Fibonacci, Leonardo

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Scienze (2013)

Leonardo Fibonacci

Veronica Gavagna

Leonardo Fibonacci, noto anche come Leonardo Pisano, fu il matematico più importante nell’Occidente latino del 13° secolo. Le sue opere, che rappresentano una summa della matematica araba del 9° e 10° sec., contribuirono in maniera determinante alla diffusione del sistema di numerazione posizionale con cifre indo-arabiche e alla formazione di quel linguaggio matematico che sarà uno strumento indispensabile per lo sviluppo economico e culturale dei secoli successivi. Caratterizzati da un continuo intreccio di temi pratici e speculativi, i suoi scritti comprendono, oltre all’aritmetica mercantile e alla geometria pratica, anche l’algebra e la teoria dei numeri.

La vita

Le scarse notizie biografiche relative a Fibonacci si possono desumere da due documenti coevi e da alcuni riferimenti presenti nelle opere sopravvissute.

Il primo documento è un rogito stilato a Pisa il 28 luglio 1226, nel quale Leonardo «bigollo» (cioè «viaggiatore») compare come procuratore del fratello Bonaccingo per l’acquisto di beni immobili situati nelle immediate vicinanze di Pisa. Da tale documento si evince che il nome del padre di Leonardo era Guglielmo e non Bonaccio. Le espressioni de filiis Bonaccii o filiorum Bonaccii che ricorrono nell’incipit delle sue opere, e che suggerirono allo storico Guglielmo Libri (1802-1869) il nome Fibonacci, vanno riferite dunque alla famiglia di appartenenza, i Bonacci.

Si è fissata indicativamente la data di nascita di Fibonacci tra il 1170 e il 1180 in base alla tradizione manoscritta della sua opera più famosa, il Liber abaci (di cui si riporta concordemente come data di stesura il 1202), ipotizzando che un’opera così complessa sia stata necessariamente frutto di un’età matura.

Nel celebre proemio del Liber abaci, Fibonacci narra che, quando era ancora fanciullo, il padre, funzionario della dogana pisana di Bugia (l’attuale Bejaïa, in Algeria), l’aveva chiamato presso di sé per fargli studiare il «calcolo indiano» (ovvero il sistema di numerazione posizionale con cifre indo-arabiche) e gli algoritmi di calcolo delle operazioni elementari, poiché era convinto che queste conoscenze avrebbero potuto rivelarsi utili al figlio nel corso della vita.

Dopo aver appreso i rudimenti di questa aritmetica, Fibonacci ne rimase talmente affascinato da approfondire gli studi durante i suoi viaggi di lavoro in Egitto, Siria, Grecia, Sicilia e Provenza, luoghi in cui il Comune di Pisa disponeva di proprie sedi commerciali e nei quali fioriva una matematica in parte sconosciuta nell’Occidente latino.

Le conoscenze progressivamente accumulate da Fibonacci confluirono nel Liber abaci, che gli diede grande fama. Ma la sua definitiva consacrazione avvenne con la presentazione alla corte dell’imperatore Federico II di Svevia, in occasione del soggiorno di questi a Pisa nel luglio 1226. Introdotto da un non meglio identificato Maestro Domenico, egli discusse alla presenza dell’imperatore alcune questioni matematiche con il filosofo di corte Giovanni da Palermo. L’evento segnò profondamente la sua vita, e il desiderio di accreditarsi presso la corte imperiale influenzò tutta la sua successiva produzione scientifica, dedicata o comunque legata ai dotti di corte, quali Michele Scoto, Teodoro di Antiochia e il succitato Giovanni da Palermo.

L’ultima sua notizia biografica documentata è una delibera del comune di Pisa, datata 4 novembre 1241 – termine post quem per fissare la data della sua morte –, con la quale si conferisce a «Maestro Leonardo Bigollo» un salario annuo per aver prestato consulenze di tipo amministrativo e, probabilmente, per aver insegnato la matematica.

Il Liber abaci

Come si è detto, la prima edizione del Liber abaci risale al 1202, ma in realtà ci è stata tramandata solo la seconda, redatta nel 1228 e dedicata al «sommo filosofo» Michele Scoto. Di quest’opera e della successiva Practica geometriae abbiamo una decina di copie piuttosto tarde, databili tra la fine del 13° e la fine del 16° secolo. Va comunque precisato che la cronologia di queste e di altre opere di Fibonacci, basata sulla tradizione manoscritta e discussa da Carlo Maccagni (1988) e da Elisabetta Ulivi (2011), non risulta priva di ambiguità.

Il titolo Liber abaci, estrapolato dall’incipit che si trova in alcuni codici, non rinvia alle tavolette in uso fin dai tempi dei Romani o comunque a un generico strumento di calcolo, ma rimanda, secondo un significato più ampio e diffuso nel Medioevo, al complesso delle tecniche aritmetiche necessarie per eseguire le operazioni elementari. Nei riferimenti intratestuali, tuttavia, Fibonacci cita quest’opera come Liber de numero o Liber maior de numero, verosimilmente in contrapposizione al proprio Liber minor de numero, che non ci è pervenuto.

I primi sette dei quindici capitoli complessivi, dedicati alla numerazione posizionale in cifre indo-arabiche e agli algoritmi delle quattro operazioni elementari, costituiscono la base dell’aritmetica dei numeri interi e delle frazioni. I capitoli che vanno dall’ottavo al dodicesimo possono quasi ritenersi, per la mole e la varietà delle informazioni, una sorta di pratica di mercatura ante litteram, e comprendono regole di compravendita, scambi, costituzioni di società mercantili, questioni di coniazione, leghe e cambi di monete allora in uso. Il capitolo dodicesimo è il più ampio dell’opera, e raccoglie numerosi problemi computistici e di mercatura, ma anche problemi della cosiddetta matematica ricreativa, che non avevano alcun reale riscontro nella quotidianità ma non di rado nascondevano sofisticate questioni matematiche. Il capitolo tredicesimo è una rassegna di problemi risolti con i metodi di semplice e doppia falsa posizione, i quali, basati sull’esistenza del quarto proporzionale, rappresentavano uno degli strumenti più potenti dell’aritmetica ‘prealgebrica’. Il penultimo capitolo riguarda il calcolo dei radicali, mentre l’ultimo è un vero e proprio trattato di algebra dedicato alla risoluzione delle equazioni di primo e di secondo grado secondo la lezione degli algebristi arabi del 9°-10° sec., ai quali rimane in un certo senso contemporaneo.

Nel Liber abaci e nelle altre opere di Fibonacci, infatti, non ci sono tracce degli sviluppi successivi dell’algebra araba, che condurranno, per es., alla fondazione della geometria algebrica: degli oltre 90 problemi presentati nel Liber abaci, 22 provengono dalla traduzione latina dell’Algebra di Muhammad ibn Mūsā al-Khwārizmī (780 ca.-850 ca.) compiuta da Gherardo (o Gerardo) da Cremona (1114-1187), e 53 provengono dall’Algebra di Abū Kāmil (850 ca.-930 ca.), della quale però non sono note traduzioni latine disponibili all’epoca (Miura 1981).

Al di là di casi specifici come il precedente, l’individuazione delle fonti del Liber abaci è un’operazione molto delicata, perché «l’opera di Leonardo [Fibonacci] deriva non da un autore o da una scuola, ma semmai dalla matematica araba nel suo complesso» (Giusti, in Un ponte sul Mediterraneo, 2002, p. 59). Ciò non toglie che alcuni studi dedicati alla ricognizione delle fonti abbiano messo in luce importanti novità che hanno aperto scenari inaspettati e ancora da decifrare completamente. Uno studio comparativo tra le citazioni euclidee delle opere di Fibonacci e le versioni disponibili degli Elementi di Euclide ha mostrato che, mentre alcuni riferimenti possono prevedibilmente ricondursi alla tradizione testuale araba, in molti casi esiste una sorprendente corrispondenza letterale con una traduzione latina medievale degli Elementi eseguita direttamente da un codice greco e redatta in Sicilia, probabilmente dopo il 1165 (Folkerts, in Leonardo Fibonacci: matematica e società nel Mediterraneo nel secolo XIII, 2° vol., 2005, pp. 93-113).

Risultati di questo genere pongono nuovi interrogativi sulla circolazione del sapere nel Duecento, e allo stesso tempo enfatizzano, se mai ce ne fosse bisogno, l’enciclopedica opera di integrazione e rifusione critica delle fonti che Fibonacci riuscì a compiere. La grandezza e l’importanza del Liber abaci non si misurano infatti nell’originalità dei suoi contenuti, ma in una completezza e organicità che, per quanto è noto, non ha uguali nella matematica araba che ha ispirato il suo autore.

La recente storiografia che si è occupata della ricostruzione della trasmissione del Liber abaci nel Medioevo ha dovuto confrontarsi con un singolare silenzio delle fonti che dura sino alla fine del Duecento, quando si ha notizia dei primi trattati di matematica pratica, considerati generalmente gli eredi diretti dell’opera di Fibonacci. I cosiddetti trattati di abaco in parte volgarizzano e semplificano – eliminando, per es., le parti teoriche – l’enorme mole di materiale messa a disposizione dal Liber abaci, testo certamente troppo complesso per il pubblico a cui sembrerebbe naturalmente destinato, un ceto mercantile e artigianale privo di un’adeguata formazione matematica. Esistono tuttavia almeno due aspetti fondamentali della tradizione che attendono un chiarimento definitivo.

Prima di tutto, non è ancora stata documentata la transizione dal testo latino del Liber abaci alle sue volgarizzazioni, dalle quali dipende, per es., il trattato di abaco più antico che sia attualmente conosciuto, il Livero de l’abbecho composto in ambiente umbro nell’ultimo ventennio del 13° secolo. Secondo Raffaella Franci (in Leonardo Fibonacci: matematica e società nel Mediterraneo nel secolo XIII, 1° vol., 2005, pp. 33-54), il principale ruolo di mediazione potrebbe essere stato svolto dal Libro di minor guisa (o Liber minor de numero) dello stesso Fibonacci, testo oggi perduto che l’autore si limita a descrivere come un’opera in volgare destinata alle pratiche di mercatura.

In secondo luogo, lo studio comparato dei trattati di abaco ha messo in evidenza l’esistenza, fin dagli esemplari più antichi, di parti più o meno ampie non direttamente riconducibili all’opera di Fibonacci ma ascrivibili comunque alla tradizione araba. È stato dunque messo in discussione il ruolo del Liber abaci quale unico modello di riferimento della matematica abachistica medievale: Jens Høyrup (2005) ha ipotizzato l’esistenza di una tradizione araba di ambiente iberico-provenziale, antecedente o coeva ma indipendente da quella fibonacciana, che potrebbe aver influenzato la diffusione della matematica pratica almeno quanto l’opera di Fibonacci.

Questa suggestiva tesi non sminuisce tuttavia la profonda influenza che il Liber abaci esercitò non solo sullo sviluppo della matematica successiva, di cui fu spesso premessa ineludibile, ma anche sull’affermazione del linguaggio matematico come strumento in grado di interpretare concretamente la realtà.

La Practica geometriae.e gli scritti minori

Nel proemio della seconda edizione del Liber abaci, Fibonacci si riferisce alla Practica geometriae come a un’opera già conclusa; la sua data di composizione, dunque, è anteriore al 1228 e i vari codici superstiti sono concordi nel fissarla attorno al 1220.

La Practica geometriae.è un trattato che va ben oltre i manuali di agrimensura riecheggiati nel titolo, dal momento che i tradizionali argomenti di geometria pratica non solo sono inquadrati in un più ampio contesto teorico euclideo ma sono arricchiti da riferimenti a una tradizione dotta che comprende, per non fare che gli esempi più significativi, l’Almagesto di Claudio Tolomeo, la traduzione latina di Platone da Tivoli (con il titolo di Liber embadorum) di un libro in ebraico, lo Ḥibbūr ha-Meshiḥāh we-ha-Tishbōret (Trattato della misurazione e del calcolo geometrico) di Savasorda (soprannome dato nell’Occidente latino ad Abrāhām ben Ḥiyyā, vissuto in Spagna nel 12° sec.), e infine i commenti di Eutocio di Ascalona al corpus archimedeo.

La Practica geometriae è il naturale completamento del Liber abaci, poiché tratta temi che sono esclusi dall’opera maggiore, ma li affronta con lo stesso approccio metodologico basato sulla commistione tra aspetti speculativi e pratici. Gli otto capitoli in cui è divisa l’opera trattano principalmente del calcolo dell’area di figure piane, della divisione di superfici secondo condizioni assegnate, del volume dei solidi e della misurazione a vista.

Se la Practica geometriae è l’unica opera sopravvissuta che appare indipendente dai rapporti di Fibonacci con la corte federiciana, altri tre scritti traggono invece gran parte della loro origine dalle sfide lanciategli da Giovanni da Palermo e Teodoro d’Antiochia, studiosi che padroneggiavano tanto la matematica quanto la lingua araba e potevano attingere a un repertorio sconosciuto ai matematici ‘latini’ (Rashed, in Leonardo Fibonacci: matematica e società nel Mediterraneo nel secolo XIII, 1° vol., 2005, pp. 55-73). Si tratta del Liber quadratorum, del Flos super solutionibus quarundam questionum ad numerum et ad geometriam vel ad utrumque pertinentium e della Epistula ad Magistrum Theodorum philosophum domini imperatoris. Questi scritti sono tràditi da un unico manoscritto del 15° sec., conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano. Anche per queste opere la cronologia non è priva di ambiguità: il manoscritto, infatti, riporta la data 1225, la quale, indipendentemente dal tipo di calendario a cui potrebbe far riferimento, appare in contrasto con la data dell’incontro di Fibonacci con l’imperatore e la sua corte, avvenuto, come sopra accennato, nel 1226.

In questi opuscoli Fibonacci può finalmente esibire le proprie abilità matematiche, proponendo risposte del tutto originali a questioni già affrontate nella matematica araba.

Il Liber quadratorum si sviluppa attorno a un problema di analisi diofantea: trovare un numero quadrato tale che, una volta sommando e una volta sottraendo il numero 5, il risultato rimanga ancora un numero quadrato. La trattazione di Fibonacci si apre con una serie di proposizioni e lemmi relativi ai numeri quadrati e alle terne pitagoriche, che preludono alla costruzione di una teoria dei numeri congrui, cioè dei numeri C per i quali il sistema delle due equazioni y2C=x2 e y2+C=z2 ammette soluzioni intere o razionali.

Il Flos, dedicato al cardinale Raniero Capocci, notaio pontificio, è un’opera stratificata, in cui convivono scritti approntati in omaggio al dedicatario con le risposte date ad alcune sfide poste da Giovanni da Palermo e Teodoro d’Antiochia. In particolare, Giovanni aveva chiesto a Fibonacci di risolvere l’equazione cubica x3+2x2+10x=20, richiedendo per di più che la soluzione fosse un irrazionale euclideo. La complessa questione era ben nota nella letteratura araba, poiché questa stessa equazione si trova nel Trattato di algebra di ‛Omar Khayyām (1048-1131) e non è risolta per radicali, ma per via geometrica, intersecando una circonferenza con un’iperbole. Combinando aritmetica euclidea e algebra, Fibonacci dimostra anzitutto che la soluzione non può essere espressa da un intero, né da un razionale e neppure da un irrazionale euclideo; in seconda battuta fornisce un’accurata rappresentazione approssimata in frazioni sessagesimali della soluzione.

Nell’Epistula vengono risolti alcuni problemi di analisi indeterminata, il più noto dei quali è il cosiddetto problema degli uccelli, già trattato nel Liber abaci e qui ripreso e generalizzato. In esso si chiede di acquistare volatili di almeno tre specie diverse a un prezzo differente per ogni specie, in modo da comprare un certo numero di volatili a fronte di un determinato esborso.

La fortuna di Fibonacci

Le testimonianze disponibili sono concordi nell’affermare che nel Medioevo il Liber abaci – noto più comunemente come Praticha d’arismetricha – godeva di grande considerazione, tanto da venire spesso citato dagli autori per nobilitare i propri scritti. Ancora nel 1494 Luca Pacioli, nelle pagine iniziali della sua Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità, lo citava tra le sue fonti, ma già qualche anno dopo Girolamo Cardano aveva difficoltà a inquadrare temporalmente e geograficamente la figura di Fibonacci. Tale figura cominciò a venire percepita in maniera distorta e finì poi con l’essere progressivamente dimenticata, fino a che gli studi e le ricerche di Pietro Cossali (1748-1815) e Giambattista Guglielmini (1763-1817) la restituirono al suo tempo. I due studiosi intrapresero uno studio critico del Liber abaci e della Practica geometriae, cercando di individuarne le fonti e l’influenza sullo sviluppo della matematica europea, e sulle loro orme proseguirono due storici, Michel Chasles (1793-1880) e il citato Libri.

Il merito di aver impresso una svolta decisiva agli studi fibonacciani è però da ascrivere al principe Baldassarre Boncompagni (1821-1894), il quale pubblicò la prima (e tuttora ancora unica) edizione completa delle opere di Fibonacci, con il titolo Scritti di Leonardo Pisano matematico del secolo decimo terzo (2 voll., 1857-1862).

Gli studi su Fibonacci si sono arricchiti, tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, soprattutto delle ricerche di Gino Arrighi ed Ettore Picutti, ma hanno ricevuto nuovi impulsi in particolare dagli studi presentati in occasione delle celebrazioni (2002) dell’ottavo centenario del Liber abaci, che hanno aperto nuove prospettive di ricerca.

La «successione di Fibonacci»

Nonostante l’importanza del contributo dato da Fibonacci allo sviluppo della matematica europea, il suo nome viene generalmente ricordato per una successione di numeri naturali caratterizzata dal fatto che ogni termine, a partire dal terzo, si ottiene come somma dei due precedenti.

Egli aveva illustrato questa successione, alla quale non aveva dato alcuna particolare rilevanza, nell’ambito di un problema di «matematica ricreativa» nel quale si chiedeva di determinare il numero di conigli prodotti in un anno da una coppia che li generava secondo determinati criteri. Nell’esempio del Liber abaci compaiono i primi dodici termini della successione: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 377. Nel 1877 il matematico Édouard Lucas pubblicò alcuni importanti studi su questa successione, che egli affermò di aver trovato nel Liber abaci e che, in onore dell’autore, chiamò «successione di Fibonacci». Gli studi si sono in seguito moltiplicati, e si sono scoperte numerosissime e inaspettate proprietà di questa successione, tanto che dal 1963 viene pubblicata una rivista a essa esclusivamente dedicata, «The Fibonacci quarterly».

Le opere

Oltre alle opere già citate, negli scritti di Fibonacci si trovano riferimenti anche a un commento, oggi perduto, al libro X degli Elementi di Euclide.

L’edizione di riferimento delle opere di Fibonacci, come si è detto, è quella curata da Boncompagni. Egli non collazionò i diversi codici delle opere maggiori per approntare un’edizione critica, ma scelse di pubblicare il testo di quelli che reputava essere i migliori, finendo con l’attribuire un valore paradigmatico rispettivamente al codice C.I.2616 della Biblioteca nazionale di Firenze per il Liber abaci e all’Urbinate 292 della Biblioteca apostolica vaticana per la Practica geometriae.

Bibliografia

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M. Muccillo, Fibonacci Leonardo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 47° vol., Roma 1997, ad vocem.

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