VINCI, Leonardo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VINCI, Leonardo

Kurt S. Markstrom

– Luogo e data di nascita sono incerti. Secondo una tradizione settecentesca attestata dapprima Oltralpe, sarebbe nato a Napoli nel 1705 (Gerber, 1792). Secondo la manoscritta Apoteosi dell’arte musicale di Giuseppe Sigismondo (1820; ed. 2016, p. 161), poi divulgata tramite le Memorie dei compositori di musica del Regno di Napoli del marchese Carlantonio di Villarosa (Napoli 1840, p. 223), «nacque circa il 1690 in Calabria, vassallo del principe di Strongoli». I registri battesimali della cittadina ionica sono andati distrutti negli incendi appiccati per rappresaglia dalle truppe napoleoniche all’epoca delle sollevazioni calabresi del 1806-07. La data 1690, avvalorata da una delle due registrazioni parrocchiali del decesso pubblicate da Ulisse Prota-Giurleo nel 1965 (27 maggio 1730, «morì ... d’anni 40»), è contraddetta dall’altra (29 maggio, «di anni 34 in circa, figlio di Giuseppe e di Antonia Vinci»): ma del buon fondamento di quest’ultima è lecito dubitare (Markstrom, 2007, pp. 330-332).

Vinci «studiò la musica in Napoli nel Conservatorio de’ Poveri di Gesù Cristo sotto la scuola di Gaetano Greco» (Sigismondo, 2016, p. 161). Nei registri dell’istituto l’iscrizione è annotata in questi termini: «Leonardo Vencia paga d[ucat]i venti l’anno cominciando dalli dodici di Gennaro 1707» (p. 7). Se costui è identico al Leonardo Vinci che nell’aprile del 1719 comparve al teatro dei Fiorentini come compositore della «commedia ’mmuseca» Lo cecato fauzo, e se si prende per buona la nascita presunta al 1790, egli si sarebbe iscritto tra i 17 e i 18 anni d’età, ben più grandicello dei suoi condiscepoli, che di solito vi accedevano tra gli otto e i dieci anni. Se così fu, avrebbe dunque acquisito già in precedenza una prima formazione musicale, presumibilmente in Strongoli.

Sia per Sigismondo sia per Charles Burney (1789, p. 916) Vinci sarebbe stato allievo di Gaetano Greco, che tuttavia non poté essere il suo primo insegnante. Negli anni in cui Vinci fu convittore ai Poveri di Gesù Cristo, maestro di cappella era Nicola Ceva, avendo Greco deposto l’incarico tra il maggio del 1706 e l’aprile del 1709. La lista dei convittori del 1709 registra un versamento fatto alla fine dell’anno prima: «Da Lonardo Vencì a saldo li 14 9bre 1708» (Markstrom, 2007, p. 7); non viene però specificata la natura dei pagamenti dovuti e saldati. Nel terz’anno di residenza in conservatorio Vinci potrebbe essere stato esentato dalla quota di convittore in ragione dei servizi prestati a pro dell’istituto (Prota-Giurleo, 1965, p. 3): non è implausibile che, come ad altri prima di lui (per es. Nicola Porpora), gli sia stata abbuonata parte del debito dell’iscrizione e ch’egli sia rimasto in forze al conservatorio in qualità di ‘capoparanza’ (capofila di una squadra di giovani musicisti), indi, una volta diplomato, come ‘mastricello’ (docente tirocinante). Appunto a quest’età avrebbe allora potuto studiare composizione sotto la guida di Greco, secondo quanto affermato da Sigismondo e Burney. E tuttavia, sia ch’egli abbia lasciato il conservatorio sul finire del 1708, sia ch’egli vi sia rimasto come ‘capoparanza’ o ‘mastricello’, rimane l’anomalia di un completo silenzio fino alla citata opera in musica del 1719. Non è irrealistico congetturare che, completati gli studi a Napoli, egli sia rientrato a Strongoli, magari puntando a un posto di organista e maestro di cappella in cattedrale, e lì si sia perfezionato nel mestiere prima di far ritorno nella capitale, dove ebbe la prima scrittura in teatro.

Il libretto dello Cecato fauzo (adespoto, ma attribuito ad Aniello Piscopo) e l’avviso della Gazzetta di Napoli lo designano «maestro di cappella della casa del principe di S. Severo» (Magaudda - Costantini, 2009, sub 25 aprile 1719), l’antica e potente famiglia aristocratica il cui palazzo affacciava su piazza S. Domenico. È ignota la data d’inizio di questo servizio (da collocare forse al termine del consueto decennio in conservatorio; cfr. Prota-Giurleo, 1965, p. 3); esso dovette cessare poco dopo la prima di quest’opera, giacché il libretto della successiva, Le ddoie lettere (luglio 1719?, libretto di Angelo Birini), lo indica laconicamente come «mastro de cappella napoletano». Entrambe le commedie ebbero successo, e coincisero con il debutto di quattro cantanti di vaglia, Giacomina Ferraro, Ippolita Costa e Rosa Cerillo soprani, Giovanni Romanelli basso. Per un triennio, stesso gruppo e stesso teatro, Vinci sfornò almeno due opere all’anno, sempre nel genere della commedia per musica venuto in voga a partire dal 1707. Tutte le partiture delle commedie napoletane dei primi quindici anni essendo andate perdute, Li zite ngalera (I fidanzati sulla galera) del gennaio del 1722, libretto di Bernardo Saddumene, ha dunque una doppia importanza storica: primo esemplare superstite di questo nuovo genere, è anche la prima opera di Vinci di cui si conservi la musica (ed. facsimile a cura di H.M. Brown, New York-London 1979).

Con le sue commedie Vinci dominò le scene dei Fiorentini dal 1719 al 1723. Il suo primo dramma per musica in piena regola fu il Publio Cornelio Scipione, libretto di Antonio Salvi e Agostino Piovene rimaneggiato da Saddumene, dato nel novembre del 1722: prima donna fu la veneziana Faustina Bordoni, che Vinci doveva aver incontrato e apprezzato già a Roma nel Carnevale precedente (cfr. le rispettive caricature di Pier Leone Ghezzi: Rostirolla, 2001, pp. 106, 244, 299 e 425). L’opera ebbe buon esito. Da allora Vinci abbandonò il teatro comico e avviò una fortunata carriera di operista serio. La commedia per musica aveva dunque fornito l’innesco di una robusta reputazione cittadina; ma la lingua napoletana fatalmente confinava queste prime opere entro il raggio di una fortuna locale. Per conquistare una fama più vasta occorreva dedicarsi al genere cosmopolitico del dramma per musica. In Napoli l’opera seria si dava nel teatro di S. Bartolomeo (nel caso del Silla Dittatore, desunto dal Tiranno eroe di Vincenzo Cassani, le recite nel teatro a pagamento furono precedute da un’anteprima a Palazzo reale, nell’ottobre del 1723). Non per questo Vinci abbandonò il genere comico in quanto tale: secondo un uso invalso a Napoli dal secondo decennio, molte sue opere serie napoletane comportarono degli intermezzi tra gli atti; sopravvive la partitura di Erighetta e Don Chilone del 1726 (a cura di G. Pitarresi sotto il titolo L’ammalato immaginario, Pisa 2015), intermezzi nell’Ernelinda (dalla Fede tradita e vendicata, Francesco Silvani).

Nel Carnevale 1724 Vinci esordì con ottimo successo nel teatro Alibert di Roma – il cosiddetto teatro delle Dame – con Farnace (Antonio Maria Lucchini). Vi comparve il giovane Farinelli (Carlo Broschi), nell’ultimo suo ruolo en travesti: sarebbe poi apparso in ottobre a Napoli in uno dei suoi primi ruoli da primo uomo nell’Eraclea di Vinci, dramma di Silvio Stampiglia. A fine anno Vinci debuttò a Venezia nel teatro di S. Giovanni Grisostomo: oltre all’Ifigenia in Aulide (Benedetto Pasqualigo) presentò una nuova composizione della fortunata Partenope di Stampiglia, sotto il titolo La Rosmira fedele; entrambe le opere furono concepite per far brillare il talento della Bordoni. La stagione di Carnevale 1725 rappresentò una svolta nella storia dell’opera a Venezia, che a partire da quel momento fu dominata da compositori venuti da Napoli. Nella primavera seguente ci furono due dirette ricadute del debutto veneziano di Vinci: Owen Swiny, agente veneziano della Royal Academy of music, imbastì il fortunato ‘pasticcio’ londinese Elpidia (1725), tratto dai Rivali generosi di Apostolo Zeno e intessuto di arie vinciane; e il principe Antonio Farnese scritturò Vinci e le prime parti della compagnia del S. Giovanni Grisostomo per dare a Parma Il trionfo di Camilla di Stampiglia rimesso a nuovo dal poeta di corte Carlo Innocenzo Frugoni.

Morto Alessandro Scarlatti nell’ottobre del 1725, Vinci divenne «pro-vicemaestro della cappella reale», alla cui testa era stato elevato Francesco Mancini, mentre Domenico Sarro gli era subentrato come vicemaestro. Fu quella la stagione più indaffarata della sua carriera, con tre drammi per musica allestiti in tre diverse città nel giro di tre mesi: Astianatte (Antonio Salvi) a Napoli ai primi di dicembre del 1725, Didone abbandonata a Roma a metà gennaio del 1726 (ed. facsimile a cura di H.M. Brown, New York-London 1977), e Siroe re di Persia a Venezia ai primi di febbraio. Questi ultimi due drammi scaturirono dalla collaborazione con il novello astro dominante nel firmamento del teatro italiano, Pietro Metastasio: una collaborazione che continuò nei quattro anni seguenti. Uno dei prodotti più ragguardevoli (e per la verità meno acclamati) del loro sodalizio fu la «tragedia per musica» Catone in Utica (Roma, teatro delle Dame, Carnevale del 1728), che al compositore ispirò una partitura grandiosa e innovativa: ma taluni ardimenti drammaturgici non incontrarono, in particolare il fine tragico a scena aperta e la penultima mutazione scenica, collocata in «acquedotti antichi ridotti ad uso di strada sotterranea» (Metastasio vi pose rimedio nella seconda versione del dramma, Venezia 1729, musica di Leonardo Leo). In primavera, per la corte di Parma, creò il Medo di Frugoni, con una fulgida triade di stelle, prima donna il contralto Vittoria Tesi, primi uomini Antonio Bernacchi, contralto, e Farinelli, soprano.

In questi anni divampò tra Vinci e Porpora una rivalità che, a detta di Burney, covava sin dall’epoca del conservatorio. La concorrenza si riaccese quando, nel Carnevale del 1726 a Venezia e nel Carnevale del 1727 a Roma, i due musicisti diedero un’opera ciascuno in uno stesso teatro: per Vinci, oltre il citato Siroe del 1726 a Venezia, fu il Gismondo re di Polonia, libretto di Francesco Briani, al delle Dame di Roma nel 1727. Nel febbraio del 1729 la Semiramide riconosciuta di Metastasio andò in scena a Roma con musica di Vinci, a Venezia di Porpora. L’antagonismo culminò nell’autunno-inverno dell’anno dopo in Roma, quando i due si trovarono a competere colpo su colpo dagli opposti fronti di due teatri rivali, Porpora dal Capranica, Vinci dal delle Dame. Anche questa fu una stagione impegnativa per Vinci, che, sempre gomito a gomito con Metastasio, produsse La contesa de’ numi (ed. moderna Roma 2005), un’ampia serenata commissionatagli dall’ambasciatore di Francia per la nascita del delfino, e due drammi nuovi, Alessandro nell’Indie e Artaserse: tutti e tre gli spettacoli fecero capo al teatro delle Dame, allora gestito da un’impresa di cui Vinci faceva parte (Valesio, V, 1979, p. 14). La serenata fu cantata a fine novembre del 1729 in una serata di gala nel cortile di palazzo Altemps, conclusa da un grandioso fuoco d’artificio a piazza Navona. Quanto all’acclamato Artaserse (ed. in Meikle, 1971), fu poi a lungo considerato il capolavoro di Vinci. Nelle Réflexions d’un patriote sur l’opéra françois et sur l’opéra italien, attribuite a un ignoto Monsieur de Rochemont (Lausanne 1754, p. 21), si afferma che «l’Artaxerce de Vinci passe pour le plus bel opéra d’Italie, à peu près comme Armide [scil. di Jean-Baptiste Lully] est le chef-d’œuvre de la composition française». Francesco Algarotti, che stravedeva per la scena finale della Didone, annotò in un suo appunto molti anni dopo: «Vinci dio della musica. Il suo Artaserse un capo d’opera. Il duetto meraviglioso. L’aria del fulmine improvviso alla fine del second’atto bellissima, esprime immagine [...] arie corte, cadenze ommesse molte volte, pochissimi passaggi, arie senza ritornello, sobrio nella musica come Virgilio» (Polin, 2019, pp. 118 s.). Ma Vinci non poté mietere i frutti di tanto successo.

Morì infatti nella primavera del 1730, poco dopo il ritorno a Napoli. Il registro dei decessi nella parrocchia di S. Maria della Neve a Chiaia annota ch’egli fu inumato in S. Caterina a Formiello, dov’era membro della Congregazione del Rosario: «A dì 27 magio doppo dato segno di confessione morì il sig. Lonardo Vinci d’anni 40 vergine» (Prota-Giurleo, 1965, p. 10; Markstrom, 2007, pp. 330-332). Il decesso fu subitaneo: l’amico romano Pier Leone Ghezzi annotò nel suo quaderno di caricature che il musicista «morì di dolor colico in un subbito senza neanche potersi confessare» (con la data 28 maggio; Rostirolla, 2001, pp. 119, 314 s.). La circostanza alimentò le voci di una morte per avvelenamento – per la vendetta di un nobile in questioni d’onore? per debiti di bisca («è stato uomo che si giocava l’occhi», annotò Ghezzi, ibid.)? – propalate da Karl Ludwig von Pöllnitz (1734), Charles de Brosses (1739/40) e Jean-Claude Richard, detto l’Abbéde Saint-Non (1781): voci che, a differenza dalle dicerie sorte intorno alla morte precoce di Giovan Battista Pergolesi e Wolfgang Amadeus Mozart, non sono smentite da prove certe a discarico. Dopo la sua scomparsa, i teatri di Napoli ne mantennero vivo il ricordo con svariate riprese dell’Artaserse, del Catone e di alcune commedie per musica.

Di Vinci, musicista per eccellenza teatrale, si conosce una dozzina di cantate da camera (cfr. Gialdroni, 1990). Si ha notizia di musiche sue eseguite in chiese e oratori, e svariate partiture gli vengono attribuite: ma è arduo stabilire nessi precisi tra esecuzioni e composizioni. La maggior parte delle attribuzioni sono vuoi tardivi contrafacta realizzati in Boemia, vuoi opere spurie (come le partiture conservate nella Amalien-Bibliothek nella Staatsbibliothek di Berlino, di mano di un copista veneziano poco fededegno, Giuseppe Baldan; cfr. Hell, 2000, pp. 633-638). Soltanto tre le composizioni autentiche: una messa di Gloria in La maggiore per doppio coro e orchestra (Münster, Diözesanbibliothek, Santini Hs. 4249a), l’oratorio Maria dolorata (ed. a cura di G. Pitarresi, Bologna 2009) e la prima parte di un oratorio per la Madonna del Rosario (1725; ed. a cura di G.P. Locatelli - N. Maccavino, Bologna 2013). È probabile che tutte e tre siano state eseguite nella menzionata Congregazione del Rosario, nella quale Vinci ebbe l’«ufficio di maestro di cappella» e venne accolto come confratello nel febbraio del 1728 (Di Giacomo, 1928).

Tra i musicografi settecenteschi vi è generale consenso sul fatto che certi sviluppi decisivi nell’arte musicale si verificarono in Italia negli anni Venti e Trenta del secolo, in primis a Napoli. Agli occhi della storiografia successiva, in tali sviluppi andrebbero ravvisate addirittura le scaturigini di quello stile che l’Ottocento designò poi come ‘classico’ (lo stile dell’età di Haydn, Mozart e Beethoven). A detta di Burney, tali innovazioni vanno appunto ricondotte a Vinci, il quale «pare essere stato il primo compositore teatrale che, senza con ciò mortificarla, seppe fare dell’arte dei suoni l’amica, ma non però la schiava, della poesia, semplificando e ripulendo la melodia, e convogliando l’attenzione dell’ascoltatore in primis sulla parte del canto, svincolandola dalle fughe, dagli intrichi, dagli stratagemmi artificiosi» (1789, p. 917). Sarebbe dunque stata la profonda dedizione alla parola poetica a condurre la mano di Vinci nel forgiare uno stile musicale nuovo. Nelle sue arie si osserva in effetti lo stretto vicendevole legame tra l’attenta intonazione del testo verbale e la tendenziale standardizzazione della fraseologia musicale, distinta in periodi nitidamente articolati: nel senso appunto di quella politura melodica, congeniale alla poesia, cui allude Burney. Questa concinnità della melodia va di pari passo con due fattori strutturali. Da un lato, il ‘ritmo armonico’, cioè la frequenza con cui si avvicendano e concatenano gli accordi, registra un cospicuo rallentamento rispetto allo stile previgente, donde una mitigazione dell’alacre lavorio contrappuntistico. D’altra parte la densità del tessuto strumentale subisce un non meno vistoso alleggerimento, sia nell’organico sia nella condotta delle parti. Entrambi i fattori sospingono concordemente il baricentro estetico della scrittura musicale verso la melodia vocale: nei termini di Burney testé riportati, «convogliano l’attenzione dell’ascoltatore sulla parte del canto».

Beninteso il rallentamento del ritmo armonico e l’alleviamento del tessuto sonoro si osservano anche in altri compositori dell’epoca: si veda l’uso delle note ribattute al basso per una o più battute di fila – quasi un marchio di fabbrica di Antonio Vivaldi –, uno dei mezzi più elementari per coniugare stasi armonica ed eccitazione ritmica. Ma l’impulso determinante dato da Vinci alla creazione del nuovo stile consisté nella combinazione e fusione di tali procedimenti con la tersissima articolazione periodica della fraseologia melodica. L’importanza del periodare vinciano fu icasticamente riconosciuta da Jean-François Marmontel, che nell’Essai sur les révolutions de la musique en France (Paris 1777) così individua la sintesi, lungamente agognata e mai prima raggiunta, tra ‘espressione’ e ‘melodia’: «le vrai moment de sa gloire fut celui où Vinci traça le premier le cercle du chant périodique, de ce chant qui, dans un dessein pur, élégant et suivi, présente à l’oreille, comme la période à l’esprit, le dévelopement d’une pensée complètement rendue. Ce fut alors que le grand mystère de la mélodie fut révélé» (p. 16).

Questo magistero sia melodico sia retorico (analizzato in Markstrom, 2017) si esercitò beninteso sul modulo morfologico di base in vigore nel dramma per musica di primo Settecento, ossia l’aria con il daccapo: le due strofe del testo poetico sono distribuite in uno schema musicale complessivo del tipo A B A, con la ripresa letterale – testo e musica – della prima sezione. In realtà, il testo della prima strofa viene di norma enunciato due volte prima di passare alla seconda strofa, talché a conti fatti la forma musicale è di regola pentapartita: A A′ | B | A A′ (con A e A′ corrispondenti alla prima strofa poetica, B alla seconda). Queste arie, tutte simili nella forma e tutte dissimili per contenuto sentimentale e musicale, sono disseminate in un contesto dialogico condotto in uno snello recitativo sillabico, sostenuto dai pochi accordi del basso.

Di quando in quando la regolare alternanza di recitativo semplice e arie daccapo è arricchita o variata, vuoi rimpiazzando quest’ultima con una semplice arietta o con un breve pezzo concertato, vuoi rimpolpando il recitativo, nei monologhi più patetici, con una sobria strumentazione obbligata. Tra gli operisti coevi Vinci fu dei più generosi nel ricorrere a tali occasionali sostituti dell’aria pentapartita: nelle sedici partiture pervenute figurano cinquantasei pezzi a più voci, inclusi ventiquattro duetti daccapo (ossia arie a due), terzetti e quartetti, e quarantasei recitativi obbligati, incluse le grandi scene funeste che concludono Didone abbandonata e Catone in Utica. In quest’ultimo dramma Vinci sviluppò un genere di aria fin lì inusitato, l’‘aria agitata’ – movimento frenetico, modo minore, declamazione concitata –, che sarebbe poi diventato di rigore per gli eroi e le eroine in angustie, al posto del vecchio lamento patetico dell’opera seicentesca: e in tal modo lanciò un’esca a lunga gittata in direzione del patetismo ‘Sturm und Drang’ del secondo Settecento.

La finissima calibratura e cesellatura del periodo melodico, la scrittura orchestrale rarefatta, l’armonia illimpidita delle arie di Vinci trovarono immediata rispondenza nello stile di una generazione di ‘napoletani’ acquisiti, in testa a tutti, nel terzo decennio, il tedesco Johann Adolf Hasse, che a detta di Burney «nelle sue musiche vocali perseguì la maniera elegante e schietta di Vinci», e nel quarto il marchigiano Pergolesi, il quale «fece proprio lo stile di Vinci, che gli era stato maestro nella composizione vocale» (1789, pp. 918, 920). Il fenomenale favore cosmopolitico mietuto da Hasse e il culto universale tributato a metà secolo a una manciata di opere intramontabili di Pergolesi favorirono il durevole radicamento del chant périodique di Vinci in tutt’Europa, consacrandolo come uno dei compositori più innovativi e influenti del secolo.

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