiniano, Bologna 1921, pp. 53 segg., 115 segg., 164 segg.; Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Lipsia 1899, pp. 567 segg., 652 segg., 780 segg. e passim; W. Rein, Das Criminalrecht der Römer, Lipsia 1844, p. 386 segg.; T. Levy, Kapitalstrafe, Heidelberg 1931, passim. Per il diritto attico: I. H. Lipsius, Attisches Recht, II, i, Lipsia 1908; U. E. Paoli, Legge e giurisdizione in diritto attico, in Rivista di dir. process. civ., 1926, pp. 1, 105 segg.; id., Studî di diritto attico, Firenze 1930, p. 236 segg.

Delitti contro l'esercizio delle libertà politiche.

Essi sono previsti dall'art. 139 del codice penale del 1889 e dall'art. 294 del codice penale del 1930; in tali articoli non sono compresi i reati elettorali (v. elezioni), che formano oggetto di leggi speciali, come quella elettorale politica del 2 settembre 1928, n. 1993 (art. 108 a 120), e quella comunale e provinciale del 4 febbraio 1915, n. 148 (art. 100 a 116). I reati, a cui si riferiscono i citati articoli 139 e 294, attaccano l'attività giuridica dello stato in uno dei più essenziali fondamenti, cioè nella partecipazione a essa di alcune classi di cittadini: senza tale partecipazione verrebbero meno le istituzioni costituzionali.

Dapprima tali reati furono puniti limitatamente ai casi di corruzione nelle elezioni. Nella Grecia antica, come attestano Demostene e Isocrate, era punito di morte chi, nelle elezioni dei magistrati, vendeva o comprava il voto. In. Roma la lex Boebia, la Calpurnia, la Pompeia e la Iulia de anbitu furono dirette a punire i reati elettorali; la lex Iulia, p. es. minacciò l'aqua et igni interdictio a coloro che si fossero resi responsabili di ambitus (circuizione). Cessate le elezioni popolari, la lex de ambitu si applicò alle elezioni municipali, alla corruzione dei senatori (per le nomine che il senato era chiamato a fare) e delle persone addette al seguito dell'imperatore per la nomina degl'impiegati dello stato.

Nel Medioevo, specialmente nei nostri comuni, i brogli nelle elezioni costituivano reato. Ma successivamente, divenuta prerogativa del principe la nomina dei magistrati, questo reato scomparve, e si punì il mercato dei pubblici impieghi come violazione dei doveri inerenti al pubblico ufficio, o come lesione dell'autorità amministrativa dello stato. Una forma delittuosa di questa specie ammise la Chiesa punendo la simonia (ambitus ecclesiasticus).

Mentre le istituzioni dispotiche in Italia e altrove offuscavano il concetto di diritti di libertà del cittadino, sorsero pubblicisti, quali Grozio, Pufendorf, Blackstone, Spedalieri, Beccaria, Filangieri, a proteggere tali diritti intesi anche in senso di libertà politica. Contemporaneamente le legislazioni americana e inglese diedero l'esempio di uniformarsi a siffatti principî. E su queste basi fu tracciato l'art. 2 della dichiarazione francese dei diritti dell'uomo (20-24 agosto 1789) e successivamente l'art. 109 del cod. Napoleone (1810). Questo articolo merita speciale considerazione, perché, oltre a sancire il rispetto alla libertȧ politica (aux droits civiques cioè diritti politici), mette in rilievo il concetto che l'offesa a tali diritti costituisce délit contre la constitution, non contro l'individuo.

Poco dopo, il cod. napoletano del 1819 con l'art. 166 punì, sotto il titolo dei reati contro le pubbliche amministrazioni, il fatto di chi con vie di fatto o minaccie impedisca altrui l'esercizio de' proprii diritti garentiti dalla legge". E l'art. 190 del cod. sardo del 1859, sotto il titolo dei reati contro la pubblica amministrazione, riprodusse il 109 del cod. francese, che passò nel cod. pen. it. del 1865.

Il cod. del 1889 con l'art. 139, pure copiando in buona parte il codice del 1865, se ne distaccò per due versi:1. ritenendo i reati contro l'esercizio dei diritti politici delitti contro la libertà individuale, perché la tutela del cod. penale "non può togliere al diritto politico l'intima sua essenza, che lo fa derivare non da creazione politica, ma da una prerogativa connaturale dell'uomo", 2. lasciando alle leggi speciali il compito di punire i reati elettorali.

La seconda innovazione era giusta, non la prima. E il codice del 1930 con l'art. 294 corresse la prima collocando questa disposizione sotto il titolo Dei delitti contro la personalità dello Stato.

La ragione della nuova collocazione è evidente in seguito alla mutata concezione dei rapporti tra stato e cittadino secondo la teoria fascista: "la tutela penale dei diritti politici del cittadino deve intendersi stabilita prevalentemente nell'interesse dello Stato; la legge penale, come del resto ogni altra legge di diritto pubblico, non prende in considerazione i diritti o gl'interessi dei singoli cittadini, se non in quanto possano servire come mezzo per assicurare, in ogni campo, l'affermazione incontrastata dei diritti o la reintegrazione integrale degl'interessi dello Stato" (Rocco, Relazione sul prog. del cod. pen., Lavori preparatori, V, parte 2ª, § 318).

La nuova disposizione suona così: "Chiunque con violenza, minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l'esercizio di un diritto politico, ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà, è punito con la reclusione da uno a cinque anni" (art. 294).

Precipua indagine è quella di ben fissare la nozione dei diritti politici, indagine tanto più necessaria quanto generalmente trascurata dai penalisti e talora anche dai compilatori delle leggi.

Gli enti pubblici, persone giuridiche, perché possano avere una volontà e agire conformemente a essa, devono servirsi della volontà e dell'opera di persone fisiche e, talvolta, di altre persone giuridiche. Ciò ottengono in varî modi, fra cui quello di autorizzare, con disposizioni più o meno generali, i cittadini a divenire attivi, in nome e per conto di essi enti, a esercitare una funzione pubblica. Le facoltà che da tali autorizzazioni derivano, costituiscono i diritti politici.

Diritti politici sono non solo i diritti elettorali propriamente detti, garantiti d'ordinario dalle leggi relative, ma anche quelli che, permanentemente o transitoriamente, possono essere concessi ai privati allo scopo di rimettere a una immediata manifestazione di volontà di costoro la decisione di affari di diritto pubblico: referendum (disciplinato dal testo unico sulla municipalizzazione 15 ottobre 1925, n. 2578), plebiscito, diritto di petizione (art. 57 dello statuto), il diritto di attuare la capacità di acquisto della qualità d'iscritto nella lista dei soci di un sindacato professionale, o di concorrere da socio all'elezione del presidente o segretario del sindacato o dei membri del consiglio direttivo (articoli 7 e 8, legge 3 aprile 1926, n. 563).

Alla violazione di questa seconda categoria di diritti politici provvede l'art. 294 del cod. vigente, mentre alcuni codici penali esteri, quali il germanico (§§ 107 a 109), l'ungherese (§ 178 e segg.), l'olandese (art. 125 e segg.), il belga (articoli 137 a 141), il bulgaro (art. 126), il norvegese (articoli 105 a 109) si limitano a garantire i diritti della prima categoria.

Fissati questi concetti, è facile intendere il contenuto del cit. art. 294

Elementi del reato di violazione dei diritti politici sono tre: 1. l'elemento obiettivo, cioè l'impedimento dell'esercizio del diritto politico o l'esercizio in senso difforme dalla volontà del soggetto; 2. il mezzo adoperato (violenza, minaccia, inganno); 3. l'elemento soggettivo, cioè il dolo specifico.

1. Occorre l'impedimento totale o parziale: non basta il turbamento. se l'agente è un pubblico ufficiale che abusa della sua funzione, la pena è aggravata.

2. I mezzi previsti dal codice sono tre: violenza, minaccia, inganno,

La parola violenza, usata in contrapposto di minaccia, sta a significare la violenza di chi la pone, o la fa porre in opera, verso la persona o le persone (soggetti passivi), in modo che ne derivi, se non una lesione o altro danno personale, una coazione fisica, assoluta o relativa. Se concorra lesione o altro reato, si procederà per concorso di reati. La violenza può consistere anche nel ridurre il soggetto passivo in stato d'incapacità a reagire con inebbriamento, ipnotizzamento, cloroformizzazione, ecc., come nel produrre su di lui tale impressione da farlo allontanare, come col versamento di materia velenosa o asfissiante o nauseante.

La minaccia si attua col prospettare al soggetto passivo un male (lesione o messa in pericolo di un diritto soggettivo, o di un grave interesse legittimo), che sia ingiusto, non potendo costituire reato l'esercizio del proprio diritto. Mezzo previsto dal codice del 1930 è anche l'inganno. Così il legislatore del 1930 ha colmato una evidente lacuna del codice del 1889, che lasciava impunito il fatto, se il mezzo adoperato fosse stato, anziché la violenza, la frode.

Se l'agente è un pubblico ufficiale, ond'egli sia passibile della pena aggravata, occorre che abusi delle proprie funzioni, cioè commetta un eccesso di potere, considerato questo sia in sé stesso, sia nei suoi limiti.

3. Essenziale elemento è il dolo specifico, cioè l'intenzione d'impedire ad altri l'esercizio di un diritto politico, o di determinare altri a compierlo in modo difforme dalla sua volontà, e tale elemento vale a differenziare il reato in esame dai delitti affini di violenza privata e di minaccia.

Ove i mezzi dolosamente adoperati non raggiungano la finalità propostasi dall'agente, saranno applicabili le disposizioni relative ai reati tentati, giacché è generalmente ammesso che il reato in esame sia reato materiale, non formale.

Bibl.: A. Angiolini, Impedimento all'esercizio dei diritti politici, in Enc. giuridica italiana, VIII, i, Milano 1902; A. Baccaglini, Delitti contro la libertà, in Digesto italiano, XIV, Torino 1902-05, n. 22; P. Bouchaud, Recherches sur la loi Julia de ambitu, Parigi 1877; F. Celentano, Manuale del presidente di seggio elettorale, Napoli 1904, p. 302 segg.; F. Durante, Attentato all'esercizio dei diritti politici, in Digesto italiano, IV, parte 2ª; E. Florian, Delitti contro la libertà, Milano 1923; E. Gentile, Le elezioni e il broglio nella Repubblica romana, Milano 1870; F. Lombardi, L'art. 139 cod. pen., nella sua pratica attuazione, in Cass. un., VII (1896), p. 161; G. Leto, Reati elettorali, in Scuola pos., III (1893), p. 538; A. Negri, Delitti contro la libertà, in Cogliolo, Completo trattato teorico e pratico di diritto penale, II, i, Milano 1888, p. 379 segg.; E. Noseda, Dei delitti contro la libertà, in Encicl. giur., VI (1909), p. 233 segg.; C. Peratoner, Dei delitti contro la libertà, Catania 1891; G. Santangelo, Ambitus, in Encicl. giur., I, ii, p. 1922 segg.; I. Tambaro, I delitti contro le libertà politiche, in Cass. un., VIII (1897), p. 1153 segg.

Delitti contro la libertà dei culti.

Nei più antichi stadî della civiltà, nei quali non si distingue ancora tra il fas e il ius, tra il santo e il giusto, il diritto, così nel suo contenuto come nella forma, è materiato quasi esclusivamente di prescrizioni sacrali, rituali e liturgiche, e la legge medesima è un testo sacro, custodito, interpretato e applicato dalla classe sacerdotale. La trasgressione dei precetti religiosi, ancora confusa con quella dei precetti giuridici, è considerata ora come offesa all'idea del divino, ora come offesa al popolo, ora come crimen maiestatis. In questo senso ampio e impreciso si riscontrano reati contro la religione nel diritto braminico (codice di Manu), egiziano, greco, ebraico. Nel Pentateuco gravi pene sono stabilite contro gl'idolatri, i falsi profeti, gli offensori del culto di Iahvé. Nell'epoca pagana di Roma la religione ha carattere prevalentemente politico, sicché la repressione penale sorge in quanto è messo in pericolo un interesse dello stato. I culti stranieri sono proibiti se pericolosi alla pubblica moralità o all'ordine pubblico, e sotto questo riflesso sono puniti coloro che li professano. Il rifiuto di eseguire atti di culto ordinati dal principe costituisce trimen maiestatis e appunto come rei di lesa maestà vengono condannati i cristiani. La violatio sepulchri ha carattere religioso, in quanto i sepolcri sono dai Romani considerati res religiosae. Punito gravemente è anche il sacrilegium, ossia il furto di cose sacre. I reati di religione veri e proprî sorgono nel sec. IV d. C., quando il cristianesimo diviene la religione di Roma, con le costituzioni degl'imperatori Costantino, Leone, Giustiniano.

Nel diritto penale barbarico si occupano specialmente dei delitti contro la religione gli editti di Teodorico e Atalarico e di Rotari e le leggi salica, ripuaria, bavarica, visigotica.

Ampio sviluppo hanno i delitti contro la religione nel periodo della maggiore potenza della Chiesa dal sec. XI al XIV, da Gregorio VII a Bonifacio VIII, finché, col ricostituirsi dello stato, il potere civile, favorito dal movimento della Riforma, riesce ad affermare la sua indipendenza da quello ecclesiastico, dal secolo XIV al XVIII. Si giunge così, attraverso il giurisdizionalismo del sec. XVIII, al concetto della separazione, più o meno netta secondo le varie concezioni politiche, tra Stato e Chiesa, tra potere civile e potere ecclesiastico, separazione che parve, allora, il mezzo più efficace per garantire la libertà di coscienza dei singoli e delle associazioni religiose.

A questa concezione politica si riannoda il codice penale italiano del 1889, che, derivato in parte dalle teorie della rivoluzione francese ed elaborato in un periodo di dissidio fra lo Stato italiano e la S. Sede, si limita a concepire come oggetto dei delitti contro la libertà dei culti non la religione, ma il diritto del singolo e delle comunanze religiose di professare una credenza religiosa fra quelle ammesse nello stato e di non essere turbato nell'esercizio del culto. In base alla nota formula "libere chiese in libero stato" e alla dottrina liberale, il codice del 1889 era sostanzialmente ispirato a questi tre concetti: agnosticismo dello stato in materia religiosa; punizione dei delitti contro la libertà dei culti in quanto lesivi di un diritto dell'individuo; trattamento delle offese al culto cattolico alla stessa stregua delle offese agli altri culti ammessi, ossia non contrarî all'ordine pubblico, sociale e politico. In altri termini, lo stato, almeno dal punto di vista del diritto penale, considerava ugualmente tutti i culti ammessi, rifiutando la distinzione fra religione dello stato e culti tollerati (art. 1 dello statuto).

La dottrina fascista, che fin dal suo sorgere ha proclamato l'altissima importanza dei valori spirituali e religiosi, non poteva accettare quest'ordine di idee. Già nel decreto-legge 15 luglio 1923, n. 3288, sulla gerenza e vigilanza dei giornali, si tornava a parlare di "vilipendio alla religione dello stato" (art. 2); e la legge di pubblica sicurezza (testo unico, 6 novembre 1926) puniva la bestemmia e le offese pubbliche ai culti ammessi nello stato, comminando una più grave pena "se si tratti di offese al culto cattolico". Il trattato del Laterano, stipulato l'11 febbraio 1929 tra l'Italia e la S. Sede, riconosceva, infine, la religione cattolica, apostolica, romana come religione ufficiale dello stato.

Il codice penale del 1930 concepisce, pertanto, la religione come un interesse generale, pertinente, oltre che all'individuo, alla società; come un interesse giuridico collettivo che lo stato tutela penalmente come valore morale e spirituale e anche per il raggiungimento dei fini etici proprî dello stato medesimo. Siffatta concezione spiega, anzitutto, l'autonomia del titolo "Dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti", diviso in due capi: "Dei delitti contro la religione dello stato e i culti ammessi" e "Dei delitti contro la pietà dei defunti". Questi ultimi (violazione di sepolcro, vilipendio di tombe, di cadavere, ecc. - articoli 407-413) attengono alla violazione del sentimento di venerazione verso i defunti e sono ben distinti dai delitti contro la religione.

Lo stato fascista, mentre riconosce la piena libertà di coscienza e l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, qualunque sia la religione professata, conferisce tuttavia alla religione ufficiale dello stato una condizione di speciale prestigio, tenuto conto che essa è quella dell'immensa maggioranza dei suoi cittadini e avuto riguardo alla posizione storica che la Chiesa cattolica, nella sua vita due volte millenaria, ha acquistato in Italia; sicché i delitti contro i culti ammessi sono puniti con pene alquanto inferiori rispetto ai delitti contro il culto cattolico (art. 406) e il reato di pubblico vilipendio alla religione concerne soltanto la cattolica (art. 402).

Altri delitti, con l'avvertenza di cui sopra circa la pena, attengono così alla religione ufficiale come ai culti ammessi, e precisamente: a) l'offesa pubblica alla religione mediante vilipendio di chi la professa (art. 403. prima parte). La nozione della pubblicità è data nell'art. 266. Se l'offesa alla religione dello stato è commessa mediante vilipendio di un ministro del culto cattolico, la pena è maggiore e non è richiesta, come elemento costitutivo del reato, la pubblicità; b) l'offesa alla religione mediante vilipendio di cose che formano oggetto di culto, o consacrate al culto, o destinate necessariamente all'esercizio del culto, quando il fatto avviene in luogo destinato al culto, o pubblico, o aperto al pubblico, ovvero in occasione di funzioni religiose compiute, anche in luogo privato, da un ministro del culto cattolico (art. 404); c) l'impedire o turbare l'esercizio di funzioni, cerimonie e pratiche religiose, le quali si compiano con l'assistenza di un ministro del culto, o in luogo destinato al culto, o pubblico, o aperto al pubblico. Se concorrano fatti di violenza alle persone o di minaccia, la pena è più grave (art. 405). Per l'impedimento e turbamento di un funerale civile o di un servizio funebre civile provvede l'art. 409.

Costituisce contravvenzione il bestemmiare pubblicamente, con invettive o parole oltraggiose, contro la divinità o i simboli o le persone venerate nella religione dello stato (art. 724). Tuttavia, quando ricorre il dolo nel vilipendere la religione, il fatto potrà costituire il delitto preveduto nell'art. 402, o, eventualmente, altro dei delitti di cui agli articoli 403, 404 o 405. I fatti che, sia pure impropriamente, potrebbero qualificarsi come bestemmie contro i culti ammessi potranno essere punibili come turpiloquio (art. 726).

Lo stato si mantiene estraneo, almeno dal punto di vista della repressione penale e in quanto, beninteso, non ne derivi altrimenti la violazione di altre norme penali o dell'ordine pubblico, così ai fatti la punizione dei quali contrasterebbe con il riaffermato principio della piena libertà di coscienza, come ai fatti concernenti il cosiddetto organismo interno della religione. Tra i primi sono da ricordare: l'apostasia, diserzione dalla religione di Cristo; l'eresia, rinnegazione di alcuno dei dogmi della Chiesa cristiana; lo scisma, diserzione dalla religione cattolica e fondazione di un culto separato, anche se si conservi la fede nei dogmi della Chiesa cattolica, apostolica, romana; il proselitismo, ossia la predicazione, la propaganda di dogmi empî, ecc. E tra i secondi: la simulazione di sacerdozio, o indebita assunzione delle funzioni spettanti ai ministri del culto; il matrimonio dell'ordinato o del professo; il concubinato dei chierici; la violata clausura, ossia il contatto di persone di sesso diverso appartenenti a ordini monastici, ecc.

Storicamente sono da ricordare, ancora come delitti contro la religione: il sortilegio, o magia, o stregoneria; la simonia, o traffico delle cose spirituali, dei benefici e delle cariche ecclesiastiche; lo spergiuro, considerato come offesa alla divinità; secondo alcuni, l'usura; ecc.

Tuttavia, se i fatti su enunciati non sono più puniti come reati contro la religione, perché attraverso l'elaborazione giuridica si sono svincolati dalla concezione di offesa alla divinità che prevalentemente li informava, non pochi di essi sono puniti sotto altro titolo, come avviene, ad es., per il falso giuramento, il porto abusivo in pubblico dell'abito ecclesiastico, l'usura (art. 371 segg., 498, 644 cod. pen. del 1930). E talora l'ordinamento italiano attribuisce effetti giuridici a talune condizioni derivanti dall'accertamento dei fatti suesposti, compiuto dalle autorità ecclesiastiche, come, ad es., quando stabilisce che i sacerdoti apostati o irretiti da censura non possono essere assunti, né conservati, in un insegnamento, in un ufficio o in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico (art. 5 del concordato tra l'Italia e la S. Sede).

Bibl.: P. Tuozzi, Intorno ai delitti contro la libertà dei culti, Suppl. alla Rivista penale, V, 1896-97, p. 65 segg.; F. Campolongo, I delitti contro la religione e la pietà dei defunti, Napoli 1930.

Libertà provvisoria e scarcerazione.

Sono due istituti processuali che servono a regolare lo stato di libertà personale degl'imputati di determinati reati, già arrestati durante l'istruzione del processo, fino alla pronunzia della sentenza. Essi hanno il loro fondamento in evidenti ragioni di politica convenienza e di stretta e rigorosa giustizia, che facilmente si riassumono nella necessità di evitare che la detenzione preventiva di chi è sottoposto a procedimento penale possa eventualmente superare la pena che lo potrà colpire quando la sentenza definitiva del magistrato lo avrà riconosciuto responsabile del reato che gli si ascriveva; o per impedire che soffra un'ingiusta privazione di libertà colui a cui favore durante l'istruzione si affievoliscono gli indizî o le prove che in un primo momento avevano condotto al suo arresto e che si presume possa essere assolto o possa vedere degradata la sua responsabilità a figura di reato più mite e per cui non siano consentiti i rigori della carcerazione preventiva.

La libertà provvisoria, in sostanza, non è che quel particolare regime di libertà, soggetta a speciali vincoli, in cui viene a trovarsi un individuo imputato di determinati reati, e già in istato di arresto in seguito a regolare mandato di cattura emesso dal giudice che istruisce il processo. Quando cioè non è più ritenuta indispensabile la custodia preventiva dell'imputato ai fini del processo, con provvedimento del giudice, d'ufficio, o a richiesta del pubblico ministero o dell'interessato, e sottoponendo eventualmente a condizioni (cauzione o malleveria) la liberazione stessa, può ordinarsi l'ammissione dell'imputato al beneficio della libertà provvisoria. Ciò può avvenire in ogni stato dell'istruzione o grado del giudizio, escluso il giudizio di cassazione (art. 278 cod. proc. penale).

Sono esclusi dal beneficio della libertà provvisoria gl'imputati di reati contro la personalità dello stato, di omicidio, di lesioni personali gravi o gravissime, di rapina o di ogni altro delitto punibile con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci o con una pena più grave (art. 253 cod. proc. pen.). Il beneficio in parola può esseie revocato, se l'imputato violi gli obblighi che gli sono stati imposti, se si sia dato o sia per darsi alla fuga; e si dispone altresì la devoluzione alla cassa delle ammende della cauzione o della somma fissata per la malleveria, a meno che, nei dieci giorni dalla notifica di questi provvedimenti, l'imputato e il fideiussore non giustifichi con motivi di forza maggiore il mancato adempimento degli obblighi (articoli 292, 293 cod. proc. pen.). Invece, il soddisfacimento di tutte le condizioni libera i fideiussori e dà diritto alla restituzione della cauzione, detratte, nel caso di condanna, le spese di mantenimento in carcere per il tempo di custodia preventiva o per sanzioni disciplinari pecuniarie, a norma dell'art. 627 del cod. di proc. pen.

La scarcerazione dell'imputato è pronunziata d'ufficio, dal pubblico ministero se da lui è stata ordinata la cattura, o dal giudice (o pretore) che procede all'istruzione, dopo l'interrogatorio e anche su istanza del pubblico ministero o dell'imputato, quando vengano a mancare a carico di questo indizî sufficienti, ovvero se risulta che la legge non autorizzava il mandato di cattura.

Se la scarcerazione è ordinata per mancanza di sufficienti indizî, ma rimangono motivi di sospetto, può essere imposto all'imputato uno o più obblighi fra quelli imposti a chi è ammesso al beneficio della libertà provvisoria, cioè il divieto di dimorare in un dato luogo, o in un determinato comune, lontano dai luoghi dove fu commesso il reato o nei quali il denunciante, il querelante o la persona offesa dal reato, o alcuno dei suoi prossimi congiunti o lo stesso imputato ha la residenza, ovvero l'obbligo di prestare cauzione o malleveria.

La cauzione consiste nel deposito, alla cassa, delle ammende di una somma in denaro o in titoli di stato, ovvero nell'iscrizione d'ipoteca su immobili idonei a garantire il doppio della somma iscritta. La malleveria consiste nell'obbligazione che l'imputato assume, con il concorso di uno o più fideiussori idonei e solidali, di pagare la somma stabilita a titolo di cauzione (articoli 282, 283, 284 cod. proc. pen.). L'ammontare della cauzione o della malleveria è fissata dal giudice in misura tale da costituire per l'imputato un ritegno all'infrazione degli obblighi impostigli.

È, poi, lasciato al prudente apprezzamento del giudice accertare se le condizioni dell'imputato che chiede il beneficio della libertà provvisoria, o per cui si deve disporre la scarcerazione, non gli consentano di prestare cauzione o malleveria. In questo caso il giudice può imporre, in sostituzione di questa, l'obbligo di presentarsi periodicamente all'ufficio di polizia giudiziaria, indicato nell'ordinanza, in giorni e ore prestabilite, avuto riguardo alle occupazioni dell'imputato stesso e alla distanza della sua residenza dal luogo della presentazione.

Se nel corso del procedimento viene a cessare o diminuire la garanzia che proviene dalla malleveria, l'imputato è avvertito a presentare nuovi fideiussori nel termine perentorio di dieci giorni, scaduti infruttuosamente i quali si procederà nuovamente al suo arresto.

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