LIBERIO

Enciclopedia dei Papi (2000)

Liberio

Manlio Simonetti

Il Liber pontificalis, nr. 37, la cui informazione, per altro, risulta in complesso largamente inattendibile, lo dice "natione Romanus, ex patre Augusto". Quando venne a mancare papa Giulio (12 aprile 352), fu eletto a succedergli il 17 maggio L., che era diacono. Subito si trovò ad affrontare la grave situazione di politica religiosa che si era determinata in conseguenza della riunificazione (350), con Costanzo, delle parti orientale e occidentale dell'Impero.

Si era allora nel pieno della controversia ariana e pochi anni prima il fallimento del concilio di Serdica (343) aveva provocato la scissione tra gli episcopati di Occidente e di Oriente. Infatti gli Occidentali, sotto la guida energica di papa Giulio e la protezione dell'imperatore Costante, si attenevano strettamente alla condanna di Ario decretata dal concilio di Nicea (325), interpretavano il simbolo niceno in modo da ribadire fino all'eccesso l'unità del Padre e del Figlio, avevano riabilitato Atanasio di Alessandria, Marcello di Ancira e altri vescovi orientali che, nel contesto della reazione antinicena che si era avuta in Oriente a partire dal 326, erano stati condannati e deposti. In effetti l'episcopato orientale in grande maggioranza aveva poco gradito l'impostazione unitiva del simbolo niceno, che sembrava cioè assorbire l'individualità del Figlio di Dio nella sostanza del Padre, e questo diffuso malcontento aveva favorito una reazione che lo stesso imperatore Costantino non aveva ostacolato per motivi politici. Ne era risultata da una parte, a seguito di varie accuse, la deposizione di alcuni importanti esponenti antiariani, tra cui Atanasio, accusato di violenze ed eccesso di autorità, e dall'altra una formulazione dottrinale più rispettosa dell'individualità del Figlio (formula antiochena del 341). La divisione dell'Impero, alla morte di Costantino (337), tra i figli Costante e Costanzo aveva favorito la radicalizzazione dei contrasti fino alla rottura di Serdica; ma quando, dopo l'uccisione di Costante e la decisiva vittoria sull'usurpatore Magnenzio, Costanzo era rimasto unico imperatore, egli si era proposto subito di far corrispondere unità politica e religiosa dell'Impero.

In un primo tempo l'imperatore stabilì di liberarsi definitivamente di Atanasio, pur se pochi anni prima (346) gli aveva consentito, per motivi meramente politici, di rientrare ad Alessandria. Mentre egli provvedeva direttamente a farlo scacciare di nuovo dalla sua sede, giunse a L. una lettera di alcuni vescovi orientali in cui si faceva carico ad Atanasio di essere rientrato ad Alessandria in maniera non regolare. L., che era stato da poco eletto, riunì subito a Roma un concilio locale che dette ragione ancora una volta ad Atanasio; quindi inviò all'imperatore, che allora risiedeva in Gallia ad Arles, i vescovi Vincenzo di Capua e Marcello, anche lui della Campania, latori di una sua richiesta, fatta anche a nome di altri vescovi italiani, di convocare un concilio ad Aquileia al fine di riesaminare tutto il contenzioso accumulatosi negli ultimi anni. Costanzo preferì riunire il concilio ad Arles (353), evidentemente per poterlo controllare meglio. Non si sa quanti furono i vescovi che si riunirono: data la collocazione periferica del luogo, non furono certo molti, e in massima parte della Gallia. Non sembra che Valente di Mursa e Ursacio di Singidunum (attualmente Belgrado), ligi al volere dell'imperatore, di tendenza filoariana e nemici di Atanasio di vecchia data, abbiano avuto grandi difficoltà a convincere i convenuti, compresi i due legati pontifici, dell'opportunità di condannare Atanasio. L'unico che rifiutò, Paolino di Treviri, fu deposto e Costanzo lo fece esiliare. Pur deluso da questo inatteso esito, di cui dette notizia a Ossio di Cordova (epistola Inter haec, quia in nullo) e a Ceciliano di Spoleto (epistola Nolo te), L. decise di insistere nuovamente presso Costanzo, cui nel 354 inviò una nuova legazione, costituita da Lucifero vescovo di Cagliari, dal presbitero Pancrazio e dal diacono Ilario, latori della epistola Obsecro. In essa il papa, difendendosi dall'accusa di aver distrutto, al fine di non far conoscere i "crimina" di Atanasio, la lettera inviata a Roma dai vescovi orientali, dichiara di averla letta al concilio, che però aveva deciso ancora una volta a favore di quello; chiarisce di non poter entrare in comunione con i vescovi orientali, dato il loro atteggiamento che egli definisce filoariano e la loro ostilità ad Atanasio; chiede a Costanzo di convocare un nuovo concilio che possa confermare la validità dei deliberati del concilio di Nicea. Nel contempo L. scrisse anche a Eusebio, vescovo di Vercelli, pregandolo (epistola Me frater carissime) di recarsi anch'egli da Costanzo, allora a Milano, per collaborare con Lucifero. Da due altre lettere di L. a Eusebio (Remeante filio e Sciebam domine) si ricava che Eusebio accettò l'invito di L., ma forse dopo qualche esitazione, che non faceva bene sperare per il futuro. La seconda delle due lettere informa che richiesta analoga a quella rivolta a Eusebio il papa aveva indirizzato anche a Fortunaziano di Aquileia. L'imperatore non ebbe difficoltà ad accedere alla richiesta, e il concilio fu convocato per il 355 a Milano. Pochi vescovi vennero dall'Oriente, data la lontananza della sede, molti di più erano gli Occidentali, anche se certamente non trecento, quanti cioè ne contano Socrate (Historia ecclesiastica II, 36) e Sozomeno (Historia ecclesiastica IV, 9). Tra le assenze faceva spicco quella di Eusebio, che pure era stato tra i patrocinatori del concilio: evidentemente aveva già capito da quale parte spirava il vento e cercava prudentemente di defilarsi, ma alla fine, pressato da Lucifero e dallo stesso imperatore, si presentò a Milano. La sua presenza, per altro, non valse a ribaltare una situazione già compromessa: Valente di Mursa, che capeggiava un gruppo di vescovi fedeli alle direttive di Costanzo, respinse il tentativo di Eusebio di richiedere ai convenuti l'approvazione del simbolo niceno e piegò una maggioranza riluttante ma poco battagliera a sottoscrivere la condanna di Atanasio. I tre che rifiutarono, Eusebio, Lucifero e Dionigi, vescovo di Milano, furono deposti ed esiliati in Oriente. Appresa la triste notizia, L. indirizzò ai tre ormai sulla via dell'esilio una lettera (Quamvis sub imagine) nella quale magnifica il coraggio con il quale quelli avevano confessato la loro fede, li invita a credere che egli si riteneva inviato in esilio insieme con loro e si raccomanda alle loro preghiere affinché anch'egli potesse avere la forza di resistere ai "graviora vulnera" che ormai si attendeva di giorno in giorno. Parole profetiche: Costanzo, che teneva in modo particolare a che anche L. sottoscrivesse la condanna di Atanasio, rivolse a lui questa richiesta per tramite dell'eunuco Eusebio, inviato a Roma per questo motivo. Tentato con lusinghe e minacce, L. respinse i donativi inviatigli dall'imperatore e rifiutò di condannare Atanasio, rilevando quella che riteneva l'irregolarità della procedura con cui si era giunti alla sua condanna e riaffermando la validità della professione di fede di Nicea. L'eunuco, falliti i suoi tentativi, cercò di compromettere il papa agli occhi del popolo, lasciando i donativi presso il martyrium di S. Pietro. Ma L. non si fece sorprendere: redarguito il custode del luogo perché non aveva impedito il gesto di Eusebio, ordinò di gettare via i donativi dell'imperatore in quanto offerta sacrilega, con un atto cioè che si poteva configurare come reato di lesa maestà nei confronti dell'imperatore. Ragguagliato da Eusebio, Costanzo fece reiterare le minacce contro L. e i suoi più decisi sostenitori, che furono costretti a nascondersi e a fuggire: il papa fu arrestato e trasportato a Milano nottetempo, per evitare reazioni da parte del popolo che lo aveva caro. Atanasio, fonte primaria per tutte queste notizie (Historia Arianorum 35-40), riferisce anche le forti parole con cui L. confermò al cospetto dell'imperatore il suo rifiuto di ottemperare alle di lui richieste, che egli considerava di significato ariano. Molto più diffuso è in proposito il dialogo tra Costanzo e L., con intervento di altri interlocutori, riportato da Teodoreto (Historia ecclesiastica II, 16), probabilmente rielaborato e adattato, ma di cui vari tratti hanno tutto il sentore dell'autenticità: basterà ricordare il rilievo di Epitteto di Civitavecchia che cerca di presentare l'atteggiamento di L. come ispirato dal desiderio di farsi un titolo di merito presso il Senato di Roma, notoriamente ostile a Costanzo; la dichiarazione di Costanzo che egli considerava la condanna inflitta ad Atanasio un successo superiore alla vittoria da lui riportata contro l'usurpatore Magnenzio; la richiesta, da parte di L., di un nuovo concilio da tenere ad Alessandria perché il giudizio su Atanasio si facesse alla presenza dell'accusato. Respinta la richiesta e invitato L. a riflettere per due giorni ancora prima di dare una risposta definitiva, questi rimase fermo sulla sua posizione, sì che Costanzo lo fece esiliare a Beroea, in Tracia, dove era vescovo Demofilo, un deciso avversario della fede nicena. A stare al racconto di Teodoreto, L., prima di avviarsi all'esilio, avrebbe rifiutato un donativo in denaro da parte di Costanzo e dell'imperatrice Eusebia, che gli sarebbe stato molto utile durante il soggiorno in Tracia. Durante il viaggio, come informa Girolamo (De viris illustribus 97), egli passò per Aquileia, il cui vescovo Fortunaziano, sul quale il papa aveva in precedenza tanto contato e che invece a Milano aveva sottoscritto anche lui la condanna di Atanasio, lo esortò a piegarsi al volere dell'imperatore, ma senza successo. Si è tra la fine del 355 e gl'inizi del 356. Costanzo si affrettò a dare un successore a L. nella persona del diacono Felice, che di convinzione non era certo filoariano ma fu ordinato da vescovi ligi al volere dell'imperatore, e a lui non mancò a Roma un certo seguito.

Durante il soggiorno forzato di L. in Tracia, la situazione dottrinale andava evolvendosi rapidamente. Fino ad allora a un Occidente compatto nella rigida interpretazione unitiva del credo niceno, per cui il Padre e il Figlio partecipano di una stessa sostanza e ipostasi (persona), aveva fatto riscontro in Oriente uno schieramento episcopale largamente maggioritario in una formulazione di fede di tono generico e più rispettosa, rispetto al simbolo niceno, della sussistenza individuale del Figlio, in quanto lo affermava dotato di ipostasi propria, distinta da quella del Padre. Ma già verso il 355 da una parte Atanasio aveva rilanciato il simbolo niceno, accantonato in Oriente da circa trent'anni, col suo termine distintivo, l'homoousios (della stessa sostanza), affermante che il Figlio partecipa dell'ousia (sostanza, essenza) del Padre, e dall'altra Aezio aveva riproposto la dottrina ariana radicale, affermando che il Figlio era di sostanza e natura dissimili rispetto a quelle del Padre (anomeismo); equidistante tra i due estremi, si andava profilando, soprattutto in Asia Minore, una forte tendenza che, confermando le ipostasi distinte del Padre e del Figlio, prendeva le distanze dal simbolo niceno, e, affermando che il Figlio era simile al Padre quanto alla sostanza (homoios kat' ousian, donde il nome di omeousiani con cui furono allora definiti i sostenitori di questa dottrina), si opponeva in modo deciso all'arianesimo radicale. Di fronte a questo frazionamento Costanzo, ratificata finalmente la condanna di Atanasio anche in Occidente, cominciò a orientarsi in senso favorevole a una formulazione di fede di impostazione mediana e di tono generico, tale cioè da respingere gli opposti estremismi e da evitare i termini allora più dibattuti. Ma i suoi principali consiglieri in materia religiosa, Valente e Ursacio, ora coadiuvati da Germinio, vescovo di Sirmio, erano molto sbilanciati in senso filoariano, sì che la formula di fede da loro pubblicata a Sirmio nel 357 (secondo concilio di Sirmio), nel rilevare al massimo l'inferiorità del Figlio rispetto al Padre e nel proscrivere l'uso dei termini distintivi dei niceni (homoousios) e degli omeousiani (homoiousios), appariva molto aperta a favore dell'arianesimo. Tale fu percepita sia in Occidente, dove fu denominata "bestemmia di Sirmio" (blasphemia Sirmiensis), sia in Oriente, ove provocò la decisa reazione degli omeousiani, capeggiati da Basilio di Ancira e Giorgio di Laodicea. In un susseguirsi di colpi di scena a favore ora dell'uno ora dell'altro partito a causa dell'ondeggiare dell'imperatore, incerto sulla via da seguire, si arrivò alla decisione di riunire un nuovo concilio ecumenico.

Mentre si svolgevano questi avvenimenti, decisivi ai fini di una progressiva decantazione e completa definizione dei termini dottrinali della controversia, relegato nella lontana e fredda Tracia L. sentì rapidamente affievolirsi lo zelo con cui aveva poco prima difeso tanto coraggiosamente Atanasio, e pressato anche dall'insistenza di Demofilo, che lo aveva in custodia, si decise a sottoscrivere anch'egli la condanna di Atanasio, rompendo la comunione con lui. Il cedimento di L. è documentato da quattro sue lettere, due indirizzate ai vescovi orientali, una a Valente, Ursacio e Germinio, la quarta a Vincenzo di Capua; dalla seconda e terza lettera si ricava che L. aveva fatto pervenire una lettera anche a Costanzo, per tramite di Fortunaziano di Aquileia. L'autenticità delle quattro lettere, che sono state tramandate da Ilario nei Collectanea antiariana Parisina, è stata lungamente contestata, e ancora agl'inizi del XX secolo si è espresso a favore della tesi che le vuole falsificate qualche studioso di buon nome (P. Batiffol), ma alla base della sollecitazione in questo senso ci sono considerazioni di ordine apologetico e non scientifico: infatti da questo punto di vista non c'è alcun motivo per dubitare della genuinità delle quattro lettere, tanto più che il cedimento di L. è confermato anche da altre fonti (Atanasio, Apologia contra Arianos 89; Historia Arianorum 41; Girolamo, De viris illustribus 97).

Nell'epistola Studens paci, indirizzata ai vescovi orientali, L., nel comunicare il suo allineamento in merito alla condanna di Atanasio, cerca di spiegarlo affermando che, ricevuta la lettera con cui quelli accusavano Atanasio, egli lo aveva invitato a venire a giustificarsi a Roma e quello aveva rifiutato. Anche se non si può escludere che effettivamente in un primo momento L., ricevuta la lettera dall'Oriente, abbia scritto ad Atanasio invitandolo a Roma senza effetto, tutta la sua condotta tra il 353 e il 355 fa capire chiaramente che il rifiuto di Atanasio, se c'era stato, non aveva modificato l'orientamento del papa, completamente a suo favore. In effetti sarebbe stato inopportuno per Atanasio allontanarsi da Alessandria proprio nel momento in cui si preannunciava l'azione di Costanzo ai suoi danni. Perciò la motivazione addotta da L. va considerata soltanto come mero espediente dettato dall'esigenza di proporre, come che sia, una giustificazione al suo clamoroso voltafaccia. Nelle altre tre lettere L. si raccomanda ai vari destinatari, pregandoli di adoperarsi a suo favore presso Costanzo; in quella indirizzata a Vincenzo (Non doceo) prega il collega di adoperarsi presso tutti i vescovi della Campania affinché anch'essi indirizzino all'imperatore una lettera mirante a ottenergli la liberazione "dalla grande afflizione" (de tristitia magna). Nella seconda lettera agli Orientali (Pro deifico timore) egli comunica ai destinatari di aver sottoscritto una professione di fede, presentatagli da Demofilo, che era stata pubblicata a Sirmio. Di quale formula si tratta? La risposta non è agevole perché, oltre la formula del 357 cui s'è accennato qui sopra ("bestemmia di Sirmio"), a Sirmio nel 351 era stata pubblicata un'altra formula di fede, a conclusione di un concilio (primo concilio di Sirmio) in cui alcuni vescovi orientali avevano condannato e deposto il locale vescovo, Fotino, accusato di condividere le idee di Marcello di Ancira. Nella chiosa apposta alla lettera di L., Ilario (Collectanea antiariana Parisina B VII 9 [6, 7]) elenca i nomi dei vescovi che avevano partecipato al concilio la cui formula di fede L. dichiara di avere sottoscritto, e sono senza dubbio i nomi dei partecipanti al concilio del 351, dal che si è dedotto che la formula di fede proposta da Demofilo a L. e da questi sottoscritta sarebbe stata quella sirmiese del 351, una formula di stampo non niceno ma neppure sbilanciata in senso ariano, in sostanza neutra quanto ai termini dottrinali del contrasto in atto. Ma alcuni studiosi (H.-Ch. Brennecke) considerano incongruo che Demofilo avesse sottoposto a L. una professione di fede ormai superata dal corso degli eventi e perciò ipotizzano che L. avrebbe sottoscritto proprio la formula del 357, supponendo che Ilario abbia fatto confusione tra le due formule quanto ai firmatari. La questione è complicata anche dalla incertezza in merito alla datazione dell'esilio di L.: varie fonti lo fanno durare due anni (Gesta inter Liberium et Felicem episcopos 1; Atanasio, Apologia contra Arianos 89; Historia Arianorum 41), ma la data d'inizio è incerta, tra la fine del 355 e l'inizio del 356, sì che l'esilio potrebbe avere avuto fine già nel 357. D'altra parte, dato che la pubblicazione della formula sirmiese del 357 dovrebbe essere avvenuta verso la metà dell'anno, resta ancora un margine di tempo perché L. abbia potuto sottoscriverla. La questione resta aperta, ma è forte la probabilità che, nonostante i dati in contrario ricavati da Ilario, L. abbia sottoscritto quella formula.

Nonostante la resa a discrezione di L. e la richiesta di un suo sollecito rientro rivolta dal popolo romano a Costanzo allorché questi soggiornò a Roma nel corso del 357, l'imperatore non autorizzò il papa a ritornare e lo trattenne presso di sé a Sirmio, forse perché non si fidava ancora di lui o perché si trovava in imbarazzo a causa di Felice che egli stesso aveva voluto come successore di L. a Roma. Perciò il papa si trovava a Sirmio quando si riunì là, nel 358, un concilio di pochi vescovi (terzo concilio di Sirmio), dominato da Basilio di Ancira, che fece trionfare - ma fu trionfo quanto mai effimero - la dottrina omeousiana, che cioè affermava il Figlio simile al Padre secondo la sostanza. Sozomeno (Historia ecclesiastica IV, 15), fonte unica per il soggiorno di L. a Sirmio, accenna che l'imperatore, per sollecitazione di Basilio, avrebbe cercato di indurre il papa a condannare l'homoousios, termine distintivo del credo niceno, e che questi, insieme con gli altri presenti, sottoscrisse il testo pubblicato dal concilio, che comprendeva la formula antiochena del 341, corredata da una documentazione che orientava quella formula, di per sé molto generica, in senso favorevole alla dottrina omeousiana. A questo punto fu permesso a L., ormai docile a tutte le decisioni dell'imperatore, di tornare a Roma. Ma qui era istallato Felice, e allora il concilio indirizzò a lui e al clero romano una lettera in cui annunciava il ritorno di L. e proponeva che ambedue, L. e Felice, reggessero insieme la Sede apostolica con pari dignità episcopale. Ma questa decisione compromissoria, oltre tutto di difficilissima attuazione, non fu gradita al popolo romano, che in gran parte era rimasto fedele a L. e che manifestò il suo disappunto con il grido "un solo Dio, un solo Cristo, un solo vescovo" (Teodoreto, Historia ecclesiastica II, 14): la lettera del concilio sirmiese fu messa in ridicolo e ci furono manifestazioni in favore di L. che fu accolto entusiasticamente al suo rientro. Felice ritenne opportuno abbandonare la città, ma più tardi fece il tentativo di impadronirsi con i suoi seguaci di una chiesa; il tentativo andò fallito ed egli si rassegnò a deporre ogni speranza di poter tornare a Roma (Gesta inter Liberium et Felicem episcopos 1).

Mentre L. riassumeva le sue funzioni e si adoperava a mettere riparo ai danni che aveva provocato la sua sostituzione da parte di Felice, Costanzo, di fronte al frazionamento dottrinale dell'episcopato orientale e ai continui contrasti che di qui derivavano, come si è sopra accennato prese la decisione di demandare la risoluzione della controversia a un nuovo concilio ecumenico che, dopo vari tentennamenti, fu frazionato in due: gli Occidentali si sarebbero riuniti a Rimini e gli Orientali a Seleucia d'Isauria. I concili si tennero nel corso del 359 e il loro svolgimento fu quanto mai drammatico, perché le parti che erano in maggioranza, niceni a Rimini e omeousiani a Seleucia, urtarono contro la resistenza di minoranze ben organizzate e soprattutto apertamente spalleggiate dall'imperatore. Alla fine questi riuscì a imporre il suo volere, e un nuovo concilio, riunito a Costantinopoli agl'inizi del 360, sanzionò quel risultato e pubblicò una formula di fede analoga a quella poco tempo prima approvata a Rimini, che proscriveva l'uso del termine ousia (e perciò sia l'homoousios sia l'homoiousios) e si limitava positivamente ad affermare che il Figlio era simile al Padre secondo le Scritture: era una formula quanto mai generica, che permetteva in sostanza a ognuno di conservare le proprie convinzioni. In effetti Costanzo perseguiva un concentramento di tendenza moderata, omogeneo politicamente, se non dottrinalmente, con esclusione delle tendenze più radicali in ogni senso (nicenismo, omeousianesimo, anomeismo). Questa impostazione ideologica, politicamente significativa ma dottrinalmente debole, gli studiosi moderni definiscono omeismo da homoios (simile). Era intenzione di Costanzo che tutti i vescovi della cristianità approvassero e sottoscrivessero la formula, ma prima la defezione dell'Occidente a causa della sollevazione di Giuliano e poi la morte dell'imperatore (362) determinarono l'interruzione e il fallimento di questa politica compromissoria e dettero possibilità agli sconfitti di Rimini e Costantinopoli di rialzare la testa.

Quando Costanzo si era deciso a permettere il rientro di L. a Roma, non si era ingannato: fiaccato nel morale e decaduto nel prestigio il papa fu completamente assente sia nella laboriosa fase di preparazione sia durante il lungo complesso e drammatico svolgimento del concilio di Rimini; né consta che dalle parti in contrasto si sia mai fatto ricorso a lui. Anche quando, già prima della morte di Costanzo, cominciò in Occidente la reazione contro l'omeismo che aveva trionfato a Rimini, essa fu inizialmente capeggiata da Ilario di Poitiers e da Eusebio di Vercelli, al cui prestigio personale si aggiungeva quello derivante dall'aver sopportato condanna ed esilio senza alcuna debolezza. Ma non passò molto tempo e anche L. poté rientrare in attività: in effetti il suo cedimento, pur debitamente rilevato, come si è visto, non era stato drammatizzato neppure da Atanasio che di esso aveva fatto le spese, come si è anche visto che il favore del popolo di Roma non era mai venuto meno al papa; soprattutto giocava a suo favore il prestigio tradizionalmente inerente al seggio episcopale di Roma, cui tutto l'Occidente cristiano e soprattutto le Chiese d'Italia guardavano come alla loro guida. Da una lettera di papa Siricio (P.L., XIII, col. 1133) si apprende di un decreto di L. che invalidava le decisioni del concilio di Rimini. Da Ilario (epistola Imperitiae) si conosce una lettera enciclica inviata dal papa ai vescovi d'Italia in data incerta tra il 362 e il 364, in cui egli, adeguandosi alle disposizioni che, auspici Ilario e Atanasio, erano già state adottate in Occidente e in Oriente, stabilisce che, per essere riammessi nella comunione della Chiesa cattolica, coloro che avevano sottoscritto la formula riminese avrebbero dovuto condannare l'arianesimo e i suoi sostenitori e aderire alla professione di fede nicena. Era una disposizione molto moderata, che teneva conto del fatto che a Rimini i vescovi presenti in gran parte avevano ceduto per debolezza e non per convinta adesione alla dottrina espressa da quella formula. In questa lettera non si fa esplicita menzione dell'invalidità delle deliberazioni del concilio di Rimini, e perciò essa dovrebbe essere distinta dal decreto ricordato da Siricio: d'altra parte, tutto il suo contenuto presuppone l'invalidità di quelle deliberazioni, e allora non si può escludere che il decreto sia da identificare con la lettera. Nel 366, poco prima della morte, quando ormai la situazione religiosa in Occidente si era in massima parte normalizzata nel segno della fede nicena, L., come informano Socrate (Historia ecclesiastica IV, 12) e meglio di lui Sozomeno (Historia ecclesiastica VI, 7), ebbe ancora a che fare con gli strascichi della controversia, questa volta per iniziativa degli Orientali. In Oriente infatti la situazione politico-religiosa era ben lungi dal normalizzarsi, perché il frazionamento delle parti era molto più complesso che in Occidente e, alle prese con questa confusa situazione, l'imperatore Valente era intenzionato a riproporre la soluzione politica che Costanzo aveva cercato di imporre a favore dell'omeismo. Di tale politica facevano le spese soprattutto gli omeousiani, quantitativamente ragguardevoli ma tutt'altro che compatti: in parte infatti essi avevano aderito alla dottrina nicena, ma molti di loro rifiutavano di accettare l'homoousios e si mantenevano fedeli alla formula antiochena del 341. Ridotti a mal partito dai loro contrasti interni e dalla pressione di Valente, essi decisero di inviare una delegazione in Occidente: i delegati, Eustazio di Sebaste, Silvano di Tarso e Teofilo di Castabala, latori di lettere indirizzate all'episcopato occidentale, dovevano rivolgersi all'imperatore Valentiniano e a papa L., per chiedere loro di aiutarli nella presente distretta, e avevano poteri discrezionali di operare ciò che fosse utile a ristabilire la situazione della Chiesa in Oriente. I delegati non riuscirono a incontrare Valentiniano, che era partito per la Gallia, e si abboccarono soltanto con Liberio. Questi in un primo tempo non volle prestar loro ascolto, perché li considerava ariani e ostili al credo niceno: e a questo proposito va rilevata la carenza e l'approssimazione della visione dottrinale di L., ancora fermo al vecchio pregiudizio occidentale che considerava tout court ariano ogni orientale che non aderisse al simbolo niceno, una posizione che Ilario aveva già completamente superato nel De synodis (359). Ma i delegati fecero presente al papa la loro decisa avversione alla dottrina anomea (cioè ariana radicale) e la loro disponibilità ad accettare l'homoousios, in quanto lo consideravano non incompatibile con la loro fede omeousiana. Per suggerimento di L., essi dettarono una dichiarazione ufficiale di adesione al simbolo niceno, corredata dalla condanna di vari eretici e delle deliberazioni dei concili di Rimini e Costantinopoli. Socrate (Historia ecclesiastica IV, 12) ha tramandato per intero il testo della lettera che L. affidò ai delegati, perché la recapitassero ai vescovi orientali che li avevano inviati in Occidente: in essa egli esprime tutto il suo plauso e la sua gioia per quella che considera la recuperata concordia tra le cristianità d'Occidente e d'Oriente nel segno della fede nicena, che in Occidente era stata confermata dopo i fatti del concilio di Rimini e ora veniva recuperata anche dagli Orientali. Di passaggio egli sintetizza questa fede nell'espressione "ἐν τῇ ὑποστάσει καὶ τῷ ὀνόματι τοῦ ὁμοουσίου" ("nell'ipostasi e nel nome del consustanziale"): quanto all'homoousios, si è già chiarito come molti degli Orientali lo avessero accettato considerandolo non incompatibile con la dottrina omeousiana, intendendo cioè il termine come equivalente a "simile secondo la sostanza"; e in attesa del chiarimento definitivo che di lì a qualche anno avrebbe proposto Basilio, quella interpretazione, senza dubbio forzata, del termine distintivo di Nicea politicamente serviva allo scopo di raggruppare insieme gli Ii antiariani d'Oriente.

La novità dell'espressione liberiana sta nell'affermazione dell'ipostasi, cioè di una sola ipostasi del Padre e del Figlio, un concetto ricavabile dal simbolo niceno e familiarizzato in Occidente dal concilio di Serdica, che con questa affermazione aveva inteso contrastare la dottrina orientale che sosteneva ipostasi distinte del Padre e del Figlio. Ma perfino Atanasio, il più tenace assertore del simbolo niceno, nel concilio di Alessandria del 362 aveva rifiutato quell'affermazione del concilio di Serdica, in quanto troppo contrastante con quella delle ipostasi distinte, che egli sapeva molto diffusa tra gli antiariani d'Oriente. Tale convinzione era partecipata anche dagli omeousiani e pure dai delegati che erano venuti in loro rappresentanza da L.; e d'altra parte già Ilario nel De synodis aveva dimostrato la compatibilità della dottrina omeousiana con la fede antiariana degli Occidentali. Perciò l'affermazione di L., nel suo attaccamento alla lettera del simbolo niceno e agli enunciati del concilio di Serdica, dimostra quanto gli fosse rimasta estranea, nonostante il soggiorno forzato in Tracia e a Sirmio, la complessità della situazione dottrinale dell'Oriente: del resto anche il successore di L., Damaso, avrebbe indugiato a lungo prima di convincersi che la dottrina professata dagli Orientali poteva essere considerata ortodossa non meno della fede nicena. Non meraviglia perciò che la decisione dei delegati orientali di accettare il simbolo niceno, da loro sottoscritto in evidente stato di necessità, non abbia apportato affatto quella concordia dottrinale e politica che L. aveva tanto esaltato nella sua lettera: in effetti gran parte degli omeousiani, nonostante l'impegno assunto dalla loro delegazione, rifiutò di accettare come formulazione di fede il simbolo niceno, e tra loro ci fu anche Eustazio, che aveva capitanato la delegazione.

Impegnato in modo diretto e drammatico nelle vicende della controversia ariana come nessuno dei papi prima e dopo di lui, L. ebbe ben poca opportunità di provvedere alle esigenze della comunità cristiana di Roma. Della sua attività pastorale si ha tuttavia una testimonianza diretta e circostanziata, di carattere privato, in cui il pontefice è esplicitamente ricordato in una delle funzioni specifiche del suo ministero: è l'epitaffio spoletino di una "Picentia Legitima", giovane sposa che morì poco dopo aver ricevuto il sacramento dell'iniziazione (battesimo e cresima) da papa L.: "d(e)p(o)sitio / Picentiae Legitimae / neofytae / die V kal(endas) sep(tembres), / consignata a Liberio papa. Fl(avius) Hospitianus / maritus / uxori / benemerenti / duplicem / sarcofacum / cum titulo / hoc loco (sanct)o e(t s)i(bi) / posuit / (in quo cum) marito / (quiesc)et" (Inscriptiones christianae Italiae, VI, Regio VI, Umbria, a cura di G. Binazzi, Bari 1989, nr. 63). Altre due testimonianze epigrafiche sembrano confermare come L. fosse effettivamente ben voluto dalla comunità di Roma: si tratta di due epitaffi nei quali la data della morte, invece che con la canonica indicazione dei consoli eponimi (normativa nella metà del IV secolo) è segnata con la menzione del suo pontificato: il primo ricorda una certa Euplia "[...] deposita in pace sub Libe / rio papa" (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, IV, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, In Civitate Vaticana 1964, nr. 10852); il secondo l'acquisto di una sepoltura in vita nel cimitero di S. Lorenzo nell'agro Verano "[...] onus se bibo / (sedent)e papa Liberio" (ibid., VII, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua, ivi 1980, nr. 17436). Di L. rimangono anche due testimonianze iconografiche: la prima, della seconda metà del IV secolo, è nell'arcosolio di Celerina della catacomba di Pretestato che presenta la figura di L. accompagnata dalla relativa iscrizione didascalica insieme alle immagini di Pietro e Paolo, di Sisto II e del suo diacono Lorenzo; la seconda è nella serie dei ritratti papali di S. Paolo fuori le Mura dell'età di Leone Magno.

Alla iniziativa di L. il Liber pontificalis attribuisce la costruzione di una basilica sul colle Esquilino in prossimità del mercato di Livia: "hic fecit basilicam nomini suo iuxta Macellum Libiae" (p. 208). L'edificio liberiano nel corso del 366 fu presidio degli scismatici ursiniani che contendevano a Damaso la cattedra di Roma e fu teatro dello scontro cruento tra i due partiti in lizza. In prossimità di questo edificio (come anche sembrerebbero indicare alcune recenti ricognizioni archeologiche) si insediò per iniziativa di Sisto III un grandioso complesso cultuale dedicato alla Vergine (S. Maria Maggiore) dopo la conclusione del concilio di Efeso (431): la continuità tra i due edifici è sottolineata dal Liber pontificalis (p. 232) con la specificazione che Sisto III fece costruire una basilica dedicata a s. Maria, "quae ab antiquis Liberii cognominabatur, iuxta Macellum Libiae". La notizia del Liber pontificalis (p. 208) relativa ad un presunto intervento di L. sul sepolcro di s. Agnese sulla via Nomentana, dove Costantina tra il 337 e il 350 aveva fatto costruire una grandiosa basilica, non ha trovato alcun riscontro archeologico: gli interventi pontificali in questa area sono coerentemente documentati molto più tardi al tempo di Simmaco e Onorio. Il collegamento di L. con il complesso di S. Agnese può probabilmente essere stato indotto dall'altra notizia del Liber pontificalis (p. 207) secondo cui L. al ritorno a Roma dall'esilio in un primo tempo soggiornò "in cymiterio sanctae Agnae apud germanam Constanti Augusti". Non va poi trascurato il particolare che la basilica di S. Agnese nell'autunno del 368 fu l'ultimo presidio dei partigiani di Ursino - che rivendicavano per il proprio leader la successione legittima a L. - e che proprio qui venne a consumarsi l'ultimo cruento scontro con i damasiani.

L. morì il 24 settembre 366 e fu sepolto nel cimitero di Priscilla, lungo la via Salaria.

A lui è attribuito un lunghissimo epitaffio in versi (in più di un luogo corrotto), che ripercorre i momenti salienti della sua biografia (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, IX, a cura di G.B. de Rossi-A. Ferrua-D. Mazzoleni, In Civitate Vaticana 1985, nr. 24830, da correggere con Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, I-II, a cura di G.B. de Rossi, Romae 1857-88: II, nr. 26, pp. 83-4; nr. 31a, pp. 85-6): il suo ministero di lettore (v. 9: "mox scripturarum lector pius indole factus"), di diacono (v. 18: "diaconus hinc factus iuvenis meritoque"), di vescovo (vv. 25-7: "electus fidei plenus summusque sacerdos qui nivea immaculatus papa sederes qui bene apostolicam doctrinam sanctam doceres"); la difesa del credo niceno (vv. 30-3: "in sinodo cunctis victor superatis iniquis sacrilegis nicena fides elata triumphat contra quamplures certamen sumpseris unus, catholica praecinte fide possederes omnes") da riferire evidentemente non al concilio di Milano del 355 - come suppongono G.B. de Rossi e L. Duchesne - in cui non vi fu alcun trionfo della "nicena fides", ma al sinodo tenuto a Roma nel 366, dopo la morte di Costanzo, in cui L. ottenne dalla delegazione orientale la condanna della formula di Rimini e la sottoscrizione di quella nicena (Socrate, Historia ecclesiastica IV, 12, pp. 238-43); la sua condanna all'esilio ("discerptus, tractus, profugatusque sacerdos") con l'esplicito accenno ai tentativi di imporgli formule false avverse alla fede cattolica, che avrebbero gettato un'ombra sulla sua persona e avrebbero deturpato l'immagine del Signore (vv. 37-40). Si tratta di un vero e proprio panegirico, evidentemente composto da un entusiasta estimatore di L. che, come è ovvio, evitò accuratamente qualsiasi riferimento alle circostanze sfavorevoli alla memoria del pontefice.

Ebbe subito culto liturgico di confessore e martire, cui però fu ben presto posta fine, a causa del ricordo del suo cedimento, e il calendario romano non fa menzione di lui. La sua memoria liturgica è invece celebrata in Oriente il 27 agosto.

fonti e bibliografia

Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 207-10.

Oltre le coordinate temporali, il Liber pontificalis informa sull'attività di L. a Roma, mentre le sue poche notizie riguardanti l'operato di L. nella crisi ariana sono del tutto errate. Questo testo appare singolarmente ben disposto nei confronti del diacono Felice, chiamato da Costanzo a sostituire l'esiliato Liberio.

Fonte fondamentale per l'attività e le traversie di L. dal 352 al 358 è Ilario, che nei Collectanea antiariana Parisina, a cura di A. Feder, Vindobonae-Lipsiae 1916 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 65), pp. 39-193, riporta varie lettere di L., che si elencano qui in ordine cronologico: Obsecro, a Costanzo II, A VII (5); Nolo te, a Ceciliano, e Inter haec, quia in nullo, a Ossio, B VII 4.6 (6, 3); Quamvis sub imagine, a Eusebio, Dionigi e Lucifero, B VII 2 (6, 1-2); ai vescovi orientali, Studens paci, B III 1 (4, 1); agli stessi, Pro deifico timore, B VII 8 (6, 5-6); Quia scio, a Valente, Ursacio e Germinio, B VII 10 (6, 8-9); Non doceo, a Vincenzo, B VII 11 (6, 10-11); Imperitiae, ai vescovi italiani, B IV 1 (12, 1-2).

Contemporanee alla lettera indirizzata a Costanzo II sono tre lettere a Eusebio di Vercelli riportate in un'antica biografia di Eusebio (Me frater, Remeante, Sciebam), sicuramente autentiche, anche se la biografia è di contenuto largamente leggendario (Bibliotheca Hagiographica Latina [...], II, Bruxellis 1901, nrr. 2748, 2749), e pubblicate da V. Bulhart, Turnholti 1957 (Corpus Christianorum, Series Latina, 9), pp. 121-23.

Su L. e Costanzo e l'esilio di L. v. anche:

Atanasio, Historia Arianorum 35-40, 41, 75 e Apologia contra Arianos 89, a cura di H.-G. Opitz, in Athanasius Werke, II, 1, Berlin 1939, rispettivamente alle pp. 202-06, 224-25 e 167.

Teodoreto, Historia ecclesiastica II, 14.16, a cura di L. Parmentier, Leipzig 1911 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller, 19), pp. 125-28, 131-34. Sozomeno, Historia ecclesiastica IV, 15; VI, 7, a cura di J. Bidez-G.C. Hansen, Berlin 1960 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller, 50), pp. 245-47.

L'anonimo Gesta inter Liberium et Felicem episcopos 1, in Collectio Avellana, a cura di O. Guenther, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1895 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 35, 1), pp. 1-4.

Ammiano Marcellino, Rerum gestarum XV, 7, 6.10, a cura di W. Seyfarth-L. Jacob-Karau-I. Ulmann, I, Leipzig 1978, p. 56.

Su L. e la delegazione orientale, cfr. Socrate, Historia ecclesiastica IV, 12, a cura di G.C. Hansen, Berlin 1995 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller, N.F. 1), pp. 238-43.

Su L. in generale, v. Dictionnaire de théologie catholique, IX, Paris 1926, s.v., coll. 631-59.

E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tübingen 1930, pp. 166-95.

Sull'attività di L. nel contesto della controversia ariana, cfr. G. Bardy, in Histoire de l'Église, a cura di A. Fliche-V. Martin, III, Paris 1950, pp. 142-55, 249-50.

M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975, pp. 214-43, 395-97.

Ch. Pietri, Roma Christiana. Recherches sur l'Église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-440), I, ivi 1976, pp. 237-68.

H.-Ch. Brennecke, Hilarius von Poitiers und die Bischofsopposition gegen Konstantius II. Untersuchungen zur dritten Phase des arianischen Streites (337-361), Berlin 1984, pp. 108-77, 265-97.

R.P.C. Hanson, The Search for the Christian Doctrine of God. The Arian Controversy 318-381, Edinburgh 1988, pp. 329-41, 358-62, 763-64

J. Ulrich, Die Anfänge der abendländischen Rezeption des Nizänums, Berlin-New York 1994, pp. 231-43.

Sulla ormai obsoleta questione del cedimento di L., cfr. A. Hamman, Saint Hilaire est-il témoin à charge ou à décharge pour le pape Libère?, in Hilaire et son temps, Actes du colloque de Poitiers, 29 septembre-3 octobre 1968, Paris 1969, pp. 43-50.

P. Smulders, Hilary of Poitiers. Preface to his Opus historicum, Leiden 1995, p. 25.

M. Simonetti, Eusebio nella controversia ariana, in Eusebio di Vercelli e il suo tempo, a cura di E. dal Covolo-R.Uglione-G.M. Vian, Roma 1997 (Biblioteca di Scienze Religiose, 133), pp. 155-79.

Tutte le questioni relative all'epitaffio di L. sono state recentemente riprese daA. Ferrua, Due imitazioni damasiane, in Saecularia damasiana, Città del Vaticano 1986, pp. 26-7 e Id., La polemica antiariana nei monumenti paleocristiani, ivi 1991, pp. 274-80 che porta nuovi convincenti argomenti per l'attribuzione a L., già sostenuta da G.B. de Rossi, F. Savio, L. Duchesne e, nel contempo, dimostra l'insostenibilità delle attribuzioni precedentemente avanzate a Martino I (F.X. Funk), Giovanni I (J. Friedrich), Felice II (Th. Mommsen), a un vescovo anonimo accecato (K. Weyman).

Per la pittura di Pretestato v.A. Ferrua, La polemica antiariana, pp. 15-20, che rifiuta l'interpretazione proposta da Cl. Dagens su una presunta intenctio antiariana sottesa alla presenza di L.; per altre testimonianze figurative dei secc. XV-XX v. Lexikon der christlichen Ikonographie, VII, Rom 1974, s.v., col. 403.

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