LIBERTA UMANA, CAUSALITA, NEUROETICA

XXI Secolo (2009)

Libertà umana, causalità, neuroetica

Mario De Caro

Il dibattito su libertà e responsabilità tra filosofia e scienza

A chi domandasse se in questo primo scorcio di secolo la discussione sui venerandi enigmi del libero arbitrio e della responsabilità morale sia stata segnata da un tema dominante, non si potrebbe che dare una risposta affermativa. Una questione ha suscitato, infatti, grande attenzione: ovvero quali siano le conseguenze che, a livello filosofico, vanno tratte dagli ingenti risultati raggiunti negli ultimi anni dalle scienze che studiano il mondo umano, con particolare riguardo alle neuroscienze, le scienze cognitive e la sintesi neodarwiniana (che al suo interno, oltre alla teoria dell’evoluzione, include anche la genetica). Più specificamente, la domanda è se – e nel caso con quali modalità e in quale misura – le nuove acquisizioni scientifiche lascino ancora aperta la possibilità di concepire gli esseri umani come dotati di libertà e di responsabilità per le azioni che essi appaiono compiere intenzionalmente. È così tornato in auge un metodo classico di sviluppare la discussione filosofica sulla libertà e la responsabilità umane: il metodo che si impernia sul confronto delle nostre più profonde intuizioni riguardo a noi stessi con le acquisizioni scientifiche sulla struttura nomologico-causale del mondo naturale di cui, in quanto esseri fisici, anche noi facciamo parte. Tale metodo di indagine era già stato utilizzato da molti dei maggiori filosofi dell’età moderna (si pensi, per es., a René Descartes, a ­Gottfried Leibniz, a David Hume e a Immanuel Kant), ma negli ultimi anni del Novecento esso era stato sostanzialmente subordinato – secondo i canoni metodologici della filosofia analitica classica – a una diversa strategia, che s’incentrava sulla pura analisi concettuale e, dunque, ignorava le indicazioni che arrivavano dal campo scientifico.

Recentemente John R. Searle, autorevole pensatore contemporaneo, ha brillantemente condensato il senso della sfida che le scienze pongono attualmente alla filosofia. A giudizio di Searle, il compito fondamentale che i filosofi si trovano oggi davanti è quello di comprendere «come possiamo far rientrare la concezione di noi stessi in quanto agenti dotati di mente, e che possono creare significati e sono liberi e razionali, in un universo che consiste interamente di brute particelle fisiche, che non hanno mente, né significato, né libertà, né razionalità» (Searle 2007, p. 5). In altri termini, la questione fondamentale è come si possa conciliare la prospettiva secondo la quale il pensiero e l’agire umani vanno visti come manifestazioni dell’intrinseca intenzionalità, della libertà e della razionalità della mente umana – una prospettiva propria del senso comune, della maggior parte della tradizione filosofica e di buona parte delle scienze umane – con il punto di vista adottato dalle scienze della natura, secondo cui gli esseri umani, essendo composti esclusivamente da particelle materiali, possono godere soltanto di proprietà che, in linea di principio, sono esplicabili per mezzo dell’apparato concettuale delle scienze della natura.

In questo saggio verranno prima discussi alcuni dei più significativi tentativi recenti di studiare la questione del libero arbitrio utilizzando, generalmente con ambizioni riduzionistiche o eliminazionistiche, lo strumentario teorico-sperimentale delle neuroscienze. Quindi si analizzeranno due ambiziose proposte di interpretazione delle categorie della morale con strumenti tratti dalle neuroscienze e dalla teoria dell’evoluzione. In conclusione, si prenderanno in esame alcune concezioni del libero arbitrio e della responsabilità morale che, pur assumendo un punto di vista naturalistico, non hanno ambizioni riduzionistiche né eliminazionistiche.

Libero arbitrio e neuroscienze

Il contributo più discusso tra quelli che le neuroscienze hanno apportato al dibattito sul libero arbitrio è certamente quello di Benjamin Libet, neurofisiologo scomparso nel 2007, già in servizio alla Stanford university. Questo scienziato ha fornito una presentazione complessiva di una lunga serie di pionieristici esperimenti da lui escogitati, al fine di studiare i meccanismi sottostanti ai processi decisionali e il rapporto tra il livello della decisione consapevole e quello dei processi neurali sottostanti (Libet 2004). Nel più celebre dei suoi esperimenti, Libet chiede al soggetto sperimentale di compiere un semplice movimento come la flessione di un dito; questo movimento deve essere compiuto spontaneamente, quando il soggetto abbia avvertito l’impulso a compierlo. Allo stesso tempo, il soggetto deve controllare, usando uno speciale orologio, il momento esatto in cui avverte l’impulso a flettere il dito; nel frattempo, un’apparecchiatura misura l’attività elettrica del suo cervello. Sulla base di centinaia di ripetizioni dell’esperimento, Libet ha osservato che il soggetto avverte l’impulso a flettere il dito circa 200 millisecondi prima dell’azione. Il dato più interessante, tuttavia, è che 550 millisecondi prima del compimento di quest’azione (e dunque 250 millisecondi prima che il soggetto sia consapevole dell’impulso a flettere il dito) nel suo cervello si verifica un rilevante incremento dell’attività elettrica (readiness potential, ovvero ‘potenziale di prontezza’) che, come mostra l’analisi statistica, è causalmente correlato all’esecuzione dell’azione. Tutto ciò dovrebbe indurci a concludere, secondo Libet, che l’atto volizionale in realtà ha una causa inconscia e, dunque, non può essere definito libero nel senso che la tradizione filosofica ha dato a questo termine. Al soggetto resta però, secondo lo scienziato, una sorta di ‘libertà di veto’, nel senso che nei 200 millisecondi che separano la consapevolezza dell’impulso a piegare il dito e l’effettivo compimento di quest’azione l’agente può decidere di interrompere la catena causale che porterebbe a tale azione. Molti interpreti, tuttavia, sono stati più radicali di Libet e hanno concluso che i suoi esperimenti dimostrano, o almeno suggeriscono, l’infondatezza dell’idea tradizionale del libero agire nel suo complesso.

In realtà varie ragioni dovrebbero invece portarci a ritenere che gli esperimenti di Libet, per quanto interessanti e certo degni di analisi, non hanno conseguenze tanto ovvie per quanto riguarda la vexata quaestio del libero arbitrio. In primo luogo, bisogna considerare che un imponente orientamento della filosofia occidentale ha sostenuto che la libertà è perfettamente compatibile con la determinazione e, anzi, secondo molti, addirittura la richiede. L’argomento è, nella sostanza, semplice: ciò che veramente conta nella nostra intuizione della libertà è che il soggetto possa fare quanto vuole fare; e, in questo senso, è irrilevante che la sua volontà possa essere predeterminata (come, secondo molti, gli esperimenti di Libet dimostrerebbero). Contro questa concezione detta compatibilismo sono state mosse rilevanti obiezioni: ciò non significa però che la si possa placidamente ignorare, come fanno invece quanti sulla base degli esperimenti di Libet concludono immediatamente che la libertà umana non esiste. Un analogo discorso si può fare per la famiglia di concezioni del libero arbitrio che si richiamano a Kant: secondo questo punto di vista, il discorso sulla libertà non va collocato al livello fenomenico, ma a quello noumenico, e, a questo livello, la libertà si dimostra condizione di possibilità della responsabilità morale e dell’imperativo categorico e, dunque, la sua realtà non può in alcun modo essere posta in dubbio. In tempi recenti sono stati sviluppati autorevoli tentativi di riprendere questa concezione in una direzione naturalistica lato sensu (per es., da parte di Peter Strawson e John McDowell): e anche queste proposte non possono essere ignorate da chi voglia sostenere che gli esperimenti di Libet dimostrano l’illusorietà del libero arbitrio.

Ma alla tesi che gli esperimenti di Libet dimostrino l’illusorietà del libero arbitrio si possono muovere anche obiezioni più specifiche. Così, tali esperimenti si prestano ad alcune obiezioni metodologiche: è corretto, per es., equiparare la valutazione soggettiva delle esperienze coscienti con la misurazione oggettiva degli eventi neurali? E in che senso l’azione di piegare il dito ‘spontaneamente’ può essere considerata il paradigma dell’azione libera? Inoltre, come va interpretato esattamente il cosiddetto potenziale di prontezza? Tuttavia le obiezioni più importanti sono altre due. Innanzitutto, l’esperimento sembra presupporre un’analisi fenomenologica poco accurata dei processi volitivi. Come argomentato in modo convincente da Maxwell Bennett e Peter Hacker (2003), infatti, l’esperimento di Libet si incentra sul momento in cui nel soggetto insorge la consapevolezza dell’impulso a piegare il proprio dito: in realtà, tuttavia, il darsi di tale impulso non è né condizione necessaria né condizione sufficiente di un’azione volontaria. Non è condizione necessaria (e dunque possono esserci azioni volontarie senza l’impulso a compierle) perché spesso quando compiamo volontariamente un’azione non avvertiamo alcun impulso a compierla: si pensi a quando, guidando, sterziamo per curvare, o a quando mangiando portiamo una posata verso la bocca o, ancora, a quando pronunciamo intenzionalmente una frase durante una normale conversazione.

D’altra parte, la presenza dell’impulso ad agire non è nemmeno sufficiente per agire volontariamente: spesso, infatti, un tale impulso precede azioni non volontarie, come quando ci viene da starnutire o quando sbadigliamo di fronte a un interlocutore poco brillante. Inoltre, chi interpreta gli esperimenti di Libet come se dimostrassero che le nostre azioni apparentemente volontarie discendono in realtà da cause inconsce dimentica che in realtà prima dell’attivazione del ‘potenziale di prontezza’ si dà un altro momento causalmente molto rilevante ai fini del compimento dell’azione, ossia il momento in cui il soggetto sperimentale accetta di seguire le indicazioni dello sperimentatore. Può darsi che anche tale momento abbia dei determinanti inconsci, ma nulla nell’esperimento di Libet prova che le cose stiano così; dunque, sino a quando non verranno portate prove in questo senso, i fautori del libero arbitrio saranno autorizzati a sostenere che, nella situazione sperimentale libetiana, una decisione volontaria del soggetto inizia la catena causale che lo porta a piegare il dito (in questo senso si potrebbe persino ipotizzare che sia quella decisione a causare l’insorgere del potenziale di prontezza).

Dopo gli esperimenti di Libet un gran numero di ricerche è stato dedicato, in campo neurofisiologico, a temi legati alla questione del libero arbitrio e alla dinamica dei processi decisionali. Molto discusso, in questo senso, è stato il volume The illusion of conscious will (2002) dello psicologo della Harvard university Daniel M. Wegner; una concezione per molti aspetti simile a quella di Wegner, ma con molta attenzione alla teoria dell’evoluzione oltre che alle neuroscienze, è stata sviluppata da Daniel C. Dennett (2003). La tesi di Wegner è che l’esperienza fenomenologica della volontà cosciente – per mezzo della quale noi ci consideriamo autori delle nostre azioni – è in realtà ingannevole, nel senso che noi ci illuderemmo di causare le azioni che compiamo, ma l’efficacia causale sarebbe propria soltanto dei processi cerebrali che per loro natura sono, e sempre rimarranno, inconsci. A sostegno della sua tesi, Wegner porta un notevole numero di esperimenti: nondimeno, va notato, la sua rimane un’audace estrapolazione dal particolare al generale. Inoltre, per buona parte, i casi studiati da Wegner riguardano (come già capitava nel caso degli esperimenti di Libet) situazioni estremamente artificiose, costruite in laboratorio, e non situazioni reali, in cui i processi di deliberazione riguardano cose che ci stanno veramente a cuore e che dunque ponderiamo attentamente. Un’altra obiezione contro le argomentazioni di Wegner è che egli assume una tesi fenomenologicamente dubbia, poiché attribuisce al senso comune (e alla filosofia) la tesi che le azioni volontarie siano causate dagli stati coscienti che abbiamo nel momento in cui pensiamo di causarle. In realtà, una cosa sembra essere la causazione volontaria delle azioni, un’altra la nostra consapevolezza di tale causazione: e non è affatto detto che le due coincidano.

Ancora più recentemente, nella linea delle ricerche di Libet è stato pubblicato su «Nature neuroscience» un articolo, già molto dibattuto, scritto da un gruppo di scienziati che operano in Germania e in Belgio, dal significativo titolo di Unconscious determinants of free decisions in the human brain (Soon, Brass, Heinze et al. 2008). Questi autori hanno studiato, sulla base di una sofisticata tecnica statistica (la pattern recognition), l’attività cerebrale associata con una scelta, apparentemente libera, operata dai soggetti sperimentali. Già il brevissimo abstract dell’articolo mostra le ambizioni riduzionistiche che animano questo progetto; esso, anzi, può essere considerato una sorta di manifesto dell’intero movimento che si propone di dare conto in maniera esaustiva della questione del libero arbitrio con strumenti di carattere neurofisiologico. Tale abstract merita dunque di essere riportato nella sua interezza: «C’è stata una lunga controversia concernente la possibilità che le decisioni soggettivamente ‘libere’ siano determinate da attività cerebrali che le precedono. Noi abbiamo verificato che il risultato di una decisione può essere codificato nell’attività cerebrale della corteccia prefrontale e parietale sino a 10 secondi prima che esso raggiunga la consapevolezza. Questo ritardo presumibilmente riflette l’operazione di una rete di aree di controllo di alto livello che cominciano a preparare una decisione imminente ben prima che essa raggiunga la consapevolezza» (p. 543).

La conclusione degli autori è che la nostra decisione conscia, e apparentemente libera, di compiere un’azione può essere preceduta di ben dieci secondi da eventi cerebrali che determinano causalmente quell’azione (con un intervallo temporale, dunque, di più di trenta volte maggiore di quello ipotizzato da Libet). L’esperimento che gli autori portano a sostegno della loro tesi richiedeva ai soggetti sperimentali di rilassarsi mentre tenevano il dito indice e quello medio poggiati su due pulsanti e fissavano il centro di uno schermo, sul quale scorreva una serie di lettere dell’alfabeto. Veniva poi richiesto loro di scegliere liberamente, quando avvertivano un impulso in tal senso, se premere il pulsante destro o quello sinistro, verificando quale lettera appariva in quel momento sullo schermo; nel frattempo gli sperimentatori misuravano, per mezzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI, functional Magneting Resonance Imaging), la risposta emodinamica del cervello dei soggetti. Il risultato sorprendente è stato che, sulla base della risposta emodinamica cerebrale che anticipava ampiamente (sino a 10 secondi) la decisione consapevole da parte dei soggetti, gli sperimentatori erano in grado di prevedere con un margine del 60% di accuratezza se la loro decisione sarebbe stata quella di premere il bottone destro o il sinistro.

Questo esperimento è certamente molto interessante e, da un punto di vista metodologico, più sofisticato degli esperimenti, comunque importanti, di Libet. La questione da porsi, tuttavia, è se esso sia in grado di provare, o almeno di suggerire, che le nostre intuizioni sul libero arbitrio siano illusorie, come abstract e titolo dell’articolo suggeriscono. In proposito, peraltro, va ricordato che la tesi secondo cui tutto il nostro agire è causalmente determinato (ovvero è necessitato dagli eventi del passato in accordo con le leggi di natura) è stata maggioritaria nel mondo occidentale sin da quando si affermò la nuova scienza di Galileo Galilei e di Isaac Newton. In questo senso, allora, se anche si dimostrasse che le decisioni degli esseri umani sono determinate neurofisiologicamente, le implicazioni che ciò avrebbe per il libero arbitrio non sarebbero inattese. D’altra parte, anche per questo articolo si può ripetere quanto detto riguardo a Libet, ossia che vi sono tradizioni filosofiche assai importanti, per le quali l’eventuale determinazione del nostro agire non comporterebbe ipso facto la negazione della nostra libertà. Ma alla tesi principale dell’articolo si possono opporre anche obiezioni più specifiche. In primo luogo, come detto, secondo questo esperimento un determinato pattern neurologico predice con un 60% di accuratezza se la decisione che i soggetti prenderanno sarà quella di premere il bottone destro o il sinistro. Tale risultato è evidentemente significativo, dal punto di vista statistico; tuttavia, esso non sarebbe di per sé in grado di compromettere l’idea di libertà, persino se i risultati di questo esperimento si potessero applicare a tutte le decisioni umane (il che, naturalmente, è da dimostrare). Non vi è infatti alcuna ragione di credere (né mai nessun filosofo lo ha fatto) che gli esseri umani siano integralmente liberi, né che tutte le scelte che essi compiono possano dirsi libere. Tutt’al più, l’esperimento mostra che nel 60% dei casi i soggetti sono determinati nelle loro decisioni; resta dunque un 40% di indeterminazione: una percentuale comunque rilevante della quale chi voglia continuare a difendere l’idea della libertà può tranquillamente accontentarsi. Inoltre, contro la tesi dell’articolo si può avanzare un’importante critica già accennata a proposito degli esperimenti di Libet, ovvero che le relative situazioni sperimentali non sono affatto tipiche delle azioni libere. Anche durante questo esperimento, infatti, veniva chiesto ai soggetti sperimentali di notare quando essi sentivano l’impulso a premere il bottone destro oppure quello sinistro. Come già detto nel caso di Libet, tuttavia, una corretta analisi fenomenologica mostra che sentire l’impulso a compiere una determinata azione non è né condizione necessaria, né condizione sufficiente per compiere un’azione libera.

L’indagine scientifica sulla moralità

Che la neurofisiologia possa contribuire in modo decisivo a illuminare senso, modalità e finalità dell’etica è tesi che incontra oggi grande fortuna. Anzi, come capita spesso nei casi in cui si intravede la possibilità di notevoli successi conoscitivi, questo progetto ha anche dato vita a una nuova scienza, o meglio alla ridefinizione di una scienza appena nata: la neuroetica. Quando fu fondata, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, la neuroetica non era altro che una branca della bioetica applicata alle neuroscienze: affrontava cioè temi di ovvia rilevanza morale, come i limiti che la chirurgia e le terapie ­neurologiche non dovrebbero superare. Oggi, tuttavia, molti pensano che si dovrebbe dare alla neuroetica un senso ulteriore, legandola ai temi della riflessione morale (Boella 2008). In questo senso, una posizione radicale è espressa da Michael Gazzaniga (2005) – neurofisiologo di fama internazionale per i suoi studi sui cosiddetti split brains e autorevole membro del Council on bioethics insediato dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush – che ha esplicitamente sostenuto che la neuroetica è il campo in cui le questioni morali possono essere affrontate investigando i loro corrispettivi neurologici: «abbiamo bisogno di una bussola morale» ha dichiarato Gazzaniga in un discorso alla New York academy of sciences «e le neuroscienze hanno qualcosa da dire rispetto alle importanti questioni morali da cui tutti siamo toccati» (http://www.nyas.org/publications/readersRport.asp?articleID=32; 4 marzo 2009). Ambiziosamente, dunque, Gazzaniga non si propone unicamente di spiegare la genesi neurofisiologica delle pratiche morali (il che, in effetti, potrebbe anche essere un obiettivo ragionevole), bensì di contribuire, con la bussola delle scoperte neurofisiologiche, alla risoluzione dei dilemmi morali. Un tale progetto, tuttavia, si presta ad alcune rilevanti critiche di carattere filosofico.

In particolare, ignorando in buona misura il secolare dibattito sul libero arbitrio e la responsabilità morale, Gazzaniga afferma che presto – semplicemente guardando ai dati neurofisiologici – sarà possibile prevedere le decisioni e i comportamenti degli individui. E ciò, naturalmente, non potrà che scuotere la concezione tradizionale della responsabilità morale. In secondo luogo, egli ritiene che i correlati neurofisiologici dell’empatia e, in generale, dei comportamenti altruistici e morali, siano la chiave d’accesso per affrontare in modo fecondo le questioni dell’etica. Che l’etica abbia una base neurologica, in effetti, appare plausibile e gli studi sui neuroni specchio del gruppo parmense di Giacomo Rizzolatti, Vittorio Gallese e Leonardo Fogassi aprono orizzonti molto interessanti sul tema. La domanda che dobbiamo porci, tuttavia, è se la determinazione dei correlati neurologici dell’empatia e degli atteggiamenti morali possa contribuire a risolvere i dilemmi morali. Consideriamo un esempio. Alcuni individui pensano che l’aborto sia immorale, mentre altri che non lo sia. Concediamo pure (anche se ciò non pare affatto scontato) che un giorno giungeremo a determinare che tra gli individui appartenenti ai due gruppi contrapposti ci sia una specifica e osservabile differenza cerebrale: come potremo stabilire, guardando i loro tracciati neurali, chi ha ragione e chi ha torto? Come faremo cioè a determinare se l’aborto è moralmente lecito oppure no? Alle tesi di Gazzaniga, in sostanza, viene spontaneo opporre un dubbio: non sarà che il conflitto tra il concetto di responsabilità morale, da una parte, e l’apparato concettuale delle neuroscienze, dall’altra, deriva semplicemente dal fatto che l’etica appartiene a un piano di discorso incommensurabile al discorso delle scienze naturali, ma non per questo illegittimo? Ogni naturalista, è ovvio, concorda sulla tesi che i nostri giudizi etici siano espressione di pensieri che sono dotati di una qualche base neurofisiologica (che, è ovvio, sarebbe del massimo interesse conoscere): ma perché mai la base neurofisiologica dovrebbe esaurire il significato di quei giudizi? In definitiva, sebbene si pregi di riferirsi agli stupefacenti progressi delle neuroscienze, il riduzionismo neuroetico di Gazzaniga sembra informato a uno scientismo obsoleto.

Insieme al coté neurofisiologico, il tentativo di colonizzare l’etica da parte dei fautori di una filosofia improntata alla scientificità assume però anche una diversa forma, che si basa sull’ipotesi che l’ambito dell’etica possa essere illuminato ricorrendo al ricco strumentario che oggi ci è messo a disposizione dalla teoria dell’evoluzione. Anche in questa impresa, peraltro, è stata mobilitata una scienza di assai recente sviluppo, la psicologia evoluzionistica (che, va detto, di per sé ha credenziali ben più solide della neuroetica di Gazzaniga). Tale prospettiva – sviluppata inizialmente da Leda Cosmides e John Tooby e ripresa attualmente da un gran numero di scienziati, filosofi e antropologi, come Dennett, Dan Sperber, Steven Pinker e Richard Dawkins – si propone di spiegare le proprietà e i meccanismi psicologici, nonché alcuni fenomeni culturali come l’etica e la religione, nei termini di predisposizioni specie-specifiche prodotte dalla selezione naturale. La psicologia evoluzionistica si accompagna con una concezione (detta atavismo) secondo la quale il cervello è un sistema fisico evolutosi sviluppando circuiti che i meccanismi della selezione naturale hanno ‘selezionato’, in quanto rivelatisi appropriati alle sfide del contesto ambientale. In particolare, il cervello degli esseri umani sarebbe strutturato ancora oggi in moduli specializzati nella risoluzione delle sfide che Homo sapiens doveva affrontare nella savana (Tooby, Cosmides 2005). Secondo questo punto di vista, allora, il cranio umano ospita ancora oggi una mente dell’Età della pietra: e se questo fosse corretto le ricadute per gli ambiti delle attività umane sarebbero ovviamente di notevole portata; e la morale, in questo senso, non farebbe eccezione. Molti progetti di ricerca sono stati dunque sviluppati nel tentativo di mostrare le radici evolutive della morale, talora (sebbene non sempre) con uno spirito fortemente riduzionistico. Un caso particolarmente interessante è offerto dallo psicologo della Harvard university Mark Hauser, autore di un best seller dal titolo Moral minds. How nature designed our universal sense of right and wrong (2006; trad. it. 2007).

A differenza di Gazzaniga, Hauser è molto prudente nel precisare che il suo studio ha soltanto carattere descrittivo: non ha dunque la pretesa di dare conto della componente normativa dell’etica. A suo giudizio, ­piuttosto, quando si dà una spiegazione evolutiva di un determinato tratto comportamentale, è cruciale spiegare quali furono i vantaggi adattativi che permisero ai portatori di quel tratto di passare il test della selezione naturale. In effetti, è plausibile sostenere che la capacità di produrre comportamenti e giudizi morali abbia potuto offrire notevoli vantaggi sul piano della coesione sociale, e dunque anche su quello della competizione evolutiva. Ma Hauser va oltre questa assai plausibile osservazione, quando afferma che esiste una sorta di innata e universale «grammatica della morale» (che egli ritiene analoga alla grammatica universale postulata da Noam Chomsky per la capacità linguistica): un articolato complesso di meccanismi che soggiacerebbe alla produzione dei nostri comportamenti e dei nostri giudizi morali. Tali meccanismi, secondo Hauser, sarebbero inconsci; però, al contrario dei fenomeni inconsci freudiani, essi rimarrebbero in linea di principio del tutto opachi ai tentativi di comprensione cosciente da parte dell’agente. In questa luce, allora, le spiegazioni che diamo dei nostri comportamenti e dei nostri giudizi morali sarebbero mere razionalizzazioni a posteriori, che ben poco avrebbero a che fare con i veri meccanismi causali che generano tali comportamenti e giudizi. In questa prospettiva, l’unico modo di comprendere i meccanismi della grammatica morale sarebbe dunque quello di ricorrere allo strumentario oggettivante delle varie scienze della natura: e in questo senso la teoria della selezione naturale potrebbe giocare un ruolo centrale. L’idea di Hauser, dunque, è che nel corso della storia dell’evoluzione i comportamenti e i valori morali siano stati selezionati per gli indubbi vantaggi adattativi che offrivano; in questo modo, così, tali comportamenti e valori si sarebbero inscritti nel codice genetico della nostra specie. Una comunità di egoisti morali, d’altra parte, non sarebbe sopravvissuta a lungo, mentre la solidarietà tra gli individui è un eccellente fattore di coesione e permette un ottimo adattamento alle pressioni ambientali. E in questo modo, per usare una terminologia che non è di Hauser, circa 50.000 anni fa Homo moralis avrebbe vinto la sua battaglia evolutiva contro Homo amoralis.

Secondo Hauser, l’idea della grammatica morale innata spiega perfettamente i comportamenti morali universali (quelli che sarebbero espressi, a suo giudizio, da precetti come: «comportati con gli altri nel modo in cui vorresti che gli altri si comportassero con te» e «non commettere adulterio»). D’altra parte, al di là di questi principi morali generalissimi, è un fatto che le varie culture si distinguono profondamente per i rispettivi insiemi di credenze etiche. Per Hauser, tuttavia, questo fatto non va visto come un’obiezione alla sua teoria, perché – esattamente come capita con la capacità linguistica universale, che prende forme anche molto diverse a seconda della comunità linguistica nella quale un individuo nasce – la capacità etica universale viene declinata diversamente a seconda dei contesti culturali in cui ci capita di venire educati.

Tutto ciò è intellettualmente molto stimolante; ci dobbiamo però chiedere quali fenomeni spieghi esattamente. Certamente sul piano della genesi delle capacità morali le tesi di Hauser non paiono affatto peregrine. Tuttavia spiegare la genesi di un fenomeno non equivale a spiegarne né il senso, né la portata; in effetti, quando Hauser tenta di porsi a questo livello ‘alto’ di spiegazione, le sue tesi paiono assai meno soddisfacenti. Innanzitutto, la stessa analogia fondante dell’argomentazione di Hauser sembra molto debole: Chomsky ebbe buon gioco ad argomentare in favore dell’innatismo linguistico contro le concezioni comportamentistiche, perché poté apportare a proprio sostegno il celebre argomento della ‘povertà dello stimolo’, ovvero la tesi che il torrenziale output linguistico di un bambino che abbia iniziato a parlare non si può giustificare a partire dall’assai più esiguo input che il bambino riceve dal mondo esterno. In morale, però, non esiste qualcosa come la ‘povertà dello stimolo’: almeno sino all’età della ragione, infatti, noi semplicemente tendiamo a replicare le modalità di comportamento e di giudizio che ci vengono insegnate e che apprendiamo dall’esperienza.

In secondo luogo, un gran numero di dati antropologici mette in questione la tesi secondo cui esistono universali morali. Per es., come detto, secondo Hauser, un caso di presunto universale di questo tipo sarebbe il precetto «comportati con gli altri nel modo in cui vorresti che gli altri si comportassero con te»; ma in molte culture che incorporano elementi di razzismo questo non è affatto un precetto valido nel caso in cui ‘gli altri’ appartengano a un’etnia o a una cultura ritenute inferiori. Per fare un solo esempio tra i moltissimi possibili, nella Politica Aristotele – dando evidentemente voce a un sentimento comune nell’Attica del 4° sec. a.C. – accettava come pienamente lecita la possibilità che un persiano divenisse schiavo di un greco, mentre l’inverso sarebbe stato a suo giudizio contro natura, perché avrebbe sovvertito le gerarchie naturali; e un discorso analogo si potrebbe fare per un altro presunto universale morale quale «aiuta i bambini e i deboli» (un precetto il cui peso viene relativizzato da molte culture con modalità assai variabili rispetto al suo ambito di applicazione). In terzo luogo, se anche si concedesse che qualche universale morale esista veramente e che la grammatica morale sia in grado di darne adeguatamente conto, dovremmo ancora chiederci come mai tali universali siano violati con tanta frequenza. In realtà, un precetto come quello che chiede di comportarsi con gli altri come si vorrebbe che essi si comportassero verso di noi viene di fatto costantemente violato in gran parte delle società e delle civiltà; oppure si pensi, in questo senso, al precetto «non commettere adulterio» (anch’esso citato da Hauser come esempio di universale morale). La morale, certo, ci dice che un tale comportamento non dovrebbe verificarsi: ma in questo modo, appunto, siamo passati dal piano descrittivo a quello normativo, su cui programmaticamente (e saggiamente) Hauser dichiara di non volersi pronunciare.

C’è poi da considerare il fatto che molte volte le diverse culture giudicano diversamente quali comportamenti siano morali e quali no. Anche in questo caso meccanismi del tipo di quelli suggeriti da Hauser potrebbero, in effetti, giocare un ruolo, ma questi meccanismi, per ammissione dello stesso studioso, non sono affatto in grado di spiegare il contenuto di quei giudizi morali. Il piano su cui la sua spiegazione si pone, dunque, è tutt’al più quello delle enabling conditions, delle condizioni che rendono fisicamente possibile la produzione dei comportamenti e degli enunciati morali. Ma la lista delle enabling conditions delle pratiche morali ne comprende di molto varie (è necessario che esista una comunità di individui; è necessario avere un apparato fonatorio adeguato per formulare linguisticamente i giudizi morali; è necessario che la specie umana non sia stata spazzata via da una glaciazione ecc.). E nessuna di queste condizioni è in grado di dare conto del contenuto specificamente morale di tali pratiche. A questo proposito, si può citare un’obiezione avanzata da Hilary Putnam (2004) contro tutti i tentativi di dare conto dell’ambito morale con spiegazioni naturalistiche come quelle di Hauser. Come possono tali concezioni, chiede Putnam, spiegare il passaggio che, attorno all’anno 1000 a.C., si ebbe da una famiglia caratterizzata da etiche incentrate sulle virtù guerresche (eroismo, fierezza, forza fisica ecc.) a una famiglia di etiche, come quelle orientali o per alcuni aspetti quella ebraica, che privilegiavano invece virtù come la compassione? Le teorie evoluzionistiche semplicemente non possiedono strumenti concettuali sufficienti per spiegare una differenza tanto cruciale. In generale, sembra che il tentativo di ricondurre l’etica a comportamenti altruistici istintuali filogeneticamente remoti può certamente avere validità nello spiegare la naturalezza dell’essere umano. Tuttavia quando tale riduzione viene concepita come esaustiva e senza residui, allora essa sembra lasciare fuori quanto di più importante vi è nell’etica.

D’altra parte, ogni tentativo di spiegare, a partire da categorie evolutive, il contenuto dei giudizi morali – e non solo la loro genesi – va incontro anche a un’importante obiezione di principio. Concediamo pure che il contenuto dei giudizi etici si riduca al fatto che le azioni che essi descrivono offrano un vantaggio evolutivo a chi le compie. Ora immaginiamo che tra centomila anni la specie umana sia evoluta in modo tale che tutti riterranno eticamente giusto uccidere i malati gravi (tale situazione non pare impossibile, perché certamente da questa pratica potrebbero derivare alcuni vantaggi per gli altri individui e per la specie nel suo complesso). Ebbene, non siamo forse nella condizione di dover dire che in quel caso l’evoluzione porterebbe all’affermarsi di valori etici errati? Potrebbe capitare insomma che tra il piano del dover essere (quello genuinamente morale) e quello dell’essere (quello dell’evoluzione) si crei uno scarto incolmabile. E questo mostra che il tentativo di ricondurre, senza residui, l’ambito dell’etica a quello dell’evoluzione è un classico esempio di quella fallacia naturalistica di cui già un secolo fa parlava George Edward Moore.

Concezioni antiriduzionistiche

Non tutte le attuali riflessioni sulla libertà e la responsabilità tentano di spiegare tali concetti con lo strumentario concettuale della neurofisiologia o della teoria dell’evoluzione. Nel già citato volume di J.R. Searle (2007), per es., viene elaborata una concezione che rientra in una famiglia detta libertarismo, per la quale da una parte la libertà umana è un dato di fatto e dell’altra è incompatibile con il determinismo. Concezioni di questo tipo devono dunque fare appello a qualche forma di causazione indeterministica oppure, alternativamente, negare che il libero arbitrio possa essere compreso in termini causali. Secondo Searle, in particolare, quando si dà un’azione libera si presentano dei gap (vuoti o lacune) nella catena causale che a partire da certi stati mentali (desideri e credenze) porta al compimento di quell’azione, ovvero momenti indeterministici in cui non si danno condizioni sufficienti per gli eventi che seguiranno. In questo modo, per Searle, è possibile che nella catena causale intervengano momenti deterministici che fanno sì che a livello psicologico si possano prendere decisioni e compiere azioni, senza che l’agente sia causalmente determinato. Contro questa concezione si possono però muovere obiezioni abbastanza rilevanti. In primo luogo, essa si impegna pesantemente sul terreno empirico assumendo che nel cervello occorrano fenomeni indeterministici causalmente rilevanti (una tesi, questa, estremamente controversa). In secondo luogo, si può ripetere nei confronti di Searle un argomento classico, già proposto, per es., da Hume. In sé, infatti, il mero indeterminismo fisico – comportando la semplice casualità degli accadimenti – non sembra affatto garantire la libertà, e anzi secondo alcuni la rende impossibile. Se fosse vero l’indeterminismo, infatti, le azioni umane sarebbero fisicamente indeterminate; nulla, dunque, ne determinerebbe il verificarsi e, a fortiori, nemmeno gli agenti. Così, se fosse vero l’indeterminismo, gli agenti non potrebbero esercitare alcun controllo sulle proprie azioni; e dunque la libertà collasserebbe sul caso. E in effetti è innegabile che l’idea di libertà che ci sta a cuore (quella connessa all’autonomia degli esseri umani, alla loro responsabilità, retribuzione, dignità e razionalità) non possa essere confusa con l’idea di caso, di mera accidentalità. Searle, come altri autori che sviluppano concezioni simili, non pare disporre di repliche convincenti a questo argomento.

Una forma più radicale di libertarismo, detta agent causation (causazione dell’agente), riprende invece elementi delle concezioni di Aristotele, Thomas Reid e Kant. Secondo questo punto di vista, affinché le nostre attribuzioni di responsabilità morale siano legittime è necessario postulare che gli agenti godano di poteri causali peculiari e che essi non siano determinati nell’esercizio di tali poteri. In anni recenti, il più autorevole sostenitore di questa visione è stato il filosofo della Indiana university Timothy O’Connor (2000) che ha difeso una versione naturalisticamente orientata della causazione agentiva. In particolare, O’Connor si è ricollegato alla tradizione dell’emergentismo, la concezione secondo la quale ogni complesso organico è caratterizzato da proprietà ‘emergenti’, ovvero da proprietà la cui comparsa (sebbene dipenda dal darsi di specifiche condizioni fisico-chimiche) non può essere predetta né spiegata a partire dalle proprietà delle parti costituenti il complesso organico. In questo senso secondo il punto di vista dell’emergentismo, «il tutto è superiore alla somma delle parti». Secondo O’Connor, dunque, sebbene i peculiari poteri causali degli agenti dipendano, per la loro esistenza, dalle proprietà microstrutturali del cervello, tali poteri presentano caratteristiche irriducibili ai poteri causali del livello microstrutturale. È in questo modo che, secondo O’Connor, si spiega la possibilità della causazione top down, ovvero la possibilità che gli agenti hanno di modificare causalmente lo stato del mondo senza essere in ciò determinati. Più precisamente, a suo giudizio, il possesso delle proprietà causali emergenti non produce direttamente effetti nel mondo fisico; piuttosto tale possesso mette l’agente nelle condizioni di determinare causalmente cambiamenti nel mondo, compatibilmente con le leggi della fisica. La libertà degli agenti, dunque, consisterebbe nella scelta su come e quando esercitare le peculiari capacità causali di cui essi dispongono. Lo stesso O’Connor, d’altra parte, riconosce che questo quadro è altamente speculativo e può essere contestato – e di fatto viene contestato – da due diversi punti di vista. Da una parte, a livello dell’analisi concettuale, molti filosofi criticano la tesi che il possesso di speciali poteri causali da parte degli agenti sia condizione necessaria del libero arbitrio. Dall’altra parte, a livello dell’analisi empirica, questa concezione della libertà è vincolata alla correttezza di una particolare ipotesi, che soltanto la ricerca empirica può, in linea di principio, valutare. A livello empirico, peraltro, O’Connor insiste che la sua ipotesi è suffragata dalla ricerca di una importante (sebbene minoritaria) parte del mondo scientifico contemporaneo: in effetti, alcuni importanti scienziati ed epistemologi – come Ilya Prigogine, Nancy Cartwright e alcuni biologi contemporanei – hanno presentato teorie secondo le quali i dati scientifici attualmente in nostro possesso non escludono affatto la possibilità che un quadro emergentistico, come quello delineato da O’Connor, possa essere corretto. In questa prospettiva teorica, la questione dell’emergenza, e con essa anche quella del libero arbitrio, potranno essere risolte soltanto quando arriveremo a disporre di una teoria complessiva del mondo naturale.

Una proposta in qualche misura simile a quella sostenuta da O’Connor è stata sviluppata da John Dupré (2001). Criticando fortemente il riduzionismo e lo scientismo di molte concezioni contemporanee, Dupré ha sviluppato un’altra concezione emergentistica, sostenendola sulla base di una concezione della scienza radicalmente empiristica, secondo i dettami della cosiddetta Scuola di Stanford (di cui fanno parte anche Cartwright, Ian Hacking e Peter Galison). La tesi di Dupré, in sostanza, è che il modo migliore di affrontare la questione del libero arbitrio è di inquadrarla in un contesto ontologico di tipo pluralistico, ma non dualistico in senso cartesiano: ovvero di assumere, da una parte, che la realtà è composta di livelli autonomi e irriducibili, caratterizzati da proprietà diverse, dall’altra che condizione necessaria (sebbene non sufficiente) dell’esistenza di tutte le entità, di qualunque livello, è che esse risultano dall’aggregazione originaria di particelle fisiche. Se ciò è vero, l’errore cruciale delle concezioni tradizionali è di cercare di ricondurre le nostre azioni al quadro della causalità fisica sottostante ai nessi causali che portano al compimento delle azioni (e in questo senso è irrilevante che tale rete sia concepita con un carattere deterministico oppure indeterministico). In realtà, secondo Dupré, lo stato della scienza contemporanea e una corretta analisi filosofica mostrano che non ci sono ragioni né empiriche né concettuali per pensare che la causalità sia ubiqua, e neppure per affermare che esistono leggi di natura universali e inderogabili. Con un atteggiamento empiristico radicale, Dupré guarda piuttosto a ciò che le scienze naturali oggi effettivamente ci mostrano e conclude che le presunte ‘leggi naturali’ in realtà valgono soltanto per ambiti molto delimitati (per es., i movimenti dei corpi del Sistema solare) o in ambienti sperimentali estremamente artificiosi. Insomma, secondo Dupré non c’è – al momento almeno – alcuna ragione empirica per concludere che le azioni umane facciano parte di un’universale rete causale retta da leggi fisiche ineludibili.

In questa prospettiva Dupré sviluppa e difende due tesi piuttosto eterodosse nel dibattito contemporaneo sul libero arbitrio. Innanzitutto egli sostiene che gli esseri umani, lungi dall’essere schiavi di un’onnivora causalità esogena, sono in realtà tra i pochi portatori di poteri causali genuini. Inoltre, secondo Dupré, la libertà umana può essere compresa soltanto considerando, senza illecite ambizioni riduzionistiche, il quadro dei contesti sociali, culturali e politici in cui noi esercitiamo la nostra peculiare capacità di agire responsabilmente. È in una prospettiva di questo genere – che riconosce legittimità conoscitiva, oltre che alle scienze naturali, alle scienze umane e al senso comune – che il pluralismo può esserci di aiuto ad affrontare un problema tanto complesso quanto lo è quello del libero arbitrio.

Anche contro il pluralismo emergentistico di Dupré, tuttavia, si possono muovere obiezioni sostanziali. In primo luogo, anche questa concezione presuppone tesi che empiricamente sono ben lungi dall’essere provate o persino corroborate come, per es., la falsità dei principi di conservazione della fisica. In secondo luogo, il pluralismo di Dupré è visto da molti critici come filosoficamente rinunciatario, perché nega che si possano dare spiegazioni complessive e unificanti della realtà naturale. Secondo altri, infine, questa concezione tenta di riportare in auge una forma di dualismo rispetto ai rapporti tra la mente e il corpo che la scienza avrebbe ormai reso del tutto obsoleta.

Va ricordato, poi, che non mancano oggi autori che hanno cercato di sviluppare teorie della libertà che appartengono alla concezione alternativa al libertarismo, ovvero al già citato compatibilismo, secondo il quale il libero arbitrio è perfettamente compatibile con il determinismo causale, se non lo presuppone addirittura. In questa prospettiva si collocano due importanti volumi, uno di Dennett (2003) e l’altro di Alfred Mele (2006), quest’ultimo, in particola-re, si caratterizza per un programmatico pluralismo teorico: infatti, oltre a un modello compatibilistico del libero arbitrio, ne sviluppa anche uno libertario. Comunque, anche le concezioni compatibilistiche si trovano a dover affrontare alcune obiezioni estremamente insidiose, e in particolare il cosiddetto consequence argument (The Oxford handbook of free will, 2002). Alla luce delle difficoltà in cui si trovano oggi irretite tutte le principali concezioni del libero arbitrio, non sorprenderà che anche sul piano strettamente filosofico – oltre che su quello empirico, di cui si è già detto in precedenza – stiano diventando sempre più comuni opzioni teoriche che denunciano tanto la nozione di libero arbitrio quanto quella di responsabilità morale come irrimediabilmente illusorie: e un ottimo esempio in questo senso è il volume di Saul Smilansky dall’esplicito titolo Free will and illusion (2000).

Complessivamente si può senz’altro dire che il dibattito attuale su libero arbitrio e responsabilità morale sia estremamente variegato e che, in questo contesto, si confrontino posizioni assai diverse tra loro, nessuna delle quali appare dominante. Su una tesi almeno la maggior parte degli autori sembra tuttavia concordare: ovvero che ai filosofi che si occupano di libertà e responsabilità non sia più consentito ignorare le ingenti acquisizioni che, sulla strada della comprensione della natura umana, ci vengono oggi dall’ambito scientifico.

Bibliografia

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