Dialettale, letteratura

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Dialettale, letteratura

Luigi M. Cesaretti Salvi

Nel 1952 P.P. Pasolini, nell'introduzione all'antologia della Poesia dialettale del Novecento, a cura sua e di M. Dell'Arco, forniva il primo ragionato bilancio della produzione dialettale in Italia nella prima metà del 20° sec. e insieme una diagnosi della situazione a lui contemporanea, segnalando tra l'altro "l'assai maggiore difficoltà teorica del dialetto in un tempo in cui […] l'italiano che non era mai stato una lingua strumentale (se non in misura esigua) ma solo istituzionale e letteraria, comincia a essere effettivamente una lingua parlata". E aggiungeva: "Parlata, intendiamo dire, nei rapporti più umili: della famiglia e quindi dell'infanzia. Estremamente più complessa è dunque oggi la ragione di un ritorno al dialetto, a questa non più unica ma seconda lingua parlata […]" (1952, 19952, p. cv). Si era appena all'inizio degli anni Cinquanta. Di lì a poco la sempre più capillare diffusione delle trasmissioni televisive a partire dal 1953 (si pensi a programmi di esplicita alfabetizzazione come Non è mai troppo tardi, dal 1960) e successivamente l'innalzamento dell'obbligo scolastico a 14 anni - con l'introduzione della scuola media unica avviata dai governi di centrosinistra nel 1963 - avrebbero enormemente accentuato il fenomeno della recessione se non della scomparsa dei dialetti a vantaggio dell'italofonia, e dunque reso ancora più acute le difficoltà così tempestivamente segnalate da Pasolini. Già nel corso degli anni Cinquanta, inoltre, con la seconda tumultuosa modernizzazione che investì il Paese, si era avviato quel processo di omologazione dei comportamenti, della mentalità e del linguaggio che lo stesso Pasolini più tardi avrebbe denunciato come una impressionante "mutazione antropologica". Non scomparvero solo i dialetti, scomparve la civiltà di cui erano espressione e testimonianza. E tuttavia, contro ogni aspettativa, a partire dagli anni Sessanta, e ancor più dal decennio successivo, la produzione dialettale registrò una ripresa sorprendente, non soltanto quantitativa ma anche qualitativa. Lo stesso Pasolini, che - dopo aver riunito il frutto della felice stagione casarsese nella raccolta La meglio gioventù (1954) - aveva smesso di scrivere in friulano, tornò al dialetto con una nuova, arricchita edizione dei versi giovanili (La nuova gioventù: poesie friulane 1941-1974, 1975).

La netta ripresa della poesia in dialetto negli ultimi decenni del Novecento è dunque un fenomeno per molti aspetti singolare. L'alfabetizzazione di massa cui sopra si accennava ha dato avvio a un processo probabilmente irreversibile di impoverimento delle varietà dialettale e provocato un drastico restringimento del pubblico in grado di intendere o quanto meno di interessarsi a una l. d. che non sia quella, dilettantesca e strapaesana, coltivata nei cenacoli di provincia. Il poeta in dialetto non potrà rivolgersi quindi che ai (tradizionalmente pochi) lettori di poesia, per buona parte dei quali, inoltre, i suoi testi saranno accessibili soltanto con l'aiuto di traduzioni appositamente fornite dall'autore stesso o da un curatore. E se nella prima metà del secolo molti scrittori in dialetto avevano fatto in modo di attenuare le distanze rispetto all'italiano (si pensi alla facile accessibilità del romanesco di Trilussa rispetto a quello del Belli), gli scrittori delle generazioni successive sembrano volere accentuare quelle distanze, rifiutando ogni riduttiva koinè regionale e rivolgendosi spesso alle forme dialettali più periferiche, nel tentativo di risalire a una sorta di linguaggio originario, arcaico (il casarsese di Pasolini, il tursitano di A. Pierro), fino al limite estremo dell'endofasia. La loro poesia perciò non si genera dalla matrice delle diverse tradizioni dialettali, che spesso vengono deliberatamente ignorate, ma dalla scelta consapevole di un codice (il dialetto) dettata dal rifiuto di un altro codice (la lingua) di cui i nuovi autori avvertono l'inadeguatezza per esaurimento o per eccesso di letterarietà. Così, mentre i dialetti tendono a scomparire nelle abitudini dei parlanti, si verifica una parallela crescita del loro prestigio culturale in alternativa sia al monolinguismo toscaneggiante proprio della nostra tradizione letteraria, sia all'italiano standardizzato della comunicazione quotidiana, influenzata dalla pubblicità e dalla televisione. Un risultato cui contribuiscono i nuovi orientamenti della critica formale, l'abbandono progressivo dei modelli normativi a vantaggio delle analisi descrittive negli studi linguistici, il diffondersi delle ricerche etnografiche e il bisogno di riaffermare la dignità delle proprie radici in un mondo che si va sempre più uniformando ai modelli consumistici imposti dalla globalizzazione. All'altezza degli anni Settanta, dopo un periodo di silenzio dovuto in parte al disorientamento provocato dall'esasperato sperimentalismo di certa neoavanguardia, in parte al diffondersi di un'ipertrofica ideologia della prassi che predica il rifiuto tout court della letteratura, molte vocazioni poetiche tornano a farsi sentire, come testimonia l'antologia Il pubblico della poesia (a cura di A. Berardinelli e F. Cordelli, 1975, nuova ed. 2004), che ne tenta un primo censimento. Entro una pluralità di percorsi individuali, che sarebbe arduo ricondurre a formule di scuola, la poesia dei nuovi soggetti sembra essersi allontanata dal gusto sublime della lirica postsimbolista e mostra semmai una tendenza a includere nuovi elementi di realtà e forme del parlato, oltre che a ridare spazio alla soggettività. In questo contesto non saranno pochi gli autori che, nel solco delle esperienze anticipatrici di Pasolini, T. Guerra, Dell'Arco, Pierro, sceglieranno il dialetto come lingua della poesia (una poesia che si colloca intenzionalmente fuori dell'orizzonte vernacolare), senza più complessi d'inferiorità nei confronti della lingua letteraria illustre. Diversa nei diversi contesti l'incidenza di questi poeti neodialettali e diversa la loro distribuzione nelle diverse aree d., come cercheremo di mostrare nell'esposizione necessariamente sommaria che segue.

In Piemonte, dove avevano operato personalità di grande rilievo come N. Costa (1886-1945) e Pinin Pacòt (Giuseppe Pacotto, 1899-1964), il primo più incline a toni popolareschi, l'altro a una poesia dai toni raffinati, si è segnalato Tòni Bodrìe (Antonio Bodrero, n. 1921), che coniuga l'appassionata difesa dell'occitano (Solestrelh òucitan, 1971, Sole occitano) con una significativa produzione in piemontese (Val d'Inghildon, 1974), moderna e non priva di punte giocose. A Mondovì, oltre a C. Regis (n. 1929: El nì dl'ajassa, 1980, Il nido della gazza; Lune, 1989), sono attivi D. Boetti (n. 1947) e R. Bertolino (n. 1948).

La dialettalità ligure del 20° sec. ha avuto la sua più nota figura in E. Firpo (1889-1957), poeta di raffinata sensibilità pascoliana. Agli antipodi della relativa cantabilità di Firpo si pone la robusta vena narrativa di R. Giannoni (n. 1934), che, nato a Genova ma vissuto soprattutto a Torino e Milano come funzionario della RAI, si serve, nelle due raccolte da lui pubblicate, 'E gagge (1987, Le gabbie) e 'E trombe. Acconti di versi in scadenza (1997), di un genovese arcaico con suggestivi inserti plurilingui. Al dialetto ligure di Imperia appartiene la produzione, riunita in La vita sa di buono. Tutte le poesie in dialetto ligure 1951-1992 (1996), di C. Vivaldi (1925-1999), che scrive anche in lingua e trae forse dalla sua professione di raffinato critico d'arte l'intensa visività che caratterizza i suoi versi. Altra voce di rilievo è quella di P. Bertolani (n. 1931), vigile urbano di mestiere e poeta anche in lingua, autodidatta, che trova nel dialetto (la varietà di ligure parlata a Serra di Lerici) lo strumento più idoneo a esprimere la propria condizione di 'sopravvissuto' in un mondo in cui si sente straniero: Seinà (1985, Serata); E' góse, l'aia (1988, Le voci, l'aria); Diario greco (1989); Avéi (1994, Beni); Raità da neve (2005, Rarità della neve).

Dopo il travolgente espressionismo della poesia di D. Tessa (1886-1939), la voce più sicura della l. d. in Lombardia è quella di F. Loi (n. 1930), genovese di nascita e milanese d'adozione (ma si serve anche del dialetto materno, il colornese), figura tra le più rappresentative della nuova poesia, di cui si è fatto promotore anche attraverso le sue collaborazioni giornalistiche, in particolare al supplemento culturale del Sole-24 ore. La sua complessa esperienza, dopo l'aggressivo, e straordinariamente inventivo, mimetismo del poemetto Stròlegh (1975, Stregoneria), carico degli umori di una Milano resistenziale e postbellica, e l'ironico allegorismo di Teater (1978), approda alla più distesa narratività del romanzo in versi L'angel (1981 e 1994), e alla più intima liricità (già preannunziata da Poesie d'amore, 1974) del componimento breve, con L'aria (1981), Lünn (1982, Lune), Bach (1986) e le raccolte successive (da Liber, 1988, Libro-Libero, a Isman, 2002), dove lo stesso dialetto milanese, alleggerendosi delle più aspre componenti gergali, si fa più trasparente e affabilmente comunicativo. Con le raccolte Lumbardia (1983), Viridarium (1987) e Vûs (1997, Voci) si è segnalato G. Consonni (n. 1943), architetto e urbanista che vive a Milano e scrive in dialetto brianzolo, mentre in un dialetto di confine, quello di Sirmione, scrive l'autodidatta F. Grisoni (n. 1945), autrice di versi sorretti da una forte tensione conoscitiva: La böba (1986, La stupida); L'oter (1988, L'altro); De chì - Di qui (1999); La giardiniera (2001); L'ala (2005).

Complessa è la situazione nelle regioni nordorientali, un'area in cui le parlate dialettali conservano ancora una certa vitalità. Nella prima metà del 20° sec. i maggiori poeti dialettali sono stati il triestino V. Giotti (pseud. di Virgilio Schönbeck, 1885-1957), il gradese B. Marin (1891-1985) e il veneto G. Noventa (pseud. di Giacomo Ca' Zorzi, 1898-1960), i primi due sul registro lirico-elegiaco, l'altro con una personalissima forma di poesia discorsiva a forte contenuto etico e dichiaratamente antiermetica. Tra le voci nuove è da segnalare quella del vicentino F. Bandini (n. 1931) per un piccolo ma prezioso nucleo di poesie in dialetto che vanno ad arricchire la sua maggiore produzione in lingua e in latino nelle raccolte Santi di dicembre (1994) e Meridiano di Greenwich (1998). Non meno preziosa è la produzione dialettale (Filò. Per il Casanova di Fellini, 1976; Mistieròi, 1979, Piccoli mestieri; Idioma, 1986) di A. Zanzotto (n. 1921), che stempera in un idioma primigenio prossimo al linguaggio infantile (petèl), su base veneziana con innesti dell'entroterra (Pieve di Soligo), l'ardua vena sperimentale che caratterizza la sua fondamentale produzione in lingua. Sul versante di uno strenuo sperimentalismo plurilinguistico si colloca la poesia del trevigiano E. Calzavara (1907-2000), che ha esercitato a lungo la professione di avvocato a Milano ed è stato vicino ai poeti della neoavanguardia (la sua produzione è riunita in Ombre sui veri [Ombre sui vetri]. Poesie in lingua e in dialetto trevigiano, 1990). All'area dello sperimentalismo vanno ascritte anche le varie raccolte dialettali (da La fiora del vin, 1960, La muffa del vino, ad Aque perse, 1985, a Dadrio del specio, 1993, Dietro lo specchio) del trevigiano S. Zanotto (1932-1996) e quelle (riunite in Scribendi licentia, 1998) del padovano C. Ruffato (n. 1924), anch'egli vicino alla poetica della neoavanguardia. Lontana da ogni sperimentalismo, e piuttosto riconducibile a un'aura di poesia orfica e religiosa, è invece l'opera del veneziano E. Tomiolo (1911-2003), restauratore e pittore, che ha esordito tardi come poeta (Oséo gemo, 1984, Uccello gomitolo; Aqua, 1991; Farse la luna, 1994), mentre una vena amabilmente nostalgica caratterizza le raccolte dialettali, poi riunite in Latitudine Nord (1980), del triestino C.L. Cergoly (1908-1987). Nel Friuli, dopo la rinascita promossa da Pasolini (1922-1975) con i versi delle Poesie a Casarsa (1942) e la fondazione della Academiuta de lenga furlana (insieme al cugino N. Naldini, n. 1929, e a T. Spagnol, n. 1930), e per lo più lungo la linea da lui tracciata di un recupero dell'oralità come antidoto alla consunzione della lingua letteraria, va segnalata l'opera di E. Bartolini (n. 1922) e di L. Zannier (n. 1935). Altre voci significative sono quelle di F. De Gironcoli (1892-1979), N. Cantarutti (n. 1920), E. Buiese (1926-1987), A.M. Pittana (n. 1930) e I. Vallerugo (n. 1946). Una forte componente realistica caratterizzava le prime raccolte (Tiare pesante, 1977, Terra pesante; Vâr, 1978, Varmo) di A. Giacomini (n. 1940), professore universitario e scrittore anche in lingua, che è poi approdato a una lirica dai toni più composti ed elegiaci (da Sfueis, 1981, Fogli-Stagni, a In âgris rimis, 1994, In agre rime).

Assai vivace la produzione dialettale della Romagna, a lungo memore della lezione pascoliana nella poesia di A. Spallicci (1886-1973) e dei suoi epigoni, e rinnovata dall'opera del santarcangiolese T. Guerra (n. 1920), anche scrittore e sceneggiatore cinematografico, lungo un percorso che va dal personalissimo realismo degli esordi (I scarabòcc, 1946, Gli scarabocchi; La s-ciuptèda, 1950, La schioppettata) ai toni narrativo-affabulatori delle prove più recenti (da Il miele, 1981, a Il libro delle chiese abbandonate, 1988, e oltre). Santarcangiolesi sono anche N. Pedretti (1923-1981), autore di tre raccolte poetiche (Al vòusi, 1975, Le voci; Te fugh de mi paèis, 1977, Nel fuoco del mio paese; La chèsa de témp, 1981, La casa del tempo), in cui una vena squisitamente elegiaca subentra ai toni realistici e protestatari degli inizi; e R. Baldini (1924-2005), che da Milano, la città dei suoi diversi impieghi nella pubblicità e nel giornalismo, riscopre i suoni della terra romagnola, dando voce a personaggi stralunati e bizzarri, a una rappresentazione grottesca del gran disagio del vivere. Alle sue prove poetiche (E' solitèri, 1976, Il solitario; La nàiva, 1982, La neve; Furistìr, 1988, Forestiero; Ad nòta, 1995, Di notte; Intercity, 2003) sono da aggiungere i monologhi teatrali riuniti in Carta canta. Zitti tutti! In fondo a destra (1998). Ma il trio dei santarcangiolesi non esaurisce la ricchezza della produzione dialettale nella Romagna. Si ricordino anche T. Baldassari (n. 1927), sindacalista, esempio tipico di come il dialetto, perduta la sua vitalità, possa essere riutilizzato come lingua privata della memoria (da Al progni sérbi, 1975, Le prugne acerbe, a E' zet dla finëstra, 1998, Il silenzio della finestra), N. Spadoni (n. 1949) e G. Nadiani (n. 1954).

Come la più gran parte dei neodialettali, anche il marchigiano F. Scataglini (1930-1994) approda al dialetto dopo alcune prove in italiano, adottando un'originale forma di linguaggio, dove la componente idiomatica anconetana, che peraltro presenta minimi scarti rispetto alla lingua, si coniuga con i modelli remoti del volgare umbro-marchigiano. Moderna e preziosa al tempo stesso, nella misura breve del verso (senari e settenari) e nell'uso della rima, la sua lirica è espressione di una condizione di smarrimento senza scampo e si colloca, con quella di Loi e Baldini, tra gli esiti più sicuri del secondo Novecento: E per un frutto piace tutto un orto (1973); So' rimaso la spina (1977); Carta laniena (1982); Rimario agontano 1968-1986 (1987); La rosa (1992); El Sol (post., 1995).

Mentre in Abruzzo e nel Molise, dopo gli apporti di C. De Titta (1862-1933), V. Clemente (1895-1975), A. Dommarco (n. 1912), da un lato, e di E. Cirese (1884-1953), dall'altro, sono mancate espressioni pienamente riconducibili alla nuova dialettalità, nel Lazio, dopo le esperienze di Trilussa (pseud. di Carlo Alberto Salustri, 1871-1950), A. Jandolo (1873-1952), G.C. Santini (1880-1957), e a parte l'epigonismo belliano di due autori come l'Anonimo Romano (pseud. di Maurizio Ferrara, 1921-2000) e A. Trombadori (1917-1993), una svolta in senso lirico e moderno nella produzione in dialetto romanesco fu impressa da M. Dell'Arco (pseud. di Mario Fagiolo, 1905-1996), architetto di professione e curatore con Pasolini della citata antologia della Poesia dialettale del Novecento: in senso lirico, perché la sua poesia è soprattutto poesia di stati d'animo, affidata prevalentemente a componimenti brevi, e in senso moderno perché egli liberò definitivamente il romanesco dall'ossequio obbligato al gusto popolareggiante di marca ottocentesca. L'intera sua produzione si può leggere nel volume Tutte le poesie romanesche 1946-1995 (2005). Tra gli autori successivi una posizione di notevole spicco occupa M. Marè (1936-1993), notaio di professione. Pagato il suo tributo a un facile bozzettismo dialettale (Ossi de persica, 1977; Cicci de sèllero, 1979), questo autore ha modulato la propria ispirazione sul recupero pieno del registro tonale e formale del Belli (Er mantello e la rota, 1982) per lanciarsi poi, da questo apprendistato, verso uno spericolato, violento espressionismo, dove l'invenzione e la deformazione del lessico e della sintassi appaiono funzionali alla rappresentazione allucinata di una realtà degradata (Sìlabbe e stelle, 1986; Verso novunque, 1988; Controcore, 1993).

La poesia dialettale napoletana è stata condizionata dal peso di una tradizione illustre che, nel solco della duplice lezione di S. Di Giacomo e F. Russo, aveva visto fiorire una ricca produzione di canzoni e macchiette popolari, e affermarsi, tra teatro e poesia, autori come R. Viviani (1888-1950), E. De Filippo (1900-1984) e A. De Curtis (1898-1967), in arte Totò. Solo con un deciso scarto dai consunti cliché partenopei, diventa possibile una nuova poesia dialettale: così A. Serrao (n. 1936) recupera le forme di un napoletano rurale tanto filologicamente ricercato quanto efficace (si veda il volume La draga le cose, 1997, che comprende anche la produzione in lingua) e M. Sovente (n. 1948) riscopre per le sue sperimentazioni il dialetto dei Campi Flegrei (Per specula aenigmatis, 1990; Cumae, 1998; Carbones, 2002).

Nella letteratura pugliese, a lungo condizionata dall'ossequio alla lezione di G. Pascoli, dopo il parziale rinnovamento attuato da P. Gatti (n. 1913), con le sue raccolte poetiche nel dialetto salentino di Ceglie Messapico (da Nu vecchju diarie d'amore, 1973, a 'Nguna vite, 1984, Qualche vita), e da G. De Donno (n. 1920), che esprime una sua vena epigrammatica e antilirica nel dialetto di Maglie (da Cronache e paràbbule, 1972, a Palore, 1999, Parole), si sono distinti L. Angiuli (n. 1946) e F. Granatiero (n. 1949), che da Torino dove vive recupera il linguaggio arcaico del Gargano (U iréne, 1983, Il grano; Scúerzele, 2002, Spoglia).

La Basilicata non vanta una riconoscibile e omogenea tradizione di poesia dialettale, ma è in uno dei suoi idiomi più arcaici, il dialetto di Tursi, che apparve nel 1960 il primo importante libro di A. Pierro (1916-1995), 'A terra d'u ricorde. Il poeta aveva già al suo attivo una discreta produzione in italiano; ora il medesimo nucleo tematico delle raccolte in lingua - la nostalgia del paese, il trauma infantile della perdita della madre, la memoria di una civiltà contadina con i suoi riti arcaici - si arricchiva delle cadenze inaudite di una lingua vergine e quasi privata, capace di trasferire sul piano del mito le ossessioni dell'autore. Le numerose raccolte successive (da Metaponte, 1963, I 'nnamurète, 1963, Gli innamorati, Nd'u piccicarelle di Turse, 1967, Nel precipizio di Tursi, fino a Tante ca pàrete notte, 1986, Tanto che pare notte, e Nun c'è pizze di munno, 1992, Non c'è angolo della Terra) avrebbero confermato il carattere non episodico della sua ispirazione e le ragioni di un'esperienza poetica che si situa tra le più significative del secondo Novecento.

Poeta in lingua è anche all'inizio il calabrese D. Maffia (n. 1946), insegnante a Roma e critico letterario. Lontano dalla tradizione prevalentemente vernacolare della sua regione, e piuttosto incline alla sperimentazione linguistica, egli è approdato al dialetto nel 1987 con A vite i tutte i jurni (La vita di tutti i giorni), cui sono seguite le raccolte U Ddíje poverílle (1990, Il Dio povero), I rúspe cannarute (1995, I rospi golosi) e Papaciòmme (2000, Spaventapasseri).

Molti poeti nel Novecento hanno contribuito ad arricchire l'illustre tradizione dialettale della Sicilia: F. Guglielmino (1872-1956), Vann'Antò (pseud. di Giovanni Antonio Di Giacomo, 1891-1960), I. Buttitta (1899-1997), S. Calì (1918-1972). Tra i nuovi, si distinguono A. Cremona (n. 1931), M. Grasso (n. 1932) e il più giovane N. De Vita (n. 1950), che dopo una prima scelta di versi in lingua (Fosse Chiti, 1984) ha pubblicato in dialetto la raccolta Cutusìu (1994), poetica rievocazione dell'infanzia nella contrada marsalese di Cutusìo, e un libro di quindici poemetti narrativi, Cùntura (1999).

In Sardegna, regione che vanta, specialmente nella zona del nuorese, una solida tradizione di poesia dialettale (P. Mereu, 1872-1901; A. Casula, 1878-1957), va ricordato il campidanese B. Lobina (1914-1993), che in un dialetto dalle forti connotazioni locali ha scritto versi, raccolti in Is Canzonis (1992), e un romanzo, Po cantu Biddanoa (1987), in cui sono evocate le vicende della sua terra, Villanova Tulo. Altre varietà di sardo rivivono nelle poesie di E. Collu (n. 1932) e in quelle di L. Sole (n. 1934: Licheni rossi, 1995), studioso di linguistica e tradizioni sarde. Studioso e docente universitario, oltre che poeta in lingua, è stato anche A. Mura Ena (1908-1994), la cui tardiva produzione in sardo è stata pubblicata postuma: Recuida (1998, Ritorno). Un posto a sé spetta a F. Masala (n. 1916) per la sua multiforme attività di saggista e scrittore, volta a rivendicare i valori tradizionali della sua terra. La sua produzione in sardo è riunita in Poesias in duas limbas (1981, Poesie bilingui).

Segnali di una nuova attenzione alle potenzialità del dialetto sono venuti anche dal teatro, dove, oltre al suggestivo pastiche linguistico su base padana inventato da D. Fo (n. 1926), sono da segnalare i testi in milanese del già citato F. Loi, quelli di A. Tarantino (n. 1938), in una contaminazione di lombardo e piemontese, i polifonici monologhi di M. Paolini (n. 1956) e la vivace ripresa della scena napoletana con i drammi di A. Ruccello (1956-1986) ed E. Moscato (n. 1948). Diversa è la situazione della prosa narrativa poiché, per la sua stessa natura prevalentemente parlata, il dialetto mal si presta in genere ad assolvere "un ruolo prioritario come lingua del racconto e del romanzo" (Haller 2002, p. 61). La frequente presenza di inserti dialettali nella narrativa contemporanea andrà piuttosto studiata in funzione degli effetti variamente catalogabili (mimetico, documentario, evocativo, parodico, espressionistico) che a essi sono affidati all'interno di singoli percorsi di scrittura e non come espressione di una narrativa propriamente dialettale.

bibliografia

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Poeti dialettali del Novecento, a cura di F. Brevini, Torino 1987.

F. Bandini, La ricerca dell'altra lingua, in L'indice dei libri del mese, 1988, 3, pp. 13-14.

F. Brevini, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo, Torino 1990.

La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento, a cura di F. Brevini, 3 voll., Milano 1999 (in partic. Dialetti e poesia nel Novecento. Storia, 3° vol., pp. 3161-225).

L. Reina, M. Ravesi, Le letterature dialettali, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, 12 voll., Roma 1995-2002, 9° vol.: Il Novecento, 2000, pp.1245-368.

G. Antonelli, Dialetto per dispetto, per difetto o per diletto?, in L'indice dei libri del mese, 2000, 2, p. 39; H.W. Haller, La festa delle lingue. La letteratura dialettale in Italia, Roma 2002.

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