Liberalismo

Enciclopedia dei ragazzi (2006)

liberalismo

Stefano De Luca

La dottrina politica incentrata sulla libertà individuale

Nato nell’Inghilterra del 17° secolo, il liberalismo moderno è la teoria politica che più di ogni altra ha contribuito all’affermazione dei diritti individuali di libertà e alla limitazione del potere dello Stato. Avendo accompagnato lo sviluppo della civiltà occidentale dal Seicento a oggi e in contesti nazionali molto diversi tra loro, il liberalismo ha assunto varie fisionomie, senza però abbandonare mai la sua vocazione antiautoritaria

Che cos’è il liberalismo

Non è facile dare una definizione condivisa di liberalismo. Lo stesso termine liberale ha acquisito un significato politico soltanto agli inizi del 19° secolo (sino ad allora voleva dire semplicemente «generoso, nobile d’animo»), quando venne usato nelle Cortes di Cadice (1812) per distinguere il partito che difendeva le libertà pubbliche (Partido liberal) dal partito che le avversava (Partido servil). In quegli stessi anni il termine liberale inizia a comparire nelle opere di alcuni pensatori – come Benjamin Constant, Madame de Staël, Simonde de Sismondi – per definire gli orientamenti politici ispirati al principio della libertà individuale. Di qui il paradosso che pensatori come Locke, Montesquieu e Kant, vissuti tra 17° e 18° secolo e considerati i padri del liberalismo moderno, non conoscevano questo significato della parola e pertanto non si sarebbero definiti liberali.

Una grande famiglia politica

A ciò va aggiunto il fatto che il pensiero liberale ha accompagnato l’evoluzione della civiltà occidentale per un arco di tempo così lungo (dal 17° secolo in avanti) e in paesi così diversi tra loro (come l’Inghilterra, gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, l’Italia) che esso non poteva non assumere fisionomie differenti a seconda dei contesti nei quali si è sviluppato e dei problemi che ha dovuto fronteggiare. Abbiamo avuto così liberalismi diversi nell’ispirazione filosofica (quelli sei-settecenteschi fondati sul giusnaturalismo, quelli otto-novecenteschi sullo storicismo o sull’utilitarismo), negli orientamenti politici (alcuni ostili, altri aperti verso le istanze egualitarie della democrazia e del socialismo) e nelle concezioni economiche (alcuni nettamente contrari, altri favorevoli all’intervento dello Stato nell’economia).

Ma al di là di queste differenze, i vari pensatori liberali condividono alcune profonde convinzioni, che li legano tra loro e li distinguono dalle altre grandi ‘famiglie politiche’ della modernità. La prima è che la persona e la coscienza di ogni individuo sono sacre e che nulla può giustificare la loro violazione. La seconda è che la varietà delle opinioni e degli interessi non è un male da eliminare, ma un bene da tutelare, anche perché il loro pacifico conflitto costituisce il più potente strumento di progresso culturale e sociale.

I diritti naturali contro l’assolutismo: Locke

La prima fase del liberalismo moderno si colloca nei secoli 17° e 18° e presenta due caratteristiche principali: il carattere antiassolutistico e l’ispirazione giusnaturalistica (leggi naturali), fondata cioè sulla teoria dei diritti naturali.

La sua prima formulazione è rintracciabile nelle opere di Locke. Secondo il pensatore inglese esiste una legge naturale, anteriore al sorgere di ogni società, che attribuisce a ogni individuo una serie di diritti (alla vita, alla libertà, alla proprietà), che non possono mai essere ceduti o annullati. Di conseguenza lo Stato, che sorge per volontà degli individui e si basa sul loro consenso, non può mai violare tali diritti: se lo fa – cioè se pretende di esercitare un potere assoluto, privo di limiti – i sudditi hanno il diritto di resistere agli ordini del sovrano e persino di deporlo (diritto di resistenza). Teorizzando anche la separazione dei poteri e il principio della tolleranza religiosa, Locke mise a punto una completa e articolata dottrina liberale, che trovò realizzazione, in Inghilterra, con la Rivoluzione inglese (la cosiddetta Glorious revolution) del 1688.

Costituzionalismo e antipaternalismo: Montesquieu e Kant

Sul continente europeo, le cui condizioni politiche e sociali erano più arretrate, il cammino della libertà fu più lento e accidentato e le sue massime espressioni teoriche – rintracciabili nelle opere di Montesquieu e di Kant – sono meno avanzate rispetto a quella lockeana. Partendo dalla convinzione che il potere può essere frenato soltanto da altro potere, Montesquieu vide nella separazione dei poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) e nella loro attribuzione a organi diversi (parlamento, governo, magistratura) il più sicuro antidoto al ricorrente pericolo del dispotismo. Egli diede avvio in tal modo alla tradizione del costituzionalismo liberale.

Quanto a Kant, i suoi contributi più originali stanno nella polemica antipaternalistica e nell’elogio dell’antagonismo.

Non c’è peggior dispotismo, afferma il pensatore tedesco, di quello che tratta i suoi sudditi come eterni minorenni, ai quali bisogna dire cosa devono pensare e cosa devono fare. L’uomo moderno ha ormai tutti i mezzi per pensare con la sua testa e ha il diritto di discutere pubblicamente di ogni argomento, ferma restando l’obbedienza all’autorità (Kant, a differenza di Locke, non ammette il diritto di resistenza). Kant esalta anche la tendenza degli uomini ad affermare sé stessi entrando in competizione con gli altri. Tale tendenza non va biasimata moralisticamente, ma approvata perché eccita tutte le energie dell’uomo e lo fa progredire in ogni campo. Questo effetto positivo, tuttavia, si verifica soltanto se la competizione avviene nel quadro di uno Stato fondato sul diritto, dove tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge e godono della stessa libertà.

La nuova stagione politica della Rivoluzione francese

Se la Rivoluzione francese – il cui atto più solenne fu la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – può essere considerata il punto d’arrivo del liberalismo sei-settecentesco, essa rappresenta al tempo stesso il punto di partenza di una nuova fase storica, caratterizzata dalla prepotente affermazione del principio democratico. La difesa di tale principio, nella versione sostenuta dai giacobini, attribuiva alla sovranità popolare un carattere assoluto.

Chi meglio di ogni altro comprese che con la Rivoluzione francese si era aperta una nuova stagione politica fu Benjamin Constant, il quale sostenne che il «dispotismo democratico» dei giacobini era più pericoloso di quello dei vecchi sovrani, giacché poteva giustificare tutti i propri atti, anche i più terribili, richiamandosi alla volontà del popolo (volontà che, in realtà, era in grado di controllare e manipolare). L’errore di fondo, risalente a Rousseau, stava nella mancata distinzione fra titolarità ed estensione del potere. Rousseau aveva ragione nel sostenere che il titolare legittimo del potere fosse il popolo, ma commetteva un formidabile errore pensando che la sovranità popolare si identificasse con la libertà. La libertà, infatti, è possibile soltanto là dove il potere, anche quello democratico, incontra limiti ben precisi nei diritti degli individui. In caso contrario, il potere del popolo – che, nelle grandi società moderne, è sempre nelle mani di pochi – va di pari passo con il completo asservimento degli individui, come accadeva nelle repubbliche dell’antichità.

Di fronte alla democrazia e al socialismo

Il tema della democrazia costituì anche l’orizzonte del pensiero dello storico e uomo politico francese dell’Ottocento Alexis de Tocqueville, il quale con una geniale intuizione andò a studiarne il ‘modello’ negli Stati Uniti. In questa nazione di recente formazione il principio della sovranità popolare si era potuto sviluppare senza ostacoli, sino a permeare di sé ogni istituzione: nonostante ciò, esso non aveva dato luogo ad alcun dispotismo. Le ragioni di questo ‘successo’ stavano, secondo Tocqueville, in una serie di contrappesi al potere centrale, tra i quali il più importante era il decentramento amministrativo, ossia il fatto che comuni, contee e singoli Stati si autogovernavano. Il pensatore francese non mancò tuttavia di evidenziare anche i gravi difetti della democrazia americana, come la tendenza allo strapotere della maggioranza, il conformismo di massa e il piatto materialismo.

Anche il filosofo inglese dell’Ottocento John Stuart Mill temeva gli effetti dell’egualitarismo livellatore: una società in cui tutti fanno le stesse cose, vanno negli stessi posti, hanno le medesime aspirazioni e possiedono gli stessi diritti è una società nella quale sarà sempre più difficile che si formino personalità originali e creative. È quindi vitale che – attraverso la più ampia libertà personale – si tuteli e si incentivi quella varietà di opinioni, situazioni e stili di vita senza la quale la società è destinata a diventare sempre più grigia, conformistica e intollerante.

Ciò non significa che il liberalismo debba rimanere sordo alle giuste istanze di eguaglianza avanzate da democratici e socialisti. Mill auspica infatti che il diritto di voto sia esteso a tutti (esclusi gli analfabeti e i mendicanti) e si spinge a prevedere la scomparsa della proprietà privata dei mezzi di produzione e la nascita di un sistema cooperativo (anche se sottolinea, in polemica con gli scrittori socialisti, l’importanza della concorrenza tra le varie cooperative).

Il declino del liberalismo nel Novecento

L’età delle masse. Nei primi decenni del 20° secolo le idee del liberalismo classico – che facevano dell’individuo e della sua libera iniziativa il motore della vita sociale ed economica, relegando lo Stato al ruolo di custode dell’ordine – entrano in crisi. Esse sembrano sempre più inadatte a una società i cui nuovi protagonisti sono le grandi industrie e le grandi masse operaie e piccolo-borghesi. L’ingresso di queste ultime nella vita politica, grazie al suffragio universale, porta con sé pressanti richieste di emancipazione economica, sociale e culturale cui rispondono meglio le nuove ideologie del nazionalismo e del socialismo, entrambe stataliste e capaci di organizzarsi in partiti di massa.

Nei pensatori liberali si fa strada l’idea che il futuro del liberalismo stia nel coniugarsi con la democrazia e persino con il socialismo. Nasce così, soprattutto nel mondo angloamericano (da Thomas Green a Leonard T. Hobhouse, da John Dewey a Keynes), un liberalismo di ispirazione democratica, che abbandona la concezione economica basata sul mercato (iniziativa privata e concorrenza) e sposa la causa dell’intervento statale al fine di promuovere il progresso sociale. Questa attenuazione delle differenze tra liberali, democratici e socialisti non marxisti si accentua ancora più di fronte all’affermazione, risalente agli anni Venti e Trenta, dei regimi totalitari, che si configurano come nemici mortali dell’intera tradizione liberale e democratica.

Il secondo dopoguerra. La sconfitta dei totalitarismi di destra (nazismo e fascismo), con la Seconda guerra mondiale, segna una vittoria delle liberaldemocrazie occidentali, ma approfondisce ulteriormente la crisi del liberalismo classico. Il panorama politico-culturale, almeno in Europa, si divide tra il marxismo – che conquista progressivamente l’egemonia sul mondo della cultura e dei giovani, forte anche del mito della rivoluzione – e le tradizioni politiche di ispirazione socialdemocratica o cristiano-democratica, che costruiscono il Welfare State (lo Stato del benessere) ed espandono sempre più il ruolo dello Stato nella vita economica e sociale. A difendere l’indissolubilità di liberalismo e mercato restano soltanto alcuni economisti, tra cui l’italiano Luigi Einaudi.

La rinascita del pensiero liberale

Sul finire degli anni Settanta il quadro muta radicalmente. Mentre il marxismo si avvia a un declino inesorabile, il modello socialdemocratico entra in crisi: i grandi apparati statali, sempre più costosi e inefficienti, soffocano l’economia e inducono alcuni governi – in primis quelli degli Stati Uniti e dell’Inghilterra – a riscoprire le virtù del mercato e dell’iniziativa privata. I regimi comunisti, minati dall’inefficienza economica e dall’assenza di libertà, sul finire degli anni Ottanta crollano sotto l’ondata delle proteste popolari, che invocano i diritti di libertà tipici della tradizione liberale.

Per il liberalismo si tratta di una rinascita spettacolare, che ben pochi avevano previsto. Tra i pensatori che avevano continuato a coltivare la tradizione del liberalismo classico spicca la figura dell’economista austriaco Friedrich von Hayek, il quale aveva sempre sostenuto che il massiccio intervento dello Stato nella vita economica e sociale non solo ne deprime la vitalità – inducendo nei cittadini una mentalità assistenzialistica, che mina l’impegno e la responsabilità individuali – ma costituisce anche una minaccia per la libertà in sé stessa. Essere liberi significa, infatti, poter perseguire fini diversi; ma questi ultimi, per essere realizzati, necessitano sempre di mezzi economici. Se c’è un unico soggetto che controlla i mezzi (o la maggior parte dei mezzi), questo finirà inevitabilmente per controllare anche i fini.

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