LEONARDO da Vinci

Enciclopedia Italiana (1933)

LEONARDO da Vinci

Enrico CARUSI
Roberto MARCOLONGO
Giuseppe FAVARO
Giovanni GENTILE
Adolfo Venturi

L. fu detto da Vinci dal piccolo borgo in Val d'Arno inferiore, dove nacque in un giorno non determinato del 1452; morì il 2 maggio 1519 nel castello di Cloux in Amboise, proprietà di Luisa di Savoia, madre di Francesco I.

La vita. - Sì può dividere in quattro periodi, secondo i luoghi e i principi presso i quali visse: il 1° toscano-fiorentino (1452-1482); il 2° milanese-sforzesco (1483-1499); il 3° della cosiddetta vita errante (1500-1516), cui segue 4° il breve periodo di riposo o di raccoglimento finale nel volontario esilio francese, fino al 1519.

Periodo toscano-fiorentino. - Poco sappiamo della fanciullezza di L.; il suo nome compare la prima volta nella "portata" al catasto di Antonio Vinci suo nonno, sotto la data del 1457; aveva allora 5 anni e figura come "figliuolo non legittimo", si trovò quindi in una specie di orfanezza che influì senza dubbio sulla sua vita. Altre supposizioni su Anchiano e Firenze come probabili luoghi di nascita di L. non hanno appoggio di documenti i quali nulla ci dicono della madre Caterina, allora moglie di Acattabriga di Piero del Vacca da Vinci, che l'anonimo Gaddiano dice "di buon sangue". Nel 1467 ser Piero, notaio, si trova già a Firenze; nel 1469, nella portata del catasto, dichiara di stare "al palagio del potestà". In questo anno adunque ser Piero si stabilì più sicuramente in città; era morto allora il padre, era morta pure la prima moglie Albiera Amadori che dovette essere l'aia amorosa di L. Il giovanetto aveva 17 anni e giungeva nella città medicea in un momento storico interessante. Nel 1469 infatti morto Piero di Cosimo dei Medici, Lorenzo a soli 20 anni riuscì a mantenere salda la supremazia di Firenze. Ma venne la congiura dei Pazzi con il tragico epilogo del 26 aprile 1478, e poi l'interdetto di Sisto IV e la guerra per cui le armi di Alfonso d'Aragona devastarono la Toscana. Lorenzo superò queste e altre difficoltà, e rappresentò veramente "l'ago della bilancia intra i principi italiani". Sotto la protezione medicea, L. poté segnalarsi presto, aiutato dal padre che, dopo avergli fatto insegnare l'abbaco, avendo vista l'inclinazione del figliolo per la pittura, lo pose alla scuola del Verrocchio: ivi gli furono condiscepoli Sandro Botticelli, Lorenzo di Credi, Pietro Perugino. Dell'attività di Leonardo in questo primo periodo non abbiamo molte prove sicure; ma la piccola predella dell'Annunciazione del Louvre dimostra da sola a sufficienza, i progressi sorprendenti del giovane artista che nel 1472 è iscritto ufficialmente nel Libro rosso dei debitori e creditori della compagnia dei pittori fiorentini, e nell'anno seguente traccia lo schizzo di paesaggio toscano nella galleria degli Uffizî con la scrittura a rovescio "dì di S. Maria della Neve addì 5 d'agosto 1473" Nel 1476 L. era ancora presso il Verrocchio, perché si riferisce a questa data l'infondata accusa degli ufficiali di notte per illeciti rapporti col giovane Iacopo Saltarelli, adibito forse come modello. In questo tempo Lorenzo de' Medici gli diede una provvigione perché lavorasse in quel "giardino sulla piazza di S. Marco di Firenze", l'"orto dei Medici", come lo chiama L. È facile supporre che la graziosa concessione dovette essere provocata dal padre; questi pure favorì il contratto con cui nel gennaio del 1478 fu commessa a L. la pittura di una tavola per la cappella di S. Bernardo nel palazzo della Signoria, già assegnata al Pollaiolo. L. non approfittò della favorevole occasione, né poté mantenere l'impegno; dipinse invece nel settembre di questo anno le "due Marie" variamente identificate, e l'anno dopo riprodusse l'orrido volto contratto dell'appiccato Bernardo di Bandino Baroncelli, l'uccisore di Giuliano dei Medici, giustiziato il 29 dicembre 1479. Che vivesse ormai a sé si argomenta dalla portata del catasto del 1480 dove tra le "bocche" a carico di ser Piero, ammogliato per la terza volta e padre ormai di due figliuoli, egli non figura più. Ma la continua protezione paterna si rivela dal complicato contratto del 1481, 14-18 agosto, col quale si obbligava di fare una pala d'altare, l'Adorazione dei Magi, per i frati del convento di S. Donato a Scopeto. Numerosi studî e schizzi di questa opera originale e concettosa rimangono tuttora, e la bellissima e incompiuta tavola di Firenze, ci conserva forse un autoritratto nella vaga figura di giovine che sta a destra di chi guarda. La tavola fu vista dal Vasari nel 1568 in casa di Amerigo Benci, figliola del quale fu quella Ginevra che L. dipinse, facendo "cosa bellissima" a dire del Vasari. Anche di questo tempo, e incompiuto, è il S. Girolamo della Pinacoteca Vaticana. Ma la sua attività non doveva essere molto remunerativa, a giudicare dalle piccole somministrazioni di prodotti campestri fatte dai frati di S. Donato. Oltre a ciò in questo periodo la mentalità di L. si veniva evolvendo a contatto con la cultura umanistica fiorentina, dalla quale, fra contrasti, assorbiva idee pitagoriche e, come ha notato il Calvi, una specie di misticismo cosmico che si associa in lui all'indirizzo sperimentale matematico; in parecchi scritti, che si possono far risalire a questo periodo giovanile si sorprendono frasi monche e slegate, le quali tradiscono la crisi di scontento e di tristezza che il giovane pittore subiva. Si accentuava pure l'innato sentimento di solitudine che egli cercava per sé e consigliava al pittore filosofo "e se tu sarai solo sarai tutto tuo". A queste ragioni si aggiunga l'esodo da Firenze del maestro, il Verrocchio, e poi dei condiscepoli, il Botticelli e il Perugino, che lavoravano a Roma nella cappella Sistina, sicché non sorprende se L. approfittò dell'occasione propizia per allontanarsi dalla sua patria. Ma non fu data questa occasione dal fantastico viaggio in Oriente, chiamato dal Diodario del sultano di Babilonia (l'attuale Cairo), che il Richter senza fondamento affermò avvenuto in questo primo periodo toscano.

Leonardo a Milano. - L. invece si reca a Milano dove era senza dubbio il 25 aprile 1483, perché insieme con i fratelli Evangelista e Giovanni Ambrogio Preda (o de Predis) sottoscrive il contratto per la pittura della Vergine delle Rocce da consegnarsi al priore della scuola della Concezione nella chiesa di S. Francesco a Porta Vercellina, il giorno della Concezione, cioè l'8 dicembre 1484. Il lavoro, non rifinito probabilmente, venne consegnato solo verso il dicembre del 1490, e diede luogo a una lunga controversia legale che ebbe termine nel 1508 (v. più sotto). Lo scopo dell'andata di L. a Milano è detto dall'anonimo Gadiano: "Haveva 30 anni (siamo dunque nel 1482), che dal detto Magnifico Lorenzo fu mandato al duca di Milano a presentarli insieme con Atalante Migliorotti una lira che unico era in sonare tale extrumento"; e il Vasari ci descrive l'istrumento "ch'egli aveva fabbricato d'argento gran parte in forma d'un teschio di cavallo, cosa bizzarra e nuova, acciocché l'armonia fosse con maggior tuba e più sonora di voce". Mentre non sappiamo se il Moro stesso abbia richiesto un musicista o se il Magnifico abbia pensato a inviare Leonardo e Atalante Migliorotti, nel f. 391 r del Codice Atl. (vedi fig. 1) c'è un interessante abbozzo di lettera, autentica, ma che non si può ritenere autografa.

Non è qui il caso di entrare nella questione paleografica trattata da G. Calvi, e neppure toccare l'argomento ancora più vasto discusso da L. Beltrami circa l'autografia di questa e di altre scritture diritte che si ritrovano sparpagliate nei fogli e nei codici vinciani. È certo che molti scritti furono tracciati da L. nella maniera comune, cioè da sinistra a destra, mentre abitualmente egli adoperava la scrittura a rovescio, o a specchio: M. Baratta e G. Favaro hanno, fra gli altri, date scientifiche spiegazioni di questa singolarità grafica di L.

La lettera sembra stesa piuttosto a Milano, soprattutto per la chiusa dove L. si dichiara pronto a dar prove della sua capacità. È molto verosimile che L. giunto a Milano e desideroso di essere assunto in stabile servizio dal Moro si sia subito orientato verso la sua meta, comprendendo che un campo più adatto per sé non era quello della musica o del sonatore di lira alla corte di un principe che in quel tempo aveva bisogno di armi, di cannoni, e quindi di un ingegnere militare; egli mette in seconda linea, o, comunque, per ultimo, le sue abilità di pittore e di scultore capace di fondere il cavallo di bronzo "che sarà gloria immortale et eterno honore de la felice memoria del signor vostro padre et de la inclyta casa Sforzesca". Sebbene il primo ricordo documentato del titolo d'ingegnere riconosciuto a L. è del 21 giugno 1490, quando si recò a Pavia, è pur vero che di costruzioni e di strumenti bellici si occupò stando ancora a Firenze (v. figg. 2 segg., 66-67; tavv. CXXXI-CXXXIII). Nella capitale lombarda L. non giungeva ignoto, e se il ricordo della "testa del duca" segnato nell'importante elenco del f. 324 del Cod. Atl. si riferisce davvero a un'effigie di Francesco Sforza, con gli altri, esso è un indizio per supporre che L. dovette anche pensare a personaggi che a Milano avrebbero potuto aiutarlo a raggiungere il suo scopo, e primo fra tutti quel Benedetto Dei, viaggiatore, avventuriero e cronista, che già nel 1471 per conto dei Medici, bazzicava a Milano, in stretta amicizia con i personaggi della corte, specie con i Sanseverino, così cari a L. Si è detto che una delle occupazioni di L. in questo periodo è una serie di progetti edilizî per il risanamento di Milano dopo la peste (v. tav. CXXXIV); il contenuto del Cod. B e di altri dell'Istituto di Francia, così ricchi di studî sulle armi, ispirati dal De re militari di R. Valturio, e sugli adattamenti dei castelli ducali, come pure il Cod. Trivulziano ci mostrano a sufficienza la molteplicità degli argomenti trattati da L., il quale non dimenticava la sua arte, se preparava una tavola da inviarsi in dono a Mattia Corvino e faceva i ritratti del musicista (Franchino Gaffurio), della dama del furetto e di Cecilia Gallerani. Ma L. ben presto è attratto verso ricerche scientifiche sul volo e sulla costruzione di un velivolo (vedi figure 7, 61-65; tavola CXXXV), come su progetti di sottomarini (v. fig. 10). Le questioni tecniche d'ingegneria richiesero l'opera di lui, per l'elevazione del tiburio nel duomo di Milano (fig. 11); entrò in gara nel 1487, eseguendo uno dei modelli che corredò con argomenti scritti: s'incontrò allora con l'architetto toscano Luca Fancelli venuto da Mantova per assistere il consiglio della Fabbrica. Del tiburio egli si occupò fino al 1490, quando furono interpellati ancora Francesco di Giorgio Martini senese, e il Bramante. Si sa che verso il 1490 L. ritirò il suo progetto per migliorarlo, ma effettivamente da allora non s'interessò più del lavoro. Lo stesso anno lo troviamo a Pavia per gli studî di quel duomo, sempre in colloquio con il Martini e il Bramante. I lavori a Pavia, nel duomo e nel castello, continuano nel 1494, e incontriamo L. nella città universitaria anche dopo il dominio sforzesco: piccole note dei manoscritti ce lo mostrano alla ricerca "di Vitolone ch'è nella libreria di Pavia", e forse intento ad ammirare la statua del Regisole che ebbe influenza nelle varie concezioni dei suoi monumenti equestri. Per la statua di Francesco Sforza, il Moro aveva ripreso l'idea del fratello Galeazzo Maria; ma faceva ricerche di artisti anche il 22 luglio 1489, quando l'incarico era stato dato a L. che già perseguiva studî di anatomia (v. fig. 12); spinto forse da queste voci deve aver affrettato il lavoro o modificato il progetto. Attorno a questo colosso L. lavorava di continuo. Fu sua preoccupazione il getto (v. fig. 14 e tav. CXXXV); il Vasari anzi accenna a un'intesa col Sangallo, (1492). Ma il cavallo non fu potuto gettare in bronzo: del monumento ci ha conservato notizie e calcoli il Pacioli da rettificarsi secondo le osservazioni di A. Popp. Saba da Castiglione, ci racconta che il cavallo fu preso vandalicamente a bersaglio dai Guasconi di Luigi XII, ma non fu distrutto, perché Ercole I di Ferrara lo richiedeva per mezzo del suo agente di Milano, il 19 settembre 1501. Poi non ne sappiamo altro.

Accanto a questi lavori artistici e scientifici, nei primi anni di soggiorno a Milano, L. dovette anche occuparsi di feste e rappresentazioni alla corte sforzesca che egli divertiva pure con i suoi rebus, con i concettosi emblemi di carattere morale-politico e con le sue curiose caricature (v. tavola CXXXVI). Già alla fine del 1488 per il matrimonio di Gian Galeazzo Sforza si cominciarono lavori preparatorî di abbellimenti e di svaghi che culminarono nella festa del Paradiso del 13 gennaio 1490 (v. fig. 15). Subito dopo vennero le nozze duplici di Lodovico il Moro con Beatrice d'Este, e di Alfonso con Anna Sforza, nel 1491: un numero importante della festa era la giostra di Galeazzo Sanseverino (v. fig. 18). Due anni dopo, il 30 novembre 1493, si hanno le nozze di Bianca Maria con l'imperatore Massimiliano: se L. non poté farvi comparire il colosso equestre ricordato dai poeti cortigiani, v'intervenne probabilmente con un'effigie del duca Francesco a cavallo, e seguì forse sulla carta l'itinerario del corteo nuziale. Partecipò alle costruzioni della Sforzesca in Vigevano, e ad abbellimenti della città natale del Moro; e si può pensare con ragione a una cooperazione di L. nella bonifica della Lomellina, come anche nella sistemazione dei fiumi e dei canali del Novarese. Note sparse nei volumetti tascabili ci rivelano impegni di modesti lavori di meccanica e ingegneria nelle dimore ducali (v. figg. 16, 17, 19, 20, 22), e anche curiosi episodî della vita domestica di L. e fermano ricordi come il seguente: Giovannina, viso fantastico sta a santa Caterina all'ospedale". Si è ritenuto che fosse la madre di L. la "Catelina" che nel 16 luglio 1493 compare sua ospite, e l'anno successivo è già morta; ma le insufficienti notizie non valgono a chiarire questo che sarebbe un interessante particolare biografico.

Cominciavano nel 1495 le decorazioni ai "camerini" del castello Sforzesco, per cui il Moro insisteva da Vigevano presso Ambrogio Ferrari. Le difficoltà finanziarie in cui si trovava il Moro e quindi le sospensioni di pagamenti o i ripieghi trovati con le cessioni dei "benefizî" o "dazietti", avevano creato malumore in L. Il dissidio per altro non deve essere durato a lungo: il Moro tentò, due volte inutilmente, nel 1496 e 1497, di avere la collaborazione del Perugino; nel 1498 affidò di nuovo a L. la decorazione della "saletta negra" e della "camera grande da le asse", che iniziata nell'aprile è rapidamente finita nel settembre. Si è sostenuto che L. per "guadagnare el victo" abbia occupato parte degli anni 1496-1497, accettando di collaborare alla pala d'altare di S. Francesco in Brescia, tardo lavoro del Romanino: a Brescia L. si recò per una giostra di Galeazzo Sanseverino; ma il profilo di Francesco Sanson, il supposto committente del quadro, può essere stato fatto a Milano. Non sappiamo se al novero delle opere, che non lo facevano "triunfare", vanno ascritte le elucubrazioni di geometria e di matematica in cui per l'amicizia con frate Luca Pacioli, giunto a Milano proprio nel 1496, L. s'ingolfò più che mai; certo per denari, dovendo tenere "sei bocche 36 mesi" con 50 ducati, L. cercava commissioni a Piacenza. Un'opera veramente di "fama" aveva per altro iniziata dal 1495, e fino al 1497 conduceva avanti alacremente L.: l'Ultima Cena dipinta con le annesse decorazioni su di una parete del refettorio delle Grazie. Essa costituisce una smentita alla pretesa sua lentezza di lavoro, tanto più che è ben nota la minuziosa preparazione per la concezione dell'insieme e per la esecuzione dei particolari dei personaggi. "Cristo Giovan Conte quello del Cardinale del Mortaro"; "Alessandro Carissimo da Parma per le man di Cristo" annota fra l'altro nel codicetto Forster II, ff. 2 e 6, fermando così dati importanti da tener presenti nella sua pittura. Questi particolari di studî e di ricerche, la molteplicità di lavori a cui L. attendeva nel 1497, fanno comprendere più facilmente il noto passo del Bandello che aveva visto il maestro lavorare di lena dal sorgere del sole alla sera "scordatosi il mangiar et il bere". Nel 1497 devono essere cessate le sue preoccupazioni finanziarie: egli aveva la pensione di 2000 ducati "senza i doni ed i presenti", e la somma non era certo troppo esigua. Ad ogni modo il periodo più grave di crisi finanziaria era stato superato anche prima, perché l'anno 1496 segna l'apogeo della potenza dello Sforza che compare proprio in questo tempo circondato dai più rappresentativi uomini di lettere, di scienze e di arti, da capitani famosi, in mezzo a feste, quali la rappresentazione di Danae (v. fig. 22) in cui trionfava quella Lucrezia Crivelli, la sua damigella favorita, della quale L. ritrasse le bellissime sembianze. Ma l'anno successivo, il 1497, poco prima della visita al cenacolo del card. Gurcense, cominciava con un lutto grave per il Moro: il 2 gennaio moriva la sua compagna e guida sapiente, Beatrice. Forse a calmare il dolore del Moro L. finì rapidamente quella "saletta negra" dove erano conservate rimembranze della morta; in ricompensa di questi lavori al castello o piuttosto dell'Ultima Cena terminata poco dopo il giugno 1497, il Moro gli donò con atto del 26 aprile 1499 la vigna fuori porta Vercellina, nel quartiere dove L. era occupato verso questo tempo nel progetto e nella costruzione di un alloggio signorile, forse per Galeazzo Sanseverino; molto probabilmente L. ebbe il possesso del terreno prima ancora del documento legale.

Ma pochi mesi prima che avvenisse la donazione della vigna, gravi avvenimenti si preparavano, a insaputa del Moro col trattato segreto fra Luigi XII e i Veneziani, i quali, senza far tesoro degli avvenimenti del 1494, e quindi con maggiore responsabilità, invitavano a discendere in Italia un sovrano ancora più abile di Carlo VIII. La bufera si addensò e si scatenò rapidamente; l'anno avanti L. era andato col Moro a Genova per i preparativi di difesa; ma alla vigilia della catastrofe egli stette tranquillo a Milano. L'esercito invasore francese già il 24 luglio era entrato nel territorio sforzesco, il 13 agosto da Asti s'iniziarono le ostilità. Il Moro cercò invano i ripari: Alessandria fu abbandonata da Galeazzo Sanseverino; alle nuove dei successi del Trivulzio il Moro riuscì a raggiungere Innsbruck. Intanto il 5 settembre si era decisa la resa di Milano al Trivulzio: il 6 ottobre Luigi XII con grandissima pompa entrava nella città vinta; gli faceva corteo il duca Valentino; lo stesso giorno i Turchi spinti dal Moro giungevano fino al Tagliamento. Il re prese anche possesso del castello sforzesco; un mese dopo, il 7 novembre, ripartì. L. deve aver assistito alla scena di trionfo e deve aver conosciuto qui il Valentino; non si era mosso infatti da Milano e seguitò a stare alla Corte Vecchia dove prese alloggio il Trivulzio. Anche nella Corte Vecchia devono essersi incontrati L. e il conte di Ligny, Luigi di Lussemburgo: si riferisce probabilmente a questo tempo l'oscuro appunto del f. 247 r. a del Cod. Atlantico, "truova ingil [Ligny] e dilli che (t) tu l'a (s) petti a morra [a Roma] e che (t) tu andrai con seco ilopanna [a Napoli] fatti fare la enoiga nodal [la donagione], ecc." che il Calvi ha illustrato e la Herzfeld ha confermato nell'interpretazione. Si sa che appena entrato a Milano il Ligny riprendeva la vecchia aspirazione sui dominî privati di Napoli, dove già si era trovato con Carlo VIII. Nel settembre del 1499 l'agente Pietro Dentice aveva in suo nome aperto trattative con Venezia che rispose in modo evasivo: insistendo il Ligny fece chiedere un sussidio, per provocare una insurrezione dei suoi partigiani napoletani con mire speciali su Napoli e il suo principato di Altamura. Anche questa volta Venezia si mostrò riservata e alquanto ostile ai progetti di Luigi di Lussemburgo. Forse uguale argomento deve essere stato affidato a L., perché il f. 320 v. c del Cod. Atl. ci ha conservato una vera inchiesta mossa probabilmente dal Ligny a L. sui preparativi materiali della spedizione: "Memoria a maestro Leonardo di avere presto la nota del stato di Firenze, videlicet come à tenuto el mode et stillo el Reverendo patre detto frate Ieronimo in ordinare el stato di forteze. Item li ordini et forma expressa di ogni luy ordinatione, per quel modo, via et ordine como sono servati et se servano usque nunc". Non sappiamo se e in qual modo rispondesse L. ai troppi indiscreti quesiti; certo è che le sue conoscenze in materia non erano antiquate, pensando che proprio nel 1499 era tornato in patria per un parere sui movimenti del Monte Re e vi era stato pure nel 1495 per il nuovo meraviglioso salone del Consiglio della Signoria, fatto costruire appunto dal Savonarola: accenni ad altre dimore fiorentine in questo tempo si hanno nel cod. 12, f. 75 (27). L., superiore agli avvenimenti politici, deve essersi in qualche modo accostato ai nuovi dominatori e, se non ambiva offici dai Francesi, non desiderava neppure esserne danneggiato; ed è importante notare come, appena giunto a Firenze, egli lavorerà attorno a un quadro promesso al francese Robertet. Comunque, il pittore resta indisturbato a Milano fino al 14 dicembre, quando spedisce denari a Firenze con due lettere di cambio.

Andata a Venezia. - Ignoriamo che cosa abbia fatto L. a Milano nei tristi giorni di rivolta che prepararono l'effimero ritorno di Ludovico Sforza, cioè dal dicembre al febbraio; ma la sua andata a Venezia può avere rapporto con le mire del Ligny. L. probabilmente non desiderava allora d'incontrarsi con lo Sforza; partì quindi rapidamente da Milano e, fatta una breve permanenza a Mantova presso Isabella d'Este, il marzo del 1500 è già a Venezia; ivi mostra al liutaio Gugnasco il ritratto della marchesa "molto naturale a quela". Nella città della Laguna egli trovò conoscenti (già aveva fatto il viaggio in compagnia dell'amico Luca Pacioli ben noto a Venezia) e ivi apprese la cattura del Moro e gli ultimi avvenimenti di Milano. Se non vanno attribuiti al brevissimo soggiorno veneziano gli svariati studi e disegni per sottomarini che abbiamo ricordati, certo a Venezia L. ebbe affidata una missione di carattere militare che si collegava con la grave minaccia incombente allora sulla repubblica per l'invasione del Friuli da parte dei Turchi. L. infatti percorre tutto il confine orientale del ducato, risale le valli del Piave, del Tagliamento, ricorda Gradisca, e proprio nel Friuli fa un piccolo schizzo dell'Isonzo e del Vippacco presso Gorizia, ideando un "serraglio mobile" per alzare la corrente del fiume e allagare la pianura: abbozzo di una relazione ai magistrati veneti sembra il passo del Cod. Atl., f. 234 v. c.

Ritorno a Firenze. - Certamente il 24 aprile del 1500 L., sempre con l'amico Pacioli, è a Firenze non più medicea. Il pittore, maturo ormai negli anni e ricco di fama, vi fu accolto con segni di deferenza, giacché Filippino Lippi gli cedette la commissione per la S. Anna avuta dai monaci dell'Annunziata. Dopo un anno era finito il cartone. Particolari della vita fiorentina di L. ci sono dati dalle lettere del corrispondente d'Isabella d'Este, la quale si era fitto in mente di arricchire di un'opera del fiorentino il suo studiolo, nel palazzo di Mantova. Già il Vinci aveva fatto per lei il disegno della casa di A. Tovaglia, ma la marchesa insisteva per avere un altro schizzo del suo ritratto o un quadro qualsiasi, lasciandone l'invenzione al pittore. Questi invece era distratto dagli "esperimenti matematici" con l'amico Pacioli, né valsero le insistenze del suo aiutante di studio, il Salaì, che l'accompagnò anche a Firenze: Isabella poté sapere soltanto che L. lavorava attorno a un quadro per il. Robertet. È di questo tempo la proposta di Pier Soderini per la lavorazione di un blocco di marmo, trasformato poi rapidamente dal giovane Michelangelo nel capolavoro del David che L. riproduce con varianti in uno dei suoi schizzi (fig. 23). L'insistenza della marchesana continua nel luglio del 1501, ma fra distrazioni di matematica, di geografia e di astronomia, fra gli studî anatomici a S. Maria Nuova, dove assistette alla morte di un centenario "sanza altro movimento o segno d'alcuno accidente", L. si limitò solo ad assicurare "di aver dato principio ad fare quello che desiderava S.ª V.ª".

Con Cesare Borgia in Romagna. - L'incontro di L. col duca Valentino nel 1499 a Milano, fra lo stuolo degli ufficiali francesi; la missione a Venezia, e il progetto dell'invasione di Napoli devono essere stati i motivi per cui il Borgia pensò di avvalersi delle capacità tecniche dell'artista toscano: Firenze del resto era pure fra le aspirazioni dell'ambiziosissimo Borgia, malgrado l'opposizione di Luigi XII. Ma il re aveva, per compenso, favorito nelle sue mire sulla Romagna il Valentino, che aiutato dalle armi francesi aveva fatto grandi conquiste prima del 1501. Si è affermato dal Solmi che già a Piombino nel febbraio 1502 L. era con i Borgia, ma i passi relativi a questa città, come agli studî intorno alle "Honde del mare di Piombino" e al "Modo di seccare il padule di Piombino" devono avere uno scopo esclusivamente pacifico e di ricerche idrauliche: il Baratta pensa piuttosto che L. ritraesse le condizioni geografiche del paese a principio del 1500. Del resto il documento preciso con cui il Borgia commette a L. "di osservare luoghi fortezze dei suoi stati" ha la data da Pavia, 18 agosto 1502 (v. fig. 24): fino al maggio 1502 L. si ritrova a Firenze intento a una stima di oggetti preziosi per Isabella d'Este. Un altro fiorentino, per scopo diverso, era allora presso il Borgia, Niccolò Machiavelli; e forse il Vinci lo incontrò a Urbino il 30 luglio prima di avere avuto la nomina d'ingegnere generale del Valentino; a Urbino visitò la biblioteca dei Montefeltro. Da allora L. segue il Borgia a Pesaro, a Rimini, e poi a Cesena nel mezzo agosto, a Porto Cesenatico il 6 settembre, e la nota che vi si riferisce ha carattere prettamente militare, come la ricetta del cod. L. per una mistura di carbone, zolfo e salnitro, per far polvere da cannoni. A Imola, rilevata nella bella pianta (v. figura 25), L. deve essere rimasto assediato col Machiavelli; ma mentre il pittore fiorentino ignora del tutto nei suoi appunti il massacro dei condottieri congiurati della Magione, attratti a Sinigaglia, il Machiavelli lo descrive minutamente, quasi con compiacenza. Nel gennaio del 1503 il Valentino assoggetta Perugia: la lista delle località ricordate da L. si arresta ad Acquapendente, dove il Borgia passò diretto a Roma per la rivolta dei baroni contro Alessandro VI. Non risulta che L. l'accompagnasse fino alla corte papale; certo a un ritorno a Roma in questo periodo, piuttosto che durante i lavori della battaglia di Anghiari, fa pensare un documento del 30 aprile 1505. Poco dopo il ritorno del Valentino avvenne la catastrofe dei Borgia con la morte di Alessandro VI, nell'agosto del 1503; nel marzo precedente L. è a Firenze.

Di nuovo a Firenze (marzo 1503-aprile 1506). - La fama di L. come ingegnere militare deve avere persuaso Pier Soderini a utilizzare le risorse tecniche e inventive di L. che proponeva di deviare l'Arno al di sopra di Pisa. Il progetto fu favorito, a quanto pare, dal Machiavelli, e già nel luglio del 1503 L. è in campo. Ma il lavoro troppo costoso per la Repubblica e tanto gravoso per L. venne abbandonato (v. tavv. CXXXVII, CXXXVIII). In questo torno di tempo L. deve avere ancora una volta esaminato la questione degli scoscendimenti del Monte S. Salvatore o Monte Re, già trattata nel 1499: piccole commissioni, questa e l'altra del gennaio 1504, per il parere sulla sistemazione della statua del David michelangiolesco, che non assorbono naturalmente l'attività del pittore. Il quale dal 24 ottobre 1503 aveva preso la chiave della sala del papa e di altre stanze attigue in Santa Maria Nuova, perché aveva avuto incarico dal Soderini di preparare il cartone della battaglia di Anghiari da riportarsi in affresco su una delle pareti della sala del Maggior Consiglio, mentre l'altra parete sarebbe stata dipinta da Michelangelo. Del Machiavelli è forse l'invenzione e la breve illustrazione del tema leonardesco con indicazioni sul Piccinino e sul cardinale Scarampi.

Né L. né Michelangelo, giovane allora di 23 anni, compirono l'incarico assunto, ma entrambi lasciarono nei cartoni i documenti dei loro capolavori e il rammarico che questi due grandi genî non siano rimasti insieme neppure in dipinti di una stessa sala, e non si siano compresi. Si sa che il cartone della "historia" doveva essere pronto nel febbraio del 1505, secondo il contratto che assegnava a L. un mensile, ma imponeva pure termini perentorî; quando si trattò di riportare sulla parete il disegno, L. preparò l'"edifizio artificiosissimo" del cavalletto meccanico, studiò anche una delle preferite miscele di composizione di colori, basandosi su una ricetta di Plinio, ma il lavoro finì in modo direi tragico, malgrado l'esperienza precedentemente acquistata dal pittore della Cena. Ciò spiega il ritardo e poi l'abbandono dell'impresa, che era stata pure disturbata dalle rinnovate insistenze d'Isabella d'Este, la quale chiedeva un "Christo giovenetto de anni circa duedeci". L. dipinse allora il ritratto noto col nome di monna Lisa del Giocondo; mentre continuava "i suoi esperimenti matematici" di cui parla fra Pietro da Novellara fin dal 1501, perché il codicetto Forster I, che tratta di "trasformazione, cioè d'un corpo 'n un altro senza diminuzione o accrescimento di materia", ha la data del 12 luglio 1505; nel marzo antecedente aveva osservato il volo del "cortone" andando a Fiesole (v. fig. 26): ivi appresso sorge il "magno Ceceri", dal "dosso" del quale avrebbe dovuto spiccare il volo il "grande uccello" oggetto di cure del maestro per i suoi studî sul volo a vela; è pura fantasia l'episodio della tragica caduta di Zoroastro (Tommaso Masini) dall'apparecchio vinciano. Le meditazioni di L. rlovavano ristoro in questo tempo a Fiesole nella dimora quieta dello zio adottivo, il canonico Alessandro Amadori. Nel 30 maggio 1506 L. ebbe dalla Signoria un congedo di 3 mesi. Durante questo agitato soggiorno fiorentino noi possiamo anche sorprendere la vita domestica di L. nei frequenti conteggi di spese quotidiane (v. fig. 27). Più interessanti però sono i contatti con i parenti: si era da poco preoccupato per la salute del padre, quando ne segna la data della morte (9 luglio 1504) in due schede differenti, ma uguali nella freddezza del ricordo. Singolare pure la lettera al fratellastro Domenico, scritta in abbozzo, a cui tra l'altro consiglia di non rallegrarsi per la nascita di un erede.

Tra Milano e Firenze (giugno 1506-settembre 1507). - Avuto il congedo e composta con un lodo provvisorio del 30 aprile 1506 la lite per l'eredità paterna tra i fratelli e la matrigna e i pupilli di ser Piero da Vinci, L., che a questo atto non intervenne, si recò a Milano principalmente per la tutela dei suoi interessi privati: decidere cioè un'altra lite mai risoluta e riaccesa qualche anno dopo la sua partenza da Milano, mentre egli era al servizio del Borgia, con gli "scolari della Conceptione de S. Francesco", a proposito del soprapprezzo da pagarsi per il quadro della Vergine delle rocce.

Nel 1503 (marzo-giugno) si ha infatti una citazione legale fatta a Leonardo, per constatarne l'assenza, promossa da Ambrogio Gaffuri procuratore dei confratelli della Concezione. Anche la vigna correva qualche rischio con le disposizioni del nuovo governo francese, e comunque essa aveva bisogno di sistemazioni. Tutte e due le questioni sono riprese e agitate nel 1506; la lunga lite per la Vergine delle Rocce si chiudeva intanto con il lodo emesso il 27 aprile 1506, dal quale risulta che allora non era compiuta la parte principale dell'ancona; si faceva anzi obbligo a L. di tornare a Milano e rifinire il quadro nel termine di due anni. L. infatti parte per Milano nel maggio successivo, e, adempiuti gl'impegni, si ha un primo pagamento del soprapprezzo il 26 agosto 1507, fatto ad Ambrogio Preda anche per conto di L. Il 23 ottobre 1508 si ha il documento definitivo e la quietanza anche di L.; da allora probabilmente comparvero le due note tavole di quel meraviglioso dipinto, una conservata al Louvre e ritenuta da tutti di L.; l'altra a Londra nella National Gallery dal 1880, che alcuni attribuiscono al solo Preda. Il vivo desiderio di porre fine alla questione con i confratelli della Concezione spiega la vera ragione dell'andata di L. a Milano, e la sua permanenza ivi oltre il termine prefisso. Anche nell'aprile del 1507 L. poté risolvere la seconda questione d'interesse personale, cioè il possesso della vigna che gli fu definitivamente riconosciuto.

Nel frattempo egli fu attratto nella vita dei nuovi dominatori di Milano; il giovane Carlo d'Amboise signore di Chaumont, Gran Maestro, governatore di Milano, alla scadenza dei termini per il ritorno a Firenze, il 16 agosto 1506, scrisse alla Signoria, chiedendo una proroga che permettesse a L. di "fornire certa opera che li habiamo facto principiare". Prolungandosi l'assenza, il 9 ottobre 1506 Pier Soderini mandò una sdegnosa protesta contro L.: neppure allora il pittore poté muoversi. Solo il 16 dicembre successivo lo Chaumont, ringraziando la Signoria e scusando L., ne fa ampie lodi non solo per le opere di pittura, ma anche di "disegni et architectura et altre cose pertinenti alla conditione nostra".

Forse questi disegni di architettura si riferiscono a progetti di una villa con parco, conservati in parecchi fogli vinciani; niuna parte deve avere presa L. nella costruzione della chiesa di S. Maria delle Fontane, fatta fare dallo Chaumont: i documenti almeno non lo dimostrano. Un'altra opera che occupò L. in questo anno è il progetto per il monumento equestre al maresciallo Trivulzio, iniziato probabilmente fin dal 1499, e ripreso tra il 1506 e il 1507. Verso la fine del 1506 sembrava imminente il ritorno di L. a Firenze, ma sopraggiunse alla Signoria un'affettuosa lettera dell'ambasciatore fiorentino in Francia, Francesco Pandolfini, che in nome del re domandava un nuovo prolungamento della dimora del pittore a Milano; ne scrisse un'altra subito dopo, il 12 gennaio 1507, lo stesso re, richiedendo addirittura per sé il pittore fiorentino. Luigi XII era troppo potente alleato di Firenze, per non ottenere subito dalla Signoria la desiderata concessione. Nel giuoco potente delle leghe fra stati italiani ed esteri L. poteva rappresentare un mezzo nelle mani del monarca francese, che prima del 26 luglio 1507 lo fece nominare "peintre et ingenieur ordinaire", con uno stipendio fisso.

Nell'estate del 1507 L. iniziò probabilmente i lavori per i suoi studî sulla sistemazione dell'Adda (v. figg. 34, 35) e può aver avuto motivo di conoscere a Vaprio il Melzi, che diventerà l'inseparabile e affezionato discepolo della sua tarda età. Da Milano L. dovette ritornare a Firenze ancora per interessi familiari, la risoluzione della lite per l'eredità paterna e dello zio: fu preceduto da una commendatizia dell'Amboise che "cum grandissima dificultà" gli aveva data licenza di partire il 15 agosto 1507. Il 18 settembre era già in patria, donde invocò l'intervento del cardinale Ippolito d'Este presso uno dei giudici della controversia (v. fig. 28). Fu ospite di Piero di Baccio Martelli, in casa del quale il 12 marzo 1508 scrisse o dispose in buona copia i primi fascicoli del Codice Arundel. Visse allora in comunanza di vita con l'amico Giovanni Francesco Rustici, che mentre si occupava di alcuni bassorilievi delle porte di bronzo del battistero "non volle altri attorno che Lionardo da Vinci, il quale nel fare le forme, armarle di ferri, ed insomma sempre, insino a che non furono gettate le statue, non l'abbandonò mai". Di questo soggiorno fiorentino relativamente quieto abbiamo qualche accenno nella mimuta di lettera all'Amboise. "Hora io mando costì Salaì per fare intendere a Vostra Signoria come io son quasi al fine del mio litigio co' mia fratelli, e come io credo esser costà in questa Pasqua, e portare con mecho due quadri dove sono due nostra Donne di varia grandeze, le quale io ò cominciate pel cristianissimo re o per chi a voi piaccia", e si preoccupava della provvigione se era "per correre o no". I due quadri ricordati in questa lettera sono variamente identificati, mentre si attribuiscono pure a questo periodo fiorentino gli ultimi disegni vinciani, tra cui gli studî per S. Giovanni Battista, per la Leda e per la Flora. La provvigione seguitò a "correre", perché L. l'esigerà nel luglio successivo a Milano, dove è certo il 12 settembre 1508, quando inizia il codice F: aveva così dato un buon assetto alla questione dell'eredità, di cui si occupò anche stando a Milano. Intanto si era maturata l'intesa della lega di Cambrai, causa di avvenimenti che sconvolsero l'Italia. Ma più che da opera di guerre, come pensa il Solmi, L. fu attratto quasi completamente da questioni d'idraulica (v. fig. 36), con i progetti della sistemazione dell'Adda e del canale della Martesana.

Ciò dimostra come gli studî vinciani si avviassero a soluzioni pratiche, a giudizio del Beltrami che ha illustrato questa fatica di L.; mentre il Baratta ha rivolto le sue ricerche a illustrare gl'importanti schizzi topografici e itinerarî delle valli dell'Oglio, del Serio, Brembana e Trompia (v. fig. 31). Queste località furono, nel 1509, campi di battaglia, e L. ricorda il "posto di Cassano" sull'Adda che si collega con la guerra di Luigi XII contro Venezia. È certo che il 28 aprile 1509 il Vinci era attorno alla soluzione di un problema di geometria ed è lieto di averlo risoluto; in una scheda del Cod. Atl. annota: "Navilio di San Cristofano di Milano facto addì 3 di maggio 1509".

Senza dubbio in quest'ultima permanenza nella città lombarda L. poté raggiungere una posizione più tranquilla: era ormai vicino alla sessantina, e non ci fa meraviglia di trovarlo a spendere le sue cure per la vigna, mentre nell'agosto sorvegliava forse il giovanetto Melzi che "cavava de relevo" una testa di vecchio, e nell'ottobre si occupava degli stalli del duomo. Poco dopo si ridesta più acutamente in lui il desiderio degli studî anatomici (v. p. 887 segg.): cominciati, come abbiamo visto, nel 1489, e seguiti ininterrottamentc a Firenze e di nuovo a Milano, quivi riprendono vigore per l'incontro col giovane professore di anatomia Marcantonio della Torre (1510). Fa piani di libri e tracciati d'idraulica, di meteorologia, di cosmografia e d'astronomia, di cui si vedono cosparsi i fogli dei codici di questa età: in alcuni dei quali si accennano località del Piemonte visitate da lui il 2 gennaio 1511. Ma gli avvenimenti politici precipitavano, la lega di Cambrai con l'umiliazione di Venezia aveva ottenuto il suo scopo, Giulio II prosciolse la repubblica dalle censure il 25 febbraio 1510, e diede inizio alla formazione della Lega santa che condusse all'espulsione dei Francesi. Scomparso lo Chaumont, il protettore di L., nel febbraio del 1511; Gastone di Foix trovò a Ravenna la vittoria e la morte; e subito dopo (giugno 1512) comparvero minacciosi gli Svizzeri del card. Schiner, sostenitori degli Sforza. Che cosa abbia fatto a Milano L. durante la restaurazione di Massimiliano, non sappiamo; vi abitava il 25 marzo 1513 con il magnifico Prevostino Viola e sappiamo che si occupò degli stalli per il coro del duomo: ma la nuova dell'elezione di Leone X, avvenuta proprio allora, deve aver riaperto a nuove speranze l'animo del Fiorentino, amico di casa Medici: nell'aprile era ancora a Milano, il 24 settembre 1513 L. s'incamminava verso Roma "chon Giovanfrancesco de Melzi, Salaì, Lorenzo e il Fanfoia".

Leonardo a Roma (1513-1516). - Più che al servizio del papa, L. veniva agli stipendî del fratello di lui Giuliano de' Medici. Incontri con i fratelli Giuliano e Giovanni de' Medici devono essere avvenuti alla corte del Moro nel 1496; forse L. vide il cardinale Giovanni prigioniero e poi fuggiasco dopo la battaglia di Ravenna. In viaggio per Roma il Vinci si fermò a Firenze per regolare i suoi conti e nel dicembre del 1513 è in Vaticano. A Roma rivide il Bramante, Luca Pacioli, professore alla Sapienza dal settembre, e poi fra Giocondo da Verona, Giuliano da Sangallo, Raffaello; tutti impegnati in quel fervore di attività edilizia, scientifica e specialmente artistica che caratterizza l'età di Leone X. È facile comprendere come L. poté allacciar conoscenze con prelati della corte pontificia, quali Baldassarre Turini da Pescia, per cui dipinge due quadri, ora smarriti; e G. Battista Branconi di Aquila, al quale aveva prestato il suo trattatello De vocie (v. figure 36, 37). In Roma, secondo il Croce, che si fonda sul poemetto di Enea Irpino, L. dipinse il ritratto di Costanza d'Àvalos identificato da A. Venturi nel ritratto della Gioconda. Accanto a questi amici L. trovò strani oppositori in quei due artefici tedeschi Giorgio e Giovanni, posti da Giuliano ai suoi stipendî. Contro uno dei due egli protestò più tardi in un lungo esposto al suo protettore. Le denunzie del tedesco Giovanni degli Specchi, al papa, che gl'"impedì l'anatomia"; la passione di L. per le miscele e le sue elucubrazioni scientifiche a detrimento dell'attività artistica devono avere provocato il giudizio poco favorevole di Leone X che l'avrebbe espresso nella nota esclamazione, di fattura del Giovio probabilmente, la quale richiama pure l'altro apprezzamento non lusinghiero del Castiglione. Ma a Roma L. terminava (7 luglio 1514) il De ludo geometrico e studiava Archimede, sulle tracce dei codici visti nel 1502 nella Biblioteca Urbinate. L'accenno dei "nichi" di Monte Mario costituisce il primo ricordo di una fauna fossile anche nei colli Vaticani, e l'inizio di studî geologici illustrati dal Baratta e dal De Lorenzo. A Roma scriveva pure gran parte del codice G, fonte importante del Trattato della pittura. Le brevi assenze di L. nell'Italia settentrionale, nel secondo semestre del 1514, quando anche Giuliano era fuori di Roma, sono forse motivate da interessi privati: è a Parma il 25 settembre 1514, e poi a Sant'Angelo sulla riva del Po, ed era probabilmente ritornato ai suoi studî in Roma il 14 dicembre 1514, quando la cognata Lesandra chiedeva notizie di lui. Altre gite a Tivoli, a Villa Adriana, hanno piuttosto uno scopo scientifico per rilievi architettonici, condividendo la nota passione del Bramante e di Raffaello; L. si occupò anche di un progetto per la "stalla del magnifico".

Per lo stesso Giuliano de' Medici preparò lavori intorno alle Paludi Pontine (v. fig. 38), per cui disegnò una delle più importanti carte geografiche dove sono tracciate linee che accennano a direttive per una complessa sistemazione di bonifiche. Gli studî erano forse cominciati ai primi del 1515; L. doveva lavorare d'accordo col geometra comasco fra Giovanni Scotti. Ma il 17 marzo 1516 moriva a Fiesole Giuliano de' Medici; e L., privo del suo protettore, deve aver cercato d'ingraziarsi Leone X: si potrebbe riferire a questo tempo l'andata a Civitavecchia (v. fig. 39) per progetti di fortificazione, in concorrenza forse col Sangallo, e lì lo avrebbe attratto lo studio del movimento ondoso del mare, cominciato qualche anno prima a Piombino. Ma non gli giovarono nè la scarsa attività pittorica riconosciuta in questo tempo, né i varî personaggi di cui ricorrono i nomi negli appunti vinciani; morti i suoi coetanei, egli si vedeva preferire giovani pur valentissimi, quali Raffaello e Michelangelo; e alcuni ritengono che proprio la mancata allogazione della facciata di S. Lorenzo di Firenze data al Buonarroti lo avesse deciso ad abbandonare Roma. Quivi a ogni modo lo troviamo fino all'agosto del 1516, intento a misurare la basilica di S. Paolo.

Leonardo in Francia. - La seguente nota del f. 103 r. del Cod. Atl., ci attesta l'allontanamento di L. da Roma e la sua presenza in Francia nel vecchio possesso dell'estinto amico Luigi di Lussemburgo, conte di Ligny: "dì dell'Ascensione in Anbosa 1517 di maggio nel Clu (Cloux)". Come L. abbia preso contatto con la corte di Francesco I, e che l'abbia incontrato a Bologna, è ipotesi del Müntz seguita dal Solmi; certo il contorno di amici francesi che il Dorez ha illustrati, e fra gli altri quel Jean Perréal (Giovanni Francese), può aver aiutato il Vinci, stanco ormai, a cercare quest 'ultimo rifugio dove godé meritato riposo per i suoi diletti studî, una pensione annua di mille scudi, oltre ad appannaggi per il fido discepolo Melzi e per Salaì. Quando il cardinale Luigi d'Aragona visitò L., il 10 ottobre 1517, sembrò al segretario Antonio de Beatis che il pittore fosse vecchio "de più di LXX anni": invece ne aveva 65. La sua mano destra, che pure non era stata affaticata, era già inesorabilmente colpita da paralisi. I visitatori ammirarono tre quadri; un ritratto di una "certa dona fiorentina facta di naturale ad istantia del quondam magnifico Juliano de Medici [la cosiddetta Gioconda]. L'altro di San Joane Baptista giovane, et uno dela Madona et del figliolo che stan posti in grembo di S. ta Anna, tucti perfettissimi". Il maestro disegnava ancora, ma soprattutto insegnava a Francesco Melzi. Più che a opere di pittura, del resto, L. in Francia dovette abbandonarsi alle sue preferite meditazioni. La protezione affettuosa di Francesco I per il sommo artista è ricordata più tardi con grandi elogi dal Cellini. A Cloux il Vinci ritornò sugli studî di matematica e di idraulica. Devono appartenere a questo ultimo tempo disegni architettonici e progetti per una "mutazione di case" (v. fig. 40); e se non intervenne personalmente, dovette forse dare suggerimenti per le feste di corte per il battesimo del delfino e per il matrimonio di Lorenzo de' Medici, duca d'Urbino, con Maddalena de la Tour d'Auvergne, nipote del re. L'ultimo appunto scritto in Francia è nel f. 249 r. del Cod. Atl. ed è come un ricordo del suo S. Giovanni "a 24 di giugno, il dì di S. Giovanni 1518 in Ambuosa, nel palazzo del Cloux".

Il 19 aprile dell'anno seguente L. sentì avvicinarsi la fine e, valendosi di un privilegio concessogli dal re, dettò il suo testamento pieno di bontà, nel quale dopo le disposizioni dei funerali in S. Fiorentino legò al Melzi "tutti et ciaschaduno li libri che el dicto testatore ha de presente, et altri Instrumenti e Portracti circa l'arte sua et industria de Pictori"; e fra altri legati assegnò la vigna o giardino di Milano al Salaì; concesse ai fratelli la proprietà paterna per cui aveva sostenuto tenace lite, diede loro anche i denari depositati a S. Maria Nuova. Il Melzi, fra le cui braccia L. morì il "2 di maggio con tutti li ordini della Santa Madre Chiesa e ben disposto", ne comunicò la perdita con lettera del 1 giugno a "Ser Giuliano e fratelli suoi honorandi" invocando la quiete eterna da Dio, da cui L. non si era mai distaccato; a ogni modo verso Dio e la religione egli si orientò più sicuramente sul declinare della vita. Fu seppellito, come volle, nella chiesa di S. Fiorentino, ma già nella seconda metà del sec. XVIII le ricerche del benemerito vinciano consigliere Venanzio de Pagave, per identificare il sepolcro, riuscirono vane; si poté anzi accertare che durante le guerre degli ugonotti la chiesa era stata devastata e le tombe violate: né molto persuasiva è la relazione di ulteriori indagini fatte nel 1863 da A. Houssaye che pretese di avere identificato prima il teschio e poi lo scheletro di L. Più che al marmo, la fama del grande fiorentino è affidata alla sui opera immortale.

L'arte di Leonardo. - Nel tempo della dimora di L. a Vinci s'era manifestata la sua vocazione per le arti belle così vivamente da rendere indispensabile la scelta per lui d'un maestro, di un grande maestro. Essa cadde sul Verrocchio, artista caro ai Medici, scultore, che parve prendere a Donatello la successione di gloria; pittore, degno di essere contrapposto ai Pollaiuolo. Dopo un breve tirocinio, L., pure restando nello studio del Verrocchio, fu matricolato nella Compagnia dei pittori.

Ai tipi e alle forme di Andrea Verrocchio, L. si attenne nelle sue prime prove, ma tutto raffinando, con segni lievi, non mai ricalcati e grossi come quelli del maestro, avvivandoli, infondendovi spirituale finezza. Tutti si ammorbidisce nella forma leonardesca; ogni asprezza si dissolve; le luci piovono trasparenze, toccano di riflessi di perla le cose; e l'aria circola tra esse, le bagna, le avvolge teneramente. Prima che lo sfumato leonardesco venisse a dare penetrazione della forma, ogni modello del Verrocchio era trasportato da L. su una scala di delicatezza, di finezza, d'intensità ideale.

Della collaborazione col Verrocchio si hanno tracce ben note, nella pittura del Battesimo nelle Gallerie di Firenze, nell'angelo a sinistra in primo piano, e nel paese dietro il suo capo, dove non è l'opaca grama legnosità della forma del Battista e delle rocce che gli sorgono appresso. Ben più agile, grazioso dell'altro dipinto del Verrocchio, è l'Angelo dolcemente inchino, con un sorriso sui lineamenti femminei più distesi, senza l'arricciatura e l'archeggiarsi dei tipi verrocchieschi, e il paese, su cui stacca la bionda testa, non è a schegge di legno, a lamelle, a stratificazioni, ma un compendio di luoghi mutevoli, di poggi, di rive, di colli bagnati dall'atmosfera. Siamo lontani dalle morbide superficie delle figure leonardesche, qui ancora maiolicate, come dalle fantastiche valli alpine della Gioconda e della Sant'Anna; ma già si rivela il superamento idealistico delle forme del maestro.

L'intervento del grande aiuto si palesa anche nella Donna dalle belle mani, scultura assegnata al Verrocchio nel Museo nazionale di Firenze, dove in alcune parti si scorge uno scalpello che nobilita quel che tocca, che sfiora come piuma il marmo, che par dare vene azzurre, sensibilità alle mani: e là è il discepolo, maestro più del maestro. Ogni forma perde la sua crosta di durezza per mostrare la fine serica superficie. Non sembra altrettanto agevole riconoscere la cooperazione di L. nel monumento a Cosimo padre della patria in San Lorenzo a Firenze; ma chi osservi l'architettura e la decorazione verrocchiesca, p. es. nel lavabo della sacrestia di quella chiesa, s'accorge facilmente che le masse pesanti dello scultore non sono nella tomba medicea, venuta a interrompere la tradizione dei monumenti funebri fiorentini. Non un arcosolio, non un'arcata sul sarcofago, ma una grata con groppi di fune, i groppi cari a L., e un sarcofago dove le cornici sono tirate con una purezza, una sottigliezza stragrande, quasi tagliate in pietra preziosa. Questo è nuovo per l'arte italiana.

Durante la collaborazione con il Verrocchio, la personalità di L. viene disegnandosi sempre più grande, e, pur nei primi anni del suo tirocinio, la forma, non interamente sciolta da rapporti con il maestro, lo supera, tanto nel ritratto muliebre, ornamento della galleria Liechtenstein a Vienna, nell'Annunciazione degli Uffizî e in quella piccola del Louvre, quanto nella Madonna del garofano, appartenente alla Alte Pinakotek a Monaco di Baviera. Tutte queste pitture furono attribuite al Verrocchio o a Lorenzo di Credi per una incomprensione dei caratteri del primo e dei limiti ai quali giunse l'arte del secondo, mite verrocchiesco, chiuso in un mutismo religioso, sempre delicato nella monotona purezza delle sue pitture, nella calma dell'opera senza slanci fantastici, lontano dall'ansia indagatrice dello spirito di Leonardo, dalla rapidità fulminea dei suoi disegni. Per il ritratto di gentildonna fiorentina della galleria Liechtenstein a Vienna, basterebbe, a far gridare il nome di L., l'accordo tra il colore malaticcio delle carni e la chiarità smorta del cielo, su cui s'intrecciano, formando il velario caro al Vinci, le aghiformi foglie del pino. Per l'Annunciazione, già nella badia di Monte Oliveto presso Firenze, la scoperta di un disegno, nel Christ Church College di Oxford, ha servito a cancellare le vecchie attribuzioni. Ammessa quest'opera, si è dovuta accogliere l'altra piccola Annunciazione della Galleria del Louvre. Non altrettanto facile è giungere al riconoscimento della mano di L. nella Madonna col Bambino della Galleria di Monaco di Baviera, per quanto siano palesi le somiglianze con l'Annunciazione degli Uffizî e con i nebulosi fondi paesistici di cui egli si compiaceva.

Col quadro di Monaco si chiude il periodo della pratica dell'arte nello studio del Verrocchio; ma già nella piccola Annunciazione, come in quella Madonna, si avverte la prima applicazione dello sfumato che disperde la linea, e ottiene con lo sgranare dei contorni l'atmosfera, con l'oscillazione dell'ombra e delle luci il substrato delle cose, l'architettura interiore, quasi il battito della vita. Nel 1478, L., in piena libertà artistica, dipinge la Madonna del fiore, ora all'Ermitage di Leningrado, la quale unisce alla reminiscenza ancora chiara della pratica di lui con il Verrocchio, l'applicazione dello sfumato. È probabile che contemporaneamente dipingesse la Madonna del gatto, tanta è la correlazione compositiva dei disegni di essa con la Madonna del fiore, entrambe ideate entro lo spazio centinato con una finestrella ad arco pensile nel fondo. Ma sono molto scarsi gli elementi dell'attività artistica di L. prima del 1481, in cui gli fu allogata l'Adorazione dei Magi dai frati del convento di San Donato a Scopeto. Modellò forse un busto muliebre, come fa fede il disegno della Royal Library di Windsor; alla fine del 1479, fissò con la matita il ricordo della spaventosa figura dell'uccisore di Giuliano de' Medici, Bernardo di Bandino Baroncelli, impiccato sulla facciata del palazzo del podestà; colorì una Madonna adorante il Bambino, e un'Adorazione dei pastori, come si può supporre per via dei disegni del Metropolitan Museum di New York, dell'Ambrosiana, della Royal Library di Windsor, dell'Accademia di Venezia, della Kunsthalle di Amburgo. Inoltre lasciò un San Girolamo, incompiuto, ora nella Pinacoteca Vaticana, e probabilmente eseguì un San Sebastiano, per il quale si hanno disegni nella Kunsthalle di Amburgo e nel Museo Léon Bonnat di Bayonne.

Nell'Adorazione dei Magi dei frati di San Donato a Scopeto, quadro incompiuto, ora nella Galleria di Firenze, L. rappresentò il sussulto di gioia dell'umanità alla venuta del Redentore, un impeto d'ardore verso Dio. Il fanciullo emana luce dal corpicciolo divino: i re magi gli si avvicinano con sacro timore, sentendone la soprannaturale grandezza: i pastori, trasfigurati dall'entusiasmo, sembrano discesi dal mondo degli eroi. A sfondo della scena sono rovine di loggiati e di palazzi, ambiente storico della Natività, segno del gentilesimo, e tra i ruderi dell'antico l'odio, la lotta, il male, a contrasto con l'umanità assorta alla buona novella di pace. La capanna è caduta, l'asino e il bue scompaiono; alla Vergine forma nicchia e riparo la folla commossa che la luce trae dall'ombra della sera. Le forme degli adoranti serbano il fluttuante contorno che hanno nel disegno Galichon; ma il gruppo è divenuto folla, e in essa ogni figura, ogni lineamento delle teste sollevate, ogni ciocca di capelli, ogni mano sporta è una fiammella, un foco fatuo che s'allunga e serpeggia nell'ombra: tremolio di luce che s'acquieta nel fermo splendore della Vergine, foco del gruppo. L'effetto notturno s'accentua a destra ove le figure si piegano, s'allungano, si rannicchiano, variando all'infinito il vacillare delle luci. Tra la Vergine che stringe fra le braccia il Bambino e la folla ondeggiante, si frappone un intervallo d'ombra: il re offerente si ferma al limitare della cerchia, che forma aureola alla Divina, e solo avanza prostrato un altro re, baciando la terra, nel sacro recinto. Arbusti al vento, cavalli torneanti, ruine sospese su fragili archi formano lo sfondo. L'Adorazione dei Magi fu lasciata incompiuta da L. a causa della sua partenza per Milano.

Il 25 aprile 1483 fu allogata dagli scolari della Concezione a L. e ai fratelli Ambrogio ed Evangelista de Predis la tavola della Vergine delle rocce, e il quadro, ora nel museo del Louvre, ci mostra la Vergine con Gesù, il Battista e un angelo entro una grotta, fantastico scenario d'ombre, costruzione bizzarra di rocce a lastre e a stalattiti, aperta da squarci verso la luce lontana del tramonto. Le rocce raccolgono un chiarore velato intorno al gruppo, mentre la luce del cielo nebbioso, verdognola, acquea, si ritrae lontano, sopra un fantastico mondo di picchi immersi nelle brume. La testa della Vergine, più lontana dal limitare della caverna e dalla luce, appare come traverso un velo di bruma: i contorni dei lineamenti si smarriscono, sfumano: le carni, le dense palpebre, hanno vellutata morbidezza di felpa; la fibbia, che chiude il manto, è la stessa che orna la Vergine a Monaco e a Leningrado, ma gemma e perle ora si disfanno nella luce, vivono solo dello splendore che ne corrode la forma. E lo spiro malinconico della sera penetra il sorriso della Madonna, vago, incerto, sfumatura aggiunta alle sfumature del giorno morente. Il rilievo sboccia dove la luce sfiora le cose, svanisce dove l'ombra le inghiotte: perduta ogni definizione architettonica, la forma si assimila, col suo movimento instabile e morbido, al fluido creato dall'ombra della grotta e dai bagliori d'oro che ne traversano i veli. Sempre più, nell'arte di L., il colore perde importanza tra le luci che penetrano dalle acque e dal cielo.

Seconda grande opera pittorica del periodo milanese è il Cenacolo nel refettorio delle Grazie, mutilato, offuscato, guasto dal tempo e dagli uomini. La volticella bramantesca, con le vele riunite da una fibula a foggia di stella, fu trasformata in base a effetti pittorici per opera di L., che certamente ideò le bianche faville sparse su fondo azzurro: fuse in un solo organismo quel lembo di firmamento stellato e l'affresco della Cena, cielo e parete. Le tenui concavità delle vele raccolgono l'ombra che nella sala del cenacolo si diffonde e smorza il rumore dei gesti degli apostoli, si commenta l'abbandono rassegnato di Cristo: il tradimento s'annuncia nel mistero della sera imminente. Nell'ampia sala gli apostoli si affollano, a contrasto col livino isolamento della vittima nel fondo bianco rosato di cielo; e i gruppi triplici s'innalzano e si abbassano nell'impeto dell'indignazione e del dolore, onda su onda, mentre il divino maestro, ingrandito dalla solitudine mistica, dalla calma triste e profonda del gesto, afferma senz'ira il tradimento e l'imminenza del martirio. L'eco delle parole: "uno di voi mi tradirà". Corre per la tavola nel lungo brivido che muove i flutti gli apostoli. Giuda, confuso tra la folla, scaglia di lontano, indietreggiando, un rapace sguardo alla vittima, centro della scena, divino fantasma sul velo di una luce morente. Dal 1483, data dell'allogazione della Vergine delle rocce, al 1497 data del Cenacolo, l'attività del maestro fu multipla, varia, stragrande. Alcuni documenti ci dicono ch'egli attese alla decorazione del Castello sforzesco, e se ne trovarono tracce nella Sala delle Asse; altre notizie assicurano ch'egli ritrasse Cecilia Gallerani e Lucrezia Crivelli, amanti di Ludovico il Moro; la prima "in età sì imperfecta" fu certo dipinta da L. poco dopo il suo arrivo a Milano, la seconda nel 1497. Il ritratto del Museo del Louvre, la Belle Ferronière, non può corrispondere né all'una, né all'altra; neppure quello della Dama dall'ermellino della galleria Czartoryski di Cracovia: ritratti eseguiti da L. all'inizio del suo soggiorno nella metropoli lombarda. Fra i suoi disegni se ne vedono parecchi relativi a un San Giorgio sul drago: lo studio per la composizione della Leda si trova tra altri di cavallo, così che si potrebbe supporre fosse stata eseguita mentre L. pensava alla costruzione del grande monumento equestre di Francesco Sforza. L'opera demolitrice del tempo distrusse quasi compiutamente le immagini di Ludovico il Moro, di sua moglie Beatrice d'Este e dei loro figlioletti, dipinte dal grande fiorentino nella Crocifissione del Montorfano, di fronte al Cenacolo.

La fantasia del maestro non ha riposo, la scienza ne segue i voli; abbozza egli un San Giorgio? interviene la scienza a studiare i movimenti degli animali in rapporto alla loro lunghezza e alla loro grossezza. Disegna fiori? e l'osservazione s'indugia sugli stami e sui pistilli. La fervida fantasia, anche assorta in un'idea, s'interrompe per seguirne altre differenti, svariate. Nel foglio, ove son disegni di torchi, riprende il tema della Vergine adorante il Bambino; in un altro, ov'è un primitivo studio per un Cenacolo, disegna un igrometro: in quello in cui delinea per la Coena Domini la testa supposta di Jacopo Maggiore, immagine di raccapriccio e di spavento, traccia un grande edificio fantastico per le torri rotonde del castello di Milano: e in un foglio di Windsor (n. 12.326 verso), dove ha abbozzato a penna e a carbone la testa del cavallo per il monumento allo Sforza, mette disegni e calcoli sulle apparenze della luna.

Gli studî numerosi per il monumento equestre a Ludovico il Moro ci mostrano lo Sforza col bastone del comando in atto di lanciare un ordine alle sue schiere, indietreggiando a contrapposto con la curva rientrante della testa del cavallo, col manto arrovellato dal vento, pieno di slancio nel grido di battaglia. Il modello, come è noto, fu eseguito in creta, ma per la grave difficoltà della fusione in bronzo, "non ebbe perfectione" e andò distrutto. A Mantova, L. fu accolto dalla marchesana Isabella d'Este Gonzaga, della quale abbozzò il ritratto a carbone, oggi nel museo del Louvre: morbido volto che dall'ombra lieve trae mobilità di carne, velata grazia. L. non mise a colori il ritratto, secondo le promesse, ma eseguì invece, con tutta probabilità nel 1501 o poco dopo, quello supposto da A. Venturi il ritratto della vedova di Federico del Balzo, dell'eroica donna che difese strenuamente l'isola d'Ischia e concorse, insieme con il Gran Capitano, alla ripresa di Napoli: Costanza d'Avalos. Sotto il nome fantastico di Gioconda, la duchessa di Francavilla, in costume vedovile, in "negro velo", si presenta a noi come la vide nel ritratto un verseggiatore che vagheggiava la gran dama, Enea Irpino da Parma. Cade sul viso e sul petto della gentildonna fioca la luce, ma di un grado più intensa che nelle parti più chiare del fondo, tanto da mettere in risalto l'immagine in blando atteggiamento. Al celebre vago sorriso s'accorda il velato paese, che dell'immagine è commento ed eco nella mutabilità delle ombre, nelle brume che ci sottraggono le linee dei contorni. Leonardo che parlava d'immagini affinate dall'atmosfera di un giorno piovoso, avvolse Costanza d'Avalos come entro vapori acquei; egli che amava le cose vedute traverso il fascino malinconico della sera, dipinse la donna in un effetto serotino. Tutto, nel volto, scolora, anche le labbra: appena si scorge la vitrea luce degli occhi castani. E il paese, sfiorato da un rosso barlume nel primo piano, affonda di grado in grado in un tenebrore azzurrognolo di acque e cielo.

Circa al tempo in cui fece il ritratto di Costanza d'Avalos, L. ebbe allogazione da Pier Soderini del David, poi affidato a Michelangelo, compose il cartone per la Sant'Anna, condotta in pittura al termine della sua vita mortale. "Altro non ha facto", scriveva frate Pietro da Nuvolara a Isabella d'Este Gonzaga, "se non che dui suoi garzoni fano retrati et lui a le volte in alcuni mette mano: dà opra forte ad la geometria, impacientissimo al pennello". Il frate stesso soggiungeva in altra lettera, che L. per il Robertet "favorito del re di Francia" faceva una Madonna seduta "come se volesse annaspare fusi, e il Bambino, posto il piede nel canestrino dei fusi, ha preso l'aspo, e mira attentamente quei quattro raggi, che sono in forma di croce, e come desideroso di essa croce ride, e tienla salda come non la volendo cedere alla mamma, che pare gliela voglia torre".

Tra gli studî per la Battaglia d'Anghiari, uno nella biblioteca reale di Windsor, ci mostra come L. intendesse servirsi delle scatenate forze della natura per esprimere la pugna, coinvolgere la mischia degli uomini nella mischia dominante degli elementi. Un altro disegno della stessa biblioteca rappresenta ondate d'uomini, minuscole forme, che si confondono come spruzzi di spuma, mentre un gruppo di cavalli nel centro è scagliato da uno scoppio nell'aria. In un altro disegno il combattimento si svolge in grappoli d'uomini e di cavalli convulsi, ritorti in giri di serpi, travolti da furie d'uragano, come gli alheri sotto la sferza dei venti e le medusee chiome delle nubi. La battalia si estende dalla lotta tra uomo e uomo all'agonia delle piante e degli esseri, al turbine dei venti, allo scoppio delle tempeste. Compimento di tanti mirabili studî, la grande pittura si perdette in sul nascere, per la prova infelice di riadottare la tecnica dell'encausto, secondo Plinio. Fatto è che L. interruppe il lavoro nel 1505, né più lo riprese.

Il magico pittore, che nei disegni sprigiona il movimento dalla terra, dalle piante, dagli esseri, studiò a lungo il movimento nelle azioni umane, in tanti fogli disegnati quasi al tempo stesso degli studî per la battaglia d'Anghiari: è tutto un formicaio umano in moto, a portare macigni, a tirare funi, a lavorare la terra, a fabbricare navicelle, a potare alberi. Tutto si avviva sotto gli occhi di L.: anche la materia inorganica si anima, si popola di fantasmi nelle vibrazioni infinite della luce e dell'ombra. La vita, che il grande pittore imprime alle piante con la polverizzazione della luce traverso il denso fogliame e i tronchi, anima anche le rocce, che sì presentano talvolta a scaglioni incalzantisi come onde di pietra viva.

Intorno al i507, L., a Milano, divisò per il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio un sepolcro composto da un basamento di otto colonne con i capitelli di metallo; otto statue all'intorno; sul basamento la statua equestre, tra figure, trofei e candelabri retti da arpie. In un primo disegno, ideò un grande mausoleo, con l'immagine del maresciallo sul destriero impennato, più tardi pensò il monumento a ridosso d'una parete, fra trofei, con il sarcofago nel mezzo, e sopra l'edicola funebre la statua equestre del Trivulzio, che balza con guerresco furore sul combattente caduto. Ma poiché tutto quello slancio del cavaliere, tracciato a volo sul monumento all'aperto, sul fondo di cielo, non era proprio di statua equestre staccata da una parete, L. segnò in un ultimo studio il maresciallo in armi col bastone del comando sul quadrato monumento funebre, ove la salma giace distesa sul sarcofago. Per quanto il monumento non abbia avuto esecuzione, egli giustamente poteva dire d'avere esercitato la scultura e la pittura in un medesimo grado. Era troppo profondo perché le sue opere trovassero forma pratica, concreta, e restassero a rivelarci con compiutezza i suoi occhi sempre in moto a scrutare i misteri delle cose e degli esseri, l'immensità dei suoi orizzonti, la penetrazione nei segreti della bellezza, i magici presentimenti dell'avvenire della scienza.

L'attività artistica di L. durante il secondo periodo milanese e il periodo romano rimase oscura. Baldassare Castiglione scriveva di lui, circa il 1514: "Un altro de' primi pittori del mondo sprezza quell'arte dov'è rarissimo ed essi posto ad imparar filosofia: nella quale ha così strani concetti e nove chimere, ch'esso con tutta la sua pittura non sapria dipingerle".

Può credersi che con l'inoltrare dell'età la scienza prendesse sopravvento sull'arte nell'attività leonardesca. S'approfondì il maestro nelle ricerche della prospettiva e delle proporzioni del corpo umano, nell'ottica e nell'anatomia, nella meccanica e nell'idraulica, nella cosmologia e nella geologia, ecc.

Durante il soggiorno in Francia compì la pittura del San Joanne Baptista jovane e l'altra, già iniziato a Firenze nel 1501, "della Madonna et del figliolo, che stan posti in gremmo de Santa Anna". Questo quadro, ora al Louvre, ha il cielo azzurrino, pallido e freddo, l'orizzonte vago, nebbioso, le rocce lontane a contorni indecisi. Sotto il cielo dilavato, tra pallidi veli d'acque, il frastaglio delle rocce si anima di riflessi: solo accento in quella smorta dolcezza di lume un albero contro luce, tra le cui frappe scure brilla l'ultimo bagliore del crepuscolo. Il bambino, scivolato dalle ginocchia di Maria a terra, e in procinto di mettersi a cavalcioni dell'agnello, interroga la madre, che, seduta sul grembo dell'ava, lo sostiene con la molle catena delle braccia: la testa di Sant'Anna, vetta del gruppo, si assimila, per il frastaglio delle ciocche, dei veli, alle punte delle velate rocce lontane, e tutto il gruppo s'intona alla caligine sorgente dalle acque, e alle dentellature vaporose delle Dolomiti. Il pittore si preoccupa soprattutto d'immergere le cose nell'atmosfera mossa dalla luce e dall'ombra, di rendere quasi insensibile la differenza fra i toni della piramide umana e del fondo di rocce. Sant'Anna è avvolta da un'ombra alquanto più fitta che le parti ombrate delle rocce dietro il suo capo; Maria e il Bambino riflettono un lume appena più chiaro, d'eburnea delicatezza. I lineamenti del piccolo Gesù nella Madonna delle rocce traggono risalto da profondità d'ombre: la testa del Bambino nella Sant'Anna sembra modellata in un plasma aereo. Tutto è rappresentato in tono minore: il paese fantastico, di azzurricci scogli, di laghi smorti, appena si schiara sui denti delle montagne; le ombre non prendono alcun sopravvento, nel volto della Vergine: la luce diffusa stinge i colori: lo sfumato diviene più prezioso, più lieve.

Nel San Giovanni Battista, ora al Louvre, L. rinuncia alla parziale ombra raccolta da uno schermo intorno all'immagine, come alla sommessa luce diffusa nel paese della Gioconda e della Sant'Anna: il campo è tutto nero, e la forma, al richiamo della luce, affiora dall'ombra che segue la spira del corpo efebico e s'addentra nei cavi del volto, mossa dal fugace vibrare del sorriso. Senza più ossa e nervi, la forma è morbida massa che l'atmosfera assorbe e sfuma.

Con quest'opera chiuse la vita in Francia il genio immortale, il prifeta del Rinascimento, che, uscito dalla Firenze della linea e della forma plastica, sognò un nuovo mondo pittorico immerso nel mistero dell'ombra, mutevole come l'atmosfera e la luce. Tutte le arti rappresentative attrassero la sua immaginazione creatrice: nell'architettura, pur non affermando uno stile personale, segnò la tendenza a un rigoroso centralismo, a un organismo puro, logico, matematico; nella scultura, volle attuare il movimento, quando ideò le statue di Francesco Sforza e del maresciallo Trivulzio; ma più fu attratto dalla pittura e più dal disegno, presto al balenio del movimento.

Nel Rinascimento unificatore delle attività umane, arte significò scienza, arte significò verità di vita: vi prese figura e grandezza L. assuntore dell'epico sforzo dell'arte italiana per la conquista dell'universale: lui che contrappose entro di sé l'ondeggiante sensibilità dell'artista alla profonda ragione dello scienziato, lui poeta e maestro.

V. tavv. CXXXI-CXLVIII e tavv. a colori.

L'opera scientifica. - L'opera scientifica di L., e in particolare i suoi originali contributi in quasi tutte le parti della meccanica dei solidi e dei fluidi, le sue invenzioni, restarono quasi completamente ignoti ai suoi contemporanei. Le ricerche compiute da centinaia di studiosi, di specialisti, la conoscenza di tutti i manoscritti a noi pervenuti e la loro quasi totale pubblicazione permettono oggi di poter avere un'idea esatta e completa di tutte le investigazioni di L. sulla scienza dei pesi e del moto, e sulle loro più importanti applicazioni; delle sue investigazioni geometriche; degli autori che studiò e dai quali attinse le conoscenze scientifiche dei suoi tempi; permettono di formarsi quindi un concetto chiaro del reale contributo da lui recato alla scienza e che vuole essere sempre valutato in relazione allo stato della scienza e della tecnica del sec. XV e che, giova ricordarlo, non ha quasi mai avuto, nei mss. vinciani, la sua forma definitiva; perché dei molti libri che L. si è proposto di scrivere sulla scienza del moto, sulla misura delle acque, ecc., non ha mai scritto nulla.

Ricerche geometriche. - Esse specialmente riguardano: a) le ricerche sulla quadratura delle lunule; b) sulla trasformazione dei solidi; c) su argomenti varî (problema di Alhazen; costruzione di curve speciali e di poligoni; geometria del compasso; geometria del tetraedro, ecc.).

È prima di tutto da osservare che le conoscenze matematiche di L. non furono mai molto estese; dopo avere appreso in Firenze le prime regole degli abachisti, egli acquistò a mano a mano perizia e speditezza nel calcolo delle frazioni e delle radici, specialmente per l'influenza, in Milano del suo amico Luca Pacioli.

Malgrado qualche accenno, nei mss., a questioni di algebra, o, come allora si diceva, di arte cossista, non risulta che di tale scienza, ancora ai suoi inizî, egli si sia occupato. L. è più inclinato, seguendo il costume dei tempi, allo studio di questioni geometriche; e tutti i suoi appunti infatti lo rivelano studioso di Euclide e di Archimede. Per altri classici greci egli si poté valere di enciclopedie assai comuni e in voga ai suoi tempi come quella De expetendis et fugiendis rebus (1501) di Giorgio Valla.

a) Per quanto riguarda le ricerche sulla quadratura delle lunule, L. [Cod. Atl., 45 v. a) accenna di avere cominciato a scrivere il libro De ludo geometrico; e poi di averlo terminato il 7 luglio 1514 in Roma. Non è improbabile siano state iniziate durante il secondo soggiorno fiorentino. Queste ricerche, che occupano fittissime pagine del Cod. Atl., traggono la loro origine dalla prima famosa lunula d'Ippocrate relativa al triangolo rettangolo isoscele (v. lunula); L. ne dà la ben nota generalizzazione a un qualunque triangolo rettangolo, senza forse sapere che essa è già contenuta in un'opera di Alhazen, fatta conoscere soltanto di recente. Si tratta sempre di quadrare, con metodi assai elementari e primitivi, ma tuttavia ingegnosissimi, delle figure intrecciate e a volta assai complicate e formate da lati rettilinei e circolari e da L. chiamate lunule, lunule falcate, bisangoli, ecc. Furono probabilmente ideate per scopi ornamentali e sono ottenute aggiungendo o togliendo da una figura base, che si sa quadrare, parti eguali; oppure sfruttando il principio del ribaltamento o simmetria rispetto a un asse, oppure della rotazione intorno a un punto. E si raggiungono risultati veramente semplici ed eleganti (fig. 48).

b) Notevoli problemi sulla trasformazione di solidi sanza diminuzione o accrescimento di materia e ai quali L. dà sempre un carattere pratico, erano stati oggetto di speculazione del cardinale Niccolò Cusano. L. riprende con maggiore ampiezza, nel Cod. Arundel fra gli altri, f. 178 v., 179 v., gli stessi problemi e molti altri ancora che si riducono alla risoluzione del problema di Delo (duplicazione del cubo o, più generalmente, inserzione di due medie proporzionali) che L. può avere appresa dall'opera, sopra citata, di Giorgio Valla.

c) Il problema di Alhazen (965-1030), o problema della incidentia, consiste nella ricerca del cammino percorso da un raggio luminoso per giungere da una sorgente all'occhio, dopo essers stato riflesso da una superficie sferica speculare. Era stato risolto, ma in forma complicata, dallo stesso Alhazen, alcune opere del quale, e in particolare quella sull'ottica, L. poté conoscere. Il problema, di quarto grado, e di cui la prima semplice soluzione è dovuta a C. Huygens, eccedeva di troppo le conoscenze geometriche di L. e dei suoi tempi. Tuttavia i suoi tentativi condussero L. a immaginare uno strumento, che è un primo ingegnosissimo esempio di applicazione di sistemi articolati, per mezzo del quale è possibile ottenere meccanicamente la soluzione esatta del problema (Cod. Atl., 181 r. a). Tale strumento, secondo le precise indicazioni di L., è stato recentemente ricostruito.

d) Le ricerche sui centri di gravità dei solidi (di cui diremo in seguito) hanno condotto L. alla scoperta di due eleganti teoremi sulla geometria del tetraedro; e precisamente: I. le rette che uniscono i vertici di un tetraedro coi centri di gravità delle facce opposte (e che L. denomina, ciascuna, assis) concorrono in uno stesso punto (centro di gravità del tetraedro) s'intersegano nel quarto della loro lunghezza di verso la base; 2. i segmenti che uniscono i punti medî degli spigoli opposti di un tetraedro, concorrono nel centro di gravità di esso e ivi si bisecano.

Non mancano accenni di problemi elementari risoluti con un solo aprire di seste; di divisioni del cerchio in 3, 6, 8, 24 parti eguali, in 9 e 18 e 5; il problema della inscrizione di un ottagono in un quadrato. Infine moltissime costruzioni approssimate di poligoni regolari, cognito il lato, alcune delle quali note ad autori arabi e forse empiricamente insegnate e correntemente applicate nelle scuole di disegno.

Da notare ancora le costruzioni di curve speciali, come l'ellisse dedotta dal cerchio (per affinità) e come applicazione del compasso di proporzione; la spirale d'Archimede detta linea reverticolare o reverticolo.

e) Leonardo si occupò altresì di ideare alcuni strumenti matematici: tali ad esempio il compasso di proporzione (fig. 49) o seste proporzionali (Cod. Atl., 248 r. a; Cod. Forster, I 4 r.); il compasso parabolico peltracciamento con moto continuo di una parabola (Cod. Atl., 394 r. a.) e infine il compasso ellittico o tornio ovale, apparecchio cinematico atto a tracciare con uno stilo fisso una ellisse sopra un disco o piatto in movimento.

La statica e la dinamica. - Di ben maggiore portata sono invece le investigazioni di L. su tutta la meccanica, e gli assicurano un posto eminente nella storia di questa scienza. La sua fonte maggiore di informazione, oltre i libri di Aristotele e di Archimede, sono i libri De ponderibus di Giordano Nemorario.

L. conosce quanto gli scrittori antichi e quelli dei suoi tempi hanno investigato sull'equilibrio della leva retta, tenendo o no conto del peso dei bracci della bilancia; egli quindi non fa che ripetere e applicare la ben nota condizione di equilibrio a numerosissimi casi particolari numerici. Egli del pari conosce da Giordano la condizione di equilibrio della leva angolare (Cod. Arundel, f. 32 v.). Considera inoltre il caso dell'equilibrio della bilancia triangolare, cioè di tre aste identiche girevoli intorno a un fulcro e formanti tra loro angoli eguali a 120°. Riprendendo in seguito la tradizione di Erone e di Giordano, si eleva al concetto di momento di una forza rispetto a un punto.

Da Giordano e da Biagio da Parma, L. deriva il concetto di gravitas secundum situm: il grave uniforme che discende per obliquo divide il suo peso in due aspecti; e che corrisponde a quello che noi ora diciamo di decomposizione di una forza secondo due direzioni. Ma è precisamente nel risolvere il problema delle tensioni dei due tratti di una corda sospesa a due punti e che sostiene un peso, che L. pel primo si occupa del problema della composizione di due forze concorrenti. La risoluzione data da lui è quella che si basa su due casi particolari del teorema dei momenti ch'egli ha scoperti; precisamente: sono eguali i momenti delle componenti del peso rispetto a un punto della risultante (Cod. Arundel, f. 1 v.); il momento della risultante (peso) è eguale a quello di una delle componenti (tensioni) rispetto a un punto dell'altra (ibid., f. 6 v.). E di questi teoremi egli sa abilmente valersi in svariati casi e problemi per l'equilibrio di sistemi con un punto fisso.

Parimenti da Giordano, L. trae la conoscenza della condizione di equilibrio su un piano inclinato, rimasta ignota alla meccanica greca; ma plasticamente la trasforma, precorrendo S. Stevin, in modo da renderla passibile di una elegante verifica sperimentale (Cod. H, f. 81 v.).

Dai problemi meccanici di Aristotele, L. trae le sue limpide considerazioni sulla stabilità della bilancia e da queste egli assurge alla scoperta del teorema sul poligono di sostentazione; e cioè che: se un corpo pesante poggia su un suolo piano, perché esso sia in equilibrio occorre che la verticale del suo centro di gravità abbia il suo piede nell'interno della base (Cod. Arundel, ff. 11 v., 95 r.; Cod. A, f. 33 v.); teorema di cui fa notevoli applicazioni.

Nella teoria dei centri di gravità L. ha compiuto il solo reale progresso ottenuto da Archimede in poi. Pur attenendosi alle definizioni e ai concetti di questo, egli ha considerato tre centri: della gravità naturale, accidentale e centro della magnitudine (gravità di volume o gravità d'un corpo omogeneo). Le cose più notevoli da rilevare sono: i calcoli esattissimi per la ricerca del centro di gravità di una mensola ossia area piana a forma di trapezio isoscele, diversi dal metodo di Archimede (Cod. Arundel, f. 17 v.); due metodi per la ricerca approssimativa del centro di gravità di un disco semicircolare omogeneo (Cod. Arundel, f. 215 v. e r.).

Nel caso infine dei corpi solidi L. ha assegnato il centro di gravità di un tetraedro, senza farci conoscere il metodo che lo ha condotto a tale scoperta, ma che può però presumersi, e ha del pari riconosciuto che in esso concorrono e vi sono bisecate le congiungenti i punti medî dei lati opposti. Ha assegnato altresì quello di ogni piramide, tonda, triangolare, quadrata o di quanti lati si voglia.

La teoria delle macchine semplici è pure oggetto di numerosi appunti dei mss. vinciani: la vite è in modo preciso assimilata a un piano inclinato. La teoria della puleggia fissa o mobile assimilata a una leva retta o angolare, conduce L. alla teoria dei sistemi di pulegge o taglie, di sistemi con una o due pulegge mobili; e le regole di L. furono poi ritrovate da Guido Ubaldo Del Monte (1577).

L. ricerca la pressione sulla carrucola e più generalmente si propone il problema della determinazione delle pressioni, di cui si occupa in numerosi casi particolari. L. in qualche caso applica correttamente il suo teorema dei momenti; in altri erra.

Nei mss. vinciani si trovano le prime ricerche ed esperienze su quella parte che noi ora chiamiamo resistenza dei materiali. Egli dunque ha preceduto di un buon secolo le ricerche famose di Galileo e ha, nelle sue investigazioni, seguito lo stesso metodo: e cioè, non conoscendo le proprietà elastiche della materia, il metodo di confronto delle resistenze. Volendo poi sottoporre le sue investigazioni teoriche al controllo dell'esperienza ha altresì ideato la prima macchina di prova per la resistenza dei fili metallici alla trazione.

Leonardo considera:

a) sostegni a forma quadrata o cilindri circolari posti verticalmente e la cui base superiore è uniformemente caricata, riconoscendo esattamente che la resistenza alla pressione è proporzionale alla superficie caricata e inversamente proporzionale al rapporto tra l'altezza e ìl lato del quadrato o raggio del cerchio base, mentre invece è inversamente proporzionale al quadrato di tale rapporto;

b) trave incastrata in un estremo e che nell'altro sostiene un peso;

c) travi poste orizzontalmente, a base quadrata e sostenute per gli estremi; la resistenza, secondo L., varia come il quadrato del lato e inversamente alla lunglhezza (nella teoria moderna varia invece come il cubo del lato);

d) flessione delle travi, parimenti di base quadrata, sorrette per gli estremi e caricate di un peso nel mezzo: essa è direttamente proporzionale al peso, al cubo della lunghezza e inversamente proporzionale alla quarta potenza del lato del quadrato, secondo le moderne teorie. Leonardo riconosce esattamente la prima; ma non così le altre.

L. ha fatto altresì i primi tentativi per una teoria dell'arco circolare, largamente impiegato da tempi remotissimi nelle costruzioni e costruito con regole empiriche; e con una delle solite scultorie espressioni lo definisce una fortezza causata da due debolezze. Ha considerato particolarmente: il carico degli archi e il luogo dove è più da temere il rompimento; la spinta dell'arco e l'arco dissimmetricamente caricato, il rapporto fra lo spessore degli archi e il massimo carico; gli archi rafforzati con catene; la resistenza delle spalle e la forma da dare ai conci.

La considerazione empirica dell'attrito delle macchine non è certo sfuggita ai meccanici e ai costruttori di ogni tempo; ma è L. il primo a considerarlo in modo razionale e ad istituire esperienze in proposito. Le ricerche sperimentali di G. Amontons (1669) e poi quelle classiche di C. A. Coulomb (1781-1790) furono condotte, pur con maggiore raffinatezza sperimentale, con gli stessi metodi escogitati da Leonardo.

Circa questo attrito o confregatione dei corpi densi e pulita superficie (attrito radente) L. ha determinato il coefficiente di attrito cui ha assegnato il valore ⅓ per tutti i corpi, per quanto altrove ammetta la sua dipendenza dalla natura dei corpi confregati (ciò che fu poi riconosciuto dai più tardi sperimentatori); ha riconosciuto le varie specie di confregazioni; si è occupato dell'attrito evolvente; ha cercato la risoluzione di alcuni problemi di statica tenendo conto dell'attrito.

Non pare gli fosse nota la dipendenza dell'attrito dall'estensione delle superficie a contatto.

Le conoscenze dinamiche di L. derivano e si ricollegano con quelle della dinamica greca, ossia di Aristotele e dei suoi varî commentatori; ma egli si mostra del pari informato degli scritti di Alberto di Sassonia, attraverso i quali, come pure pel tramite dei numerosi commentatori italiani quattrocentisti, egli ha potuto venire a conoscenza delle teorie di G. Buridan e N. Oresme e di quelle della scuola inglese di Oxford.

Compariscono in L. le prime precise e nette idee sul concetto di forza, di percussione e d'impeto (secondo Buridan). L. dà una famosa definizione di forza (Cod. A, f. 34 v.); segue e chiarifica la teoria dell'impeto di cui si era fatto paladino G. Buridan; e con ciò viene a schierarsi contro la singolare teoria aristotelica del moto di un proiettile o di una saetta, intrattenuto e favorito dal mezzo, p. es. dall'aria; dicendo esplicitamente che l'aria impedisce e abbrevia il moto al mobile.

Per quanto riguarda ciò che noi ora indichiamo col nome di leggi del moto, L. deve essere certamente annoverato tra coloro che hanno maggiormente contribuito alla scoperta della prima legge o legge d'inerzia. La persistenza del moto già enunciata nel Codice sul volo degli uccelli, 13 r.: "Ogni moto attende al suo mantenimento ovvero ogni corpo mosso sempre si move, in mentre che la potentia del suo motore in lui si riserva"; è completata in Cod. Atl., f. 109 v. a: "Ogni moto seguiterà tanto la via del suo corso per retta linia, quanto durerà in esso la natura della violenza fatta dal suo motore". Ma poi, per la seconda legge, egli segue la legge dinamica aristotelica per cui la velocità è proporzionale alla forza motrice e inversamente alla forza resistente.

In compenso L. ha idea netta dell'azione eguale e contraria alla reazione. Nella caduta libera dei gravi, L. intuisce la relazione tra velocità e tempo (nel moto uniformemente accelerato), e si vale della rappresentazione grafica di N. Oresme, e si è ancora ingegnato a provarla sperimentalmente; ma non è riuscito a determinare la relazione tra spazio e tempo: onore che era riserbato a Galileo. Circa poi l'indipendenza della velocità dal peso, in alcuni momenti segue la legge di Aristotele, in altri dà la vera legge assegnata dalla scuola atomistica.

Egli assegna del pari esattamente la legge che regola i tempi di caduta di un grave per la verticale e per un piano inclinato. Occupandosi del moto dei gravi per archi e corde di cerchio (Cod. Arundel, f. 12 v.) fa la geniale intuizione (Fogli mancanti al Cod. sul volo degli uccelli, 1 v.) che il moto per l'arco si fa in minore tempo che per la corda. Infine un'altra geniale intuizione di L. si ha nel problema della caduta di un grave, tenuto conto della rotazione della terra, in conformità delle idee del Cusano, e che conduce alla deviazione dei gravi verso Est.

I mss. contengono pure: osservazioni interessanti, se non conclusive, sul moto violento (moto dei proiettili), con chiari disegni delle traiettorie (Cod. I, ff. 128 v., 123 r.; Cod. Arundel, ff. 36 r., 128 v., 226 v.); osservazioni sull'urto (percussione) dei corpi elastici; tentativi per la dimostrazione dell'eguaglianza dell'angolo d'incidenza e di riflessione e infine numerosi argomenti contro il moto perpetuo.

La meccanica dei fluidi. - I suoi lavori d'ingegnere idraulico nel Milanese soprattutto, le considerazioni sulla circolazione dell'acqua sulla terra, hanno condotto L. quasi ininterrottamente a occuparsi del moto dell'acqua; come del pari i suoi studî sul volo degli uccelli e sul volo strumentale lo hanno portato a investigare i moti dell'aria, le leggi della resistenza dei fluidi ai corpi che si muovono in essi.

L. dopo varî tentativi, enuncia il principio fondamentale dell'idrostatica; il principio dei vasi comunicanti con liquidi di diversa densità e dà la esatta interpretazione del paradosso idrostatico. Nello studio infine del moto delle acque correnti basti soltanto accennare che è dovuto a L. il ben noto principio della portata costante, cioè che in un corso d'acqua uniforme di sezione variabile, la velocità della corrente varia in ragione inversa della sezione; di cui egli fa le più belle e svariate applicazioni: infine gli studî del Cialdi hanno rivelato L. quale fondatore della teoria del moto ondoso del mare.

Per quanto riguarda la meccanica dei fluidi, in relazione particolarmente al problema del volo, L. ha osservato chiaramente la compressibilità e il peso dell'aria ed è sua grande gloria averne intuito l'applicazione alla spiegazione del problema del volo o del sostentamento nell'aria del più pesante. Le ali, quando hanno una velocità rispetto all'aria, in quiete o in moto, sufficientemente grande, comprimono l'aria sotto il corpo dell'uccello, in guisa da agire come una specie di cuneo, e la rendono così capace (forza sostentatrice) di resistere al peso del corpo; tale velocità deve essere maggiore dell'aria che fugge. L. enuncia il principio di reciprocità aerodinamica. È infine il primo a occuparsi della legge di resistenza dell'aria assunta proporzionale alla velocità e alla superficie del corpo; il primo a considerare il centro di pressione e la sua relazione col centro di gravità del corpo e forse anche ad avere una prima intuizione delle linee di corrente.

La fisica. - I contributi alla fisica propriamente detta non hanno quel valore assoluto e relativo dei precedenti. L. segue generalmente le idee aristoteliche e quelle degli ottici e astronomi arabi, a lui noti per mezzo di Vitolone.

Si diffonde a esporre la teoria delle specie emanate dai corpi luminosi e ricevute dall'occhio, propagantisi nell'aria o nell'etere per onde sferiche, come fa il suono. La propagazione si fa istantaneamente "senza tempo"; ma poi egli dubita e sembra avvicinarsi alla nozione di propagazione quasi istantanea.

Tutto il manoscritto D è dedicato alla teoria della visione semplice, binoculare, spettroscopica, alla teoria delle ombre.

Se L. non ha inventato la camera oscura né la sua teoria, già nota agli Arabi, ce ne ha lasciato però una delle più perspicue descrizioni e senza contrasto gli spetta il merito di averne intuito l'applicazione all'occhio. Si è occupato di riflessione su due o più specchi piani o sferici (come si è detto); di costruzione di specchi parabolici. Nella riflessione di un fascio di raggi paralleli in una sfera cava ha nitidamente considerato le caustiche di riflessione. È dovuta a L. la prima spiegazione della luce cinerea della Luna. L. fa le prime osservazioni sui fenomeni capillari in rapporto al mercurio.

Le invenzioni. - Le invenzioni, i disegni di macchine in tutti i più svariati rami della tecnica e che non sono parto sterile di esuberante fantasia, perché non poche furono attuate in seguito, sono di tale numero e di tale ricchezza da sbalordire.

Ma data la scarsa conoscenza della storia della tecnica, dato che molte opere di tecnici ingegnosissimi, che forse non restarono del tutto sconosciute a L., o andarono distrutte o restarono manoscritte, riesce malagevole dire se e quali di tali invenzioni siano da attribuire a L. Se per alcune si può accertare la provenienza e la genesi, per moltissime altre, sulle quali o si hanno notizie indirette o per tradizione, o qualche schizzo senza alcun cenno illustrativo, la cosa più prudente è di dire solamente che esse, allo stato attuale delle nostre conoscenze, compariscono per la prima volta nei manoscritti vinciani.

a) Le opere e le invenzioni idrauliche. - Come i suoi immediati predecessori Bertolo da Novate, Aguzio da Cremona (che però ci sono poco noti) e soprattutto il celebre Aristotele Fioravanti bolognese, L. ha speso gran parte della sua attività d'ingegnere idraulico nei grandi lavori del Milanese specialmente. Escogita mezzi meccanici per l'escavazione di canali e la rimozione della terra mediante gru e apparecchi a rotazione; inventa cavafanghi e draghe per l'espurgazione di canali e paludi. L'invenzione delle famose conche non può essere attribuita a L., che tuttavia ce ne ha tramandato un interessante e chiaro disegno. Pare assodato che L. abbia ideato e diretto, fra gli altri, i lavori per il canale della Martesana. Il vero contributo di L. consiste invece nell'aver perfezionato il funzionamento delle conche mediante l'invenzione della chiusura con doppie porte ad angolo, e col sistema (ancora oggi usato) della ventola a braccia disuguali.

L. è forse l'autore del progetto per il prosciugamento della palude di Vigevano e dello stagno di Piombino, e di un altro per la bonifica delle Paludi Pontine; come risulta da una carta topografica da lui tracciata (v. p. 875): progetto di cui fu iniziata e poi abbandonata l'esecuzione per la morte di Giuliano de' Medici. Si è occupato del Canale d'Arno. Le altre carte o schizzi topografici della Val di Chiana, quello contenuto tra i disegni di Windsor, ossia la prima pianta topografica di una città (Imola), come pure la carta della Toscana centrale e infine un altro schizzo di carta idrografica (Cod. Atl., f. 334 r.), non è improbabile siano state tracciate, ai primi del 1500, e con diretto accesso sui luoghi, per studiare i mezzi onde risolvere il secolare problema dell'impaludata valle. L., infine, durante il suo soggiorno in Francia, progettò il Canale di Romorantin, che doveva unire il Rodano con la Loira. Sui luoghi bonificati L. voleva sorgessero case, giardini e parchi secondo le direttive della moderna ingegneria sanitaria.

b) Arti tessili. - L. sfruttò la sua abilità meccanica a rendere più precisi e razionali i metodi empirici e totalmente manuali del suo tempo. Due delle sue più ingegnose invenzioni in questo campo sono: l'incannaggio automatico (v. filatoio; XV, p. 270), cioè la risoluzione del problema dell'avvolgimento uniforme (con un guida-filo) a forma cilindrica o bombata a doppio cono del filo su un rocchetto o su un sistema multiplo di rocchetti. Uno dei più bei disegni dell'Atl. rappresenta un filatoio con numerosi rocchetti, come nei nostri moderni, tutti mossi con una sola manovella o con forza idraulica, secondo la tradizione per la torcitura dei fili. La seconda è l'invenzione della cimatrice, di una macchina cioè per la rifinitura dei tessuti di lana (che era fatta a mano); il panno uscito imperfetto dal telaio, avvolto su appositi cilindri, passa con moto continuo ottenuto con sistemi di ruote dentate, attraverso grandi forbici o coltelli che affinano il panno, senza guastarlo.

3. Meccanica pratica. - Tentiamo di accennare alle cose più importanti, e in modo forzatamente schematico.

a) Disegni e invenzioni di catene di acciaio a cilindri, a nuclei, dette alla Vaucanson, come nelle nostre biciclette; b) disegno del ventilatore da innestarsi con una banderuola alla sommità della canna di un camino e che deve, orientando la bocca in direzione opposta al vento, impedire al fumo di rientrare nella canna; c) molini a vento con tetti e banderuole mobili; d) girarrosto meccanico a peso motore o a ventola, applicazione del principio dell'elica come organo propulsore; e) macchina automatica per incidere le lime; f) disegni completi e particolareggiati per argani poderosi, mossi con la caduta di un grosso peso, con applicazione di sistemi d'ingranaggio; g) disegni di ponti girevoli; h) trivella poderosa per forare il suolo; i) tornî piccoli e grandi, perforatrici; k) seghe meccaniche; l) macchine speciali per filettatura delle viti e per costruzione delle medesime; m) disegni per laminatoi ad acqua e per filiere.

E sorvoliamo su tante e tante altre, come macchine per arrotare, per frantumare le olive, torchî per la stampa, ecc.; sui varî istrumenti musicali, sul tamburo meccanico, ecc., sui varî modi di accrescere la potenza delle lampade. I manoscritti presentano altresì i primi disegni con bussole di sospensione cardanica e in posizione verticale. Meritano ugualmente di essere segnalati i disegni di progetti per stare in acqua (scafandro) chiamati alito. L. poi afferma di avere trovato il modo perfetto di stare sott'acqua; ma dice "non lo pubblico e divulgo per le male nature delli uomini, li quali userebbero li assassinamenti nel fondo dei mari, col rompere i navilii...".

Due disegni, non del tutto chiari (Cod. Atl., L v. a, f 296 v. a) hanno fatto giustamente supporre che L. avesse pure ideato una vetturetta a molla, chiamata appunto l'automobile di L., in cui pare vi sia anche una prima idea del "differenziale". Non del tutto incognita deve essere stata a L. la forza di espansione del vapore d'acqua, ed egli ha fatto tentativi per misurare la quantità di vapore ottenuta da una data quantità di acqua, e ha inventato alcune macchine a fuoco. Infine alcuni schizzi mostrano che L. ha adoperato il pendolo quale regolatore di macchine e forse anche per misurare il tempo.

4. Il volo strumentale. - Gli studî di L. sul volo strumentale si possono in gran parte e sostanzialmente riferire al primo periodo del suo soggiorno a Milano, tra il 1486 e il 1490, e al secondo periodo del suo soggiorno in Firenze verso il 1505 e a Fiesole. Non conoscendo altro motore che quello umano, il quale non è sufficiente a produrre l'energia necessaria a creare la forza sostentatrice, sia pure volendo ingegnosamente approfittare di molle elastiche, L. non poteva quindi che ricorrere alla forza dell'aria e del vento, dopo avere riconosciuto la causa del volo degli uccelli e le ragioni fisiche della sostentazione del più pesante dell'aria. Escludendo che si potesse volare per battere d'ali egli ha tentato, con le sue macchine, di realizzare il volo a vela o per favore di vento; problema risolto ai nostri giorni da Otto Lilienthal. Le sue ingegnose macchine dei due periodi, pur non avendo che un valore storico, sono un vero capolavoro d'inge'nosità per la meccanica dei suoi tempi ed egli fa inoltre esplicitamente nsservare che nel volo col favore del vento occorre poca energia per sostenersi e progredire; e tanto meno quanto il volatore è più grande, come accade negli uccelli rapaci. Se non è dubbia la fede di L. nella risoluzione del problema che si era proposto, non è invece facile accertare se egli abbia cercato di volare o di far volare con le sue macchine. Tra le macchine volanti si possono tuttavia ancora citare: il paracadute, di cui nel Cod. Atl. esiste il più antico disegno e descrizione che si conosca; e l'elicottero, in cui nuovamente è impiegata la vite come organo propulsore.

5. Arte militare. - L. si è occupato a lungo di arte militare, di guerra terrestre e navale e quindi, anche a prescindere dalla questione di priorità, i suoi manoscritti sono da questo lato preziosissimi e di eccezionale importanza. Non vi ha dubbio del resto che egli molto ha preso da tutti i suoi nuinerosi predecessori di arte militare. È p. es. accertato che l'invenzione dei bastioni è dovuta a Francesco di Giorgio Martini; quella delle mine e contromine era già nota a Iacopo Mariano da Siena, detto il Taccola (metà del 1400). È poco probabile che egli abbia conosciuto l'opera, rimasta manoscritta a Gottinga, di Corrado Kyeser (1366-1405), Bellifortis; e forse anche quella, comparsa verso il 1420 di Giovanni Fontana, Bellicorum instrumentorum liber, rimasta parimenti inedita. Notissimo dovette essergli il libro di Roberto Valturio, De re militari (1472). Ciò posto, accenniamo a quanto di più importante si riscontra nei mss.: a) disegni di piccoli cannoni, col loro carrello e con gli accessorî per la rapida elevazione del fusto; b) modelli di bombarde per lancio di bombe esplosive; c) cannoni a organo, composti di tante piccole canne situate a raggiera e che possono esplodere contemporaneamente; d) cannoni a revolver o l'antenata delle odierne mitragliatrici; dieci o dodici cannoncini posti uno accanto all'altro e in varie file su di un cilindro che ruota e fa sparare le varie file successivamente; e) modello per la carica del cannone per la culatta (ridotta a un disco) e per la sua accensione automatica; f) modelli di ponti da campo con ruote; di aste mosse meccanicamente per rigettare all'esterno le scale degli assalitori; g) modelli di carri coperti, con artiglierie; h) l'architronito o cannone fatto agire per la forza espansiva del vapore d'acqua, conosciuto dai Bizantini verso il 1000 e di cui si ha pure una descrizione lasciataci dal Petrarca; i) disegni di piccoli battelli con ruote e palette connesse a una manovella mossa dalla forza di un uomo, ma già noti a Mariano e al Martini; h) regole di offesa di un naviglio leggiero contro le grosse navi; k) descrizioni di polveri (velenose) da gittare "infra i navilii nemichi" e di maschere protettrici; di battelli incendiarî; l) descrizione di mezzi per sfondare battelli.

Botanica, geologia. - I più cospicui leonardisti e scienziati hanno altresì rilevato l'originalità e l'importanza delle osservazioni botaniche di Leonardo e non esitano ad annoverarlo fra i primi e più cospicui fondatori della moderna geologia. L. ha infatti per primo osservato, e ne ha cercato l'intima ragione, quella particolare disposizione delle foglie per rispetto alla loro inserzione sui fusti e loro ramificazioni (fillotassi); ha fatto osservazioni sull'assorbimento dell'acqua da parte degli organi perigei delle piante; sulla struttura a strati concentrici dei tronchi da cui può dedursi l'età della pianta; sul geotropismo (negativo) e l'eliotropismo (positivo); notata l'importanza del movimento dei liquidi nei vegetali, ecc. È poi noto con quanto mirabile perizia e verità egli disegnasse fiori, frutta, piante di cui restano prove stupende nei disegni e nelle pitture che di lui ci restano.

L. dà pel primo la spiegazione e la retta interpretazione della vera natura e dell'importanza dei fossili (nichi marini), dei quali meravigliosamente descrive il modo esatto di formazione e la vita anteriore, precorrendo così gli studî di paleontologia stratigrafica. Ha spiegato l'origine della formazione degli strati di ghiaia e l'influenza della loro posizione, e permeabilità, del loro spessore sull'assorbimento dell'acqua. Ha infine abbozzato una teoria dell'equilibrio della terra e dei mari. Non del tutto complete ed esatte invece sono le teorie di L. sulla formazione dei monti, attribuita solamente alla causa secondaria dell'azione erosiva delle acque esteriori. Il De Lorenzo ha osservato infine che la parte più audace e stupefacente della geologia di L. è quella che riguarda le trasformazioni, i grandi cambiamenti della terra per il lavoro di erosione delle acque correnti; la funzione denudatrice delle acque continentali e creatrice di nuove terre emergenti dal mare; intuisce lo squilibrio di peso tra le aree di denudazione e quelle di sedimentazione, tra catene di monti e fondi oceanici e l'effetto che ne risulta per lo spostamento del centro di gravità e di figura della Terra. Veramente ardite infine le speculazioni sul passato e sul futuro del nostro pianeta, sul sollevamento della catena alpina, sul prosciugamento del Mediterraneo, sulla storia geologica della terra natìa, la Valdarno, sui rapporti geologici tra l'Appennino e i mari che lo circondano; sulla valle del Po, osservando che i fiumi colmano le valli e discostano il mare; e sul lento e fatale inaridimento della Terra.

Leonardo biologo. - Di fronte a uno dei più meravigliosi e misteriosi fenomeni, che la natura offriva all'osservazione del proprio eletto "discepolo", di fronte cioè al fenomeno della vita nelle sue molteplici e complesse manifestazioni, non poteva restare indifferente lo spirito di un indagatore così profondo e così assetato di sapere quale fu Leonardo; ed è noto infatti con quanto zelo egli avesse coltivato le scienze biologiche, e con predilezione speciale alcune di esse, allo studio delle quali s'era dedicato quando metodicamente, quando saltuariamente e a più riprese anche a notevole distanza di tempo, spesso modificando, rettificando, trasformando, arricchendo di nuovi dati le precedenti osservazioni; sempre irrequieto, né mai pienamente soddisfatto dell'opera compiuta. Anche i contributi apportati da L. nel campo biologico rivestono per ciò in prevalenza la forma di appunti, ora raccolti insieme, quantunque non di rado disordinatamente e alla rinfusa, ora sparsi e mescolati con note di altro argomento, e in entrambi i casi, come vedremo meglio tra poco, spesso riccamente ed egregiamente illustrati: appunti di osservazioni ora fine a sé medesime, ora mezzo per appianare la via a studî ulteriori, senza che spesso riesca possibile una netta distinzione tra le une e le altre. E anche delle scienze biologiche, come di ogni altra disciplina, volle il fedele rinnovatore del concetto platonico e aristotelico, che fossero sempre guida e fondamento le matematiche.

Scienziato e artista, più che filosofo nello stretto senso della parola, non s'è troppo indugiato L. in discussioni sopra l'intima essenza della vita, da lui sommariamente relegata fra le cose "improvabili", mentre ha fatto invece oggetto precipuo d'indagine gli esseri nei quali essa risiede e attraverso ai quali si palesa, gl'individui, cioè, animali e vegetali e la terra stessa, il cosiddetto "macrocosmo o mondo maggiore", dove, d'accordo con gli antichi filosofi, tante corrispondenze d'organi e di funzioni egli volle riconoscere con gli esseri viventi veri e proprî, e in modo speciale con il più evoluto e perfezionato di essi, definito per antagonismo il "microcosmo o mondo minore", cioè con il corpo dell'uomo, nel quale vedeva egli poi inversamente il "modello del mondo". Non solo nell'arte, ma anche nella scienza il corpo umano occupa nel concetto di L. un posto privilegiato speciale di fronte a quello che occupano gli altri esseri viventi, e i quesiti che egli si propone nei riguardi tanto, e principalmente, dell'uno, quanto degli altri, sono in realtà fondamentali. Come l'organismo è conformato e costituito? Come funziona? Come si sviluppa? Quali proporzioni esistono fra le sue diverse parti? Quali omologie e quali analogie corrono fra i diversi organismi? La forma e la struttura del corpo umano, cioè l'anatomia esterna e specialmente l'interna di esso, indagata direttamente nei numerosi cadaveri di propria mano dissecati, rappresentano il campo di studî biologici, nel quale L. s'è maggiormente esteso e approfondito e dove s'è più palesata la sua genialità e acutezza di osservatore, così da essere stato definito il fondatore "potenziale" dell'anatomia moderna; potenziale e non "reale" solo perché di tale sua opera, rimasta per varî secoli sconosciuta, non poterono fare tesoro gli anatomici contemporanei e i successivi. Opera essa pure frammentaria e solo in parte conservata, ben lungi dal potersi ritenere completa, ché non pochi organi già conosciuti dagli antichi non vi risultano, non solo menzionati, ma neppure delineati. E cosa tuttora dubbia che egli abbia veramente condotto a termine anche soltanto una parte dei "centoventi libri" cioè capitoli, che asserisce avere composti sull'argomento.

Ora però che quest'opera, o per meglio dire la parte di essa salvata dalla distruzione o dalla dispersione, è venuta finalmente da qualche decennio in piena luce, non solo ci è dato rivendicare a Leonardo la precedenza di numerose osservazioni attribuite finora a torto ad anatomici posteriori, ma riconoscere altresì come tali suoi studî, quantunque sorpassati ormai dagli odierni progressi dell'anatomia, contengano tuttavia qualche concetto che non è stato ancora oggidì, almeno con altrettanta acutezza, illustrato.

Ma ciò che soprattutto caratterizza gli studî anatomici di L. è la ricchezza, e, più che la ricchezza, la fine eleganza di buona parte dei disegni, che il dissettore artista ritraeva di proprio pugno dalle preparazioni anatomiche da lui eseguite (v. anche anatomia). Molti di tali disegni non sono invece che rudi schizzi semischematici o schematici, destinati spesso a integrare i concetti contenuti nel testo, nella espressione dei quali assumono talvolta prevalente significato. Ma, a prescindere da questi e da parte degli altri disegni, è fuori dubbio il fatto, che la perfezione artistica di un certo numero di figure anatomiche vinciane non è stata ancora oggidì raggiunta, né tanto meno superata. Ché se L. ebbe nel campo delle osservazioni anatomiche qualche valente precursore, quali soprattutto Galeno, Avicenna e Mondino, ch'egli tuttavia, pure seguendoli, si limita a citare solo assai parcamente, nel campo, invece, dell'iconografia anatomica direttamente desunta dai preparati originali, non solo è ritenuto oggidì il maggiore di ogni tempo e di ogni luogo, ma anche, possiamo aggiungere, il primo in ordine cronologico: ché (a parte le riproduzioni in pittura o in plastica del corpo umano) le poche figurazioni dei principali organi isolati o raggruppati, di data anteriore o contemporanea alle leonardesche, sono di solito (pochissime eccettuate, come quelle di Laurentius Phryesen edite a Strasburgo nel 1518) così imperfette, rozze e puerili, da non meritare quasi il nome di anatomiche e da farci spesso dubitare che siano state ritratte direttamente dall'originale. Tutte le figure anatomiche di L., non meno che la massima parte degli appunti, risultano a un'accurata analisi eseguite, come di regola, con la mano sinistra. Gli organi, isolati o in gruppo, sono spesso riprodotti da L. come osservati da più punti di vista, "per diversi aspetti", e così le varie parti del corpo, rappresentate pure nei loro diversi strati, o nei soli profondi, essendo omessi o delineati trasparenti i più superficiali, o anche, trattandosi di muscoli, venendo disegnati questi "magri e sottili" o addirittura sostituiti da corde (v. sotto). Altri organi, e più spesso intere parti del corpo, sono riprodotti in sezioni variamente orientate, come per es. la testa, il tronco, la pelvi, in tagli sagittali mediani, l'arto addominale in numerosi tagli trasversi condotti a diverse altezze, l'occhio in sezioni meridiane. Altro notevole carattere dello studio leonardesco del corpo umano è costituito dallo stretto nesso tra le due indagini morfologica e fisiologica; voleva cioè L. che di ogni organo o parte fosse ricercato anche "l'uso, l'uffizio, il giovamento", dove oltre alla semplice osservazione entrava talora in campo quel metodo sperimentale, di cui fu egli, se non il fondatore, certo il geniale rinnovatore. E allo scopo di giungere a una più profonda conoscenza del significato e dell'intima ragione di essere dei diversi organi e dell'organismo stesso nella sua totalità, lo studio dell'anatomia e della fisiologia umana veniva talvolta da L. integrato con altro duplice ordine di studî, cioè con l'embriologico, da un lato, con il comparativo, dall'altro, inaugurandosi così altri metodi d'indagine tuttora fondamentali nella moderna biologia. Tuttavia, ripetiamo, negli studî vinciani del corpo umano la parte anatomica rimane indubbiamente la più estesa e importante.

Dato il complesso intreccio dei diversi organi tra loro, L. proponeva che per ciascun apparecchio fossero fatte più anatomie e che, particolarmente nei riguardi delle vene e delle arterie, fossero distrutti tutti gli organi intorno a esse, in modo da lasciarle isolate. Di particolare importanza è tra l'altre la dimostrazione da lui ideata dei visceri dal lato dorsale del tronco, previa ablazione della parete posteriore di questo. Egli voleva che le ossa venissero segate per poterne conoscere l'interna costituzione, mentre riconosceva l'insufficienza del metodo della macerazione "in acqua di calcina" in uso presso gli antichi e anche presso qualche contemporaneo, per dimostrare la distribuzione dei nervi nei muscoli. Per meglio studiare l'azione dei singoli muscoli, aveva poi proposto di sostituirli nello scheletro con fili di rame attaccati alle rispettive origini e terminazioni. Benché non sia escluso che altri prima di lui avesse tentato qualcosa di analogo, è tuttavia da rivendicarsi principalmente a L. il metodo d'iniettare gli organi cavi con masse solidificabili, allo scopo di riprodurre la forma esatta della cavità, metodo da lui usato per ritrarre il getto in cera dei ventricoli encefalici (v. più sotto) e degli orifizî e valvole atrioventricolari. Aveva inoltre ideato una "forma di gesso" cava, per gonfiare a mezzo di un tubo di vetro il cuore, e una forma di vetro per mostrare come si comporta il sangue nella chiusura delle valvole. Altro metodo proposto da L. per lo studio dell'occhio consisteva nell'immergere l'organo in chiara d'uovo, bollendo il tutto in modo da tagliare poi insieme massa coagulata e occhio; metodo che precorre di secoli quello dell'inclusione della moderna tecnica microscopica. La bollitura veniva ancora da lui proposta per conoscere la struttura dei reni.

Per quanto concerne l'anatomia generale, L., seguendo fondamentalmente i concetti aristotelici delle partes similares (corpora similaria di Galeno, membra simplicia o similia di Avicenna, ecc.), riconosceva nel corpo umano la presenza di undici "membri semplici o strumenti macchinali", e cioè "cartilagine, ossi, nervi, vene, arterie, pannicoli, legamenti, corde e cotica e carne e grasso", e li descriveva particolarmente nei loro caratteri; ammetteva poi in alcuni di essi delle suddivisioni, distinguendo, p. es., l'osso in "midolloso, spugnoso, vacuo o solido" e i pannicoli in "cordoso, nervoso, composto e misto "

Premesso che, per avere spesso L. rappresentato e considerato gli organi, e particolarmente i visceri, nella loro sede e nei loro reciproci rapporti, senza omettere talvolta accenni ad applicazioni pratiche, può egli ritenersi oggidì precursore anche nel campo dell'anatomia topografica, passiamo a esporre anzitutto per sommi capi i principali contributi anatomo-fisiologici da lui apportati nei diversi apparecchi del corpo umano, con qualche contemporaneo accenno ai dati comparativi più importanti.

Nei riguardi del tegumento, riconosceva L. in tutta la "superficiale pelle" la sede del senso del tatto, e vi distingueva anche la "sopravesta", cioè l'epidermide e più precisamente il suo strato corneo, che si sfalda sotto l'azione del sole, nonché il tessuto sottocutaneo. Notevole importanza egli attribuiva alla pelle nel fenomeno della contrazione dei muscoli, per la compressione esercitata su questi dalla sua tonicità.

Relativamente all'apparecchio scheletrico dobbiamo segnalare anzitutto come L., di fronte ai numerosi precedenti o contemporanei analoghi tentativi più o meno falliti, non abbia mai riprodotto intero lo scheletro umano: ché i celebri disegni della Galleria degli Uffizi (cui mancano del resto il teschio e l'arto toracico sinistro) a lui attribuiti, benché di egregia fattura, non sono da ritenersi verosimilmente di suo pugno, risultando tracciati con la mano destra. Dello scheletro assile sono bene disegnati per tre "aspetti", con poche inesattezze, tanto la "spina", cioè la colonna vertebrale, con le sue diverse curve, quanto il torace, e della prima viene stabilito il numero delle vertebre, "spondili", con raffronti fra le dimensioni di alcune di esse. Il teschio è considerato nel suo insieme: i magistrali disegni lo rappresentano integro, scalottato, segato sagittalmente e aperto in corrispondenza dei seni frontale e mascellare e del canale nasolacrimale; è figurato pure nelle sezioni sagittali il seno sfenoidale. Lo scheletro degli arti è disegnato in toto e nei suoi varî segmenti e considerato specialmente nei riguardi delle proporzioni. Il processo acromiale, "omero (della spalla)", è riguardato come un osso autonomo, corrispondente All'os acromiale di Galeno, e precisamente come un "osso glanduloso o petroso", cioè sesamoideo, analogo alla "rotula, patella o burella del ginocchio" e ai due sesamoidei del piede. Particolare interesse ha l'osservazione dell'accorciamento dell'avambraccio nel passaggio dalla supinazione alla pronazione, in seguito all'incrociamento tra radio e ulna: accorciamento che L. riteneva notevole, ma che viceversa si aggira, nei casi positivi, soltanto intorno ai 2,5 mm. Trattazione grafica e descrittiva più estesa è dedicata allo scheletro della mano, considerata anche nei confronti con quella di altri Mammiferi, specialmente della scimmia e dell'orso, per tacere dei dati zootomici relativi all'ala degli Uccelli e dei Chirotteri. Riguardo all'arto inferiore, deve segnalarsi anzitutto l'esatta inclinazione data alla pelvi "catino o alcatin", rispetto all'asse del tronco, nei varî disegni nei quali viene da L. rappresentata; qui pure della parte libera dell'arto è considerato e figurato specialmente il piede. Dati interessanti sono poi dedicati alle omologie dell'arto addominale dell'uomo (scheletro, muscoli, forme esterne), specialmente "in punta di piedi", con quello di altri Mammiferi, del cavallo e dell'orso, del piede del quale (e non dell'uomo, come fu erroneamente affermato) sono quattro splendide figure a inchiostro, stilo d'argento e biacca, riproducenti lo scheletro con le unghie, i tendini e i muscoli.

Per quel che si riferisce alle giunture, lasciando da parte i disegni nei quali esse sono secondariamente rappresentate, L. si limita di solito a concetti generali; qualche particolare accenno fa specialmente al ginocchio e alle "scorze o vesti pannicolari" che lo circondano.

Allo studio, e più ancora alla figurazione dei muscoli egli s'è invece con cura dedicato, facendo tuttavia prevalente oggetto di indagine la muscolatura superficiale, di cui bene riconosceva la particolare importanza nella determinazione delle forme esterne del corpo e dell'espressione dei sentimenti. Anatomicamente distinse i muscoli in base alla forma, ai rapporti fra porzione carnosa e tendinea, alle variazioni di volume e anche di numero (suddivisioni di un muscolo in più e viceversa), a seconda della costituzione individuale, dell'età e della funzione da compiere. Descrisse pure il perimisio. Fisiologicamente egli riconobbe bene le leggi generali della meccanica muscolare in rapporto con le ossa e le articolazioni, e nella trattazione dei varî gruppi muscolari e dei singoli muscoli diede sempre particolare rilievo alla loro azione, per meglio riconoscere la quale proponeva, come vedemmo, di sostituire i muscoli con fili di rame. Notevole lo studio dei muscoli facciali in rapporto specialmente con la mimica. Riguardo al fenomeno della contrazione muscolare L. seguiva fondamentalmente la teoria dello spirito vitale decorrente nel lume dei nervi cavi ad apportare al muscolo "il sentimento", cioè lo stimolo: l'ingrossamento del muscolo contratto era però attribuito da L. di preferenza, anziché all'aria, al forte accumulo del sangue, per un meccanismo analogo a quello dell'erezione del pene. Non tutti i gruppi muscolari né i singoli muscoli furono da lui considerati; maggiore è il numero di quelli semplicemente disegnati, e solo pochi di essi vengono distinti con nomi speciali, desunti per lo più dalla loro azione. Spesso le parti di qualche muscolo largo maggiore, aventi funzione loro propria, furono considerate come organi distinti, e non pochi muscoli vennero poi disegnati e descritti in maniera arbitraria e non conforme al vero.

Relativamente all'apparecchio circolatorio, l'anatomia e la fisiologia del cuore rappresentano uno degli argomenti, ai quali s'è L. dedicato con diligenza particolare, corredando le sue osservazioni di numerosi disegni e schemi illustrativi. Oltre, e più forse che non il viscere umano, fece egli oggetto di studio il cuore di grossi Mammiferi e specialmente del bue. È dubbio che egli abbia eseguito personalmente esperimenti sull'animale vivente, mentre è celebre l'osservazione da lui fatta in Toscana delle ritmiche oscillazioni dello spillo da botte infisso dai macellatori attraverso alla parete toracica, nel cuore dei maiali viventi. Il cuore è accolto nel mediastino, "mediaste", circondato dal sacco pericardiaco, "cassula" (Mondino), e rivestito da un "pannicolo" l'epicardio, che fissa contro il viscere i vasi coronarî. L. riconobbe agli atrî il valore di parti integranti del cuore, chiamandoli, in contrapposizione ai "ventricoli inferiori o intrinsechi", "ventricoli superiori o estrinsechi, ecc." o anche "orecchi o additamenti" (termine usato talvolta per indicare anche semplicemente le auricole). Relativamente pero al setto dei ventricoli, pure avendolo rappresentato talvolta massiccio nelle sezioni, come in realtà gli appariva nei preparati, non seppe tuttavia affrancarsi dall'autorità degli antichi, ma seguitò a considerare, e raffigurò anche talvolta erroneamente, il setto attraversato da "meati piramidali" riunenti le due cavità, usando persino talvolta per esso la denominazione di "colatorio". Riconobbe nelle cavità cardiache la presenza dell'endocardio (parietale), i muscoli papillari e le "corde nervose o armadure delle porte, ecc.", cioè le corde tendinee, e inoltre le trabecole intraventricolari, illustrando particolarmente il fascio moderatore, "catena", del ventricolo destro, che porta oggidì appunto il nome di L. Ma in modo speciale le valvole cardiache, "porte, usci, uscioli, pannicoli, ecc." e il loro modo di funzionare, furono oggetto di lunghe e accurate indagini; tanto le valvole atrioventricolari nei loro rapporti con muscoli papillari e corde, quanto le semilunari, con i rispettivi seni arteriosi, "emicicli"; riprodotte le une e le altre in numerosi disegni e schemi, e queste ultime pure con i nodi valvolari e specialmente con gli intervalvolari. Valvole venose e arteriose sono considerate sia nel cuore sinistro sia nel destro, le seconde cioè tanto in corrispondenza dell'"aorto", quanto della "porta del polmone o vena arteriale", cioè dell'arteria polmonare; così questa chiamata dagli antichi in contrapposizione all'"arteria venale", equivalente più o meno all'atrio sinistro. Malgrado la ricchezza dei dati anatomici e fisiologici sul cuore, e specialmente sulle sue valvole, con razionale applicazione di alcuni principî d'idraulica alla meccanica della circolazione del sangue, dobbiamo tuttavia concludere (nonostante opinioni contrarie) che, se intorno alla grande circolazione ebbe L. qualche idea, non sempre netta e chiara, viceversa il meccanismo della piccola circolazione gli è rimasto interamente sconosciuto. Aveva notato che il cuore ha 3540 pulsazioni all'ora. Benché egli distingua teoricamente le arterie maggiori "con due tonache" dalle vene "con una sola tonaca", pure chiama spesso vene anche le arterie, facendo cioè vene sinonimo di vasi. Numerose ed eleganti, se non sempre fedeli figure d'insieme rappresentano i vasi maggiori e medî del corpo, mentre quelli proprî dei singoli visceri e degli arti sono disegnati insieme con questi. Con cura particolare sono riprodotti alcuni sistemi, come, p. es. le vene superficiali, specialmente dell'arto superiore. Non è escluso che L. abbia per lo meno intuito l'esistenza dei capillari; è certo comunque avere egli segnalato in alcuni organi, come la pelle e il fegato, la presenza di "vene capillari".

Notevoli sono pure i dati e le illustrazioni relative agli apparecchi splancnici. Dell'apparecchio digerente sono rappresentati e considerati specialmente, anche nelle loro varie funzioni, le labbra, i denti, la lingua, della quale è rilevata la particolare ruvidezza che presenta nei felini e nei bovini; il palato molle, la faringe e l'esofago con il nome arabistico di "meri", lo stomaco e i varî segmenti dell'intestino, "budella", con il "sifac", cioè il peritoneo, e il grande omento "zirbo o rete". Mentre non si trova in L. alcun cenno, neppure grafico, alle ghiandole salivali e al pancreas, sono invece rappresentati e trattati. diffusamente, anche per la funzione secondo gli antichi concetti, così il fegato come la milza.

Dell'apparecchio respiratorio fece L. oggetto speciale di studio anzitutto gli organi della voce, l'epigloto o fistola o anche trachea", cioè la laringe, e la "trachea" propriamente detta, con le "penule o trachee", cioè con i bronchi, dei quali organi diede inoltre chiari disegni, considerandoli, insieme con gli organi della bocca, soprattutto dal punto di vista fisiologico. L. attribuisce specialmente alla trachea, con le sue variazioni di lunghezza e con quelle di larghezza dei suoi "anuli", e fors'anche ai muscoli costrittori della faringe, le variazioni di tono della voce, comportandosi il polmone "a uso di mantice"; aveva pure compilato una tabella degli elementi del linguaggio, e sembra avesse pure composto un trattato De Vocie. Attingeva da Aristotele e da Plinio il concetto che nei vecchi "la voce si fa sottile", spiegando il fatto con il restringimento senile della trachea. Con la trachea è pure disegnata la ghiandola tiroidea; nessun accenno invece al timo. Il "polmone" viene considerato per lo più come viscere impari, formato da due parti quasi simmetriche, e circondato immediatamente dalla "sua cassa", cioè dalla pleura parietale: è disegnato più volte, ma di solito con una forma che ricorda più il viscere di altri Mammiferi che non quello dell'uomo. Viene studiato specialmente nelle varie fasi respiratorie, che si compiono passivamente da parte di esso, per l'azione non solo dei muscoli del torace e del diaframma, ma anche dei "trasversali dell'addome", e per meglio studiare tali moti del torace egli aveva proposto di sostituire il polmone con una vescica. Il polmone "alita 270 volte per ora". Per dimostrare che l'ampliamento del petto nell'inspirazione equivale al volume dell'aria inspirata, L. menzionava una speciale cassa munita di "spiracolo", nella quale chiudere l'uomo. Notevolissima l'osservazione che "l'animale non vive dove la fiamma non vive".

Venendo all'apparecchio urogenitale, è da segnalarsi anzitutto come sulla costituzione dei reni, "rognoni", egli si fosse proposto di eseguire indagini, sia tagliandoli per mezzo, sia anche sottoponendoli alla bollitura, per ricercare specialmente il "colatorio", attraverso al quale l'urina si separa dal sangue, essendo la quantità di quella in rapporto con la quantità del sangue che circola nel rene. Il viscere è riprodotto con i suoi vasi "mulgenti" tanto isolato quanto in sito, trovandosi però il rene destro o allo stesso livello del sinistro, o un po' più alto anziché un po' più basso. Nessun accenno alle ghiandole soprarrenali. Gli ureteri, "polio o pori uritidi", sono rappresentati con i reni e studiati specialmente nel loro sbocco in vescica. Questa è disegnata, in sito o isolata, insieme con altri organi dell'apparecchio, sempre allo stato di distensione e spesso abbracciata dai suoi vasi nutritizî. I "testicoli" sono più volte disegnati, per lo più in seno allo scroto, con gli epididimi, i "vasi spermatici", cioè i condotti deferenti, e le vescichette spermatiche, "ventricoli spermatici", in maniera però non esatta. Sono pure rappresentati spesso i relativi vasi sanguiferi, mentre non viene mai disegnata, né tanto meno menzionata (come fu a torto affermato) la prostata. Contraddicendo le teorie di Mondino e di altri autori L., relativamente all'origine dello sperma, è fondamentalmente fedele ai principî aristotelico e galenico, riconoscendo che nel testicolo "si coce lo sperma" che "prima era sangue". Il pene viene più volte rappresentato o in sito, o isolato, unito spesso alla vescica, o anche in sezione, ma con struttura non conforme al vero, in base ai dati erronei attinti da Mondino. Gli ovarî sono chiamati egualmente "testicoli", e rappresentati, e in parte anche considerati, come quelli del maschio. Lo sperma femminile è prima sangue come il maschile, e entrambi "toccando i testicoli", pigliano "virtù generativa" L'utero, "matrice", è rappresentato unico e non bicorne come, riferendosi ad altri Mammiferi, l'aveva ritenuto Galeno; rotondo, ampio, cioè allo stato di gravidanza, tanto in sito e chiuso, quanto isolato e aperto, con il feto e le membrane nell'interno. Nell'addome aperto è rappresentato con uno o due paia di lunghe appendici laterali, dove possono riconoscersi i legamenti rotondi, e nel secondo caso anche le tube uterine. La vagina, "membro genitale", è raffigurata per lo più in sito, in sezione sagittale o frontale, e ritenuta nella donna di dimensioni relativamente maggiori che non negli altri grossi Mammiferi. La "vulva" è disegnata piuttosto grossolanamente. La mammella, "tetta", è ricordata specialmente negli studî delle proporzioni, e considerata in rapporto con le "vene mestruali".

Dell'apparecchio nervoso centrale L. ha considerato specialmente l'encefalo, "cervello, cielabro", riproducendolo nelle linee generali sia in sito, nella testa aperta, sia isolato, con i "ventricoli o porosità" rappresentati in proiezione o scoperti, e spesso anche con qualche nervo encefalico. Per eseguire l'iniezione dei ventricoli (vedi sopra) seguiva L. due metodi: o nell'encefalo estratto, dopo avere praticato in ciascun ventricolo laterale un foro a guisa di sfiatatoio, mettendovi due sottili canne per fare uscire l'aria, versava con uno "schizzatoio" cera fusa attraverso l'angolo inferiore del quarto ventricolo; oppure eseguiva l'iniezione a cranio integro, attraverso al foro occipitale; in entrambi i casi egli disfaceva poi la sostanza cerebrale intorno al getto solidificato, del quale diede anche un disegno, deve però riconoscersi come, sia in questo sia nei disegni, testé menzionati, dei ventricoli, ricavati forse dall'encefalo di altri Mammiferi, la forma si allontani alquanto dalla vera. Seguendo fondamentalmente antiche dottrine, egli localizzava nel quarto ventricolo "la memoria", nel terzo, e precisamente nel suo pavimento, il "senso comune o concorso di tutti i sensi e sedia dell'anima", stabilendo una serie di distanze e di livelli tra esso e lo scheletro e diversi organi superficiali e profondi; finalmente nei ventricoli laterali poneva l'"imprensiva", collocata fra il senso comune e i cinque sensi, e mediante la quale il sengo comune "si move". Da tale "sedia dell'anima" traggono origine i nervi destinati ai muscoli che movono le membra "a beneplacito della volontà di essa anima", e vi mettono capo i nervi di senso. Riconosce L. con gli antichi, e rappresenta schematicamente, due meningi, la "dura madre" e la "pia madre", nonché, addossata alla base del cranio, la "rete mirabile" di Galeno, inesistente per lo meno nell'uomo. La midolla spinale, in cui è compresa anche l'allungata, è detta "nuca" e riprodotta, almeno nella sua parte superiore, in figure schematiche, con i nervi e le meningi. Ha origine dal cervello ed è della sua stessa sostanza; da essa hanno a loro volta origine i nervi (spinali). Basandosi sui dati galenici e sull'esperiinento nella rana, riconosce L. che la puntura della midolla allungata porta seco, anche nell'uomo, la morte immediata. Le meningi si continuano perifericamente intorno ai nervi. Questi, e specialmente gli spinali, sono in parte motori, in parte sensitivi, i quali ultimi "si vanno spargendo con infinita ramificazione nella pelle"; la loro recisione abolisce per ciò ora la motilità, ora la sensibilità di una parte, ora entrambe. Dei nervi encefalici vuole L. anzitutto che siano studiati i singoli orifizî d'uscita dalla base del cranio. Sono descritti e figurati con l'encefalo anzitutto le "caruncole" (Mondino), cioè i lobi olfattorî, che servono "alla virtù dell'odorato" e che nella "specie leonina", dove tale senso è più sviluppato, sono di sostanza cerebrale e in rapporto con complesse cavità nasali; poi i "nervi ottici", i quali servono "alla virtù visiva" e nell'uomo sono "sottili, lunghi e deboli" in confronto con quelli della "specie leonina", dove congiungono immediatamente l'occhio al cervello. Benché L. accenni ai "nervi motivi degli occhi", è incerto che tra i nervi da lui figurati siano anche questi, mentre vi sono sicuramente delineate le branche del trigemino e specialmente il mandibolare con qualche suo ramo principale. È incerto pure che siano stati disegnati il facciale e, per tacere del glossofaringeo, l'accessorio spinale e l'ipoglosso, mentre furono più volte delineati e descritti i vaghi, anche nel loro tratto toracico e addominale, in rapporto specialmente con l'organo della voce, con il cuore e con lo stomaco, sotto il termine mondiniano di "nervi reversivi"; così chiamati dal loro collaterale, il laringeo ricorrente. Dei nervi spinali sono spesso rappresentati i plessi, specialmente il brachiale e il sacrale, e descritti con i principali loro rami terminali. È dubbio che L. abbia rappresentato in una figura semischematica il tronco del simpatico cervicale, non ignoto del resto già a Galeno.

Benché egli abbia dato cenni più o meno sommari agli organi dei sensi "vedere, udire, toccare, gustare e odorare" (Aristotele), dei quali è "comune giudice" il senso comune, di uno solo tuttavia ha trattato in modo speciale, e cioè dell'occhio. L. ha studiato l'occhio non solo anatomicamente, ma anche fisiologicamente, sia in sé stesso, sia e soprattutto in servigio degli studî di prospettiva. Però, malgrado il metodo usato dell'inclusione in albume coagulato, la vera struttura dell'occhio sfuggiva interamente a lui, trascinato dagli antichi preconcetti allora dominanti. Parlando della cornea, "luce", rappresentata indipendente dalla sclara, egli discute lungamente se la virtù visiva risieda nella cornea, o nella lente, o nell'"uvea" e tratta in modo esteso, con il sussidio di numerosi diagrammi, molteplici problemi di diottrica oculare. L'osservazione più importante dal punto di vista biologico rimane tuttavia quella, illustrata in diversi passi e non ignota del resto a Rāzī e ad Avicenna, delle variazioni del diametro della pupilla in rapporto con la quantità della luce: "l'occhio dell'omo raddoppia in tenebre la sua popilla"; variazione studiata anche comparativamente negli uccelli notturni e nei felini. Gli organi protettori dell'occhio umano sono considerati specialmente nelle proporzioni, mentre ricerche speciali sono dedicate alla costituzione e al funzionamento dell'apparecchio palpebrale degli Uccelli, particolarmente per quello che riguarda la membrana nittitante, chiamata da Leonardo "coperchio o pannicolo secondino o trasparente".

Vedemmo, a proposito degli organi genitali, le teorie di L. sullo sperma maschile e femminile. Caratteri paterni e materni si trasmettono al figlio in pari grado; l'anima della madre governa anche il corpo del feto; le impressioni dell'una possono fissarsi nell'altro; le modalità secondo le quali avviene l'accoppiamento influiscono soprattutto sul morale dei figli. In base alla dottrina aristotelica ammette L. che gli organi di tutto il corpo abbiano "origine dal core in quanto alla prima creazione"; ben presto però assume prevalente sviluppo "la casa dello intelletto", cioè la testa con l'encefalo. Il feto cresce a spese del sangue mestruale materno, che passa nel suo intestino attraverso alla vena ombelicale, al fegato, alla vena porta e allo stomaco; urina per l'uraco attraverso all'ombelico. A quattro mesi esso ha raggiunto la metà lunghezza e l'ottavo del peso del feto a termine, che è lungo un braccio. Il cordone ombelicale ha, nella specie umana, nei varî stadî, la stessa lunghezza del feto. Notevoli sono le figurazioni del feto umano nel suo caratteristico atteggiamento, sia isolato, sia in seno all'utero aperto, con gli annessi.

Seguendo fondamentalmente Galeno, Leonardo ammette intorno al feto tre pannicoli, ch'egli chiama "amnius, alantoidea e secondina o corion": il feto è immerso nel liquido amniotico, acqua "citrina, cristallina, in gran quantità", la quale distribuisce egualmente il suo peso sulla superficie interna dell'utero; non respira né parla, perché immediatamente affogherebbe; mancherebbero nella vita uterina anche le pulsazioni card iache.

Gli annessi fetali furono studiati specialmente in altri Mammiferi, e in modo particolare nel vitello, del quale sono descritti e disegnati i "cotiledoni, rosette o spugnole", distinti nelle due parti, villosa fetale e cribrosa materna, che L. qualifica con gli aggettivi rispettivamente di "maschio" e di "femmina". Diversi altri problemi embriologici concernono l'uovo degli Uccelli.

Durante la vita autonoma il corpo umano cresce in proporzione sempre minore, cioè "in ogni 9 mesi va diminuendo la quantità di tale accrescimento insino che ha finita la somma sua altezza"; a tre anni l'uomo ha raggiunto la metà di questa (Plinio). Tale altezza definitiva equivale a tre braccia (da m. 1,65, più attendibile, sino a m. 1,78 a seconda del braccio). Benché L. abbia stabilito, come ora vedremo, un canone relativamente fisso sulle proporzioni del corpo umano, pure egli riconobbe bene le variazioni offerte dai diversi tipi di costituzione individuale, del brachitipo, del longitipo e del normotipo, dimostrando in più passi come un uomo possa "essere proporzionato e essere grosso e corto, o lungo e sottile, o mediocre".

Uno degli argomenti dove l'anatomico e l'artista si trovarono a collaborare più strettamente, è rappresentato da quello studio sulle proporzioni, che costituisce quasi il complemento dei fondamentali precetti riuniti più tardi nel trattato della pittura. Il canone di L., pure presentando non poche analogie con quelli antichi, e in modo speciale con il varroniano e il vitruviano, per la ricchezza e la varietà dei dati, illustrati da numerosi disegni o anche da semplici schizzi, può ritenersi in gran parte originale. Ci limiteremo a ricordare la conferma del rapporto vitruviano e pliniano fra grande apertura delle braccia e altezza totale, fissato con molte altre proporzioni nel classico disegno dell'uomo nel quadrato e nel circolo (v. anatomia, III, tav. XIX); la metà altezza a livello della radice del pene; tanto il tronco quanto il braccio sino al polso, lunghi un terzo dell'altezza totale; il piede un settimo; la testa un ottavo; la faccia e la mano un nono; il labbro, scelto verosimilmente da L. come modulo o unità di misura, un centododicesimo dell'altezza totale. Numerose sono particolarmente le proporzioni tra i segmenti delle diverse parti del corpo, e in modo speciale degli organi esterni della faccia, la quale è alta complessivamente dodici labbri, mentre la zona del cuoio capelluto ne misura da uno a tre. Stabiliva ancora L. proporzioni relative al bambino, al cavallo e al cane: quelle sul cavallo verosimilmente come studio preliminare per l'esecuzione della statua equestre di Francesco Sforza e del cartone nella Battaglia d'Anghiari.

Importanti ed estesi sono ancora gli studî di L. sulla meccanica del corpo umano, aventi a base i principî della meccanica generale, in diversi dei quali è possibile riconoscere la fonte aristotelica: studî, corredati da disegni e schizzi numerosi, condotti ora con fini essenzialmente scientifici, ora come indagini preliminari di altre ricerche, e particolarmente di quelle attinenti al problema del volo.

Il corpo umano pesa 200 libbre, cioè da 65 a quasi 68 kg.: la femmina ha un peso minore. L'equilibrio "ponderazione, equiponderanza, bilicazione, bilico, librazione", viene studiato nel corpo umano sia allo stato di riposo, nei più svariati atteggiamenti, sia nel movimento. Nel corpo in riposo in posizione simmetrica normale il centro di gravità trovasi un po' al di sotto della cintola, ma al di sopra della metà altezza totale. La stazione eretta è mantenuta dalle contrazioni sincrone di gruppi muscolari antagonisti di ciascuna delle parti del corpo sovrastanti l'una all'altra; arti inferiori, tronco, collo e testa, dove lo scheletro con i detti gruppi muscolari si comporta "a uso di albero di nave colle sue costiere" cioè con le sue sartie. Il centro di gravità si sposta nei diversi atteggiamenti, soprattutto quando al "peso naturale" si aggiunga un "peso accidentale" intrinseco o estrinseco, avendosi così il "bilico composto".

In stretto rapporto con tali studî sono quelli relativi ai più svariati movimenti del corpo, e cioè al "moto azionale", che avviene "senza mutazione di luogo", al "moto locale... quando l'animale si muove da luogo a luogo" e finalmente al "moto composto" di azionale e locale. Del moto azionale delle parti trattava L. come complemento dello studio anatomico dei varî gruppi muscolari, mentre studiava, o si proponeva di studiare, i moti azionali totali con i locali e i composti, senza stabilire tuttavia una netta distinzione tra essi, come risulta dalle varie classificazioni da lui proposte delle "operazioni" dell'uomo, diverse delle quali sono poi singolarmente analizzate. Numerosi altri dati vinciani concernono il moto azionale e locale degli animali, e particolarmente la locomozione degli animali di "quattro piedi" analoga a quella dell'uomo nell'infanzia; dei pesci, di "anguilla, biscia e mignatta", e l'analogia fra il nuoto e il volo; ma sopra tutti s'impongono per numero, ricchezza e profondità di osservazioni gli studî sopra la meccanica del volo degli Uccelli, dei pipistrelli e degl'Insetti, come indagini preliminari dirette alla soluzione del problema aviatorio dell'uomo.

Da un ultimo punto di vista venne finalmente considerato da L. il corpo umano, e cioè dal punto di vista medico. Lo scetticismo, del quale egli venne accusato nei riguardi dei medici e della medicina, fu in realtà solo apparente; benché avesse infatti combattuto l'empirismo a base di alchimia, di astrologia, di necromanzia, fu viceversa caldo fautore di una scienza medica avente per base lo studio del corpo umano, sia vivo sia morto, in condizioni tanto fisiologiche quanto patologiche, e nei rapporti con l'ambiente. Seguendo un concetto che puo farsi risalire ad Alcmeon, L. riconosce nella malattia uno squilibrio, una "discordanza d'elementi fusi nel vitale corpo", dei quali la medicina ha il compito di condurre al "ripareggiamento"; per giungere a questo, è necessario che il medico curante conosca in precedenza "che cosa è omo, che cosa è vita e complessione, che cosa è sanità". La febbre è dovuta alla cresciuta attività del cuore, sede e centro del natural calore. Per tacere di numerose questioni semplicemente proposte, ricorderemo i dati vinciani concernenti la traumatologia dei muscoli, nervi e vasi; i reperti anatomo-patologici relativi alle alterazioni senili degli organi e particolarmente dei vasi, a un focolaio tubercolare calcificato del polmone, a un caso di permanenza del foro ovale del cuore. Altre osservazioni riguardano un aneurisma artero-venoso dell'arto superiore, un caso di ematidrosi, ecc.: notevole lo schizzo di una rara mostruosità doppia (toracopago parassitico). Né mancano numerosi altri dati e osservazioni concernenti altri rami delle scienze mediche, quali la farmacologia anche sotto forma di ricette, la dietetica, l'epidemiologia, l'igiene dei fabbricati.

Giova qui fare qualche cenno degli studî vinciani nel campo delle scienze naturali più propriamente dette. L. prospettò con chiarezza le affinità morfologiche e funzionali che corrono tra l'uomo "prima bestia infra gli animali" (anzi moralmente "assai manco che bestia" se "di tristi costumi") e varie specie di Mammiferi, specialmente scimmie, Carnivori, Artiodattili e Perissodattili. Molti animali trovansi riprodotti nei disegni di L., ma un numero assai maggiore di essi è accennato negli scritti di lui, sia, come vedemmo, a proposito dei dati anatomo-comparativi, sia indipendentemente da essi. Fra gli scritti più caratteristici sull'argomento va annoverata una compilazione sul tipo dei cosiddetti Bestiarî, messa insieme con dati attinti da Plinio e da opere medievali, dove un centinaio circa di specie sono considerate nei simboli morali che rappresentano, nelle loro qualità favolose e magiche, nella distribuzione geografica, ecc. Numerosi animali e piante sono pure menzionati nelle facezie, negli enigmi e nelle favole. Dal punto di vista sistematico distingue L. gli animali che hanno "l'ossa di dentro alla lor pelle", cioè i Vertebrati con endoscheletro, da quelli che hanno l'esoscheletro, cioè "l'ossa di fori, come nicchi, chiocciole, ostriche, cappe, bovoli e simili, che sono di specie innumerabili". Dei Mammiferi, di quasi "simile specie" dell'uomo sono "babbuino, scimmia"; "seguaci" del leone sono pantere, "leonze", tigri, leopardi, lupi cervieri, gatti "di Spagna", "gannetti" e gatte comuni, ecc. Distingue poi i Perissodattili, cioè cavallo e suoi "seguaci, come mulo, asino e simili, ch'ànno denti di sopra e di sotto", dagli Artiodattili, privi d'incisivi superiori: toro e suoi seguaci cornuti e senza denti", come bufalo, cervo, daino, capriolo, pecore, capre, stambecco, "mucheri", camosci, giraffe. Negli studî sul volo degli Uccelli sono ricordati parecchi animali volatori, e cioè pipistrelli tra i Mammiferi, nibbio, aquila, oca, anitra, corvo, rondine, ecc., fra gli Uccelli; "papaglioni", cioè formicaleoni, formiche alate, mosche, ecc., fra gl'Insetti.

Per quanto concerne la botanica, riproduzioni di vegetali, soprattutto di fiori, sono frequenti nei disegni e nei dipinti vinciani, delineati non di rado con tale maestria da consentirne un'identificazione sicura. Numerose specie di piante, dai funghi agli alberi più giganteschi, sono poi saltuariamente menzionate da L. a proposito dei più disparati argomenti. Così la scorza, le foglie, i fiori, i semi, i succhi, il midollo di molte di esse sono indicati, insieme con sostanze animali e chimiche inorganiche e organiche, per la preparazione di ricette medicinali, di sostanze coloranti, per l'estrazione di profumi, per la produzione di odori nauseabondi e difensivi, per la confezione della pania, di olî, per la fabbricazione della carta, di corniole artificiali, ecc. Di diversi legnami vengono pure indicati peculiari usi. Ma sono soprattutto importanti, e più ancora sotto l'aspetto scientifico che sotto quello artistico, i precetti relativi alla figurazione degli alberi e delle verdure, costituenti la parte sesta del trattato della pittura, dove diversi paragrafi, alcuni dei quali integrati da passi vinciani non contenuti nel trattato, contengono vere e proprie scoperte nel campo della morfologia e della fisiologia vegetale. È da menzionarsi anzitutto la fillotassi, cioè la disposizione particolare che presentano le foglie nella loro inserzione sui fusti e sulle ramificazioni di questi, dove L. mostrò d'avere avuto per primo un chiaro concetto sopra alcuni ordinamenti fogliari; non mancano poi osservazioni ed esperimenti intorno all'assorbimento dell'acqua da parte degli organi epigei dei vegetali; sulla struttura a strati concentrici dei tronchi, che permette di dedurre l'età degli alberi, e sullo spessore maggiore di tali strati verso settentrione, nonché sull'accrescimento in grossezza delle piante "fatto dal sugo, il quale si genera nel mese di aprile infra la camicia ed il legno di esso albero", in corrispondenza cioè del cambio. Eseguì egli ancora esperimenti sugli effetti della decorticazione anulare degli alberi, intuendo l'importanza del movimento dei liquidi nei vegetali, né omise accenni al geotropismo negativo e all'eliotropismo positivo. Riconobbe finalmente L., come corollario allo studio degli annessi fetali dei Mammiferi, che tutte le "semenze" possiedono un cordone ombelicale, il quale si rompe allorquando giungono a maturazione, e che le "erbiglie e tutte le semenze che nascono in guaine" presentano inoltre "la matrice e secondina": un lungo cordone possiedono pure nei primi stadî i semi "che nascono in noccioli".

Anche di fronte ai complessi problemi del "macrocosmo" appare in L. scienziato anzitutto il biologo, il quale, seguendo le antiche concezioni aristoteliche tramandate al Medioevo specialmente attraverso alle Naturales quaestiones di Seneca, considera la Terra stessa come un colossale organismo, soggetto pur esso alle fondamentali leggi biologiche del nascere, del trasformarsi e del morire, date le numerose omologie e analogie tra questo "mondo maggiore" e il "mondo minore" rappresentato, come vedemmo, dall'uomo (e per conseguenza anche dagli altri animali più evoluti): questo pure sarebbe costituito infatti da terra, aria, acqua e fuoco. Le erbe e le foglie corrispondono alle penne e ai peli del tegumento, i quali, salvo eccezioni, si mutano ogni anno; le rocce allo scheletro; i "tufi" al "tenerume o alla carne" l'oceano con il suo flusso e riflusso, favorito dall'alitare di un organo interno omologo al polmone, al cuore; i corsi d'acqua ai vasi e l'acqua al sangue, i fuochi interni sono poi "la residenza dell'anima vegetativa". Principale differenza tra macrocosmo e microcosmo è l'assenza in quello del moto (azionale, diremmo oggi) e dei relativi organi; "mancano al corpo della terra i nervi (muscoli), i quali non vi sono perché i nervi sono fatti al proposito del movimento, e il mondo sendo di perpetua stabilità, non accade movimento".

A parte tali concezioni non originali del cosmo, anche agli studî geologici apportava L. notevolissimi contributi, quantunque il suo campo d'osservazione fosse rimasto circoscritto quasi esclusivamente alla Toscana e alla Lombardia, ed egli non avesse avuto a base che pochi scritti di antichi autori, segnatamente la Cosmografia di Tolomeo. Anzitutto, di fronte alla rigida concezione teologica dell'origine del mondo, egli non si peritava di confutare il racconto biblico della genesi, la storia della terra creata da seimila anni e la leggenda del diluvio universale. In secondo luogo giungeva a dimostrare che i fossili sono per la maggior parte avanzi di antichi organismi marini, e che i terreni fossiliferi, successivamente stratificati attraverso un ordine lunghissimo di tempo, sono antichi fondi di mare, divenuti, per i mutamenti della superficie della terra, falde e cime di monti. In terzo luogo illustrava la lenta e irresistibile opera di demolizione e di distruzione, esercitata sui continenti dagli agenti meteorici, e specialmente dall'acqua, la quale, erodendo e trasportando, tende a colmare i bacini dei mari con i materiali strappati alla terraferma. Né mancava L. di riconoscere i continui mutamenti nei rapporti tra mare e terra, che sta continuamente subendo la superficie terrestre, ricostruendone alcuni dei passati, specialmente in Italia e dentro e intorno al bacino del Mediterraneo, e altri prevedendone nelle future vicende della Terra.

Leonardo filosofo. - L. non fu filosofo di professione; ma il suo ingegno universale lo trasse a interessarsi dei problemi filosofici, come d'ogni altro genere di problemi in cui potesse esercitarsi quella sua curiosità intellettuale inesauribile (che doveva fargli cercare i libri, se non le scuole dei filosofi) e la sua magnanima aspirazione a pensare, a comprendere, o per lo meno a scrutare ogni difficoltà, ogni mistero. In lui infatti non è difficile sorprendere qualche eco degli insegnamenti platonici del Ficino e del Pico, dei quali è probabile che nel periodo giovanile fiorentino della sua vita egli abbia avuto conoscenza personale, mentre forte batte l'accento della sua riflessione sulla necessità dell'esperienza, cui la sua stessa indagine inquieta, ansiosa di tutto ciò che fosse osservabile direttamente in natura, gli faceva sentire l'importanza. Come i pensatori del suo tempo, figli dell'umanesimo, rifiuta e combatte il principio di autorità per appellarsi appunto all'esperienza sensibile: "Ogni nostra cognizione principia dai sentimenti". E altrove: "Molti mi crederanno ragionevolmente potere riprendere, allegando le mie prove esser contro all'alturità (autorità) d'alquanti omini di gran reverenza a presso de' loro inesperti iudizi, non considerando le mie cose essere nate sotto la semplice e mera sperienza, la quale è maestra vera". Maestra di sapere, ma anche maestra di operare: "Queste regole" prosegue infatti L., "son cagione di farti conoscere il vero dal falso; la qual cosa fa che li omini si promettano le cose possibili, e con più moderanza; che tu non ti veli d'ignoranza; che farebbe che, non avendo effetto, tu t'abbi con disperazione a darti malinconia". Perciò la scienza secondo L. non vuol essere libresca, ma fondata sull'esperienza: "Se bene, come loro, non sapessi allegare gli altori, molto maggiore e più degna cosa a leggere allegando la sperienza, maestra ai loro maestri. Costoro vanno sgonfiati e pomposi, vestiti e ornati, non delle loro, ma delle altrui fatiche; e le mie a me medesimo non concedono. E se me inventore disprezzeranno, quanto maggiormente loro, non inventori, ma trombetti e recitatori delle altrui opere, potranno essere biasimati!". Nel Trattato della pittura, dice anche più energicamente: "Ma a me pare che quelle scienzie sieno vane e piene di errori, le quali non sono nate dall'esperienza, madre di ogni certezza, e che non terminano in nota esperienza; cioè, che la loro origine e mezzo o fine non passa per nessuno de' cinque sensi. E se noi dubitiamo della certezza di ciascuna cosa che passa per li sensi, quanto maggiormente dobbiamo noi dubitare delle cose ribelli a essi sensi, come dell'essenzia di Dio e dell'anima e simili, per le quali sempre si disputa e contende! E veramente accade, che sempre dove manca la ragione, suplisse le grida; la qual cosa non accade nelle cose certe. Dove si grida, non è vera scienzia, perché la verità ha un sol termine; il quale essendo publicato, il letigio resta in eterno distrutto. "E la verità giunge al suo termine mediante le scienze che "la sperienzia ha fatto penetrare per li sensi, e posto silenzio alla lingua de' litiganti".

Ma L. non è un empirista o un antesignano, come si ripete erroneamente, della filosofia sperimentale. L'esperienza dei sensi, per lui, non basta. Nello stesso luogo del Trattato della pittura, della scienza vera che, fondata sull'esperienza, non "pasce di sogni li suoi investigatori", egli, rivendicando i diritti della deduzione razionale, ossia del pensiero, dice "sempre sopra li primi veri e noti principî procede successivamente e con vere seguenzie in sino al fine". Platonicamente egli nel Cod. trivulziano (f. 33 r.) sentenzia che "i sensi sono terrestri, la ragione sta for di quelli, quando contempla". Perciò, esperienza sì, ma poi ragione. "Ricòrdati quando comenti l'acque, d'allegar prima la sperienza e poi la ragione". E il perché di questo superiore intervento è detto da L. (Cod. E, f. 55 r.) in modo che basta a provare quanto egli si distanzî dall'ingenuo empirismo posteriore: "mia intenzione è allegare prima la sperienza e poi colla ragione dimostrare perché tale sperienzia è constrecta in tal modo adoperare. E questa è la vera regola come li speculatori dell'effecti naturali hanno a prociedere. E ancora che la natura cominci dalla ragione e termini nella esperienza, a noi bisogna seguitare in contrario, cioè cominciando (come sopra dissi) dalla sperienzia, e con quella investigare la ragione". Giacché L. crede nella ragione originaria, a priori, della natura. E nel Cod. Atl. (f. 147 v) afferma che "nessuno effetto è in natura senza ragione. Intendi la ragione, e non ti bisogna sperienza". Altrove (Cod. E., f. 23 r.) parla di "natura costretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamente vive". E quindi questa ragione è per lui principio ed è fine. E il pensiero comincia dall'esperienza, ma per affrancarsene e tornare alla ragione.

Fonti e scritti - Cenni sui manoscritti di Leonardo da Vinci, e sullu loro tradizione. - Se l'"Academia Leonardi Vincii" al tempo di Lodovico il Moro fosse realmente esistita, le trattazioni di L. sarebbero state altrettante comunicazioni, di difficile lettura per altro, data l'incompiuta loro redazione e la forma della scrittura a rovescio. Ma l'Uzielli dimostrò l'inesistenza di tale accademia che poté essere una scuola, e spiegò quei bei tondi o dischi di nodi vagamente intrecciati, in bianco su fondo nero, riprodotti più tardi dal Dürer, come modelli di disegni lineari per allievi, specie di ex-libris. Checchessia di questa accademia, è certo che L. portò gran parte dei suoi manoscritti fino all'ultimo rifugio di Cloux; qualche dispersione avvenne certamente durante il lungo periodo della vita errabonda (1500-1516) e quando depositò parte dei suoi studî presso S. Maria Novella. Ma la più importante storia dei manoscritti vinciani riguarda il periodo dal 1519 al 1635, e ci è narrata dalla ben nota relazione del barnabita Ambrogio Mazzenta. In forza del citato testamento di L., il Melzi divenne l'erede di tutta la proprietà intellettuale di lui, insieme col ritratto. Finché visse il Melzi, il tesoro fu custodito nella villa di Vaprio, sull'Adda. Morto il Melzi, gli eredi, ignari dell'importanza di quei quaderni e fogli di disegni, li ammassarono nei soffitti, dove li notò tale Lelio Gavardi istitutore della famiglia Melzi. Il Gavardi, sicuro dell'immunità, trafugò undici libri di manoscritti e disegni, che portò a Pisa, presso un suo parente, tale Mannucci, sperando di poterli vendere al granduca. Ma nel frattempo la morte del granduca mise nell'imbarazzo il Gavardi; e avendo il Mazzenta condiscepolo del Mannucci, rimproverato del suo atto l'indelicato istitutore, questi si lasciò persuadere ad affidare al Mazzenta stesso gl'importanti manoscritti, perchè venissero restituiti al Melzi in Vaprio. Orazio Melzi volle premiare la correttezza del Mazzenta, regalandogli gli undici volumi non solo, ma aggiungendone altri rimasti abbandonati nella sua casa. Quando Pompeo Leoni figlio del famoso scultore Leone, con altri, venne a sapere la strana liberalità del Melzi, ci fu una gara di richieste e quindi di concessioni e conseguenti dispersioni di manoscritti vinciani. Il Leoni pregò il Melzi di ricuperare gli scritti dati ai Mazzenta, ma la famiglia di questo poté dare solo sette dei tredici volumi; il Leoni poi ne ottenne altri tre, perché i restanti erano stati regalati già al pittore Ambrogio Figino, al cardinale Federico Borromeo e al duca Carlo Emanuele di Savoia. Il Leoni ebbe l'infelice idea di formare con essi due grossi volumi, uno di grandi proporzioni intitolato Disegni di macchine e delle arti secrete (il cosiddetto Codice Atlantico) pensando falsamente che la scrittura singolare di L. avesse lo scopo di nasconderne il contenuto ai profani, e raccolse nell'altro volume la maggior parte dei disegni artistici e di anatomia. Il Codice Atlantico, attraverso l'erede Cleodont Calchi, fu venduto a Galeazzo Arconati, il quale, riuscito a raccogliere altri undici codici, nel 1637 fece dono di tutti i manoscritti vinciani alla Biblioteca Ambrosiana. L'altro volume del Leoni, portato in Spagna, fu comprato dal re d'Inghilterra, che per mezzo di lord Arundel faceva acquisti anche di manoscritti vinciani. Sicché la gran parte dell'eredità di L. verso questo tempo era divisa fra Milano e l'Inghilterra; ma già erano in giro fogli sparsi di varia importanza, oltre quelli non ereditati dal Melzi. I codici leonardiani, descritti in parte e sommariamente dal Mazzenta, sono di varia natura; alcuni sono composti di fogli sparsi e rimasti nelle forme originarie di schede volanti di vario formato; altri sono veri codici di formato differente anche questi, a seconda dello scopo per cui servirono. Si sa infatti che L. adoperava codicetti tascabili sui quali segnava rapidamente i suoi pensieri o per scritto o con disegni (v. fig. 85). Ma altri codici contenevano una trattazione definitiva e avevano formato più ampio: oltre a queste due serie di codici originarî, ve ne sono altri fittizî, composti cioè da raccoglitori, tali sono i due codici del I. eoni e quello di lord Arundel, che hanno messo insieme materie disparatissime e monche, mentre i codici originarî contengono a volte materie omogenee che si protraggono, per qualche pagina almeno. Questo disordine nella tradizione dei manoscritti vinciani ha accresciuto ancora le difficoltà già notate della scrittura a specchio e delle caratteristiche abbreviature di L., che adopera una grafia singolare per l'espressione dei suoni parlati, mentre il suo fraseggiare conciso e schietto si distacca pure dalle elaborate opere letterarie dei suoi contemporanei. Lo stato, caotico quasi, dei manoscritti vinciani non è tutta opera delle vicende surricordate; L. stesso non aveva dato ai suoi scritti un ordine pieciso, né aveva elaborato nessuno dei numerosi argomenti, a volte parzialmente e acutamente trattati: qualche tentativo di ordinamento è rimasto soltanto nella fase iniziale, come dimostra il principio del codice Arundel, invece i centoventi libri della sua anatomia, i quaranta libri d'idraulica (v. figg. 86, 87) i molteplici capitoli di geometria e di matematica sono, non dico fantastici, ma rimasti nella mente dell'autore. Tentativi di riordinamento del materiale vinciano furono fatti forse dal Melzi stesso per la pittura, dando origine al volume del Trattato della pittura, contenuto nel codice Urbinate lat. 1270 edito dal Ludwig, in Quellenschriften für Kunstgeschichte und Kunsttechmk des Mittelalters u. der Renaissance, Vienna 1882, mentre tutta la teoria dell'idraulica, sotto forma di una compilazione ancora pjù difettosa dell'altro lavoro, fu messa insieme per opera di fra Luigi Arconati figlio di Galeazzo, nel cod. Barberino che porta il titolo di Trattato del moto e misura dell'acqua, edito da E. Carusi-A. Favaro, nelle pubblicazioni dell'Istituto di studi vinciani, Bologna 1923. In seguito i codici vinciani furono lasciati relativamente tranquilli fino all'Oltrocchi e al Gerli nel sec. XVIII; trasportati dalla rapina napoleonica a Parigi, formarono oggetto di studio accurato del modenese G.B. Venturi che non solo diede ai codici conservati nell'Istituto di Parigi la numerazione moderna con lettere dell'alfabeto, in sostituzione delle vecchie segnature, ma ne fece transunti e ne copiò passi identificati e pubblicati da G. B. De Toni. La schiera dei vinciani si accresceva ormai, a cominciare da G. Libri: a lui seguirono G. Govi, E. Lombardini, G. Uzielli, A. Cialdi, L. Beltrami, Ch. Ravaisson-Mollien, G. Piumati, M. Baratta, F., G. L., e G. Calvi, M. Cermenati, A. e G. Favaro, E. Verga, R. Marcolongo e altri, alcuni dei quali fanno anche parte della R. Commissione Vinciana creata nel 1902 con lo scopo di pubblicare criticamente tutti i manoscritti e i disegni di L. L'attività di questa commissione, dopo i lunghi lavori di preparazione, si può veramente datare solo dal 1919, quando il IV centenario della morte di L. risollevò un'aura di popolarità attorno al grande pittore: rendiconti delle sedute e dei lavori si hanno nella Raccolta vinciana (fondata nel 1904), Fasc. XI, pag. 239 segg.; XII, 193; XIII, 278, 284. La commissione, presieduta ora da G. Gentile, prosegue nell'adempimento del suo compito; sono di prossima pubblicazione le due parti del secondo volume dei codicetti Forster, del Victoria and Albert Museum (South Kensington Museum), mentre è stampato già il testo del terzo volume; uscirà pure fra breve il terzo fascicolo dei disegni, già tutti studiati da A. Venturi. Altro lavoro pronto per la stampa è quello di M. Baratta sulla cartografia di L. Così avanza sicura l'edizione del Corpus vincianum, che mentre raccoglierà coordinati intorno ai principali soggetti pittorici di L. i disegni a noi giunti, per i manoscritti darà in primo tempo l'edizione dei codici inediti o poco noti, nello stato in cui si ritrovano; un coordinamento per materie si potrà forse tentare solo per i fogli sparsi, i quali saranno un piccolo complemento al lodevole tentativo del Richter. Nessun rapporto ufficiale con la commissione ebbe l'Istituto di Studî vinciani fondato da M. Cermenati, e finito con lui, dopo avere promosso importanti pubblicazioni sui varî punti dell'attività scientifica e artistica di L. e sui vinciani d'Italia (v. volume Per il IV centenario di L. da V., Bergamo 1919).

Scritti vinciani pubblicati. - Le edizioni di manoscritti e disegni di L. dal 1645 (V. Hollar, Variae figurae et probae artis picturae incipiendae iuventuti utiles) fino al 1927 sono molto ampiamente ed esattamente indicate da E. Verga, Bibliografia Vinciana, Bologna 1931, pp. 25-46; e nelle pp. 765-774. Di capitale importanza sono i codici conosciuti con le segnature A-M della biblioteca dell'Institut di Parigi, pubblicati da Ch. Ravaisson-Mollien; il Codice Atlantico, edito da G. Piumati; il codice di Leicester, ed. da G. Calvi; il cod. Trivulziano ed. da L. Beltrami; i cosiddetti codici A e B di anatomia, editi dal Piumati-Sabachnikoff; i sei Quadernii ai anatomia, tratti da manoscritti di Windsor e pubblicati da Ove C.L. Vangensten, A. Fonahn, H. Hopstock, in Cristiania; e altri testi non esclusi i 22 volumi raccolti dal Rouveyre, poco corretto editore parigino, che ha riprodotto in fotografia soltanto disegni e manoscritti specialmente quelli conservati in Inghilterra, raccogliendo un materiale utile per gli studiosi. Circa le pubblicazioni della R. Commissione vinciana oltre alla stampa del codice Arundel, in voll. 4, delle aggiunte al codice sul volo degli uccelli, e dei due fascicoli di disegni, è da ricordare la stampa del primo volume dei codicetti Forster, nel Victoria and Albert Museum (South Kensington Museum) di Londra, ed. a Roma nel 1930.

Anche per le antologie, e raccolte varie, redatte su scritti originali di L. dal Solmi, dal Beltrami, dalla Fumagalli e da altri italiani e stranieri, basta la nota precisa del Verga (Bibliografia, pp. 47-50); fra queste antologie va notato il piccolo saggio di Angiol Maria d'Anghiari, La filosofia di L. da V., estr. dalla Rivista di filosofia neoscolastica, 1920, dove con discieto commento sono raccolti tutti i passi degli scritti di L. con carattere filosofico-religioso.

Bibl.: L'ampia Bibliografia vinciana di E. Verga, con i copiosi indici finali, è sufficiente per rintracciare, nei 2900 numeri, le edizioni delle opere di L. e tutta la produzione di autori italiani e stranieri intorno a L. Qualche osservazione sul metodo e su poche omissioni riscontrate nell'opera del Verga è stata fatta da Heydenreich, in Zeitschrift f. Kunstgschichte, n. s., I (1932), pp. 67-71 e da G. Calvi, in Arch. stor. lombardo, LIX (1932), pp. 560-568. Circa la biografia una guida per conoscere le varie fonti si trova nell'Indice delle persone alla voce Leonardo. Qui si accenna solo ad alcuni testi a cui con maggior profitto si può fare ricorso, e cioè alla ristampa della Vita di L. di G. Vasari, nuovamente commentata e illustrata da G. Poggi, Firenze 1919, e soprattutto ai documenti originali editi già col titolo Regesti vinciani, in Raccolta vinciana (voll. II, III, VIII, XI) e pubblicati per intero da L. Beltrami, Documenti e memorie riguardanti la vita e le opere di L. d. V. in ordine cronologico, Milano 1919; ma a rettificare date delle fonti e apprezzamenti, giova il lavoro di G. Calvi, I manoscritti di L. d. V. (Pubblicazioni dell'Istituto vinciano in Roma, VI), Bologna 1925, dove tanti elementi biografici sono accertati (vedi A. E. Popp, in Zeitschrift für bildende Kunst, LIX, 1925, pp. 63-65). Di vite di L. scritte anche con intendimenti da romanzo se ne trovano fin troppe; l'ultima di R. Mazzucconi, Firenze 1932, fa sempre più desiderare l'annunziato lavoro di G. Calvi, in corso di stampa. Di alcune rare biografie ha data notizia M. Cermenati negl'interessanti, ma incompiuti articoli pubblicati in Nuova Antologia, LIV (1919). Oltre il lavoro fondamentale di G. Uzielli, Ricerche intorno a L. d. V., s. 1ª e 2ª, Firenze 1872 e Roma 1884, si cfr. le opere interessanti di E. Müntz (Parigi 1899), di E. Solmi (Firenze 1900) e di F. Malaguzzi Valeri (Bologna 1922); gli Scritti vinciani di E. Solmi sono stati raccolti dal fratello Arrigo, Firenze 1924. Sicure sono le notizie che si trovano nel lavoro di G. Calvi, Abbozzo di capitolo introduttivo ad una storia della vita e delle opere di L. d. V., in Raccolta vinciana, XIII (1926-29), pp. 3-34; di E. McCurdy, The mind of Leonardo da Vinci, Londra 1928, a cui ha fatto osservazioni G. Calvi, in Arch. stor. lombardo, LV (1928). Per L. e i suoi discepoli e imitatori si veda W. Suida, L. und sein Kreis, Monaco 1929.

Per L. artista, v.: Ch. W. Heaton e Ch. Chr. Black, L. d. V. and his Works, Londra 1874; P. Müller-Walde, L. d. V. Lebensskizze und Forschungen über sein Verhältniss zur florentiner kunst u. zu Raphael, Monaco 1889-90; G. Séailles, L. d. V. L'artiste et le savant, Parigi 1892 (nuova ed., 1906); A. Rosenberg, L. d. V., Bielefeld 1898; E. Müntz, L. d. V., l'artiste, le penseur, le savant, Parigi 1899; A. L. Wolynski, L. d. V. (in russo), Pietroburgo 1900; 2ª ed., Kiev 1909; G. Gronau, L. d. V., Londra 1903; E. McCurdy, L. d. V., Londra 1904; P. Horne, The life of L. d. V. by G. Vasari, Londra 1903; W. v. Seidlitz, L. d. V. der Wendepunkt der Renaissance, voll. 2, Berlino 1909; J. Thiis, L. d. V., Cristiania 1909; trad. inglese col titolo: L. d. V. The florentine Years of L. and Verrocchio, Londra 1914; O. Sirén, L. d. V., Stoccolma 1911; trad. inglese, Londra 1916; trad. francese, Parigi-Bruxelles 1928; F. Malaguzzi Valeri, La corte di Lodovico il Moro, II, Milano 1915; B. Berenson, The study and criticism of italian art, s. 3ª, Londra 1916; L. Venturi, La critica e l'arte di L. d. V., Bologna 1919; A. Venturi, L. d. V. pittore, Bologna 1920; W. Bode, Studien über L. d. V., Berlino 1921; G. Carotti, L. d. V. pittore, scultore, architetto, Torino 1921; A. Venturi, La pittura del Cinquecento, in Storia dell'arte ital., IX, i, Milano 1925, pp. 1-221; Ed. Hildebrandt, L. d. V., Berlino 1927; A. Venturi, I mss. e i disegni di L. d. V., pubblicati dalla R. Commissione vinciana, Disegni, fasc. 1° e 2°, Roma 1928-30; A. E. Popp, L. d. V. Zeichnungen, Monaco 1928; R. S. Stites, L. d. V. sculptur, in Art Studies, IV, VI, VIII (1926-30); W. Suida, L. und sein kreis, cit.

Per L. scienziato, v.: F. Schuster, Zur Mechanik L. d. Vinci's, Erlangen 1915; F. M. Feldhaus, Die Technik der Vorzeit d. geschichtl. Zeit u. Naturvölker, Lipsia 1914; id., L. der Techniker und Erfinder, Jena 1922; J. B. Hart, The mechanical investigations of L. d. V., Londra 1925; R. Marcolongo, Le ricerche geometrico-meccaniche di L. d. V., in Atti della Società italiana delle scienze detta dei XL, s. 3ª, XXIII (1929), pp. 49-101; id., in Rend. Acc. Lincei, IX (1929); La meccanica di L. d. V., in Atti R. Acc. sc. fis. e mat. di Napoli, s. 2ª, XIX (1932), pp. 1-150; R. Giacomelli, The aerodyamics of L. da V., in the Journ. of the R. Aeronautical Society, XXIV (1930); J. B. Venturi, Essai sur les ouvrages physico-mathématiques de L. d. V., Parigi 1797; ripubblicato da G. B. De Toni, G. B. Venturi e la sua opera vinciana, Roma 1924; G. Libri, Histoire des sciences mathématiques en Italie, III, Parigi 1840, pp. 1-58; G. Govi, L. letterato e scienziato, Milano 1872; ripubblicato da A. Favaro, in G. Govi, Roma 1923; R. Caverni, Storia del metodo sperimentale in Italia, Firenze 1891-1900, IV; P. Duhem, Les origines de la statique, Parigi 1905-1906; id., Léonard de V., ceux qu'il a lu et ceux qui l'ont lu, Parigi 1906-14.

In particolare: per L. biologo, v.: E. Möller, Abbozzi e testi sconosciuti del V. sull'anatomia, suppl. al fasc. 13° della Racc. vinciana, 1930; G. Favaro, Intorno al nuovo foglio anatomico vinciano del castello di Weimar, in Atti Ist. Veneto, LXXXIX (1930); id., Intorno al problema vinciano dell'accorciamento dell'avambraccio nella pronazione, ibid., 1930; id., La mano "stanca" di L. Orazione, in Ann. Univ., Modena 1929-30; id., Come scriveva L., in Riv. st. sc. med. e nat., XXI (1930); G. Bilancioni, L. e Cardano, ibid., XXI (1930); id., L. d. V. e la dottrina del macro e del microcosmo, in Miscell. studi lomb. in onore di E. Verga, Milano 1931; id., L. d. V. e lo studio anatomico della faringe, in Scritti medici dedicati a R. Simonini, Modena 1932; A. Baldacci, L'adolescenza di L. d. V. e il mondo verde, in Raccolta vinciana, XIII (1926-29), pp. 114-129; id., Le piante nelle pitture di L. Gli alberi e le verdure nel Trattato della pittura di L. d. V., in Mem. Acc. sc. Ist. Bologna, s. 8ª, VI-VIII (1929-1931); J. P. McMurrich, L. d. V. the Anatomist (1452-1519), Baltimora 1930.

Per i contributi di L. alle altre scienze: M. Baratta, L. d. V. e i problemi della terra, Torino 1903; G. B. De Toni, Le piante e gli animali in L. d. V., Bologna 1922; G. De Lorenzo, L. d. V. e la geologia, Bologna 1920.

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