Legge

Enciclopedia Dantesca (1970)

legge


Anche nella concezione dantesca, la l. assume il valore di ‛ principio normativo ' dell'ordine universale, dell'ordinamento civile ed ecclesiastico e del comportamento dei singoli. L'unica definizione esplicita di l. troviamo in Mn I XIV 5 est... lex regula directiva vitae ov'è genericamente evidenziato il carattere regolativo della l. rispetto ad ogni società umana.

I caratteri della l. in generale. - I caratteri della l. sono da D. precisati in vari contesti, ma sempre in riferimento alla tradizione filosofico giuridica del tempo.

Finalità della legge. - Secondo la tradizione aristotelica (Eth. Nic. IV 5,1122b; V 3, 1129b 14, 21; Pol. III 6, 1138b 21 ss.; 10, 1281a 35; 11, 1282b 11; 12, 1282b 17; 13, 1284b 6) la l. ha come scopo di ordinare gli atti dei sudditi in vista del bene dell'intera società (bonum commune) e a tal fine essa è dotata di potere coercitivo che ordina e stabilisce in vista della giustizia in generale.

In Mn II V 2-4 D. recupera tale nozione sulla base dell'autorità di Cicerone (Inv. I XXXVIII 68), e di Seneca (De Quatuor virtutibus, per cui v. Martino di Bracara De Formula honestae vitae V 1): si... cuiuslibet sotietatis finis est comune sotiorum bonum, necesse est finem cuiusque iuris bonum comune esse; et impossibile est ius esse, bonum comune non intendens. Propter quod bene Tullius in ‛ Prima rethorica ': semper - inquit - ad utilitatem rei publicae leges interpretandae sunt. Quod si ad utilitatem eorum qui sunt sub lege leges directae non sunt, leges nomine solo sunt, re autem leges esse non possunt: leges enim oportet homines devincire ad invicem propter comunem utilitatem. Propter quod bene Seneca de lege cum in libro ‛ De quatuor virtutibus ', " legem vinculum " dicat " humanae sotietatis ". Patet igitur quod quicunque bonum rei publicae intendit finem iuris intendit. Si ergo Romani bonum rei publicae intenderunt, verum erit dicere finem iuris intendisse. Da notare come nel passo dantesco la nozione di l. presuppone l'etimologia corrente nel Medioevo (" lex a ligando ") che sentiva la l. come ‛ vincolo ' della società umana. Tale vincolo è valido solo in quanto connesso al fine della società che è l'utilità comune, a cui deve tendere, il diritto. Il bonum comune, o bonum rei publicae è quindi requisito sostanziale della l. e del diritto, mancando il quale le l. rimangono tali solo dal punto di vista formale (nomine) ma non sostanziale (re).

Legislatore unico. - All'attuazione del bonum commune è posto il legislatore che mediante le l. ordina gli atti dei sudditi al perseguimento del bene di tutti (Tommaso Sent. III 33 3 1 4 " regis civitatis est bonum commune totius multitudinis coniectare. Legislator intendit bonum commune per lationem legis "). Da ciò l'affermazione di D. (Cv I VIII 4) vedemo li ponitori de le leggi massimamente pur a li più comuni beni tenere confissi li occhi, quelle componendo. Poiché il bonum commune del genere umano e della società in generale è unico, D. ne deriva la necessità di un unico legislatore che identifica nella persona dell'imperatore. Ma proprio la considerazione che consorzio sociale e bene comune sono la misura a cui devono essere ricondotte le l. e l'organizzazione del potere porta D. all'affermazione che quemadmodum non politia ad leges, quinymo leges ad politiam ponuntur, sic secundum legem viventes non ad legislatorem ordinantur, sed magis ille ad hos (Mn I XII 11) e che perciò, considerata dal punto di vista dell'interesse di tutti, la gerarchia dei valori s'inverte, e il monarca diviene minister omnium proprio in quanto necessitatur a fine sibi praefixo in legibus ponendis (§ 12). In Mn I XIV 4 afferma che humanum genus potest regi per unum suppremum principem, qui est Monarcha, e glossa l'espressione (§ 7) nel modo seguente: sic intelligendum est: ut humanum genus secundum sua comunia, quae omnibus competunt, ab eo regatur et comuni regula gubernetur ad pacem.

Tale elemento è una costante del pensiero politico di D.; con riferimento all'ordinamento di ogni cielo che è regolato da un unico motore e quindi da un unico moto, in Mn I IX 2 è affermato che humanum genus tunc optime se habet, quando ab unico principe tanquam ab unico motore, et unica lege tanquam unico motu, in suis motoribus et motibus reguletur. L'analogia col moto celeste serve a D. a rilevare la ‛ naturalità ' e quindi la ‛ razionalità ' dell'ordinamento politico che conforma la propria norma a quello naturale.

Così ancora in Cv IV IV 7 chi a questo officio [l'imperio] è posto è chiamato Imperadore, però che di tutti li comandamenti elli è comandatore, e quello che esso dice a tutti è legge, e per tutti dee essere obedito e ogni altro comandamento da quello di costui prendere vigore e autoritade. Il problema che qui D. pone è quello del rapporto tra l. generale, emanante dall'imperatore, e l. particolari degli organismi dell'Impero. Tale rapporto è da D. giustificato, per analogia, con quello che intercorre tra intelletto speculativo e pratico (v. INTELLETTO) in Mn I XIV 7 regulam sive legem [comune emanante dall'imperatore] particulares principes ab eo recipere debent, tanquam intellectus practicus ad conclusionem operativam recipit maiorem propositionem ab intellectu speculativo, et sub illa particularem, quae proprie sua est, assummit et particulariter ad operationem concludit. La caratteristica della l. imperiale si definisce quindi, ancora una volta, rispetto ai comunia del genere umano, cioè alla finalità propria degli uomini in quanto tali, esseri di ragione (cfr. Cv IV IX 9 lo Imperadore, al quale tanto quanto le nostre operazioni proprie... si stendono, siamo subietti; e più oltre no), che solo in un ordinamento unico ricevono la garanzia di una convivenza ordinata e che, sotto la condizione essenziale della pace, possono attuare il loro fine naturale. Le l. particolari hanno d'altro lato come caratteristica quella di corrispondere alle esigenze particolari dell'uomo in quanto essere naturale a un triplice livello, dell'organizzazione della città, del regno, delle nazioni (cfr. Mn I XIV 5 Habent nanque nationes, regna et civitates intra se proprietates, quas legibus differentibus ferentibus regulari oportet).

Al fine di determinare ulteriormente l'area di competenza legislativa dell'imperatore occorre tener presente un passo del Convivio (IV IX 14-15), in cui D. riconosce piena validità e pieno potere vincolante solo a quelle norme imperiali che sono assimilabili alle pure arti (vale a dire a quelle arti che utilizzano come strumento la natura, com'è l'arte del vogare con remo che sfrutta il principio naturale della impulsione). Rientrano così nella piena competenza dell'imperatore le leggi de' matrimonii, de li servi, de le milizie, de li successori in dignitade, e di queste in tutto siamo a lo Imperadore subietti (§ 14); queste l. sono in tutto proprie dell'imperatore in quanto regolano la vita dell'uomo come animale sociale (cfr. Ep V 20 res privatas vinculo suae legis, non aliter, possidetis). Assimilabili a una seconda categoria di arti, come quelle del seminare e dell'uscir di porto, solo parzialmente dipendenti dalla razionalità del ‛ competente ', giacché anch'egli deve tener conto delle disposizioni della natura, altre l. sono quasi seguitatrici di natura, sì come constituire l'uomo d'etade sofficiente a ministrare, e di queste non semo in tutto subietti all'imperatore (§ 15). Infine, le l. paragonabili a quelle attività che sembrano rientrare in un'arte ma in realtà spettano a un'altra (come il pescare, che sembra aver parentela col navigare e invece è sotto l'arte della ‛ venatura '), le l. che esulano dal potere imperiale (quelle della logica, ad esempio) non obbligano in alcun modo i sudditi.

Più generalmente D., seguendo Aristotele (Rei. I I, 1354a 31 ss.), afferma in Mn I XI 11 quae lege determinare possunt nullo modo iudici relinquantur, cioè qualsiasi legislatore deve ‛ determinare ' tutto ciò che è in suo potere di prescrivere, così da non lasciar spazio all'arbitrio e alla cupidigia (senza la cupidigia infatti il diritto coinciderebbe con la morale).

Promulgazione. - Al termine della sua elaborazione la l. non è ancora costituita perfettamente. Se l'oggetto (bonum commune) della l. c'è, e la sua esistenza decisa, essa come tale ancora non ha potere vincolante. Se la volontà dell'imperatore ‛ provoca ' l'esistenza della l., essa è in grado di obbligare solo mediante l'atto della promulgazione, cioè l'atto mediante cui la l. perviene alla conoscenza di chi ha il dovere d'osservarla. Perciò, afferma D. in Cv IV IX 9, A questa [‛ Ragione scritta ', cioè il Corpus iuris] scrivere, mostrare e comandare, è questo officiale posto di cui si parla, cioè lo Imperadore; qui D. si riferisce ai tre momenti fondamentali della formulazione della l. (scrivere), della promulgazione (mostrare) e della imposizione di essa (comandare) mediante la sanzione dell'autorità imperiale.

La L. positiva. - Così perfezionata sotto l'aspetto sostanziale e formale, la l. assume lo specifico carattere di l. ‛ positiva ' che, emanante da un'autorità legittima entro un ordinamento giuridico determinato, è dotata di un efficace potere vincolante. Tale caratteristica è una delle prime e più evidenti della l. (i medievali avevano presente la dizione di Cicerone Leg. I XII 33 " lex... est recta ratio in iubendo et vetando "), sentita, appunto, in primo luogo come coercitiva e limitante (Isidoro Etym. V XX " Factae sunt.... leges ut earum metu humana coerceatur audacia ": solo il timore delle sanzioni è in grado di condurre l'uomo alla pratica della virtù). A questo aspetto coercitivo si riferisce D. in Pg XVI 94 Onde convenne legge per fren porre; / convenne rege aver, che discernesse / de la vera città almen la torre, dove la limitazione imposta dalla l. positiva (per fren porre) in tanto è lecita in quanto è fondata su una obbligazione morale insita per natura nell'uomo (cioè conseguire la virtù e il vero bene, vv. 89-90) e che la l. interpreta rettamente rendendone esplicito l'imperativo (l'anima seguendo un bene ingannevole dietro ad esso corre / se guida o fren non torce suo amore, vv. 92-93).

Ma essenziale all'efficacia d'una l. è che l'imperium del reggitore la ‛ imponga '. In mancanza di ciò la ‛ norma scritta ', anche se formulata secondo giustizia (cfr. Cv IV IX 8), giace inerte; da ciò l'esclamazione di D. al v. 97 Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?

Modelli di l. positiva - in contrapposizione ai labili e ingegnosi provedimenti di Firenze che è solita ‛ mutare l. ' (Pg VI 146) - sono per D. le antiche leggi (v. 140) cioè gli ‛ ordinamenti giuridici ' di Atene e Sparta in quanto civili, cioè ordinati all'interesse della " civitas ", all'utilità comune. D. poteva leggere nelle Institutiones giustinianee come Atene e Sparta fossero " origo " dello ius civile (I II 10 " in duas species ius civile distributum videtur. Nam origo eius ab institutis duarum civitatium, Athenarum scilicet et Lacaedemonis, fluxisse videtur "). In Pd VI 12 il riferimento è al Corpus iuris civilis e all'opera (d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano) divinamente ispirata di Giustiniano. La riaffermazione della divina ispirazione nell'opera di Giustiniano (a Dio per grazia piacque di spirarmi / l'alto lavoro, vv. 23-24) solleva il Corpus dalla sua specifica condizione storica di diritto positivo di un'epoca determinata a quella di norma assoluta conforme al diritto naturale. L'intervento divino mediante l'emendazione di Giustiniano ha infatti reso quelle l. espressione di una perfetta convivenza umana e specchio del diritto naturale. In Pd XX 55 è ancora la ‛ legislazione ' imperiale quella recata da Costantino (L'altro che segue, con le leggi e meco). Riferimenti al Corpus iuris sono ancora quelli di Cv IV XV 17 e XXIV 15, Fiore CX 10. Come ‛ ordinamento legislativo vigente ' ricorre in Fiore CLXXXIII 2 e 5, e Detto 218; l. positiva ridotta a strumento di parte è quella di If X 84. Deriva da Lucano Phars III 119-120 (" Pereunt discrimine nullo / amissae leges ") il luogo di Cv IV XI 3 Sanza contenzione periro le leggi.

Il singolo e la legge. - In VE I XVI 3 D. afferma che in quantum simpliciter ut homines agimus, virtutem habemus... secundum ipsam bonum et malum hominem iudicamus, in quantum ut homines cives agimus, habemus legem, secundum quam dicitur civis bonus et malus. Qui D. distingue due determinazioni dell'uomo, in quanto essere di ragione e animale politico. In ambedue i casi egli è soggetto a una norma d'azione: l'una interiore, cioè la l. morale che coincide con la virtù e che lo obbliga in quanto persona singola, l'altra esteriore, cioè la l. positiva che lo vincola in quanto essere socievole, legato per natura ai suoi simili nell'organismo della civitas. Ma tra l. morale e l. positiva, ove si ispirino - come devono - allo stesso criterio del Bene e della Giustizia, non c'è divergenza. Esse pertanto sono abilitate a pari titolo, ciascuna nel proprio ordine, a giudicare della rettidudine dell'uomo in quanto semplice uomo o cittadino.

Parallelamente al rispetto dei publica iura in quanto fondamento della società per decreto naturale e divino il singolo è portato sia per convinzione razionale che per la sacertà dell'obbligazione della l.: legum sanctiones almae declarant, et humana ratio percontando decernit, publica rerum dominia... numquam posse vanescere... nam quod ad omnium cedit utilitatem, sine omnium detrimento interire non potest... et hoc Deus et natura non vult (Ep VI 7). Fondamento naturale e, a fortiori, divino del diritto garantiscono pertanto la conformità della l. positiva con l'ordine morale. Ambedue infatti additeranno lo stesso fine. Ma l'ordine morale è pur sempre superiore, nel grado, a quello strettamente giuridico e l'uomo, che a quell'ordine partecipa perché dotato d'intelletto e ragione - e pertanto di libero arbitrio -, condiziona a tale conformità il proprio ossequio alle l.: intellectu ac ratione degentes, divina quadam libertate dotati, nullis consuetudinibus astringuntur; nec mirum, cum non ipsi legibus, sed ipsis leges potius dirigantur (Ep XIII 7).

Il problema del rapporto fra libertà umana e l. si dirime così nella considerazione che, una volta constatata la conformità tra i due ordini, l'uomo attua la propria libertà proprio nell'accordo tra il retto giudizio e la prescrizione della l.: observantia [delle l.] ... si laeta, si libera, non tantum non servitus esse probatur, quin ymo perspicaciter intuenti liquet ut est ipsa summa libertas. Nam quid aliud haec nisi liber cursus voluntaris in actum quem suis leges mansuetis expediunt? Itaque solis existentibus liberis qui voluntarie legi oboediunt (Ep VI 22-23). I Fiorentini, nota D., sconvolgono la nozione di libertà come libera e lieta adeguazione della volontà alla prescrizione delle l., allorché colpiscono a un tempo morale e diritto, mancando di lealtà alle l. e cospirando contro il ‛ legum princeps ' l'imperatore (dum praetenditis libertatis affectum, contra leges universas in legum principem conspiratis, § 23). Lealtà alla l. è pertanto richiesta dalla stessa coincidenza di morale e diritto, in cui consiste l'essenza della giustizia.

D. specifica ulteriormente la questione affermando che questa coincidenza si realizza nel vecchio, in quanto dotato di maggior esperienza, cioè maggior prudenza o ‛ retto giudizio ': Lealtade è seguire e mettere in opera quello che le leggi dicono, e ciò massimamente si conviene a lo giovane... lo vecchio per più esperienza dee essere giusto, e non essaminatore di legge, se non in quanto lo suo diritto giudicio e la legge è tutto uno quasi e, quasi sanza legge alcuna, dee giustamente sé guidare: che non può fare lo giovane (Cv IV XXVI 14). Nella pratica della virtù s'attua pertanto lo spirito della l., la cui lettera non va ulteriormente ‛ esaminata ' in quanto in chi sa giustamente sé guidare l. e morale si identificano. Il giovane, invece, in cui tale identificazione non s'è attuata, basta che seguiti la legge, e in quella seguitare si diletti alla maniera di Enea che diede i premi ai vincitori dei giochi siciliani, ottemperando lealmente alle prescrizioni del ‛ diritto consuetudinario ' del suo popolo (ciò che promise... lealmente diede... sì come era di loro lunga usanza, che era loro legge). In Cv IV XXVII 10 D. ritorna sull'identità tra morale e l. nell'uomo giusto: Conviensi anche a questa etade [la vecchiezza] essere giusto, acciò che li suoi giudicii e la sua autoritade sia un lume e una legge a li altri; tale requisito è proprio dei ‛ reggitori di città ' in quanto fedeli interpreti della giustizia, base del diritto (§§ 10-11).

La l. naturale e la l. divina. - L'obbligazione della norma giuridica trova fondamento in un ordine che va oltre quello del diritto positivo. La l. positiva infatti non è altro che una determinazione della l. naturale le cui direttive generali sono nell'uomo in quanto dotato di ratio naturalis. Se l'ordinamento giuridico è un'ordinatio rationis lo è in quanto l'uomo reca nella propria ragione, per natura inscritte da Dio, le regole fondamentali della l. naturale. Le l. positive sono pertanto una esplicazione o ‛ immagine ' di un diritto di natura comune a tutti gli uomini, innato e immutabile. Appunto alla ‛ iustitia naturalis ' fa appello D. per confermare la sacertà delle l. positive: Nec advertitis dominantem cupidinem, quia caeci estis... captivantem vos in lege peccati, ac sacratissimis legibus quae iustitiae naturalis imitantur ymaginem, parere vetantem (Ep VI 22).

L'accusa è ancora una volta ai Fiorentini che accecati dalla cupiditas (nemica della giustizia e corrompitrice dell'organismo sociale, cfr. Mn I XI 11) giacciono in lege peccati, radicale negazione delle l. positive, sacre in quanto emananti dalla giustizia naturale.

L'implicito riferimento è qui a s. Paolo che aveva opposto alla lex membrorum, alla l. della carne e del peccato, la l. dello spirito, lex Dei (Rom. 7, 22-23 " condelector enim legi Dei secundum interiorem hominem: video autem aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meae, et captivantem me in lege peccati, quae est in membris meis ", 25 " Igitur ego ipse mente servio legi Dei: carne autem, legi peccati "). Nella stessa lettera paolina (2, 14-15) era ricordata la l. naturale come iscritta nel cuore dei pagani: " Cum enim Gentes, quae leges non habent, naturaliter ea, quae legis sunt, faciunt, eiusmodi legem non habentes, ipsi sibi sunt lex: qui ostendunt opus legis scriptum in cordibus suis ".

Ogni essere creato è indotto da un istinto naturale a realizzare la propria essenza entro l'ordine universale (Pd I 109 ss.) e conformemente ai fini a lui propri. L'animale è spinto dall'inclinazione del proprio appetito, senza possibilità di autodeterminazione, l'uomo invece, come essere razionale, non solo è per natura inclinato al bene ma conosce il proprio fine in quanto tale e ordina i propri atti ad esso. La l. naturale consiste pertanto nelle direttive della ragione e in tal senso è una specifica l. umana. Così a proposito dei lussuriosi è detto in Pg XXVI 83 non servammo umana legge, / seguendo come bestie l'appetito, dove umana l. designa appunto la l. naturale in quanto propria dell'ordine di ragione cui l'uomo partecipa (cfr. Cv II VII 4 E però chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia). Tale l. bestiale fu resa l. positiva da Semiramide (If V 56).

Va precisato che gli scolastici distinguevano all'interno del diritto naturale vari livelli, in rapporto al diverso grado di soggezione della natura alla ragione. Così Filippo il Cancelliere distingueva, a proposito dell'unione dei sessi in quanto dettata dalla natura, vari gradi: uno naturale tendente di per sé alla conservazione della specie (natura ut natura), un secondo più rispondente alla ragione, che esige la monogamia (natura ut ratio), e un terzo in cui la natura è ordinata completamente alla ragione (ratio ut ratio) e che esige l'atto giuridico del matrimonio (" Cum ius naturale dicatur a natura, scilicet quod dictat ratio naturalis et quod scriptum est in ratione naturali, cum secundum hoc ratio sit ipsa natura, tamen potest accipi natura ut natura, vel natura ut ratio. Natura ut natura in rationabili, scilicet in homine, dictat cognoscere aliquam [mulierem], scilicet rem suae speciei, scilicet ad conservandam rem ipsius speciei... natura ut ratio dictat cognoscere unam et non plures; sed ratio ut ratio dictat cognoscere eam etiam sibi coniugatam ", citato in O. Lottin, Psychologie et morale aux XIIe et XIIIe siècles, II, Lovanio-Gembloux 1948, 77 n. 2).

Con valore più ampio, in Pd XXX 123 legge natural designa, invece, non la l. ordinata alla ragione, ma semplicemente la l. propria del mondo fisico: nell'Empireo (dove Dio sanza mezzo governa, senza la mediazione delle cause seconde, v. 122) la l. naturale della prospettiva non ha valore (Presso e lontano, lì, né pon né leva, v. 121).

La natura divina della l. naturale è resa esplicita nella Monarchia, dove è correlata alla nozione di l. divina. Secondo D., l'imperatore non riceve la propria autorità dalla Chiesa, giacché la Chiesa non ha avuto tale potere in nessuno dei modi in cui poteva averlo. In particolare, essa non l'ha ricevuto da Dio: Nam si a Deo recepisset, hoc fuisset aut per legem divinam aut per naturalem, quia quod a natura recipitur a Deo recipitur, non tamen convertitur. Sed non per naturalem, quia natura non imponit legem nisi suis effectibus, cum Deus insufficiens esse non posset ubi sine secundis agentibus aliquid in esse producit. Unde, cum Ecclesia non sit effectus naturae, sed Dei... manifestum est quod ei natura legem non dedit. Sed nec per divinam: omnis nanque divina lex duorum Testamentorum gremio continetur (Mn III XIII 2-4). Il pensiero di D. è che da Dio promanano due l., quella naturale e quella ‛ divina '. La prima, data alla natura, presiede alle operazioni degli agenti secondi o naturali. Tuttavia, poiché non tutto ciò che viene da Dio passa per il tramite della natura (altrimenti Dio sarebbe necessitato a operare solo grazie agli agenti naturali), accanto alla l. naturale è posta la l. divina, contenuta nei testi della rivelazione.

In questo contesto l. naturale designa i ‛ principi che presiedono all'ordinamento dell'universo ', e perciò comprende anche quei principi che, insiti nella ragione, costituiscono ciò che si chiama ‛ diritto naturale ' (del resto la l. naturale può essere intesa, a diversi livelli, come propria dell'uomo, o degli animali, o, infine, del cosmo. Si veda il testo citato in O. Lottin, op. cit., p. 82 n. 1, dove però l'espressione occorrente è " ius naturale ": " Sciendum quod ius naturale dicitur tribus modis: specialiter, generaliter, universaliter. Primum est in solis rationalibus... Secundum est in solis animalibus... Tertium est in omnibus creaturis, mutua scilicet omnium rerum communicatio: unum enim elementum non potest esse sine alio "). Ma l. divina in D. è la l. divina positiva data agli uomini senza la mediazione della natura, ma direttamente con la rivelazione. In Mn II VII 7 D. ripropone la correlazione tra lex naturae e l. divina o lex Scripturae: Occultum... est iudicium Dei ad quod humana ratio nec lege naturae nec lege Scripturae, sed de gratia spetiali quandoque pertingit. Il problema riguarda l'intelligibilità degli iudicia Dei, da intendere come ‛ prescrizioni ' derivanti dal disegno provvidenziale di Dio o l. eterna; cfr. Tommaso Sum. theol. I II 91 1 " Manifestum est autem, supposito quod mundus divina providentia regatur... quod tota communitas universi gubernatur ratione divina. Et ideo ipsa ratio gubernationis rerum in Deo sicut in principe universitatis existens, legis habet rationem. Et quia divina ratio nihil concipit ex tempore, sed habet aeternum conceptum... inde est quod huiusmodi legem oportet dicere aeternam ".

L. eterna. - Qualsiasi l., sia essa positiva, naturale o divina, è in rapporto di partecipazione, a vari gradi, con la l. eterna. La l. eterna si configura come un principio d'ordine universale (come l. del cosmo è in Cv III XV 16 Iddio... con certa legge... vallava li abissi... poneva legge a l'acque, dov'è traduzione di Prov. 8, 27 ss.), ‛ archetipo ' o ‛ esemplare ' di ogni l., e perciò fonda tutte le altre, che da essa derivano la loro efficacia. L'espressione ‛ l. eterna ' occorre in Pd XXXII 55 nel discorso di s. Bernardo relativo all'ordinamento dell'Empireo (ché per etterna legge è stabilito / quantunque vedi) a sottolineare l'immutabilità ab aeterno d'una prescrizione divina. Sotto la categoria di ‛ l. eterna ', ma intesa in questo senso riduttivo vanno considerate le varie l. che presiedono all'ordinamento del mondo ultraterreno.

Tale la nuova legge che potrebbe togliere a Casella il ricordo o l'uso del canto (Pg II 106) e le leggi d'abisso di I 46, la cui immutabilità è legata all'immutabilità del consiglio divino. Determinata ab aeterno dal divino consiglio è da intendere anche la legge / che fatta fu quando Catone uscì dal Limbo (Pg I 89).

Con il significato specifico di " pena inflitta " il termine ricorre in If XIV 21 (parea posta lor [alle anime] diversa legge).

Il termine, secondo un uso tecnico, indica anche la religio, il complesso di precetti di una qualunque fede religiosa. Così in Cv II VIII 9 questo [che in noi vi sia una parte spirituale] vuole ciascuna legge, Giudei, Saracini, Tartari; IV XV 5 E questo [che gli uomini abbiano due diverse origini, una nobile e una vile] è falsissimo appo lo Filosofo, appo la nostra Fede..., appo la legge e credenza antica de li Gentili; Pd XV 143 Dietro li andai incontro a la nequizia / di quella legge [la religione maomettana] il cui popolo usurpa, / per colpa d'i pastor, vostra giustizia. Di particolare pregnanza risulterà pertanto l'espressione pastor sanza legge (If XIX 83) che qualifica Clemente V come privo di religione e pertanto " sacrilego " " empio ". Per non aver osservato i dettami della ‛ religione ' cristiana (perch'i' fu' ribellante a la sua legge, If I 125) Virgilio non può ascendere tra i beati.