Letterati, poeti, narratori, pubblico nella Venezia dell’Ottocento

Storia di Venezia (2002)

Letterati, poeti, narratori, pubblico nella Venezia dell’Ottocento

Gilberto Pizzamiglio

Neoclassicismo veneziano

«Vorrei mandarvi qualche nuova letteraria: ma dove pigliarla? Poiché qui ce n’è sempre gran carestia», scriveva da Verona agli inizi del 1826(1) Ippolito Pindemonte all’amica veneziana Isabella Teotochi Albrizzi; e proseguiva: «Lasciatemivi pensare un poco… piglierolla in Toscana. Il Signor Niccolini lasciò in un suo scritto una nuova opinione intorno al canto del Conte Ugolino. Di che s’ha egli a parlare, se non si parla di Dante? […] Anche il Canto, che il de La Martine aggiunse al Child-Harold di Byron fa parlar moltissimo in quelle parti: io non vidi quel canto, ma dicesi, che l’Italia, secondo il solito, non vi trionfa. Ci consoleremo con le quattro opere, che tra non molto usciranno in Milano: il Romanzo di Manzoni, il Poema di Grossi, la Feroniade di Monti, e la Messiade di Maffei. Ma tutto ciò saprete anche voi».

Preciso riflesso, appena oltre le righe, di una situazione di crisi letteraria che, dopo un primo quarto di secolo ancora vivace nel segno del neoclassicismo, stava investendo non solo Verona ma l’intera area veneta, e nello stesso tempo occasione, pur nella sinteticità del passo, per alcune osservazioni a più largo raggio su quanto era seguito alla caduta della Repubblica. Ci sarà innanzitutto da notare come il ‘catalogo’ delle novità proposto da Pindemonte riguardi centri intellettuali tra i quali non compare più Venezia, ma piuttosto Milano — con la «ventisettana» dei Promessi Sposi e I Lombardi alla prima crociata di Tommaso Grossi — e Firenze — dove ferveva un appassionato dibattito linguistico e letterario intorno a Dante e da un lustro ormai si pubblicava l’«Antologia» di Vieusseux — e che tale assenza, pur a fronte di un’attività editoriale e tipografica ancora florida nella ex capitale, configuri una frattura destinata ben presto ad accentuarsi tra una produttività quantitativamente rilevante e la mancata ricezione al suo interno degli autori e libri più attuali, per genere o per scelta poetica. Questo sia che si valuti la sponda romantica sia quella classicistica, entrambe prese in considerazione con equanime obbiettività da Pindemonte, la cui manifesta appartenenza alle schiere neoclassiche e le cui robuste diffidenze nei confronti del romanticismo non gli impediscono un’esplorazione assolutamente imparziale e priva di risvolti polemici. A riprova della sua proverbiale, equilibrata apertura culturale, derivatagli da una giovanile formazione di stampo illuministico, e nutrita in seguito dal cosmopolitismo del celeberrimo salotto della sua corrispondente, luogo davvero emblematico sul quale converrà soffermarsi per cogliere compiutamente i caratteri del dibattito e delle scelte letterarie a Venezia a cavallo di due secoli.

Una storia lunga quella del salotto albrizziano, iniziata nel 1782, quando ancora Isabella era coniugata Marin(2), nel palazzetto al ponte de’ Baretteri, con Pindemonte che, pur continuando a frequentare, allora e in seguito, anche gli analoghi circoli di Giustina Renier Michiel e di Marina Querini Benzon, trova qui il suo più stabile punto di riferimento(3). L’elenco di abituali presenze che rapidamente s’era andato componendo comprendeva appunto in questa prima fase, e avrebbe annoverato fino alla fine delle loro vite, esponenti dell’ultimo illuminismo veneziano come Angelo Querini e letterati neoclassici, veneti e non, quali Aurelio de’ Giorgi Bertola, Saverio Bettinelli, Melchiorre Cesarotti, Stefano Arteaga, Francesco Franceschinis, calamitati dall’indubbio fascino della padrona di casa a stemperare in tolleranti convivenze i dissidi, personali e poetici, eventualmente insorti. Tutt’altro che improbabili — nonostante la ‘fratellanza’ massonica collegasse la stragrande maggioranza di costoro, Pindemonte compreso — in una compagine alla quale s’aggregheranno con frequentazioni più o meno prolungate il Foscolo giacobineggiante e ‘sepolcrale’, il libertino erudito D’Hancarville e il bibliotecario marciano Jacopo Morelli, Dominique Vivant Denon e l’attore Benedetto di Châteauneuf, i conterranei dalmati della Teotochi — Gianluca Garagnin, Giovanni Albinoni Kreglianovich, Miho Sorkoãeviâ, Mario Pieri, Andrea Mustoxidi — e il diplomatico Louis de La Maisonfort, il generale napoleonico Giovan Battista Cervoni e il medico di famiglia Francesco Aglietti, Vincenzo Monti e Antonio Canova, George Byron e Giambattista Niccolini, e sul finire, con devoto omaggio, i visitatori ‘romantici’: Sismondi, Chateaubriand e Walter Scott. Nell’insieme un prestigioso, composito mosaico, sapientemente orchestrato per un periodo di straordinaria lunghezza da Isabella, e da questa poi riflesso, attraverso i profili dei personaggi a lei più cari — per sentimenti personali o per eminenza artistica, e spesso per entrambi i motivi — in quella galleria di Ritratti(4) letterari che, al di là delle censure di un Di Breme e di un Tommaseo(5), è senza dubbio il suo scritto più significativo, e quello che meglio può assurgere a esempio della scrittura neoclassica a Venezia.

Suddivisa tra Sette e Ottocento, tra l’ultimo quindicennio di vita della Repubblica e l’età napoleonica, e poi ancora prolungata per un ventennio di convivenza con la Venezia austriaca, la cronaca di questo salotto registrerà inoltre, in coincidenza con altrettante presenze di Ugo Foscolo, almeno un paio di date di primaria importanza per la storia della letteratura italiana, all’interno di un panorama complessivo che invero vede ancora Venezia in posizione di rilievo, purché si guardi ad esso e al dominante neoclassicismo come a una temperie che, seppur difficile da definire in termini di estetica, non è una sonnacchiosa attesa del risveglio romantico e risorgimentale, ma ha una sua specifica fisionomia e vive di una vita propria.

Il giovane Foscolo, com’è ampiamente noto, compirà proprio nel circolo di Isabella il suo apprendistato letterario e sentimentale, tra la frequentazione marciana di Jacopo Morelli e quella padovana di Cesarotti, tra le suggestioni alfieriane che si rifletteranno nel Tieste — indotte da Pindemonte e di conseguenza dalla Teotochi — e i primi convincenti esercizi lirici e narrativi(6). Ed è di nuovo in virtù di Isabella, questa volta nella sua consueta dimora estiva della villa sul Terraglio(7), la strada che congiunge Venezia a Treviso, che Foscolo riapparirà sulla scena veneta nell’estate del 1806, giusto in tempo per lodare, pur con palesi riserve di stile e di riferimenti poetici, la Lettera sulla Mirra(8) e l’ormai completata serie dei Ritratti, e soprattutto per concludere la discussione con Pindemonte sulla poesia sepolcrale avviata qualche mese prima a Verona. In termini non del tutto pacifici e accademici come potrebbero far pensare le reciproche dediche e citazioni del carme foscoliano e degli omonimi endecasillabi pindemontiani, ma piuttosto di serrato confronto poetico su un tema per il quale è facilmente accertabile una certa priorità specifica di Ippolito, così come la più forte ispirazione di Ugo e la divergenza tra una direzione compassionevole e malinconicamente contemplativa imboccata dal primo e quella altamente mitica e storica, privata e civile, esperita impetuosamente dal secondo. La testimoniano ripetutamente le lettere di Ippolito a Isabella che, integrandosi con quelle di Ugo alla nobildonna, risuonano in questo momento di lapidari, infastiditi accenni alla stesura ormai completata dell’ode ‘rivale’ e rivelano la fretta per contrapporvi un’adeguata risposta: terminati alla fine del giugno 1807, i Sepolcri di Ippolito erano infatti già pronti per essere distribuiti agli amici ai primi di settembre, dopo soli sessanta giorni(9), e inviati in anteprima a Isabella con un circospetto biglietto accompagnatorio che la dice lunga sugli imbarazzi del loro autore e sulla falsità dell’indifferenza mostrata di fronte al carme Dei sepolcri(10).

Un’insofferenza, quella di Pindemonte nei confronti di Foscolo, inizialmente caratteriale e che si estende ben presto al piano poetico, riconfermandosi tale pochi anni dopo, all’apparire nel 1813 delle Grazie, nonostante il loro assunto tematico risultasse in piena sintonia con gli stilemi neoclassici: «Quanto alle Grazie, voi sapete, come io la sento: sapete, ch’io, stimando infinitamente l’autore, non posso però lodare, generalmente parlando, nè il suo modo di scrivere, nè le sue opinioni in fatto di lingua»(11). E poco dopo sarà tutta la produzione foscoliana ad essere coinvolta in un pungente giudizio negativo: «Gran dose di stravaganza per certo in quelle [opere] di Foscolo, che voi m’accennate. Il più bello è, che la stravaganza farà piacere anche quello, che vi potrà essere di ragionevole, e che probabilmente senza quella non piacerebbe»(12).

Al di là di questa controversia poetica, i soggiorni tutto sommato brevi, le lunghe assenze e le fulminee ricomparse di Foscolo sulla scena letteraria veneta, se lasciano una traccia ben visibile nel culto foscoliano che, tra De Tipaldo e Carrer, indurrà al progetto dell’opera omnia, aprono autorevolmente la discussione sull’effettiva appartenenza dello scrittore a un’eventuale specificità letteraria veneta. Tema scarsamente proponibile per il secolo precedente quando si consideri la presenza costante e la partecipazione al dibattito culturale di un Gasparo Gozzi, che se esce da Venezia è solo per sofferti soggiorni campestri in Friuli, o anche di un Goldoni, per trent’anni a Parigi ma la cui esperienza teatrale non è concepibile senza il contesto culturale e sociale veneziano, al pari della pittura che Canaletto, Bellotto e i Tiepolo portano in giro per l’Europa con gli anni trascorsi a Londra e a Dresda, a Würzburg e a Madrid: invece di rilevante portata nell’Ottocento a fronte appunto di Foscolo o di Tommaseo, veneziano per un decennio importantissimo della sua vita, ma qui giunto in età culturalmente già formata, con un bagaglio impregnato di cultura veneta, che però è quella della Venezia oltre l’Adriatico. E situazioni analoghe vivranno Ippolito Nievo e Francesco Dall’Ongaro, col che si è in pratica esaurita la rosa dei più significativi autori del secolo, con il solo Carrer e poeti dialettali alla Nalin e alla Foscarini a essere esenti da ogni dubbio di totale appartenenza a una tradizione letteraria veneziana, ora ulteriormente complicata dal fatto che un mutato rapporto tra la ex capitale e le città di terraferma evidenzia la crescente improponibilità di una coincidenza tra cultura cittadina e cultura veneta. I percorsi intellettuali ottocenteschi di Verona, Bergamo e Brescia, sempre più attratte da Milano, e quelli di Vicenza nella seconda parte del secolo, da Zanella a Fogazzaro, ne sono la dimostrazione più evidente.

Per tornare a Foscolo, l’appartenenza formativa alla civiltà letteraria veneta mi pare nonostante tutto fuor di dubbio, nell’apprendistato poetico con Dalmistro e Pindemonte, nella dialettica tragica instaurata con Cesarotti a proposito delle suggestioni alfieriane filtrate dal circolo di Isabella, e con la sua folgorante presenza nel triennio giacobino, non ultima nel decretare il mito dell’eroe soldato che presiede alla Vita di Carrer. Poi, all’altezza dei Sepolcri, la dinamica è diversa, e propone piuttosto un Foscolo portatore di altri contributi su un tema che pure era stato da tempo preso in considerazione dai letterati veneti, optando magari per l’accezione pindemontiana.

Ma il fatidico 1807, letterariamente parlando, non è solo l’anno della stampa di entrambi i Sepolcri bensì anche di quella del ‘capolavoro’ albrizziano(13), accolto da un coro di consensi che, già chiaro nella fase della circolazione manoscritta, subito si allarga e ispessisce, insieme alla inevitabile diceria di alcuni i quali, come già nell’occasione della Lettera sulla Mirra, attribuiscono a Pindemonte la paternità di un libro che gli è debitore dell’impianto e forse della prima ideazione(14), ma che poi è la mano di Isabella a stendere, accostando autonomamente al rapido tratteggio delle varie fisionomie un’acuta descrizione morale condotta con finezza di introspezione, senza mai venir meno, sull’uno e sull’altro versante, al criterio sovrano della grazia. Uscito in prima edizione a Brescia(15), il volumetto comprendeva all’origine sedici profili letterari e altrettante incisioni su rame raffiguranti la persona descritta o, nei tre casi in cui questa resti anonima, un’immagine di paesaggio o un’allusione simbolica al carattere delineato. Il successo fu notevole, tale da indurre l’autrice a una serie ravvicinata di nuove edizioni, accresciute fino a comprendere nella quarta, nel 1826, altri otto ritratti, le due lettere sulla Mirra e una Vita di Vittoria Colonna che, finora additata come appendice mediocremente compilativa, ha invece trovato in una recente analisi motivi di positiva rilettura, per il «rispecchiamento» autobiografico che la anima e per il comune ideale etico che la unisce ai Ritratti (16).

Dove non è difficile riscontrare, nella raffigurazione insieme fisiognomica e morale di personaggi reali e riconoscibili, con i loro pregi e difetti, l’intreccio fra tradizione letteraria di ascendenza classica e dettami figurativi di Winckelmann e soprattutto del «gran Canova»(17), punto di riferimento assoluto in questi anni per un’ancor più marcata adesione di Ippolito e della sua corrispondente agli ideali letterari e artistici del neoclassicismo, con il conseguente avvio dell’ambiziosa opera critica di Isabella intorno alle sculture canoviane, un lavoro che Bennassù Montanari riteneva ispirato parimenti dalle sculture dell’artista di Possagno e dai versi celebrativi di Pindemonte(18). Dalle Opere di scultura e di plastica di Antonio Canova descritte da Isabella Albrizzi nata Teotochi ci si aspetta la definitiva affermazione dell’autrice come ‘letterata’ di rango, e dunque se ne segue passo passo l’avanzamento, con la consueta minuziosa attenzione non priva talvolta di lievi ironie, ma più spesso di incoraggiamenti, specie quando un’elaborazione piuttosto faticata(19) si intreccia con la descrizione della Testa di Elena, la scultura che Canova aveva realizzato nel 1811 per l’Albrizzi e che questa esponeva dal 1812 nel suo ‘casino’ a S. Maria del Giglio, in corte Michiel, suscitando un coro variegato e folto di commenti poetici: «Qui sculta è da Canova Elena bella, / e van tutti dicendo ecco Isabella; / l’illusion però non tocca il segno / perché dato non è scolpir l’ingegno», recitavano tra i tanti i versi di un anonimo, e Byron, con l’epigramma On the Bust of Helen by Canova, November 1816, inneggerà all’«Elena del cuore» come creazione sovrumanamente perfetta dell’artista e della Bellezza, oltre gli stessi limiti imposti dalla natura(20).

Mentre le Opere […] di Antonio Canova descritte […] avanzano verso la loro prima, parziale edizione, procede, in una perfetta sintonia di crescenti ansie e dubbi, anche il lavoro traduttorio di Ippolito intorno all’Odissea di Omero: due imprese che non a caso giungeranno a conclusione pressoché insieme — l’edizione definitiva delle Opere nel 1821 e quella dell’Odissea nel 1822 — in virtù di una comune, assoluta fiducia nella possibilità di riportare nel presente i valori eterni della classicità. Il 1822 registra anche la morte di Canova, emblematico crepuscolo di un’intera stagione culturale: «Ho sempre il nostro Canova nella mente e nel cuore», ribadisce Pindemonte sul finire dell’anno, suggerendo all’Albrizzi di scriverne la biografia(21) e lasciando intendere il gran vuoto che si è creato in loro e nel mondo neoclassico, colmato in minima parte dall’incerta speranza che i continuatori, Thorvaldsen in testa, siano all’altezza del maestro, e in ben maggior misura dalla fiducia riposta nelle formulazioni critiche di Leopoldo Cicognara. Da qui in poi alfiere di un’estetica e un’etica imbevute di classicismo che coincidono fino all’ultimo, compattamente, con una scelta di vita mai messa in discussione e che però, proprio per i suoi tratti caratteristici ricordati in apertura, impedisce ogni arroccamento e anzi continua ad alimentare una vivace curiosità intellettuale di vario segno.

Si è indugiato appunto su questo momento e su questa lunga amicizia perché vi si delinea con piena evidenza il convergere dei due corrispondenti su identici modelli letterari, su concordi valori formali e contenutistici riuniti sotto il segno della grazia, della bellezza ideale e dell’armonia, e insieme risalta la loro esemplarità rispetto alla definizione complessiva del vivere e del sentire dei letterati, uomini e donne, neoclassici a Venezia: dai nutrimenti estetici, poetici, figurativi alle fruizioni teatrali o artistiche come autori lettori e spettatori, alle idee e ai comportamenti politici, ai codici della conversazione e dell’esercizio critico, tra moderati entusiasmi e serena malinconia. E che questo sia il clima culturale che domina incontrastato per il primo trentennio dell’Ottocento e oltre, saranno proprio i casi degli altri due eminenti salotti veneziani e delle loro animatrici a confermarlo fuor di ogni dubbio.

Tradizione e rinnovamento: Giustina Renier Michiel

Parallelo al percorso culturale ed esistenziale di Isabella Teotochi Albrizzi corre infatti quello di Giustina Renier Michiel (1755-1832), di poco più giovane e anche lei nobildonna, questa volta appartenente a un’illustre famiglia veneziana, con un nonno paterno, Paolo Renier, penultimo doge di Venezia e uno zio materno, Ludovico Manin, ultimo della serie dei principi marciani; anche lei titolare per molti anni, dal 1790, di un rinomato salotto, prima in corte Contarina a S. Moisè, la zona in cui più alta era tradizionalmente la presenza di ‘casini’, poi in Procuratia a S. Marco. Al pari di quello di Isabella importante punto d’incontro di letterati e artisti internazionali, e ugualmente erede di una tradizione settecentesca che Cecilia e Caterina Tron avevano importato dalla Francia, caratterizzandola però subito nel senso tipicamente veneziano della «conversazione», dove più ampia era la gamma tematica, con larghi spazi concessi allo scambio di informazioni, di notizie e di curiosità enciclopediche, e dove si registrava di conseguenza una maggiore varietà di frequentatori(22).

Il confronto tra le due letterate potrebbe ancora facilmente accomunarle sul piano biografico secondo i tratti di un’identica vivacità e curiosità intellettuale — quelli che avevano permesso alla giovane Giustina, appena ventenne, di primeggiare negli ambienti romani nel corso di un unico anno di soggiorno al seguito del marito, ambasciatore della Repubblica presso Pio VI — o di un’analoga situazione matrimoniale conclusa da un divorzio, o di una stessa diffidenza verso i nuovi padroni stranieri: nel primo caso Napoleone, in questo i francesi e gli austriaci, la cui presenza, nelle fasi iniziali, causerà un lungo periodo di chiusura del salotto e il trasferimento a Padova di colei che nel decennio 1779-1789 aveva assunto le funzioni di dogaressa accanto al nonno, per essere la moglie di quest’ultimo addirittura una borghese turca. Proprio a Padova, dove si dedica agli studi e frequenta assiduamente le lezioni dell’anziano ma ancor vivacissimo Cesarotti, la Renier si accosta a quell’attività di traduttrice che connoterà il suo primo approccio letterario, concentrandosi su uno Shakespeare che — con qualche anticipo sulle istanze del romanticismo milanese volte a identificare nell’Otello, in Giulietta e Romeo, in Amleto e soprattutto in Macbeth gli esempi di una nuova cultura anticlassica spiritualmente squassata dalle passioni — vede ora giungere a compimento in Veneto un faticoso processo di riabilitazione. Dalle originarie, consistenti riserve di un Cesarotti, motivate dalla irregolarità drammaturgica e dal crudo realismo del poeta inglese, al loro progressivo attenuarsi di fronte al riconoscimento della sua grande forza rappresentativa, con un successivo accrescersi della diffusione dei suoi testi, in francese e in lingua originale; presto seguita da una serie nutrita di interventi traduttori, forse la più folta in Italia per numero e per qualità, con appunto alla fine del Settecento l’impresa di Giustina, precoce nel dare alle stampe le sue versioni dell’Ottello o sia il Moro di Venezia, del Macbet e del Coriolano(23).

Significativo avvio di un’operazione che verosimilmente doveva comprendere l’intero corpus, direttamente esemplato sull’originale inglese, queste versioni si segnalano non solo per la loro netta anteriorità rispetto alla più applaudita, analoga iniziativa di primo Ottocento, quella del veronese Michele Leoni(24), ma soprattutto per la precisa coscienza critica che le guida, espressa in termini sufficientemente chiari nelle Prefazioni della traduttrice, poste in testa a ciascuno dei tre tomi. Vi ritornano sì affermazioni già note di Samuel Johnson — relativamente alla consapevolezza di trovarsi di fronte a un genere teatrale nuovo, autorizzato però dalla sua aderenza alle leggi della natura — ma scelte comunque con acume, e accompagnate da inedite rivendicazioni del diritto femminile a cimentarsi con i piani alti della letteratura, dato che il dramma per il suo contenuto emotivo ben s’addice alla sensibilità delle donne(25), e da originali accenni alla finalità morale che, attraverso un percorso catartico, viene attribuita alla forza espressiva del dettato shakespeariano; quella stessa che mezzo secolo prima aveva spaventato Cesarotti.

Ancor più delle traduzioni, sarà però l’Origine delle feste veneziane, l’altra opera significativa della Renier(26), a proporsi come un ponte tra la cultura dell’ultimo Settecento e quella del romanticismo sul versante della storia delle tradizioni popolari, incuneandosi profondamente nell’Ottocento con due successive edizioni — la prima in francese con testo italiano a fronte, la seconda, definitiva, solo in italiano — uscite entrambe quando ormai s’era dissolto il regime politico entro il quale la complessa e prolungata ricerca aveva preso avvio(27). A motivarla erano state infatti le Questions statistiques concernant la ville de Venise, un’inchiesta voluta nel 1808 da Napoleone che Jacopo Morelli e Jacopo Filiasi, incaricati delle risposte, stentavano a completare in tutte le caselle: venuta in loro aiuto, Giustina si propose fin dall’inizio di riversarvi con studiate allusioni i propri sentimenti antifrancesi scaturiti dal tradimento di Campoformido, scegliendo con la sua ricostruzione di «seguire la linea tradizionale della cronachistica ufficiale dell’antica Repubblica che, mistificando volutamente storia e leggenda, esaltava il culto civico e il mito della città»(28), e puntando nel contempo a realizzare letterariamente qualcosa di nuovo, che assomiglia a un romanzo storico. L’Origine ebbe stesura laboriosa, prolungata e punteggiata dal susseguirsi di saggi preparatori — com’era accaduto all’Albrizzi — e i suoi scopi non possono ritenersi esemplarmente raggiunti; è facile criticare l’approssimazione dell’impianto erudito e la velleitarietà dei rinforzi romanzeschi, o la durezza formale del dettato, nonostante il ripetuto ricorso alla collaborazione di tutti i migliori letterati veneti. Alla fine però questo indubbio «atto d’amore per Venezia»(29), si propone, sul limitare estremo della stagione neoclassica, come prova ulteriore della considerevole varietà di sperimentazione che la contraddistingue, spesso innestando su schemi tradizionali inedite angolature prospettiche, dettate nel nostro caso dal dibattito, particolarmente vivo nel circolo della Renier, sulla nuova situazione di decadenza di Venezia e su una volontà di conservazione delle memorie patrie che avrà lunga vita nell’Ottocento. Spesso congiunta con l’orgogliosa coscienza della passata grandezza, così da indurre l’anziana nobildonna a contrastare la malevola definizione di «città contronatura», dettata da Chateaubriand, con un perentorio: «Vi sbagliate: Venezia non è contro, ma sopra la natura».

Insieme andrà sottolineato l’aspetto di partecipazione corale alla stesura delle diverse opere che è caratteristico di questo momento e di questo modo di esercitare la letteratura in un contesto spiccatamente aristocratico, dove autori e pubblico coincidono, nonché il fatto che siano le donne-scrittrici, naturalmente nobildonne, a rappresentare le voci letterarie più interessanti del primo scorcio di Ottocento veneto, anche quando il loro poetare è esile, come in Angela Veronese, la «Saffo campestre» di Foscolo, ancora convinta esponente, nella pratica del recitar versi all’improvviso — su facili schemi metrici d’ascendenza metastasiana e anacreontica — e nei loro contenuti, della tradizione arcadica, nella sua versione pastorale e agreste. Anche lei autrice di garbati ritrattini letterari, all’interno di una Notizia autobiografica tutta delimitata dagli stessi contorni, ma insieme incline, senza avvertire alcuna contraddizione, a spunti candidamente realistici e a concessioni sentimentali, che arriveranno nella novella Eurosia ai toni del patetismo lagrimoso, sì da far intravedere in questa scrittrice un’antesignana del filone ‘campagnolo’ poi peculiarmente presente nell’Ottocento veneto e friulano di Nievo, della Codemo e della Percoto(30).

La poesia dialettale

Terzo dei salotti veneziani sette-ottocenteschi di primaria importanza, quello di Marina Querini Benzon (1757-1839) si caratterizza questa volta non tanto per le qualità di scrittrice della padrona di casa, quanto per il fatto di essere anche lei, come l’Albrizzi, dotata di grandi capacità salottiere: bella quanto bastava(31) per essere celebrata da uno stuolo di poeti, ispiratrice della famosissima Gondoleta di Antonio Lamberti(32) e del modello di mani femminili per Canova, ma pure animata da uno spirito brillante e spregiudicato, che l’aveva spinta a danzare in abiti succinti una memorabile carmagnola sotto l’albero della libertà eretto a S. Marco, avendo come compagni un frate e il giovane Foscolo, ferventemente giacobino. Nel 1815 per la sua casa passerà Stendhal, trentenne allora più famoso come uomo di mondo che come scrittore, e l’anno dopo, reduce da una prima, insoddisfacente sosta nel salotto di Isabella — pare a causa del «ritratto» letterario da lei delineato nella circostanza —, il ventottenne Byron, che la eleggerà a proprio ritrovo mondano preferito durante il soggiorno veneziano, apprezzandone la notoria liberalità di accesso, tale da farvi annoverare sovente, insieme a quella di nobili e borghesi, la presenza di qualche popolano.

Poeta ‘ufficiale’ di questo che è forse il luogo ove meglio alberga nel passaggio tra i due secoli una tradizione dialettale destinata a rappresentare, per continuità e pur con evidenti limiti, la spina dorsale del verseggiare ottocentesco nella Venezia austriaca, è Antonio Lamberti (1775-1832), con il suo ampio repertorio di sonetti, anacreontiche, idilli, canzoni da battello, apologhi ed epigrammi di squisita marca settecentesca, ma che egli sa comunque rivestire in buona misura di accenti personali «distinguendosi per la particolarissima eleganza nervosa e per l’originalità del suo dialetto sobriamente (o eccessivamente) letterario», oltre che per un vivo senso della musicalità(33). Caratteri riscontrabili sia quando si trova a compilare alcuni almanacchi a sfondo politico e pervasi di spiriti antifrancesi, sia quando si dedica ripetutamente a celebrare le quattro stagioni «campestri» e «cittadine»(34): in sostanza tutte varianti tematiche di uno stesso esercizio poetico che trova nella scelta dell’apologo il momento di sintesi tra istanze moraleggianti, sveltezza del verseggiare sui ritmi della canzonetta e memoria di precisi modelli, qual è per Lamberti Giovanni Meli, esplicitamente ripreso e tradotto dal siciliano in veneziano. Insieme alle «favole», pure in versi, del più anziano e tutto settecentesco, classicheggiante e francesizzante Checco Gritti(35), gli apologhi lambertiani travalicheranno abbondantemente, per fortuna di proposte editoriali, la silenziosa vecchiaia del loro autore, tenendone viva la memoria e suscitando molteplici imitazioni in una Venezia da lui abbandonata per far ritorno nell’avita Belluno dopo la caduta della Repubblica, e qualche anno prima della morte di Gritti(36).

Utile per misurare la consistenza di queste eredità, ma anche del loro estenuarsi nella maniera, Luigi Martignon (1791-1837), che cita appunto costoro come suoi modelli assoluti, recuperando il secondo soprattutto sul versante dell’apologo, e il primo su scelte di genere che lo inducono a soffermarsi ancora, nella sua Raccolta di Capricci poetici editi ed inediti in dialetto veneziano(37), a celebrare il tema topico delle «quattro stagioni campestri», per poi sbiadire ulteriormente con una successiva silloge di Poesie veneziane(38), dove, in un’Arcadia che occhieggia all’italiano, si va perdendo anche linguisticamente lo spirito della poesia dialettale.

In tal modo appare quanto mai giustificato il giudizio di Manlio Dazzi, attento indagatore della intera tradizione lirica veneziana, per il quale è Pietro Buratti (1772-1823), a preferenza di un Nalin, di un Foscarini e dello stesso Dall’Ongaro dialettale, a rappresentare l’espressione migliore di un poetare «straordinariamente incarnato nella vita contemporanea»(39) che è tutt’altra cosa dalla frettolosa mescidanza con forme letterarie e grafiche italianizzanti perseguite da altri. In effetti poco conta la sua produzione in italiano legata a una tradizione colta, mentre quella in dialetto si mostra ben integrata con un ambiente che anche per lui è soprattutto quello di Marina Querini Benzon, con i suoi vari frequentatori pronti a lodarne e nel contempo a temerne la vena satirica. Sovente sopra le righe, al punto da causargli ripetute querele, con conseguenti diffide da parte della polizia austriaca a proseguire nella sua esuberante attività poetica, e una clamorosa condanna per diffamazione a ridosso del poemetto in ottave Elefanteide. Storia verissima dell’elefante, senza dubbio una delle sue cose migliori. Lo spunto gli era offerto, nel 1819, da un fatto di cronaca: la fuga di un elefante che mette a soqquadro la città in tempo di Carnevale e che la polizia, con a capo un nobile, non era riuscita ad arginare, per di più in coincidenza con la visita dell’imperatore Francesco I, nei confronti del quale pure non manca qualche cenno satirico(40). A una indubbia sensibilità ed efficacia linguistica, elogiata da Stendhal, non corrisponde però in Buratti — è ancora Dazzi a notarlo — una pari misura sul piano tematico, che si espande in una rosa troppo ampia di argomenti letterari, civili e morali, e in una galleria di personaggi troppo spesso incanalati verso una satira particolare e maldicente. Quale si ritrova in parecchi passaggi dell’altra sua opera di un certo impegno, almeno come estensione, cioè nella Strefeide, un poema in sette canti terminato nel ’21, dove positive descrizioni di ambienti e figure che li popolano si alternano con frequenti scurrilità e lungaggini. Solo antologicamente dunque egli raggiunge apprezzabili risultati poetici, nei casi appena citati e nella Lamentazion al Prefetto di Venezia nel blocco dell’anno 1813-1814, percorsa da un vivo senso della disperata condizione di miseria e di fame in cui tutti i ceti della città si ritrovano, per colpa napoleonica, alla fine di una vertiginosa decadenza seguita alla perdita della libertà.

Anche Camillo Nalin (1788-1859), «quel bruto sior col muso da cavalo», affonda le proprie radici nella tradizione poetica dialettale dell’ultimo Settecento, tra Gritti e Lamberti, riducendone però progressivamente i contorni a una prospettiva sempre più locale, espressa in termini metrici di grande varietà e in una affabilità discorsiva che ne fa quasi il contraltare dialettale della novella in versi. Lasciandosi andare a una tentazione di estrosità un po’ gratuita, Nalin si esprimerà principalmente nel genere del «pronostico», un tipo di poesia scherzosa, di limitate pretese artistiche, giocato sul filo dell’ironia e dell’autoironia letteraria, al quale appartiene ad esempio il Pronostico de l’Ano 1832, un componimento di ben cinquantadue quartine di senari, dove riecheggia evidente l’ispirazione burchiellesca sempre presente, insieme a Berni, nella tradizione poetica veneziana, e dove si apprezza il sicuro possesso della forma e dei dialetti derivato da Buratti. In altri casi saranno invece episodi della tradizione popolare a indurlo alla poesia, con la proposta de La Festa veneziana dei pugni fra Castelani e Nicoloti, rifacimento del poema cinquecentesco di Alessandro Caràvia condotto con una certa vivacità descrittiva e altrettanta abilità stilistica nell’alternanza di settenari ed endecasillabi rimati al mezzo. Resta comunque, a condizionare i risultati di Nalin, la ristrettezza tematica, che finisce per risolversi nello stesso ripetitivo «ciacolare» che aveva connotato Baffo e anche Buratti, evitando però le loro concessioni al lubrico e semmai solo sfiorando il genere boccaccesco, con un «trascolorare della poesia veneta da nazionale a municipale»(41) che va in senso opposto alle istanze romantiche — anche se in altre occasioni il Nostro pare adeguarsi alla novella sentimentale in versi — e alla direzione imboccata di lì a non molto da Carrer.

Accanto, quasi a fargli da più modesto pendant in prosa, il fratello Giuseppe(42), con le Fiabe veneziane stampate a successive riprese in un suo Almanacco dei poveri, editato con scopi di beneficenza a partire dal 1850 e dove pure compaiono alcuni Pronostici di Camillo. Non s’arrivò alle trenta annate progettate, e dopo pochi anni l’iniziativa si arenò, per un totale di undici fiabe pervenuteci, nelle quali ritroviamo la stessa vena umoristica che circola nei componimenti del primo, ad animare gli spazi e i personaggi favolistici tradizionali con l’ambiente e la storia di una Venezia ora avvolta in un’atmosfera bonaria e lieve, quella appunto dove il mito si stempera irrimediabilmente nel raccontino educativo dei buoni sentimenti, adatto a una fruizione domestica.

Toccherà infine a Jacopo Vincenzo Foscarini ‘El Barcariol’ (1783-1864), col quale scavalchiamo abbondantemente lo spartiacque del 1848, riassumere le esperienze della prima metà del secolo e oltre, grazie a un’esistenza piuttosto lunga, tale da permettergli di accompagnare poeticamente la caduta della Repubblica, conservandone in seguito un’acuta nostalgia, di criticare l’età napoleonica rimproverando a Foscolo la scelta dell’esilio, e di accettare in seguito il dominio austriaco con sufficiente tranquillità, da buon conservatore qual è. Avviata negli anni Venti, la sua produzione resterà abbondantissima fino all’ultimo, sia per la parte edita che per quella inedita(43), con al centro la celebre raccolta dei Canti del popolo veneziano, espressione di una volontà di recupero storico di antiche usanze, tradizioni e fatti memorabili che fa il paio con le Feste della Renier, e nello stesso tempo esempio pur essi di reinvenzione, specie metrica, con un verso come la villotta che viene impropriamente usato per autenticarne la popolarità medievaleggiante: usciti nel 1844(44), i Canti accompagneranno l’insurrezione di Venezia, momento in cui il loro autore modificherà il proprio atteggiamento opponendosi all’Austria, beninteso nel nome di una nuova Repubblica veneta: in questo simile a molti letterati coetanei, specie a quelli di estrazione nobiliare come lui, ma nel suo caso con più evidente esposizione, tanto da essere allontanato dall’incarico di vicedirettore del Museo civico insieme al direttore, Luigi Carrer. Provvedimento che lo spinse a ritirarsi, attendendo a rivedere e ampliare la sua sterminata raccolta delle Poesie veneziane(45), ancora accresciuta da qualche pezzo notevole dopo i fatti del ’59, con una Frotola in versi mata orientata però più al farsi portavoce della preoccupazione popolare per l’incerto futuro che al tema politico e risorgimentale della libertà dall’occupante.

Non sarà ad ogni modo nella poesia dialettale, esaurendosi ormai anche il filone della canzone da battello, che andranno ricercate le voci più significative della letteratura veneziana di metà Ottocento, per le quali bisogna attendere piuttosto le Ballate di Carrer e certo sperimentalismo di Dall’Ongaro: qui conta principalmente notare quanto prolungato sia l’attaccamento ai modelli settecenteschi e alla prevalenza delle istanze etiche e morali su quelle di un eventuale realismo descrittivo. Così generalizzato da trovare facile conferma anche sul versante della poesia in lingua, ad esempio nelle sorti del sermone, lungo la linea che da Gasparo Gozzi giunge per successive derivazioni di allievi ad Angelo Dalmistro e a Giovanni Veludo, con tutta una schiera di cultori e coinvolgendo durante il suo soggiorno veneziano d’inizio secolo lo stesso Manzoni(46). Una tradizione che si estinguerà, almeno nelle sue forme più evidenti, solo con gli anni Quaranta, anche se il sottofondo moraleggiante resta una costante di tutta la produzione lirica veneziana, oltre che di quella teatrale.

Eruditi, bibliografi, storici della letteratura

Al pari dei poeti e dei verseggiatori in vernacolo, sotto uno stesso segno di sostanziale continuità con il secolo precedente opera anche un’altra importante categoria di letterati quali sono gli eruditi, gli animatori cioè di un settore che ancora nel primo Ottocento a Venezia annovera cospicui risultati, di volta in volta evocati per sostenere il perdurare dello spirito patriottico o per significare l’isterilirsi della creatività letteraria, o le due cose insieme. Invero c’è un poco di tutto questo quando, per limitarci alla parte dell’erudizione che più si esercita sulle lettere, si sfoglino le pagine della Storia della letteratura veneziana nel secolo XVIII dell’abate muranese Giannantonio Moschini(47), tributo al «secolo or ora andato», tutto rivolto a confutare quanti vi avevano visto solo segni di decadenza e inettitudine, e a celebrare invece l’avvedutezza culturale di Venezia anche nell’ultima stagione della civiltà letteraria della Repubblica, quand’ancora essa si era mostrata «madre colta e sapiente, che non lasciò intentato veruno di que’ mezzi, che utili sono all’avanzamento delle lettere e delle arti, che i sapienti, il cui stuolo fu in lei numerosissimo, trovarono in essa una generosissima protettrice»(48). Scartati i secoli precedenti, per i quali riteneva non ci fosse alcun bisogno di tale dimostrazione, Moschini concentrava dunque la propria attenzione su quello appena trascorso, procedendo, secondo schemi desunti chiaramente da Tiraboschi, a costruire una storia della cultura che lascia soprattutto spazio a una minuziosa memoria di eruditi, mecenati e bibliografi ordinatamente raggruppati per città, e assai meno ne dedicava alla valutazione dell’inventiva poetica, col risultato di riservare ad esempio uno spazio assai esiguo alla commedia e a Goldoni.

Sulla medesima strada di documentazione e conservazione della memoria patria si incanalava, nella doppia veste di storico e di collezionista, Emmanuele Antonio Cicogna (1789-1868), dopo aver coltivato in gioventù studi letterari preparatori a un vasto commento a Boccaccio rimasto incompiuto, poi funzionario governativo sotto l’Austria e gran raccoglitore di volumi e manoscritti, con una decisiva opera di salvataggio del patrimonio veneziano che s’andava dissolvendo. La testimoniano ampiamente i preziosi Diarii, rimasti finora inediti al Correr insieme al fondo di 40.000 volumi e 5.000 manoscritti poi donato al Museo veneziano, e sul quale Cicogna si era fondato per il monumentale Saggio di bibliografia veneziana compilato nel 1847 per i tomi di Venezia e le sue lagune e poi, vista la mole, stampato a parte(49). Ad esso vanno aggiunti i sei volumi Delle inscrizioni veneziane(50), minuziosa raccolta delle epigrafi posteriori all’anno 1000 arricchita da una miriade di note erudite, a completamento delle fonti scritte, su usi e costumi, fatti e personaggi della Repubblica(51). Imprese che sul versante della lingua troveranno in Giuseppe Boerio(52) una figura del tutto simile, se si esclude la più marcata accettazione del governo austriaco da parte di questo ex funzionario della Serenissima e autore per conto della Repubblica di manuali giuridici, raccolte legislative e forensi; poi giudice nel Regno italico e successivamente sotto l’Austria, sulla cui codificazione non mancò di esprimere apprezzamenti. Il suo Dizionario del dialetto veneziano era già configurato nel 1821, ma l’ipotesi di pubblicarlo presso l’Ateneo Veneto non si realizzò e solo nel 1826 venne accettato da Manin(53), che lo stampò a dispense nell’arco di un triennio, finendo per rimetterci(54) — per motivi finanziari e organizzativi, ma soprattutto per il fatto che, a differenza della sua, «la sensibilità comune non aveva ancora chiaramente avvertito che la conoscenza e lo studio del dialetto erano il primo passo per il recupero dell’unità culturale, e alla fine nazionale, conculcata dalla presenza straniera in Italia»(55).

Lodevole lo sforzo dei vari Moschini, Cicogna e Boerio di illustrare con queste imponenti ricerche la grandezza culturale di Venezia nei secoli passati, ma modesta la loro speculazione in campo specificamente filologico. Pur in un momento di effervescenza metodologica in tutta Europa, costoro paiono infatti limitarsi alla riproposta pari pari di schemi già percorsi dall’erudizione settecentesca: diverso invece, nel bene e nel male, l’esempio di Pietro Canal (1807-1883), un sacerdote di formazione solidamente umanistica ed erudita, inizialmente interessato agli studi musicali, come dimostra il suo saggio inserito nel volume Venezia e le sue lagune(56), e successivamente, con più caratterizzante attitudine, dedito alla filologia classica a partire dal 1839, da quando cioè comincia la sua intensa collaborazione alla Biblioteca degli scrittori latini di Antonelli. Proprio questa fu l’occasione per definire i caratteri del suo operare, non senza frequenti contrasti intimi tra il compito di direttore generale, impegnato a rispettare la scadenza di uscita dei vari volumi, e l’esigenza fortemente sentita di serietà scientifica, cosicché lo ritroviamo assiduo nel contribuire con molti interventi anonimi alle edizioni curate da altri collaboratori, mentre il suo commento a Valerio Massimo languiva, concludendosi solo dopo che la collana antonelliana si era esaurita e Canal, a partire dal 1853, aveva assunto la cattedra di Letteratura latina a Padova, dando inizio al periodo di più feconda attività personale. E giusto dove più attentamente aveva messo mano si ebbero nei volumi della Biblioteca i risultati di maggior durata, come per le edizioni delle commedie plautine e del De lingua latina di Varrone, anche se a una disamina critica che tenga conto delle coeve acquisizioni della filologia tedesca, a cominciare da Niebuhr e Mommsen e specie sul piano del metodo, è parso come il Nostro e con lui tutto lo studio dell’antichità classica nel Veneto dell’Ottocento corressero più sui binari della congettura che su quelli del restauro testuale(57). Una collezione, questa di Antonelli, pubblicata a dispense e per associati, articolata in una serie maggiore corredata da traduzioni in versi o in prosa, e una minore con il solo testo annotato in latino, in entrambe delle quali erano privilegiati l’età argentea e gli autori minori e pagani: il che le valse qualche riserva di Tommaseo — insieme a Carrer amico di Canal, ma poi responsabile anche di aspre rampogne motivate dalla manifesta tiepidezza del sacerdote nel ’48 — per la lamentata mancanza degli scrittori cristiani(58).

Tipografi, editori e censori

Alla fine saranno proprio i titoli eruditi insieme alle collane di classici antichi e moderni e alle edizioni complessive dei recentissimi settecenteschi a caratterizzare i cataloghi degli editori veneziani, che invero con i loro migliori rappresentanti continuano a mostrare una vitalità imprenditoriale non indegna della grande epopea settecentesca per numero di volumi stampati, per tempestività di aggiornamento di macchinari e di organizzazione del lavoro industriale, ma che, come s’accennava in apertura di capitolo, registrano d’altra parte una sempre maggiore estraneità a quanto fuori da Venezia accadeva in campo letterario. I libri ‘nuovi’, intonati prima al romanticismo e poi al realismo, sono alla fine pochi, a riprova del declinare e del rinchiudersi della produzione letteraria indigena, narrativa o poetica che sia, e del fatto che si è inevitabilmente esaurita la forza di attrazione esercitatasi per buona parte del secolo precedente su tutta una serie di autori, spingendoli a convergere su Venezia e i suoi torchi dall’intero territorio veneto — ma pure in numero cospicuo anche da fuori confine — grazie a quella complessa organizzazione della stampa che aveva fatto della città lagunare una delle capitali europee del libro(59).

Pare fuor di dubbio che a determinare questa situazione nei settant’anni della sudditanza veneziana abbia contribuito in maniera decisiva anche il diverso quadro legislativo e censorio riguardo alla produzione e circolazione libraria, determinatosi dapprima con il Decreto relativo alle stamperie e librerie, promulgato sul finire del 1810 da Eugenio di Beauharnais nella sua veste di viceré d’Italia e restato in vigore per tutto l’arco della dominazione francese, e in seguito con la sua soppressione a metà del 1815, a favore del Piano generale di censura per le Provincie Venete. Più permissivo il primo, che introduceva anche positivi aggiornamenti rispetto alla normativa della Repubblica; assai più severo in termini censori il secondo, con il quale, trascorrendo dalla letteratura erudita a quella popolare con in mezzo quella d’intrattenimento, si assiste a una crescente sollecitazione repressiva, intesa a recidere il più possibile gli echi della cultura settecentesca e a operare precisi sbarramenti ogniqualvolta ci si trovi di fronte a «pubblicazioni che, nell’ottica del governo, offendono i buoni costumi, solleticano i sensi e la fantasia, ledono la religione di stato e il sovrano»(60). Una condizione destinata ad aggravarsi a mano a mano che ci si avvicina al ’48 e cresce la produzione locale o importata di tenore antiaustriaco; e che comunque era già chiara attorno al 1830 a Daniele Manin, quando, in polemica con Giuseppe Bianchetti, sosteneva in un appassionato discorso sul «Giornale sulle scienze e lettere delle Provincie venete» che non alla pigrizia degli scrittori andava imputato il triste stato delle lettere in Italia, ma piuttosto a ferrei ostacoli di censure e dazi dei vari Stati; aprendo così la strada a quella severa critica che dall’esilio di Capolago ribadirà poi tra il ’51 e il ’52 pubblicando le Carte segrete e atti ufficiali della polizia austriaca in Italia dal 4 giugno 1814 al 22 marzo 1848.

Ciononostante la tipografia veneziana conosce ancora momenti di grande originalità, anche qui con forti transizioni sette-ottocentesche, qual è quella innescata da Alvise I Mocenigo del ramo di S. Samuele Casa Nuova con la sua grande utopia agrario-sociale di Alvisopoli, pianificata nel 1790-1798 e riassuntiva di tutte le innovazioni architettoniche, agricole e amministrative tra i due secoli. A darle concretezza era stato il maggior esponente di una delle più illustri oltre che ricche famiglie sul finire della Repubblica, titolare sotto S. Marco di cariche prestigiose, poi membro della Municipalità provvisoria, poi prefetto napoleonico, senatore del Regno d’Italia, duca di Alvisopoli(61). E nell’Alvisopoli del nipote e successore Alvise IV aprirà una terza tipografia, dopo quella bresciana del 1806 e quella padovana del 1808, il portogruarese Nicolò Zanon Bettoni(62), in una delle sue geniali ma sfortunate imprese tipografiche, conclusa questa volta con il passaggio della gestione, dopo soli due anni, al fratello Giovanni e in seguito a Bartolomeo Gamba, artefice per conto di Mocenigo del trasferimento a Venezia, nel 1814, di un’azienda della quale diverrà di lì a un decennio proprietario, insediandola in un palazzo nel cuore della città, a S. Apollinare.

Bassanese, di modeste origini, Gamba completava in tal modo una lusinghiera carriera, iniziata nella stamperia dei Remondini, proseguita come «amministratore e consigliere culturale» di Mocenigo, e successivamente quale «stampatore della Restaurazione»(63), dopo essere stato ispettore generale delle stampe del dipartimento dell’Adriatico e aver avuto autorità su tutte le stamperie del Regno italico; incarico mantenuto anche sotto gli austriaci, quando interpreterà compiutamente il carattere principale dell’attività letteraria a Venezia fino all’Unità. Cioè quello di una ancor cospicua attività di studiosi, soprattutto delle glorie trascorse, di storici e di eruditi che troveranno spazio editoriale nelle sue varie collane di classici: raccolte di testi quali la Collezione d’operette in prosa d’istruzione e di piacere e la Serie delle migliori poesie scritte in dialetto veneziano, dove verranno accolti Lamberti e Gritti, la dicono lunga con le loro intitolazioni sulla predilezione per «edizioni a carattere letterario-bibliografico, intese alla ricerca della pagina bella o inedita, piuttosto che alla ridefinizione o all’indagine di un autore»(64); ribadita ancora da due successive edizioni della Serie dei testi di lingua usati a stampa nel Vocabolario della Crusca e dalla Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, anch’esse, ad apertura di pagina, evidenti nell’attenzione preminente per il testo, accompagnato da stringate introduzioni non prive di errori e da poche note, quasi sempre di carattere linguistico, a conferma di quello che è invero il campo d’interesse maggiore in Gamba(65).

A confortare poi un immancabile sguardo classificatorio rivolto alla cultura del secolo passato, dalla quale anch’egli pur deriva, sta infine la sua Galleria dei letterati veneti(66), preludio alla successiva dilatazione che, quando ormai il dominio austriaco si è assestato dopo gli scossoni degli anni Trenta, Emilio De Tipaldo darà a questi percorsi storiografico-letterari svolti nel segno della continuità, ideando e coordinando la Biografia degli italiani illustri nelle scienze lettere e arti del secolo 18° e de’ contemporanei compilata da letterati italiani d’ogni provincia, con cui si mirava a raccordare l’Italia dell’Illuminismo con quella della Restaurazione, ritrovando nella prima le anticipazioni in qualche modo della seconda(67).

La parabola di Bartolomeo Gamba si esaurisce nel 1836, con la cessione al figlio Francesco dello stabilimento tipografico, da lì in poi destinato a un lento declino conclusosi poco oltre la metà dell’Ottocento, quando già da un quarto di secolo si era proposta e ormai compiutamente affermata la più importante impresa veneziana del settore: in quello stesso 1836 Giuseppe Antonelli avviava infatti la propria «Biblioteca degli scrittori latini», una collana con dichiarati intenti di seria divulgazione, per la quale erano stati ingaggiati i migliori specialisti, a partire da Pietro Canal. Anche per Antonelli c’era alle spalle una prolungata tradizione editoriale dalle radici tardo settecentesche, questa volta di famiglia, e anche in lui, com’era stato per i Remondini, spiccava una precisa attitudine imprenditoriale che lo portò a fare del suo stabilimento uno dei più importanti d’Italia, nonché una peculiare attenzione agli aspetti tecnici ed estetici dell’arte tipografica. Espressa negli accurati corredi illustrativi applicati a imponenti volumi di carattere artistico e architettonico, che insieme ad altri di carattere scientifico, come i dieci dell’Enciclopedia geografica, danno la misura della varietà davvero enciclopedica della sua produzione. Nella quale non mancava anche un notevole settore ‘scolastico’, cui va forse imputata in buona parte la crisi e la chiusura dello stabilimento dopo l’Unità d’Italia, per mancanza di smercio conseguente ai mutamenti del sistema educativo, ora nazionale, e alla sua laicizzazione(68).

La generazione romantica e Luigi Carrer

Giustina Renier Michiel muore nel 1833 e a tracciarne un compiuto profilo che sconfina nell’elogio funebre sarà proprio, a conferma di uno spirito che non aveva mai conosciuto la rivalità, Isabella Teotochi(69): quando quest’ultima verrà a sua volta a morire, nel 1836, tra i molti necrologi che ne piansero la scomparsa, spicca, stampato sul «Gondoliere» con a fronte un ritratto della nobildonna, quello di Luigi Carrer, in una sorta di ideale passaggio di testimone tra la grande interprete della letteratura neoclassica e il primo e forse unico autore veneziano ad abbracciare in pieno il romanticismo, naturalmente nella direzione ‘moderata’ del «Conciliatore» e dell’«Antologia». Non a caso Carrer traccerà un giudizio positivo dei Ritratti albrizziani(70), e del resto, seppur nato proprio agli inizi del nuovo secolo, nel 1801, i suoi esordi si possono collocare sotto il segno della continuità e dell’intelligente innovazione di stilemi propri del precedente, cominciando dalla moda dell’improvvisazione poetica che lo propone nei salotti e in teatri veneziani e del Veneto come abile compositore di tragedie di stampo alfieriano(71). Quando poi il suo esordio letterario, nel 1826 con il Clotaldo, novella in versi, mostrerà evidenti gli influssi di Byron e, sorprendentemente, qualcuno di Leopardi, egli aveva alle spalle una rilevante attività editoriale, basata, negli anni degli studi di legge a Padova, sulle cure redazionali prestate alle collane di classici della Tipografia della Minerva — da lui diretta tra il 1825 e il 1832 —, con la conseguenza di avvertire fortemente e accogliere i richiami del classicismo. La sua successiva creazione di rilievo sarà Dargo, un canto ossianesco in ottava rima (1830) con cui si pagava un innegabile tributo alla tradizione cesarottiana, filtrata attraverso Pindemonte e Il bardo della Selva nera di Monti, a conclusione di un percorso di mediazione avviato un decennio prima con le prime prove del Saggio di poesie(72), che al pari della coeva Nella di Vittore Benzon, poema in tre canti in endecasillabi sciolti, rivelavano, nel tema e nella scelta della novella in versi, desiderio di innovazione e allo stesso tempo però volontà di non rinnegare affatto l’eredità del neoclassicismo, con un occhio di riguardo a Foscolo e a Vittorelli anacreontico e melico, ultimo interprete dell’Arcadia.

Tornato definitivamente a Venezia nel ’32, dopo il lungo e culturalmente fruttuoso periodo padovano culminato nell’assistentato presso la cattedra di Filosofia dell’Università, l’anno dopo vi fondò e diresse per un decennio la Tipografia del Gondoliere, redigendo anche un omonimo periodico letterario — «Il Gondoliere» appunto — che ne testimonia le aperture critiche e insieme una concezione della letteratura intonata al romanticismo nel suo intrecciarsi con la vita civile e via via con la vicenda politica; il che gli valse una sempre più pressante attenzione dell’Austria, finché l’accusa di commerciare libri proibiti con Francia e Belgio, nel 1841, porrà fine all’attività di giornale e tipografia. Nel frattempo si completava l’itinerario poetico, con l’edizione della sua più famosa raccolta, le Ballate(73), poi più volte ristampate, accresciute e sempre accolte con plausi provenienti da svariate parti d’Italia. Proprio questi componimenti mostravano fin dalla prefazione la chiara consapevolezza del loro autore nel prendere le distanze sia dai toni eccessivamente macabri e lugubri del primo romanticismo milanese, da Berchet e dai suoi modelli bürgeriani per intenderci, sia da un piatto, ripetitivo classicismo erudito, insistendo sul legame tematico con avventure e leggende popolari preferibilmente medievali, o sviluppando fantasie sentimentali e amorose di tipo lirico: Il cavallo di Estremadura, La sorella, La vendetta, La fuga.

Certo non mancano ambiguità nella posizione carreriana, come quella di un’incerta distinzione tra popolare e nazionale, quale gli sarà rimproverata dalla «Biblioteca Italiana», o di una imprecisione storico-culturale che lo portava — ma con lui quasi tutta la filologia romanza ottocentesca — a ritenere autenticamente medievali e popolari alcune strutture metriche attribuite a quei tempi, dal serventese alla romanza ballata: che è invero forma colta, solo tematicamente legata alle tradizioni e al folklore urbano o campestre, partecipe di un’iniziale, presunta oralità unicamente per qualche modesto relitto. Del resto era questo il limite complessivo dell’idea di popolarità proclamata dalla Lettera semiseria di Berchet in poi, ma indubbiamente il contributo di Carrer agli sviluppi della ballata romantica appare cospicuo e, travalicando i confini veneziani, si presenta in utile dialogo con le proposte milanesi, in virtù della ricerca nel ritornello di una inedita fusione tra ‘armonia’, ‘sonorità’ e ‘canto’, e grazie anche al recupero di esempi settecenteschi dai quali si potrebbe far discendere la peculiare propensione per i polimetri, dove ora scompare la distinzione tra recitativo e cantato(74).

Anche sul versante complessivamente meno apprezzato della prosa(75), il romanticismo di Carrer emerge da una produzione novellistica alla ricerca di alternative al modello boccacciano, e allo stesso tempo «radicata in una tradizione locale fondamentale nella storia della nostra narrativa»(76), con una serie di narrazioni brevi affidate ai fogli del «Gondoliere», a partire dal ’34 con La sconosciuta. L’accompagna la coeva proposta del Novelliere contemporaneo italiano e straniero, un’antologia di racconti italiani, inglesi, francesi, tedeschi pubblicata in dodici volumetti tra il 1837 e il 1838, con la quale si allarga ulteriormente l’orizzonte di una partecipazione a quel fervore per la novella che, espresso in termini giornalistici, troverà piena diffusione e realizzerà l’obbiettivo di raggiungere un pubblico davvero vasto nella seconda metà del secolo. Nello stesso contesto si inserisce, a metà tra narrativa e saggio critico, L’anello di sette gemme(77), una storia romanzata di Venezia svolta attraverso la vita di sette illustri donne-gemme che incarnano nei vari momenti topici la vita mercantile, letteraria e artistica di una città vista come anello di congiunzione tra l’età antica e quella moderna. Ovvia alla fine di questo itinerario la collocazione di Giustina Renier Michiel, mentre assai meno consueto appare lo stile della narrazione, che procede con una vistosa varietà di scrittura, rappresentata dal successivo ricorso alla forma epistolare, al dialogo, al dettato più consueto del profilo biografico.

Cospicua e omogenea alle scelte poetiche, che intreccia di continuo, corre poi in Carrer una frenetica e logorante attività critico-filologica, finora apprezzata forse più di quella letteraria(78) e tradotta nelle prefazioni e nei commenti ai ventisette volumetti — sui cento previsti, ma editi in soli due anni, dal ’39 al ’41 — della «Biblioteca classica italiana di scienze, lettere ed arti», e ai tomi delle «Scelte opere d’italiani illustri antichi e moderni» preparati per l’editore Tasso, a imitazione della «Biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne» del milanese Silvestri(79). Accanto ponderosi interventi su singoli autori, dai tre tomi dei Saggi su la vita e su le opere di Carlo Goldoni(80), piattamente informativi, al ben più incisivo lavoro su Foscolo, del quale, come s’è accennato, egli si mostra convinto paladino, sostenendone e propagandandone l’idea della primaria finalità civile assegnata alla letteratura. È proprio questo lo spirito che anima la Vita premessa da Carrer a un’importante edizione di Prose e poesie inedite di Ugo Foscolo(81), volta a sottolinearne, pur in mezzo a qualche svista — il mancato apprezzamento delle Grazie — la liricità di ogni passo e l’appartenenza alla tradizione veneta.

Il grosso tomo veniva anche a rimediare almeno in parte agli ambigui atteggiamenti di Emilio De Tipaldo, fin dagli anni Venti monopolizzatore delle memorie foscoliane con la duplice prospettiva di una pubblicazione in nove volumi di tutto il materiale inedito e disperso, in particolare del carteggio, e appunto dell’allestimento di una compiuta biografia: in effetti molte cose aveva raccolto, però gelosamente accaparrandosele e ostacolando le ricerche sinceramente encomiastiche di altri, mentre andava dilazionando con varie scuse la conclusione del lavoro e alla fine lo vanificava in ossequio a un suo celato antifoscolismo, in linea con quello di Tommaseo, del quale era in sostanza un amico e un fedele seguace sul piano critico(82). Fortuna e pressioni di Carrer vollero però che a un certo punto De Tipaldo lo coinvolgesse nell’impresa e gli vendesse il robusto nucleo di lettere e documenti su cui poggia l’organico edificio carreriano, affiancato per tutto il tempo della sua costruzione dai ricorrenti tentativi di portare a compimento Osanna. Un romanzo epistolare modellato sull’Ortis, steso agli inizi degli anni Trenta e poi lasciato incompiuto e inedito: espressione di una linea narrativa foscoliana risultata perdente nel contesto romantico e perseguita quasi unicamente da uno scrittore che invero, quando stampa in due volumi l’ultima edizione delle proprie Poesie e delle Prose(83), appare già attardato e quasi accantonato, in parte per aver troppo cercato il compromesso con la tradizione, in parte per la difficoltà ancora persistente, nel Veneto, ad accogliere fino in fondo le proposte romantiche(84).

Verso il ’48

Sintesi esemplare della cultura veneziana nella prima metà del secolo, nel 1847, su iniziativa della città, venivano allestiti due lussuosi volumi, stampati da Antonelli col titolo Venezia e le sue lagune, per omaggiarne gli ospiti al IX congresso degli scienziati italiani; insieme a quello di Padova di cinque anni prima e in maggior misura «spettacolare cerniera di trasmissione e, nel contempo, […] cassa di risonanza entro la quale si consumava un’eccezionale saldatura tra le varie culture municipali delle piccole ‘patrie’ e la cultura nazionale ancora in fieri, e di queste — nel loro complesso — con la cultura straniera»(85). I saggi, in un clima che per un’ultima volta ricercava forme di convivenza con l’Austria, patrocinatrice dell’iniziativa(86), recavano le firme di Luigi Carrer, che parlava della letteratura e della lingua veneziana, di Daniele Manin, che dissertava di giurisprudenza, di Francesco Zanotto, che descriveva Palazzo Ducale e le Gallerie dell’Accademia, allargandosi anche a considerare più in generale la pittura veneziana, di Pietro Canal, che trattava della musica in Venezia, di Emmanuele Antonio Cicogna, che ne proponeva le famiglie nobili, di Agostino Sagredo, che esibiva un sommario della storia civile e politica della Repubblica veneta, di Leopoldo Cicognara, che illustrava i principali monumenti veneziani, di Giovanni Veludo, che narrava delle Accademie e della loro vita, ecc.; mentre le funzioni di coordinatore venivano affidate all’opitergino Francesco Dall’Ongaro, appena giunto a Venezia dopo l’espulsione da Trieste, dove si era segnalato per avervi diretto dal ’38 al ’46 insieme a Pacifico Valussi «La Favilla», e averne fatto uno strumento di discussione e propaganda in chiave decisamente risorgimentale.

Di pochi anni più giovane di Carrer ma a lui sopravvissuto fino al 1873, in tempo per ripetute partecipazioni patriottiche — in difesa di Roma nel ’49, dove conclude spretandosi un’inquietissima carriera ecclesiastica, e nei moti del ’59(87) —, Dall’Ongaro era apparso insieme al veneziano nelle strenne milanesi che a partire dagli anni Trenta costituiranno un veicolo importante per la diffusione a largo raggio del poetare romantico(88). E simili inizialmente le sue trame poetiche e le sue scelte metriche nell’alveo della ballata, sempre interpretata con la stessa mescolanza di elaborazione letteraria e di recupero di supposte spontaneità antiche, come in Rosettina(89). Ben presto, all’altezza del 1840, egli accede però a uno sperimentalismo strutturale e metrico più accentuato, che poco ricorre all’endecasillabo sciolto — a riprova di una intervenuta discontinuità rispetto alla tradizione settecentesca — mentre prevale la tendenza a un polimetro rapsodico, monologante ne Il solitario di Grignano, con la sua problematica del contrasto tra Stato e Chiesa, e dialogico in altri luoghi, dove risuonano modulazioni e contaminazioni di tipo drammatico. Appunto, rispetto a Carrer, Dall’Ongaro coltiverà le tinte forti della grande passionalità spesso narrata da un punto di vista femminile — Usca, che incendia la casa dell’antico amante e Alda, che combatte contro le violenze di un matrimonio infelice — o svilupperà la sua propensione narrativa traendo spunto dai fatti di cronaca giornalistica per «grandi ballate» come Poveri fiori, poveri cuori o La perla nelle macerie(90), fino ai confini dello scabroso toccati con le Odi quattro all’amica ideale(91).

Ancora più avanti, nella sua fase matura, accantonato un côté medievaleggiante ritenuto ormai superato, si farà strada in lui un verseggiare più semplice, palesemente indirizzato al pubblico femminile, e prenderà piede il travestimento di motivi popolari, esprimendosi in maniera convincente anche nella prosa, con le novelle Il pegno e poi I colombi di San Marco(92). Al loro confronto assai meno riuscita appare la raccolta dialettale Alghe della laguna, un esile omaggio a Venezia apprezzabile per impegno e affetti patriottici ma non per forza poetica, particolarmente limitata dalla sostanziale estraneità alle indispensabili corde realistiche richieste dal vernacolo; semmai rinvenibili in certa misura solo nel prologo in versi alla commedia L’acqua alta(93): ancora una ballata, in cui il tema popolare si congiunge con spunti di allegorismo romantico.

Ma Dall’Ongaro autore di questi ultimi componimenti, o del celebre dramma Il fornaretto di Venezia (1845), da tempo non era più a Venezia, dalla quale era stato allontanato da Manin per avervi sostenuto nel ’48 l’autonomia della Repubblica veneta, coinvolto anch’egli in quella turbinosa catena di rotture di amicizie e di sodalizi poetici che costituisce un altro degli elementi da considerare quando si venga a sostenere a questa data o poco dopo — alla morte di Carrer, nel 1850 — l’esaurirsi della tradizione letteraria più strettamente veneziana, o si venga a constatare la crescente ‘temporaneità’ della presenza in città di narratori e poeti ‘forestieri’, con il riaprirsi di quel quesito sul riconoscimento o meno della loro appartenenza alla stessa proposto in apertura di capitolo.

La figura centrale per provare a interpretare questi nodi è certamente quella di Niccolò Tommaseo, prima amico di Dall’Ongaro e poi a lui ostile, critico di Canal e censore dei comportamenti di Carrer durante l’insurrezione, sempre in nome di una loro scarsa avversione, o addirittura connivenza, nei confronti dell’Austria. A Venezia il dalmata soggiorna dal ’39 fino al fatale biennio rivoluzionario, collaborando da vicino all’impresa del «Gondoliere», ma senza per questo riuscire a convincere del tutto circa la sua ‘venezianità’, rispetto alla quale si registra a tutt’oggi una contrastante acquisizione di elementi di giudizio(94), dettata dal fatto che, se è vero che con la clamorosa relazione all’Ateneo Veneto la sera del 30 dicembre 1847(95) egli si lega strettamente alla vita politica della città, per il resto la sua formazione è più veneta d’oltremare che veneziana, né la sua interazione con la cultura cittadina, al ritorno dall’esilio per amnistia austriaca e preferendo Venezia a Milano, va al di là di un intenso lavoro per gli editori cittadini, almeno fino al ’43. Con opere di sicuro stampo letterario, critico ed erudito, ma le cui radici affondano piuttosto nelle esperienze del Tommaseo fiorentino, attivo esponente dell’«Antologia» — fondata nel 1821 da Vieusseux e soppressa nel 1833 proprio a seguito di un suo articolo — o negli anni dell’esilio parigino. Si tratterà per l’appunto di collaborazioni a vari giornali e dell’edizione o ristampa di molte opere concepite e scritte altrove: di traduzioni e saggi biblici, o di carattere filosofico-estetico(96), o intorno a Dante(97), e quando si risale alle memorie patrie è piuttosto la patria dalmata dei Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci(98) e delle Scintille(99) a proporsi rispetto a una tradizione propriamente veneta che per Tommaseo voleva dire gli anni di studio a Padova insieme a Carrer e la laurea in Legge, occasione per un decisivo approfondimento del latino, e poco altro.

Nato nel 1802 nella Dalmazia austriaca e lì educato per un periodo ben più lungo di quello della prima giovinezza foscoliana, il flusso culturale dalla Serenissima gli era giunto ormai come memoria del passato, trasmessogli da insegnanti che erano vissuti nel Settecento dalmata, conservatori e di parte cattolica, umanisti e rinascimentali, e per questo Tommaseo è partecipe della cultura veneta, ma piuttosto che come apporto vitale, qual era accaduto a Foscolo, come retaggio; dal quale si era poi staccato, giungendo a Venezia già formato, interprete di un romanticismo còlto altrove in maniera personalissima, e acquisito a scapito appunto delle sue origini. Non sarà un caso che passi inosservata a Venezia, dove solo Carrer se ne accorse, con una recensione sul «Gondoliere»(100), l’uscita di Fede e bellezza, il «romanzo antimoderno»(101) composto tra il ’38 e il ’39 che nel suo sofferto psicologismo, nella lacerante oscillazione tra colpa ed espiazione, e al di là delle proprie contraddizioni interne, risultava troppo diverso dalle modalità indigene del racconto morale.

Per il resto la sua attività letteraria attorno al ’48-’49 riguarda piuttosto la storia politica, con al centro il resoconto polemico e assai parziale che ne diede con l’opera Venezia negli anni 1848 e 1849, rimasta inedita per quasi un secolo. Alla fine una formazione certamente veneta, ma poi superata in un desiderio di novità, con poche cose date alla cultura veneziana contemporanea, ma con un senso vivissimo della sua eredità in senso storico-civile, che portò sempre con sé, affascinato dai legami tra Venezia e l’oriente europeo e mediterraneo. Cosicché credo anch’io(102) che si debba parlare per lui di un primo abbozzo di cultura italiana, quale per altra strada troverà espressione nelle Confessioni dell’«italiano» Ippolito Nievo.

Dopo il ’48

In testa al libriccino di «piccole poesie» manoscritte che il diciassettenne Ippolito Nievo regala al nonno materno per il «buon capo d’anno 1848» c’è il disegnetto di una gondola il cui gondoliere pare invero più assopito sul remo che intento alla voga: sotto le quartine de La vita, composte presumibilmente qualche anno prima dal precoce ginnasiale, si snodano con ritmo di barcarola, a riproporre in una luce serale echi lambertiani di facile musicalità, fino alla chiusa, inevitabilmente moraleggiante: «Così sempre il tempo vola / e la vita a noi s’invola, / come lunge dalle sponde / batte l’onde il gondolier»(103).

Nel 1848 Nievo è lontano da Venezia e gli echi della battaglia insurrezionale gli giungono smorzati, appena in tempo per accendergli solo qualche adesione ideale; eppure quel gondoliere, così anacronistico nella sua posa rannicchiata, sembra restituire perfettamente — e certo per pura coincidenza più che per consapevolezza simbolica — quella che sarà di lì a poco l’immagine di una città stremata dall’assedio austriaco, così come quei versi sanno di educazione poetica di schietta marca veneta, quale è proposta al giovane nelle scuole veronesi, e da ognuno di essi trapela già il fascino che la storia e la vista di una Venezia poi ripetutamente frequentata e intensamente amata eserciteranno su di lui. Entrambe per il momento mediate — ma per la rilettura storica sarà lo stesso anche in seguito — dal decisivo racconto del destinatario di questo omaggio poetico, Carlo Marin, patrizio veneto, testimone oculare nel 1797 dell’ultima seduta del maggior consiglio e tra i pochi a votare contro il ‘suicidio’ della Repubblica.

Ed è proprio una Venezia prostrata in ogni sua attività materiale e intellettuale quella che viene rioccupata alla fine dell’agosto 1849: conclusasi di necessità la gran produzione di versi patriottici che aveva accompagnato la resistenza agli austriaci, allontanati i capi della rivolta, patrioti e letterati insieme, dispersa anche la generazione intellettuale che qui era confluita nella circostanza, dal Veneto e da più lontane provenienze, sulla città pare calare un silenzio plumbeo, con spazi di aggregazione sempre più risicati per poeti e scrittori: solo qualche salotto a far da pallida controfigura al gran andirivieni di quelli primo-ottocenteschi, una manifesta difficoltà a sostituirli con la nuova realtà dei caffè letterari ormai affermatasi da Milano a Firenze a Parigi, o nella vicina Padova, e una pari difficoltà a definire un’aggiornata tipologia del letterato, non più l’aristocratico, o il funzionario pubblico della prima metà del secolo, ma nemmeno quella configurazione, adombrata da Carrer, Tommaseo e Dall’Ongaro, di scrittore professionista combattivamente al lavoro su giornali e riviste, in costante dialogo con editori di nuova intraprendenza per pubblicare racconti e poesie destinati a un pubblico orientato a cogliere le convergenze delle varie culture regionali nella prossima nazionale.

Anche la copiosa produzione erudita che tra luci e ombre aveva pur costituito uno dei tratti caratteristici dell’attività letteraria veneziana nella prima metà del secolo, tende a isterilirsi in revisioni e aggiornamenti di opere già compiute o in ricerche sempre più minute e frammentate nella direzione della cultura popolare, passando magari dai Canti del popolo veneziano di Foscarini o di Dalmedico ai Proverbi veneziani raccolti o raffrontati con quelli di Salomone, e co’ Francesi(104) dello stesso Dalmedico, o alle Curiosità veneziane di Giuseppe Tassini(105). Evidente la distanza con quella «figura di scrittore» che appena fuori città si è invece ormai generalmente affermata, e per la quale — come ha rilevato Anco Marzio Mutterle in un impeccabile saggio cui finora nulla resta da aggiungere e tanto meno da correggere — «il Veneto può essere zona d’origine o anche punto di riferimento fantastico, ma comunque resta soltanto segmento iniziale di un percorso destinato a dilatarsi verso confini più ampi, che segnano anche l’incontro, non sempre destinato ad esiti felici, con i modelli del romanticismo europeo»(106). Gli esempi, opportunamente citati, sono quelli del trentino Giovanni Prati o del veronese Aleardo Aleardi, o dello scledense Arnaldo Fusinato, dapprima intonato al moraleggiare sermoniante della tradizione gozziana, espresso nella raffigurazione di vita universitaria, scettica e disillusa, de Lo studente di Padova (1847); poi poeta patriottico e combattente, ad aprire e chiudere, con Il canto degli insorti e Le ultime ore di Venezia, la parentesi della ritrovata indipendenza. Un esercizio poetico, il suo, comunque radicato nel presente, con chiare venature sociali, accolto da un consistente favore di pubblico(107) e che ribadisce l’abbandono dell’immaginario veneziano antico, in prevalenza medievale, cui fin allora s’era fatto ricorso, specie da parte degli interpreti veneti del romanzo storico; qui contraddistinto da una vita complessa e contraddittoria, alla quale Venezia contribuisce più come luogo di stampa delle varie provenienze regionali che come centro di discussione critica dove decretare la scelta del modello scottiano nei fatti generalmente preferito(108).

Sintomatico in tal senso — sul duplice binario del passaggio dalle tematiche storiche a quelle contemporanee e della presenza sulle lagune per un periodo limitato, insufficiente a instaurare un dialogo o un’integrazione con una cultura locale di per sé sempre più evanescente — il percorso del milanese Giuseppe Rovani, che nella Milano viscontea e nella Venezia di fine Trecento aveva ambientato il suo Valenzia Candiano (1844), secondo di tre appuntamenti giovanili col genere in gran voga: trasferitosi a Venezia già nel 1847 quale precettore in una casa privata e partecipe subito dopo degli avvenimenti insurrezionali in ruoli non marginali — dall’effimera redazione de «La Parola» a una significativa attività diplomatica — proprio con la rievocazione di quel momento concluderà nel ’64 l’edizione completa di Cento anni, la sua opera maggiore che con buona probabilità aveva avuto allora il primo incunabolo nel progetto mai realizzato de Il carbonaro(109).

A queste dinamiche non sfugge nemmeno Ippolito Nievo, seppure con una forbice temporale più ristretta, che va dalla collocazione pienamente settecentesca degli esterni festosi e dei tormentati interni dell’educandato conventuale di Angelo di bontà(110) al grande affresco disegnato per momenti essenziali tra la fine della Repubblica e l’epopea quarantottesca nelle Confessioni di un italiano(111), dove il protagonista Carlino Altoviti definisce esattamente la misura della partecipazione del suo autore alla storia della narrativa veneziana e veneta. Confermando il suo maggior radicamento, rispetto a uno Jacopo Ortis, nella storia della Repubblica, ma parimenti la sua genesi da una trasmissione narrativa e da una ricostruzione postuma, su base di documentazione storica e familiare, più che di esperienza, pur breve, intensamente vissuta in prima persona, cosicché tra l’uno e l’altro c’è alla fine «non solo una trasformazione delle prospettive patriottiche, ma la fattibilità del progetto, il bagaglio di esperienze e contributi di azione che la generazione del Nievo può vantare, permettendo l’uso di un diverso, più concreto linguaggio»(112). Un salto di generazione che serve a spiegare anche il distacco di questo «unico figlio del Tommaseo, in area veneta» dal proprio «padre» letterario, «per essere immerso, il Nievo, nelle imprese delle guerre d’indipendenza con una propria intensa specificità che il Tommaseo, alla fine, mai possedette, ma alla quale aveva fornito, con la sua azione e con i suoi scritti, alcuni ideali prolegomeni: il concetto della diversità che non soltanto muove alla ricerca di un comune fondamento nazionale, ma che trova la possibilità di autodefinirsi come diversità soltanto nello slancio verso una superiore unità che ne invera i caratteri storici e culturali».

Al di là appunto di ogni ‘specificità’ veneziana scrittore e personaggio, per «la consapevolezza della molteplicità di regioni e di storie»(113) che animeranno le Confessioni, in sintonia con l’affermazione proemiale della metamorfosi di Carlino da veneziano a italiano. Che è «quanto storicamente avvenne a tutti i veneziani nel 1866, così come qualche tempo prima era già toccato agli abitanti di tante altre parti della penisola; ma quando Nievo scrive le Confessioni […] non era accaduto ancora a nessuno, e tutt’al più era un sogno coltivato in segreto, un ideale che spingeva all’azione, un traguardo da conquistare non senza sacrifici, una speranza»(114). Da qui il carattere «progettuale, proiettato in un futuro indefinito» del romanzo, dove al fallimento del ’48 è riservato di conseguenza poco spazio, mentre il problema di Venezia non è più quello di restaurare la Repubblica, ma, come prospetterà lo stesso Nievo sul finire del 1859 nell’opuscolo Venezia e la libertà d’Italia, di fondersi nel movimento nazionale e popolare che, con le armi e la diplomazia, sta concretizzando la riunificazione d’Italia.

Si potrebbe senz’altro fissare qui, appena oltre la metà del secolo, il momento di definitivo passaggio da una Venezia che «come città man mano diveniva sempre meno capace di assolvere a una funzione culturale completa, dall’assorbimento di cultura esterna alla creazione di cultura propria e originale»(115), a una Venezia che come immagine alimenterà abbondantemente, con gli scorci ambientali corrosi e la sensualità inquieta della sua attualità, momenti importanti della letteratura ottocentesca italiana e straniera, sulla scorta di premesse via via veristiche o decadentistiche.

Così, sullo sfondo di una città raggelata e impaurita dalla dominazione austriaca, dove l’incanto del luogo e la magnificenza dei monumenti contrastano con la muta rassegnazione degli abitanti, Giovanni Verga, alla sua seconda esperienza narrativa giovanile, ambienterà Sulle lagune. Un lungo racconto, quasi un romanzo, apparso a puntate nel 1863 sul giornale fiorentino «La Nuova Europa», al quale non sono forse estranei «tipi di intreccio e topoi» derivati direttamente dalle proposte veneziane di Carrer e di Dall’Ongaro(116), dove è descritta una coeva vicenda di amore e patriottismo in toni passionali tardoromantici che lasciano tuttavia intravedere le propensioni veristiche dell’autore, espresse nella scelta linguistica antimanzoniana, con una continua ricerca di aderenza alla condizione socioeconomica del personaggio parlante, anche quando bisogna ricorrere al dialetto.

Pochi anni prima, tra il ’50 e il ’56, a Venezia, aveva studiato all’Accademia di Belle Arti e vi aveva poi insegnato brevemente Camillo Boito, la cui vita artistica di architetto e di storico e teorico dell’arte si svolgerà tutta tra Milano, Firenze e Roma, ma che intorno al 1880 annota sul versante letterario saltuariamente frequentato un ritorno a Venezia con alcune novelle di ambientazione lagunare. La più nota fra esse — per la lettura cinematografica offerta da Luchino Visconti più che per diffusa conoscenza della pagina letteraria — è Senso, composta nell’82 e la cui trama, sul filo del ricordo di un innamoramento giovanile per un tenente austriaco riaffiorato alla memoria della protagonista, rimanda al 1864 con un ritratto di donna — «ignara d’amore che rimane affascinata da un uomo bellissimo e perverso, finendo col perdere ogni ritegno»(117) — in netto contrasto con la tradizione e già avvolto in un’aura di decadentismo.

Siamo ormai ben oltre quell’unificazione politica che non era riuscita però a ridare voce poetica e narrativa a una Venezia sempre più rinchiusa in un municipalismo oleografico che tenta «un frettoloso adeguamento alle forme letterarie e alla stessa grafia della lingua italiana, con la rinuncia alle ragioni storiche interiori ed esteriori del ‘lenguazo venezian’»(118), mentre sul piano tematico «emergono prepotentemente i problemi di campagna e industria, e con ciò le realtà provinciali di terraferma, che scavalcano Venezia e tendono spesso a collocarla in un ruolo marginale»(119) dal quale solo in qualche sporadica occasione si riesce a evadere partecipando a quell’attività di traduzione di derivazione tipicamente cesarottiana diffusissima nel Veneto dell’Ottocento, così da agevolarvi la conoscenza di tutta la poesia e la narrativa europee fino a Heine(120).

Nel 1901, giusto in apertura del nuovo secolo, esce in seconda e definitiva edizione Della letteratura veneziana del secolo XIX di Filippo Nani Mocenigo(121): come recita il sottotitolo, un blocco di «notizie e appunti» esteso per oltre 500 pagine, organizzato però come una vera storia letteraria secondo il ‘sistema’ dell’abate Moschini al punto da esserne in sostanza l’aggiornamento, con un’identica area di competenza settecentescamente comprensiva anche delle arti, e che al pari dell’opera del muranese intendeva celebrare «i preziosissimi frutti, che venivano ad arricchire, non tanto la storia della particolare veneta famiglia, quanto, e in modo degnissimo, il patrimonio artistico letterario scientifico di tutta l’Italia». Ma i tempi non erano più quelli della Serenissima, e il compito diveniva arduo e pressoché insolubile «se non altro perché l’epoca, soggetto al mio tema, [confessava Nani Mocenigo] trova Venezia sfornita di importanza politica, quantunque sia pur necessario riconoscere, che fino oltre la metà del secolo presente abbia ancora conservato nel campo delle lettere una importanza ed un colore tutto suo, quasi fosse stata ancora un centro di attività regionale»(122).

Sulla base di questi presupposti è facile indovinare quanto strettamente ‘veneziano’ sia l’ambito entro il quale ci si muove e quanto vicino a sé l’autore intendesse porre il limite cronologico di una ben individuata produzione letteraria non indegna del passato, tanto da giustificare il rilievo anche di recente formulato di un suo vistoso «errore metodologico»(123); ma forse più che di errore metodologico si tratta di aberrazione prospettica, inevitabile in chi come lui, per appartenenza di famiglia e conseguente culto di memorie della Repubblica, si poneva aprioristicamente sulla scia di una devota prosecuzione della sua storiografia letteraria, riducendosi alla fine a compilare un piatto catalogo di nomi e di titoli spesso inutili che suona come evidente dimostrazione dell’avvenuta conclusione di quella vicenda, intesa come tradizione autonomamente cittadina e insieme nazionale. Né si poteva chiedere a Nani Mocenigo di intravederne viceversa l’avvenuta confluenza da almeno mezzo secolo in una ‘linea veneta’ paritariamente policentrica: questa sì vitale e individuabile con sue peculiarità ieri — e credo anche oggi — come componente di rilievo della letteratura italiana.

1. Per l’esattezza il 27 febbraio: lo si può leggere nell’edizione, da me curata recentemente, di Ippolito Pindemonte, Lettere a Isabella (1784-1828), Firenze 2000, lettera nr. 412.

2. Su Isabella Teotochi Albrizzi v. l’esaustiva monografia di Cinzia Giorgetti, Ritratto di Isabella. Studi e documenti su Isabella Teotochi Albrizzi, Firenze 1992.

3. Cf. Lina Urban, Isabella Teotochi Albrizzi tra ridotti e dimore di campagna del suo tempo, in Elena Bassi-Lina Urban Padoan, Canova e gli Albrizzi tra ridotti e dimore di campagna del tempo, Milano 1989, pp. 73-137: alle pp. 94-98 viene riportata una divertente satira di Lorenzo Paron, organizzata come una scena di commedia, che, insieme alla famosa caricatura letteraria di Buratti con Pindemonte al centro del circolo intento a dettar legge, è uno dei pochissimi documenti relativi alla vita della ‘stanza’ isabelliana; e v. anche Bennassù Montanari, Della vita e delle opere di Ippolito Pindemonte libri sei, Venezia 1834, p. 231: «Oltre alle visite di compatrioti e stranieri, che riceveva, e quelle ch’egli rendeva con somma esattezza, profittava in Venezia delle migliori conversazioni; di quella d’Isabella Albrizzi tutte le sere, ed interveniva frequentemente ne’ crocchi di Giustina Renier Michiel, di Marina Benzon e di Lucietta Cicognara».

4. Su questo «aureo libretto», come lo definiva, da Parma, Angelo Mazza, v., oltre a uno specifico capitolo nella monografia della Giorgetti (Attraverso i ‘Ritratti’, pp. 143-216), il saggio di Gino Tellini, La parte nascosta del volto. I Ritratti di Isabella Teotochi (e la successiva Notizia sui Ritratti, che fornisce un quadro esatto delle varie edizioni), in Id., L’arte della prosa. Alfieri, Leopardi, Tommaseo e altri, Firenze 1995, pp. 85-106 (e pp. 107-114).

5. Cf. C. Giorgetti, Ritratto di Isabella, pp. 45-46.

6. Cf. Bruno Rosada, La giovinezza di Niccolò Ugo Foscolo, Padova 1992.

7. Sposata nel 1776, appena sedicenne, al patrizio Carlo Antonio Marin nella natia Corfù, Isabella arriva a Venezia con il marito e il figlio Gianbattista due anni dopo, adeguandosi subito alla consuetudine della villeggiatura estiva nelle ville dell’entroterra, che per lei vorrà dire appunto il Terraglio nei pressi di Gardigiano, vicinissimo alla villa Albrizzi di Preganziol di cui usufruirà dopo che, annullato nel 1795 il suo matrimonio con Marin, si risposerà col senatore Giuseppe Albrizzi.

8. Stesa intorno al 1798, la Risposta della Contessa Albrizzi all’abate Arteaga, comunemente citata come Lettera sulla Mirra, intendeva contrapporsi a una coeva Lettera […] sopra la Mirra nella quale Arteaga aveva messo per iscritto le critiche al capolavoro alfieriano da lui formulate oralmente nelle conversazioni del salotto albrizziano. Dopo un’ampia circolazione manoscritta tra gli amici, i due testi vennero pubblicati assieme nell’edizione Molini delle Tragedie di Alfieri (VI, Paris 1803, pp. 1-56).

9. Cf. I. Pindemonte, Lettere a Isabella, lettera nr. 227.

10. Cf. ibid., lettera nr. 228: «Ecco i Sepolcri, ma con patto, che non escano dalle vostre mani, e che niuno li vegga, anzi che non si sappia né meno, che furono da voi letti. Ho delle ragioni per questo, ragioni però che cesseranno tra poco, siccome io credo. Non ho tempo di dirvi di più. Bensì vi prego di dirmi voi subito ciò che vi pare de’ miei Sepolcri». Foscolo aveva composto i suoi versi nell’estate del 1806, e li aveva pubblicati presso Nicolò Bettoni, a Brescia, nell’aprile successivo.

11. Cf. ibid., lettera nr. 273.

12. Cf. ibid., lettera nr. 294. In seguito potremo registrare ancora, nelle lettere di Ippolito a Isabella, solo altre due apparizioni, quasi fantasmatiche, di Ugo: una nel 1821 («Sapete voi, che abbiamo un terzo canto dell’Iliade tradotto da Foscolo? Trovasi nell’Antologia di Firenze, ma io nol vidi ancora, perchè il volumetto, in cui trovasi, non è ancora nel nostro Gabinetto Letterario. Pare che Foscolo voglia tradurre tutto il Poema») dello stesso tenore delle precedenti, un’altra, all’altezza del 1827, piena di acredine, a suggello di un rapporto sempre di scarsa simpatia che era poi stato definitivamente interrotto dalla discussione di vent’anni prima: «Quanto a Foscolo, Lady Compton mi disse, che son cosa incredibile le sciocchezze, che ha fatto. Tra l’altre si fabbricò in Londra a gran costo una casa, ch’egli fornì sì bizzarramente, che tutti andavano a vederla, ed a riderne. Avea tutto ciò, che fa di mestieri per piacere agl’Inglesi: ingegno, sapere, e gran singolarità, ch’io temo per altro fosse più voluta, che naturale; e direi anche pazzia, ma rispetto la nazione Inglese» (ibid., lettera nr. 441).

13. Di questa prima edizione è stata proposta qualche anno fa, a cura di Antonio Chiades, una ristampa anastatica, integrata, pure anastaticamente, con taluni ritratti aggiunti nella successiva stampa di Pisa 1826; la correda un’Introduzione di Andrea Zanzotto, Milano 1987.

14. Non è certo un caso che, sempre nel 1807, escano a Verona i Ritratti d’alcuni illustri amici di Silvia Curtoni Verza in Arcadia Flaminda Caritea, sui quali pure s’erano esercitati con eguale, affettuosa amicizia i consigli pindemontiani, a riprova della sua attenzione per questo ‘genere’, del quale si offriva qui una diversa interpretazione.

15. Presso Nicolò Bettoni, lo stesso editore dei Sepolcri di Foscolo.

16. Cf. Adriana Chemello, La biografia come rispecchiamento: la ‘Vita di Vittoria Colonna’ di Isabella Teotochi Albrizzi, in Ead.-Luisa Ricaldone, Geografie e genealogie letterarie. Erudite, biografe, croniste, narratrici, épistolières, utopiste tra Settecento e Ottocento, Padova 2000, pp. 115-135.

17. Cf. Maria Chiara Gamba, I ‘Ritratti’ di Isabella Teotochi Albrizzi, «Quaderni Veneti», 1992, nr. 15, pp. 115-143.

18. Cf. B. Montanari, Della vita, pp. 195-196.

19. Infatti, mentre una prima parte appare a Firenze nel 1809, presso Molini e Landi (peraltro stampata contemporaneamente nei formati in 4°, in 12°, in folium) ed è replicata nello stesso anno a Venezia, bisognerà poi attendere il 1821 per vederne la conclusione; cf. C. Giorgetti, Ritratto di Isabella, pp. 445-446.

20. Cf. Elena Bassi, Canova e gli Albrizzi, in Ead.-Lina Urban Padoan, Canova e gli Albrizzi tra ridotti e dimore di campagna del tempo, Milano 1989, pp. 9-51, in partic. pp. 32-41.

21. Cf. I. Pindemonte, Lettere a Isabella, lettera nr. 367: «Voi dovete piangerlo anche in una Vita, che scriverete di lui, e porrete alla fine delle vostre Descrizioni. Lo stesso scriverla vi sarà di conforto». Sui rapporti tra Canova e gli intellettuali veneziani, v. il recente studio di Piero Del Negro, Antonio Canova e la Venezia dei patrizi, in Antonio Canova e il suo ambiente artistico fra Venezia, Roma e Parigi, a cura di Giuseppe Pavanello, Venezia 2000, pp. 121-140.

22. Cf. A. Chemello, La biografia come rispecchiamento, pp. 115-116.

23. Opere drammatiche di Shakespeare volgarizzate da una Dama Veneta […], I-III, Venezia 1798-1800.

24. Avviata solo nel 1811, con il Giulio Cesare, e portata poi a compimento, dopo essere passata attraverso successivi arricchimenti, tra il 1819 e il 1822 con la stampa, a Verona, dei quattordici tomi delle Tragedie di Shakespeare tradotte.

25. Cf. Andrea Molesini-Anjusca Zoggia, Giustina Renier Michiel traduttrice di Shakespeare, in Gentildonne artiste intellettuali al tramonto della Serenissima. Atti del seminario, a cura di Elsie Arnold et al., Mirano 1998, pp. 17-27.

26. I-V, Venezia 1817-1827.

27. I-VI, Milano 1829.

28. Cf. Lina Urban, Giustina Renier Michiel, in Le stanze ritrovate. Antologia di scrittrici venete dal Quattrocento al Novecento, a cura di Antonia Arslan-Adriana Chemello-Gilberto Pizzamiglio, Venezia-Mirano 1991, pp. 164-167 (pp. 163-172).

29. Ibid., p. 167.

30. Cf. Angela Veronese (Aglaia Anassillide), Notizie della sua vita scritte da lei medesima. Rime scelte, a cura di Manlio Pastore Stocchi, Firenze 1973, e il profilo complessivo tracciato da Giovanna Pastega, in Le stanze ritrovate. Antologia di scrittrici venete dal Quattrocento al Novecento, a cura di Antonia Arslan-Adriana Chemello-Gilberto Pizzamiglio, Venezia-Mirano 1991, pp. 152-162. Il prolungato gradimento riservatole dal pubblico è provato dal succedersi di varie edizioni delle sue Rime pastorali nell’arco di tempo che va dal 1807 fino alla metà degli anni Venti, mentre Eurosia è stampata a Milano addirittura nel 1836.

31. Cf. Tiziano Rizzo, La biondina in gondoleta. Marina Querini Benzon una nobildonna a Venezia tra ’700 e ’800, Vicenza 1994.

32. Appunto nella Benzon tutti individuarono subito, e non senza qualche polemica, la «biondina» protagonista di questa canzonetta da gondola, musicata per la prima volta con tutta probabilità da Johann Simon Mayr intorno al 1788.

33. Cf. T. Rizzo, La biondina in gondoleta, p. 39. La raccolta più ampia dei componimenti dialettali di Lamberti comparve a Venezia, nel 1817, in 3 volumi, ma le riedizioni complessive dei suoi versi giungono fino al 1845.

34. Quattro stagioni campestri e quattro cittadine in versi veneziani, Venezia 1802.

35. V. per esempio il volumetto Favole del Gritti. Canzonette ed Apologhi del Lamberti, Padova 1819, con traduzione in francese a fronte.

36. Avvenuta nel 1811; nel 1815 uscivano postume le sue Poesie in dialetto, e una successiva edizione se ne ebbe nel 1824.

37. I-II, Treviso 1819.

38. I-II, Treviso 1827.

39. Cf. Il fiore della lirica veneziana, III, Ottocento e Novecento, a cura di Manlio Dazzi, Venezia 1959, p. 9.

40. Cf. Armando Balduino, Buratti, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XV, Roma 1972, pp. 391-394.

41. Cf. Il fiore della lirica veneziana, p. 77.

42. Giuseppe Nalin, Fiabe veneziane, Venezia 1995.

43. Dove la seconda supera di gran lunga la prima, affidata per lo più a una nutrita serie di pubblicazioni per nozze. Destinato inizialmente alla diffusione orale, questo tipo di poesia solo più tardi veniva trascritto, dall’autore stesso o da qualche estimatore, come accade a Buratti, che giusto alla diligenza di Matteo da Mosto deve la conservazione, in alcuni codici del Correr, del suo corpus poetico più completo. Cf. in proposito A. Balduino, Buratti, Pietro, p. 393.

44. A Venezia, illustrati con copiosissime annotazioni storiche da Giulio Pullè.

45. Fino a metterne assieme ben 23 volumi, ricco ciascuno di almeno 300 componimenti, ma giungendo per alcuni fino a 800; ne dà una compiuta descrizione Aurelio Cevolotto, Foscarini, Jacopo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIX, Roma 1997, pp. 379-382.

46. V. l’identità di toni e di idealità poetico-esistenziali riscontrabile nella Prefazione dell’editore che Dalmistro premette alla seconda edizione delle Opere del conte Gasparo Gozzi viniziano, I-XIV, Venezia 1812, e nel profilo biografico anteposto da Veludo alla Scelta di poesie edite e inedite dell’abbate Angelo Dalmistro, I-II, Venezia 1840, da lui approntata; in entrambe emerge l’adesione alla proposta oraziana di una misura media da perseguire nell’esercizio poetico e insieme nella vita. Analoghi accenti risuonano nel sermone indirizzato dal giovane Manzoni A Giovan Battista Pagani nel 1804, in coincidenza con i mesi trascorsi a Venezia; cf. Alessandro Manzoni, Tutte le poesie, a cura di Gilberto Lonardi-Paola Azzolini, Venezia 1987, pp. 112-129 e 213-230.

47. Giannantonio Moschini, Storia della letteratura veneziana nel secolo XVIII, I-IV, Venezia 1806-1808.

48. Ibid., I, pp. IX-X.

49. Venezia 1847; poi proseguita con la Bibliografia veneziana compilata da Girolamo Soranzo, in aggiunta e continuazione del ‘Saggio’ di E.A. Cicogna, Venezia 1885.

50. Venezia 1824-1853.

51. Cf. Paolo Preto, Cicogna, Emmanuele Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXV, Roma 1981, pp. 394-397.

52. Cf. Cesare De Michelis, Boerio, Giuseppe, ibid., XI, Roma 1969, pp. 127-128.

53. Cf. Daniele Manin editore. Carteggio Daniele Manin-Giuseppe Boerio, a cura di Angela Caracciolo Aricò, Roma 1984, ora ripreso in Daniele Manin editore, in Daniele Manin e Niccolò Tommaseo. Cultura e società nella Venezia del 1848, a cura di Tiziana Agostini, «Quaderni Veneti», 2000, nrr. 31-32, pp. 199-209.

54. Nel 1856 Cicogna ne promosse una ristampa aggiornata, curata da Giovanni Cecchini e corredata da un indice italiano-veneto rimasto escluso dalla prima stampa. Ci mise mano anche il poeta Giuseppe Coletti, arricchendolo per più di un terzo di nuove voci, cosicché il Dizionario registra in certa misura gli spostamenti linguistici di almeno mezzo secolo.

55. Cf. Angela Caracciolo Aricò, Censura ed editoria (1800-1866), in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 89-90 (pp. 81-98).

56. Sul quale v. più avanti, in apertura del § 7.

57. Così Piero Treves, La critica letteraria, la filologia, la bibliografia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, p. 392 (pp. 365-396); più indulgente e positivo — riprendendo quello di Sebastiano Timpanaro, Canal, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVII, Roma 1974, pp. 676-681 — il giudizio di Dante Nardo, Pietro Canal e la Biblioteca Antonelliana dei classici latini, in Id., Minerva Veneta. Studi classici nelle Venezie fra Seicento e Ottocento, Venezia 1997, pp. 141-175.

58. Cf. Paolo Mastandrea, Pietro Canal e il ’48: un latinista veneziano nella rivoluzione, in Daniele Manin e Niccolò Tommaseo. Cultura e società nella Venezia del 1848, a cura di Tiziana Agostini, «Quaderni Veneti», 2000, nrr. 31-32, pp. 71-90.

59. Come ha esaurientemente dimostrato Mario Infelise, L’editoria veneziana nel ’700, Milano 1989.

60. Cf. A. Caracciolo Aricò, Censura ed editoria, p. 84. Ad uso riservato degli uffici di censura esisteva poi un apposito Catalogo dei libri proibiti, spulciando il quale la Caracciolo Aricò nota intelligentemente, accanto alla scontata condanna di Boccaccio e Machiavelli, di Aretino e di Giorgio Baffo, di Giordano Bruno e di Marino — pericoloso per sensualità e fantasia eccessive —, quella, per evidente preoccupazione politica, dei moderni Beccaria, Alfieri, Foscolo e financo di quel Parini liberamente circolante nella Milano di Maria Teresa. Scontato nei confronti di Voltaire e di Rousseau un divieto che era stato anche della Repubblica veneta, ma con ben diversa attenzione alla sua reale applicazione. Per un’esauriente analisi della censura austriaca, v. Giampietro Berti, Censura e circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia 1989.

61. Cf. Lorenzo Bellicini, La costruzione della campagna. Ideologia agraria e aziende modello nel Veneto, 1790-1922, Venezia 1983.

62. Cf. la voce a lui riservata da Francesco Barberi, nel Dizionario Biografico degli Italiani, IX, Roma 1967, pp. 774-779; e il catalogo della mostra Nicolò Bettoni e il suo tempo, Brescia 1979.

63. Cf. Nereo Vianello, La tipografia di Alvisopoli e gli annali delle sue pubblicazioni, Firenze 1967.

64. Cf. A. Caracciolo Aricò, Censura ed editoria, p. 93.

65. Guido Gregorio Fagioli Vercellone, Gamba, Bartolomeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, LI, Roma 1998, pp. 798-799.

66. Venezia 1824.

67. Pubblicata dal 1834 al 1838 in 6 volumi e poi continuata con una nuova serie in 4 volumi dal 1840 al 1845.

68. Cf. Piero Lucchi, Editoria e pubblico alla vigilia della rivoluzione: il Premiato Stabilimento Antonelli, in Daniele Manin e Niccolò Tommaseo. Cultura e società nella Venezia del 1848, a cura di Tiziana Agostini, «Quaderni Veneti», 2000, nrr. 31-32, pp. 103-141.

69. Invero quello della Renier doveva essere un ennesimo ritratto inteso ad arricchire la nota galleria albrizziana, visto che era stato composto nel 1832; comparve però solo l’anno successivo, appunto a ridosso della morte: Ritratto di Giustina Renier Michiel, in Strenna pel Capo d’anno ovvero pei giorni onomastici, a cura di A.C., Milano 1833, pp. 185-193.

70. Cf. C. Giorgetti, Ritratto di Isabella, pp. 168, 191 e 209.

71. Al quale si aggiunge anche Schiller, sul cui modello Carrer improvvisa La sposa di Messina, l’unica tra le sue tragedie all’improvviso che tentò l’avventura di una rappresentazione teatrale, nel ’21 al Teatro di S. Benedetto, con un fiasco clamoroso.

72. Venezia 1819.

73. Venezia 1834.

74. Cf. Paolo Giovannetti, Nordiche superstizioni. La ballata romantica italiana, Venezia 1999, in partic. pp. 211-220.

75. Solo da qualche anno ne è stata infatti riproposta la rilevanza da Francesca Tancini, Luigi Carrer e la novella in prosa del primo Ottocento, in Ead., Novellieri settentrionali tra sensismo e romanticismo. Soave, Carrer, Carcano, Modena 1993, pp. 119-160.

76. Ead., Introduzione, ibid., p. 30.

77. L’anello di sette gemme, o Venezia e la sua storia. Considerazioni e fantasie, Venezia 1838.

78. Cf. ad esempio Felice Del Beccaro, Carrer, Luigi, in Dizionario Biografico degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 730-734 e, più compiutamente, Anco Marzio Mutterle, Un recupero romantico. L’opera critica di Luigi Carrer, «Comunità», 24, 1969-1970, nrr. 161-162, pp. 145-151.

79. Cf. Marino Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino 1980, ad indicem.

80. Venezia 1824-1825.

81. Venezia 1842. Della Vita di Ugo Foscolo si può vedere l’edizione moderna, a cura di Carlo Mariani, Bergamo 1995.

82. Cf. Bianca Maria Biscione, De Tipaldo, Emilio Amedeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 462-464.

83. Venezia 1845-1846.

84. V. l’Introduzione di Monica Giachino all’edizione critica da lei curata di Osanna. Lettere scritte da varie persone del nostro tempo e pubblicate da Luigi Carrer, Padova 1997, pp. 9-25.

85. Cf. Maria Laura Soppelsa, Immagini della cultura scientifica veneta nei Congressi degli scienziati italiani di Padova (1842) e Venezia (1847), in Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto, a cura di Donatella Calabi, Venezia 2001, p. 252 (pp. 233-268).

86. Cf. Gaetano Cozzi, ‘Venezia e le sue lagune’ e la politica del diritto di Daniele Manin, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 323-341.

87. Cf. Giuseppe Monsagrati-Graziella Pulce, Dall’Ongaro, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 138-143.

88. Cf. P. Giovannetti, Nordiche superstizioni, pp. 81-88.

89. Nota ancora Giovannetti (ibid., p. 32) che «la storia della ballata romantica italiana è anche la storia del mancato incontro con le tradizioni italiane, con la poesia orale, con il canto popolare — ovvero è la storia dell’esorcizzazione e normalizzazione strategica di tutte quelle forme», citando a supporto l’atteggiamento di Antonio Berti, che, al pari di Dall’Ongaro e Prati, in sostanza riscrive perché totalmente illetterati i Canti popolari, scritti su temi di musica popolare, raccolti da Teodoro Zacco e pubblicati a Padova nel 1842.

90. In Fantasie drammatiche e liriche, Firenze 1866, il volume che raccoglie la miglior produzione lirica di Dall’Ongaro. Come Usca, comparsa invece nelle Poesie, Trieste 1840, queste liriche risalgono per tempi di composizione ai primi anni Quaranta.

91. Venezia 1837.

92. In Novelle vecchie e nuove, Firenze 1861.

93. Venezia 1867. All’anno precedente risale invece la stampa di Alghe della laguna.

94. Proprio sulla valutazione dei crediti e dei debiti tommaseiani con la cultura letteraria veneta si è intrattenuto con ampiezza Guido Bezzola nel capitolo Niccolò Tommaseo e la cultura veneta, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 143-158 (pp. 143-163).

95. Dello stato presente delle lettere italiane: la si può ora leggere in Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999, pp. 135-143.

96. Le Memorie poetiche, I-IV, Venezia 1838-1841, e la prima edizione del Dizionario estetico, Venezia 1840; gli Studi filosofici, I-II, Venezia 1840, e gli Studi critici, Venezia 1843.

97. La Commedia di Dante Alighieri, col commento di Niccolò Tommaseo, I-III, Venezia 1837.

98. ‑Venezia 1841-1842. Gli faceva eco poco dopo Angelo Dalmedico, Canti del popolo Veneziano per la prima volta raccolti e illustrati, opera che può seguitarsi a quella dei Canti Popolari Toscani, Corsi, Illirici e Greci del sig. N. Tommaseo, Venezia 1848.

99. Venezia 1841.

100. La si legge tra i suoi Scritti critici, a cura di Giovanni Gambarin, Bari 1969, pp. 374-385.

101. Così Fabio Danelon nella Introduzione alla sua recente edizione critica e commentata del romanzo, Alessandria 1996, alla quale ha fatto seguito un anno dopo quella a cura di Donatella Martinelli, Parma 1997.

102. Condividendo queste conclusioni di G. Bezzola, formulate in Niccolò Tommaseo e la cultura veneta, pp. 157-158.

103. Cf. Marcella Gorra Cecconi, Nievo e Venezia, Venezia 1982, p. 7. L’autografo nieviano è conservato alla Biblioteca Comunale di Udine.

104. Venezia 1857. A essi nell’ultimo quarto di secolo Cristoforo Pasqualigo aggiungerà la sua Raccolta di Proverbi, sintomaticamente passati da Veneziani a Veneti, che nell’edizione del 1882 giungerà a enumerarne 7.500, tra i quali i veneziani rappresentano solo una parte di un repertorio esteso a tutto il Triveneto.

105. Comparse nel 1863 in prima edizione, poi ripetutamente aggiornate e aumentate.

106. Cf. Anco Marzio Mutterle, Narrativa e poesia nell’età romantica e nel secondo Ottocento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, p. 129 (pp. 119-142).

107. Cf. Luca Pes, Fusinato, Arnaldo, in Dizionario Biografico degli Italiani, L, Roma 1998, pp. 804-806.

108. Cf. A.M. Mutterle, Narrativa e poesia, pp. 121-126.

109. V. Monica Giachino, Rovani, Venezia, il progetto di un romanzo e i ‘Cento anni’, «Quaderni Veneti», 1996, nr. 22, pp. 105-139. La stessa Giachino ha curato un’edizione moderna di Valenzia Candiano o La figlia dell’ammiraglio, Milano 1993, mentre i Cento anni sono oggetto di una recentissima riproposta a cura di Silvana Tamiozzo Goldmann, Milano 2001.

110. Milano 1856.

111. Scritte tra il ’57 e il ’58, in meno di otto mesi, e pubblicate postume a Firenze nel 1867 a cura di Erminia Fuà Fusinato, con il titolo mutato in Le confessioni di un ottuagenario.

112. Cf. Fernando Bandini, Venezia, la patria e l’esilio in Foscolo e Nievo, in Le metamorfosi di Venezia. Da capitale di stato a città del mondo, a cura di Gino Benzoni, Firenze 2001, p. 287 (pp. 275-293).

113. Cf., anche per le citazioni immediatamente precedenti, Id., Da Tommaseo a Nievo, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 81-82 (pp. 73-83).

114. Cf., anche per la citazione successiva, Cesare De Michelis, Il letterato e la storia. Ippolito Nievo, ibid., pp. 54-55 (pp. 53-72).

115. Cf. G. Bezzola, Niccolò Tommaseo e la cultura veneta,  p. 163.

116. Cf. P. Giovannetti, Nordiche superstizioni, p. 20.

117. Cf. Giorgio Padoan, ‘Senso’ da Camillo Boito a Luchino Visconti, «Quaderni Veneti», 1987, nr. 4, p. 130 (pp. 121-153). La novella comparve a stampa assieme alle Nuove storielle vane, Milano 1883, che facevano seguito alle Storielle vane, pubblicate anch’esse a Milano, nel 1876, e pure comprensive di alcuni racconti con temi veneziani.

118. Cf. Il fiore della lirica veneziana, p. 9.

119. Cf. A.M. Mutterle, Narrativa e poesia, p. 132.

120. Cf. Piero Treves, Veneto dotto, lirico e pratico, in Id., Ottocento italiano fra il nuovo e l’antico, I-III, Modena 1992: II, Regioni, pp. 97-98 (pp. 75-138).

121. Una prima edizione, assai più ridotta e intesa come primo volume di un’opera esaustivamente sistematica che poi Nani Mocenigo non compì, fermandosi a questa «seconda edizione riveduta e ampliata» in «volume unico», era apparsa giusto un decennio prima.

122. Cf. Filippo Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana del secolo XIX, Venezia 1901, pp. 9-11.

123. Cf. Bruno Rosada, Letteratura e vita culturale a Venezia nella prima metà dell’Ottocento, in Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999, pp. 123-124 (pp. 107-126).

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

TAG

Aurelio de’ giorgi bertola

Isabella teotochi albrizzi

Confessioni di un italiano

Emmanuele antonio cicogna

Vocabolario della crusca