Le politiche per l'integrazione degli immigrati: tra retoriche e realtà

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Le politiche per l'integrazione degli immigrati: tra retoriche e realtà

Francesca Campomori

A partire dalla fine degli anni Ottanta le trasformazioni portate dall’immigrazione hanno prodotto un processo di intensa politicizzazione, a cui ha corrisposto il fiorire di una copiosa legislazione sul tema. Nella maggior parte delle campagne elettorali recenti (in particolare quelle delle elezioni politiche del 2008 e delle europee del 2009) l’immigrazione è stata per i partiti la vera questione su cui si sono incentrate le strategie politiche e, per gli elettori, uno dei temi cruciali rispetto al quale collocarsi nello spettro politico-partitico.

La politicizzazione dell’immigrazione non è tuttavia un fenomeno prettamente italiano; anche i Paesi europei di più antica immigrazione ne sono stati protagonisti: la Francia, la Gran Bretagna, l’Olanda e – più recentemente – la Svezia, dove nelle elezioni del 2010 la destra xenofoba, incarnata dai Democratici svedesi (SD, Sverigedemokraterna), ha ottenuto una ventina di seggi parlamentari. In tutti questi Paesi sono state le formazioni della destra populista a portare avanti, a tratti con un certo successo elettorale, una retorica dichiaratamente anti-immigrati, che quasi sempre si è intrecciata con una feroce critica verso il multiculturalismo e l’islam. Proprio in Olanda, considerata la culla del multiculturalismo e il Paese tollerante per eccellenza, agli inizi degli anni Duemila si è affermato il partito di Pim Fortuyn (1948-2002) che ha focalizzato il proprio discorso pubblico sulla condanna del mondo islamico e sull’istanza di bloccare l’immigrazione. Alle elezioni politiche del 2002 questa formazione, il cui leader era stato assassinato qualche settimana prima, si affermò come secondo partito del Paese dietro ai Cristiani democratici (CDA, Christen-Democratisch Appèl), ottenendo il 17% dei voti, benché abbia poi perso gradualmente consensi fino a dissolversi nel 2008 (Migration policymaking in Europe, ed. G. Zincone, R. Pennix, M. Borkert, 2011, p. 147).

In Italia è stata la Lega Nord a farsi interprete dell’insofferenza verso l’immigrazione in generale e verso il presunto scippo di identità a cui le diverse culture e fedi religiose degli stranieri potevano condurre. La retorica leghista anti-immigrati ha avuto tra i suoi principali portavoce sia esponenti della politica nazionale (basti ricordare Roberto Calderoli, ministro delle Riforme istituzionali nel terzo governo Berlusconi che, in un’intervista televisiva a Clemente Mimun nel febbraio del 2006, si sbottonò la camicia per mostrare una t-shirt che riproduceva una serie di vignette irridenti Maometto), sia politici della periferia come l’ex sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, il quale aveva anche dato vita – seguito poi da altri sindaci di città del Centro-Nord – a provvedimenti restrittivi sui diritti degli immigrati, etichettabili come vere e proprie politiche locali di esclusione, quasi sempre sotto forma di ordinanze che si richiamavano a un’idea molto ampia di sicurezza urbana (Ambrosini 2012).

Come effetto collaterale della rapida e intensa politicizzazione dell’immigrazione si è assistito all’esasperazione di un fenomeno d’altra parte affatto sconosciuto nel campo delle politiche pubbliche, ovvero lo scarto tra i discorsi politici, le prese di posizioni dei leader di turno, le affermazioni di principio, da una parte, e dall’altra i provvedimenti concretamente attuati e le pratiche utilizzate per far fronte alle sfide poste dalle migrazioni. Nel linguaggio della policy analysis si parla di uno scarto tra politiche dichiarate e politiche in uso, le cui ragioni vanno indagate certamente nei singoli casi empirici, ma possono essere sostanzialmente ricondotte a due: in primo luogo, un certo imbarazzo da parte dei decisori politici nel dover ammettere che alcune grandi teorie sull’integrazione degli stranieri sono di fatto inattuabili quando messe a confronto con la concretezza e la complessità dei problemi e, in secondo luogo, una sorta di opportunismo dei decisori, i quali ritengono che alcune politiche debbano essere implementate solo in forma invisibile e senza i crismi dell’ufficialità per mantenere il consenso dei propri elettori (che per lo più non sono gli immigrati).

Uno sguardo al passato recente degli anni Ottanta rivela inoltre che tale scarto, soprattutto nei Paesi di più antica immigrazione, si è verificato anche in senso opposto: si esaltava la retorica positiva delle società multiculturali senza tuttavia impegnarsi in politiche concrete per favorirne lo sviluppo, probabilmente anche a causa degli onerosi investimenti che sarebbero stati necessari per realizzare dei veri e propri interventi ispirati al multiculturalismo (Campomori 2012, pp. 38-39).

Se guardiamo alle politiche di controllo migratorio, largamente gestite dai governi nazionali, per quanto riguarda l’Italia salta immediatamente agli occhi la discrepanza tra la retorica del discorso pubblico – articolata in particolare nella cosiddetta legge Bossi-Fini (l. 30 luglio 2002 nr. 189) – secondo cui l’ingresso e la permanenza nel nostro Paese sono legati in maniera inscindibile a un contratto di lavoro, e l’implicita ammissione di un numero anche cospicuo di immigrati selezionati in base a criteri quali il genere, la nazionalità e il tipo di occupazione per cui ci si candida. Inoltre, come mostrato recentemente da uno studio sulle politiche di controllo in Italia (Colombo 2012), anche un provvedimento pesantemente restrittivo come l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato (il cosiddetto reato di clandestinità, all’interno del Pacchetto sicurezza emanato con la l. 15 luglio 2009 nr. 94), nato per rassicurare i cittadini sul fatto che il governo persegue l’immigrazione irregolare e garantisce sicurezza, nella realtà «non ha avuto effetti sulla quota di espulsioni effettive, mentre ha aumentato il numero di stranieri denunciati» (p. 161).

Con questo non si vuole certo dire che la sterzata securitaria delle politiche migratorie italiane a partire dalla Bossi-Fini non abbia provocato effetti negativi e perfino contrari ai diritti umani riconosciuti dalla comunità internazionale (si pensi ai respingimenti in mare verso la Libia del 2009, per i quali l’Italia nel 2012 è stata sanzionata dalla Corte europea dei diritti umani); tuttavia

come per il resto dell’Europa, anche l’Italia è stata tutt’altro che una fortezza impenetrabile per la stragrande maggioranza degli immigrati irregolari […] La probabilità che un immigrato indesiderato, entrato irregolarmente o residente senza autorizzazione in Europa, sia diventato regolare è di gran lunga superiore a quella che sia stato espulso e ricondotto con la forza nel paese di origine (p. 165).

In questo saggio il tema dei discorsi pubblici sull’immigrazione messi a confronto con i provvedimenti concretamente attuati sarà affrontato in riferimento alle politiche di integrazione degli immigrati, che come vedremo sono da sempre lasciate alla competenza dei livelli periferici di governo e in particolare alle regioni e ai comuni. Obiettivo di queste pagine è cercare di ricostruire, da una parte, in che modo il livello di governo nazionale ha definito (o non definito) le politiche di integrazione e, dall’altra, come le regioni hanno interpretato il loro ruolo rispetto all’integrazione degli immigrati (anche in riferimento alle leggi nazionali in materia), ovvero come hanno risposto nei loro territori alle questioni sollevate dall’inclusione dei nuovi arrivati.

L’analisi inizierà passando in rassegna l’evoluzione della legislazione sull’immigrazione, con particolare riferimento ai provvedimenti di integrazione degli stranieri e alle competenze e risorse economiche assegnate alle regioni e ai comuni.

Dalle norme si passerà poi alle prassi, illustrando come le regioni, e gli enti locali, in particolare hanno avuto un ruolo di primo piano in provvedimenti anche innovativi di integrazione degli immigrati, ben prima che fossero definite competenze e risorse economiche specifiche dal governo nazionale; tuttavia, più recentemente proprio (alcuni) governi subnazionali sono stati protagonisti di decisioni che hanno puntato a minare o limitare i diritti acquisiti degli immigrati.

Ci soffermeremo infine a osservare tre regioni – Emilia-Romagna, Veneto e Puglia –, cercando di analizzare i loro sistemi di credenze rispetto alle politiche per gli immigrati, come esse hanno inquadrato il problema, ovvero quali frames hanno selezionato e quali immagini hanno eventualmente evocato per descrivere l’immigrazione e gli immigrati; allo stesso tempo verranno messe in luce le decisioni e focalizzati i provvedimenti più significativi intrapresi dalle regioni e implementati dai governi locali, così come gli elementi di convergenza e quelli di divergenza tra le regioni considerate.

La multi-level governance italiana nelle politiche per gli immigrati

Se le politiche di controllo migratorio e di gestione dei flussi sono di competenza prevalente dei governi nazionali, vincolati per alcuni aspetti dalle direttive dell’Unione Europea, l’integrazione dei migranti è invece oggetto di un sistema di governo più articolato. Parlando di multi-level governance ci riferiamo a due dimensioni che si incontrano e si incrociano (si veda in proposito S. Piattoni, The theory of multi-level governance. Conceptual, empirical and normative challenges, 2010): la dimensione verticale, caratterizzata dalle relazioni tra centro e periferia, ovvero dai rapporti tra i vari livelli di governo; e la dimensione orizzontale, che riguarda la sfera delle relazioni formali e informali tra gli attori pubblici e privati, con particolare riferimento alle associazioni del terzo settore e del volontariato che operano a favore dei migranti o che sono composte dai migranti stessi.

Il preludio delle misure di integrazione: la normativa del 1986 e del 1990

Prima di passare in rassegna come si declina la governance multilivello nelle politiche per gli immigrati è opportuno segnalare che la questione dell’integrazione è entrata nell’agenda pubblica di intervento solo a metà degli anni Novanta, dopo che già erano state promulgate due leggi sull’immigrazione, la l. 30 dic. 1986 nr. 943 e la l. 28 febbr. 1990 nr. 39. Nessuna di queste due leggi affrontava infatti in un’ottica programmatica la questione dell’integrazione, né aveva previsto delle risorse finanziare che potessero essere utilizzate per realizzare i vaghi indirizzi su questo versante. La legge del 1986, che fu approvata praticamente all’unanimità e senza sollevare attenzione mediatica, aveva come scopo principale quello di uniformare il trattamento dei lavoratori italiani e dei lavoratori migranti, in ottemperanza anche alla convenzione ILO (International Labour Organization) nr. 173 del 1975 (Caponio 2012).

Il ruolo riconosciuto ai governi periferici da questa legge si può ricondurre a due livelli: da una parte, una possibilità di influenzare il processo decisionale nazionale attraverso la partecipazione alla Consulta per i problemi dei lavoratori extracomunitari e delle loro famiglie, prevista dall’art. 2, e, dall’altra, l’attribuzione di un certo numero di competenze nell’integrazione sociale territoriale. La consulta – composta da esperti di vari ministeri, da rappresentanti dei lavoratori stranieri, dei sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, delle associazioni che operavano a favore degli immigrati e da quattro rappresentanti delle autonomie locali – era chiamata a esprimere pareri dei quali avrebbe dovuto tenere conto il Servizio per i problemi dei lavoratori immigrati extracomunitari e delle loro famiglie, istituito presso la direzione generale del collocamento della manodopera del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale. Di fatto, la consulta non diede i risultati sperati: sorsero diversi problemi nella scelta dei rappresentanti delle associazioni di immigrati e altri problemi di funzionamento che portarono alla sua abolizione dopo tre anni (Zincone 1998).

Per quanto riguarda invece lo specifico ruolo degli enti subnazionali, le regioni dovevano promuovere corsi di lingua e cultura italiana e corsi di formazione e di inserimento al lavoro (art. 9), mentre agli enti locali veniva richiesto di provvedere «a facilitare attraverso i servizi sociali ogni esigenza di inserimento nella comunità» (art. 8). Tuttavia, come già accennato, poiché non erano stati istituiti finanziamenti ad hoc per le iniziative previste, la normativa finì per essere soprattutto un elenco di buoni propositi, senza offrire agli enti locali una concreta possibilità economica per realizzarli (F. Campomori, Le politiche locali dell’immigrazione, «Amministrare», 2005, 3, pp. 421-51).

Il clima in cui viene approvata nel 1990 la successiva legge Martelli (la già menzionata nr. 39) è del tutto diverso: se la legge del 1986 era passata praticamente inosservata, il dibattito su questa normativa fu invece al centro dell’attenzione mediatica. Nei mesi precedenti alla sua approvazione c’era stata infatti un’intensa mobilitazione dell’opinione pubblica riguardo alle inumane condizioni di lavoro dei braccianti stranieri, soprattutto nelle regioni meridionali, e riguardo a episodi di aperta violenza e razzismo nei confronti dei lavoratori immigrati. Si può dire che l’approvazione della legge avvenne proprio sull’onda di questa forte mobilitazione (Caponio 2012, p. 48). Allo stesso tempo, gli arrivi ingenti dal Kosovo e dall’Albania avevano creato in vari territori emergenze abitative e sociali. Il dibattito politico era acceso: il Partito repubblicano italiano (PRI) e il Movimento sociale italiano (MSI) accusavano il governo di coalizione della Democrazia cristiana (DC) e dei socialisti di aver favorito un sistema di immigrazione senza controlli, con la conseguenza di disordini sociali, conflitti razziali, criminalità e degrado. Il governo allora aveva tentato di ridefinire la questione immigrazione inquadrandola all’interno di un frame di responsabilità (Magnani 2012). Dal punto di vista delle misure previste, ciò significava avvicinarsi agli altri Paesi europei in materia di regolazione dei flussi, ovvero una maggiore cautela negli accessi, per es. introducendo l’obbligatorietà del visto per le persone che arrivavano da aree definite a forte rischio di emigrazione e la previsione di una procedura formale di espulsione. Questa legge, comunque, come la precedente fu accompagnata da una regolarizzazione, nella quale è stata sanata la posizione di 234.841 immigrati.

Le competenze attribuite dalla legge agli enti locali risentivano di questa situazione di emergenza. La legge Martelli infatti predispose un finanziamento che le regioni e i comuni a maggiore insediamento di stranieri potevano utilizzare per realizzare centri di prima accoglienza (un finanziamento tuttavia previsto solo fino al 1993, ovvero solo per coprire un’emergenza). La filosofia di questa norma prevedeva in sostanza una divisione piuttosto netta tra il ruolo del governo centrale, che riguardava prioritariamente le politiche dei flussi, e il ruolo degli enti locali, chiamati a gestire le emergenze sociali sollevate dall’arrivo degli stranieri negli specifici contesti territoriali. Non si delineava, dunque, ancora una vera e propria politica organica di integrazione degli immigrati nel nostro Paese, mentre il binomio immigrazione-emergenza tratteggiato in essa faticherà non poco a essere superato.

Dalla legge Turco-Napolitano al Pacchetto sicurezza

I limiti della legge Martelli, legati soprattutto all’orizzonte angusto in cui questa normativa poneva la questione immigrazione, semplicemente contando sul fatto di riuscire in futuro a ridurre i nuovi ingressi (D. Hine, La legislazione sull’immigrazione del 1998: un test di coesione governativa, in Politica in Italia, a cura di D. Hine, S. Vassallo, 1999, p. 210), resero presto necessario un ripensamento, in una situazione peraltro di forte instabilità politica oltre che di crescente politicizzazione del tema.

Nel 1994 l’allora capo del governo Carlo Azeglio Ciampi assegnava al ministro Fernanda Contri il compito di formulare una nuova legge. La commissione nominata dal ministro presentò una proposta di legge che rimase tuttavia lettera morta, anche perché poche settimane più tardi le elezioni politiche portarono al governo la Lega Nord. La possibilità di formulare una nuova legge sull’immigrazione arrivò pertanto solo due anni dopo, sotto il governo guidato da Romano Prodi, attraverso una nuova commissione coordinata questa volta dal ministro della Solidarietà sociale Livia Turco. La legge scaturita dalla proposta della commissione (l. 6 marzo 1998 nr. 40), nota come Turco-Napolitano, tentò effettivamente una presa in carico complessiva della questione attraverso i tre pilastri della programmazione dei flussi in entrata, delle misure contro l’immigrazione illegale e dell’integrazione sociale degli immigrati presenti nel nostro Paese. È con questo provvedimento legislativo che si chiarisce maggiormente anche il ruolo delle regioni, disegnate come il perno delle politiche di integrazione.

Si crearono dunque le condizioni per l’emergere di una progettualità subnazionale a favore degli immigrati, nonché per una maggiore organicità delle politiche laddove erano già presenti delle iniziative. Questa normativa, inoltre, per la prima volta chiamava in causa in maniera esplicita il terzo settore – di fatto da anni già attivo nel campo dell’integrazione – incoraggiando una collaborazione tra gli enti locali, le associazioni di stranieri e le organizzazioni che operavano in loro favore (art. 36, sull’istruzione degli stranieri e l’educazione interculturale; art. 38, sui centri di accoglienza; artt. 40 e 42, sulle misure di integrazione sociale, quali la diffusione di informazioni su diritti, doveri e opportunità, l’attivazione di corsi di formazione per operatori, l’utilizzo di mediatori, ecc.).

La novità più significativa della legge, proprio dal punto di vista delle misure di integrazione, stava nell’aver predisposto un Fondo nazionale per le politiche migratorie (art. 45) al quale le regioni potevano accedere sulla base dell’approvazione di specifici programmi annuali e pluriennali di integrazione, che il governo si impegnava a finanziare per l’80% del costo totale, lasciando a loro carico il restante 20%. Le risorse messe in campo si attestavano su cifre abbastanza contenute (circa 34 milioni di euro l’anno), ma avevano il pregio di essere immaginate come non episodiche e di offrire quindi la possibilità di uscire da una fase pionieristica delle politiche di integrazione (Stuppini 2012).

Il titolo V della legge (Disposizioni in materia sanitaria nonché di istruzione, alloggio, partecipazione alla vita pubblica e integrazione sociale) specificava poi i provvedimenti che potevano essere predisposti: insegnamento della lingua italiana, tutela delle culture e delle lingue di origine e attività interculturali per quanto riguarda l’istruzione; centri di prima accoglienza, ma anche alloggi sociali temporanei a pagamento con quote calmierate, per quanto riguarda le politiche abitative; diffusione di informazioni utili per l’inserimento nella società ospite, mediazione culturale e formazione degli operatori pubblici all’antirazzismo e all’intercultura, per quanto riguarda il riferimento all’integrazione sociale più in generale (Campomori, Caponio 2012, p. 134). Poco dopo l’emanazione di tale legge veniva anche presentato il primo programma triennale nazionale, sulla base del quale le regioni dovevano costruire i loro programmi. Le tre linee guida del programma (costruire relazioni positive, garantire pari opportunità di accesso e assicurare una piena tutela legale) non brillavano per la specificazione degli obiettivi, ma avevano il pregio di voler affrontare l’integrazione non solo limitatamente alle emergenze sociali e di assistenza sociale (Stuppini 2012).

Dal punto di vista procedurale, le regioni attraverso i programmi annuali e triennali erano chiamate a svolgere una funzione di coordinamento (degli enti locali) e di indirizzo delle politiche di integrazione: esse pertanto detengono un potere cruciale nella definizione della struttura di implementazione degli interventi. I comuni (spesso in sinergia con il terzo settore) sono tipicamente gli enti chiamati a implementare i programmi regionali, con margini di autonomia generalmente ampi, ma che possono variare a seconda dello stile di governance più o meno accentrato delle singole regioni. Di fatto, i comuni non hanno mai avuto un ruolo meramente esecutivo, tanto più che i programmi regionali sono comunque abbastanza ampi e generali, tali da consentire un’interpretazione e una selezione di obiettivi e strumenti.

È altrettanto vero, tuttavia, che alcune regioni (in particolare la Puglia, come si vedrà più avanti) hanno messo in campo maggiori strumenti di controllo sugli enti di implementazione, in particolare stabilendo dei budget specifici per ogni priorità, e hanno mostrato un maggior protagonismo e attivismo nel gestire e coordinare in prima persona un numero rilevante di interventi, trattenendo quindi una quota di risorse economiche più ampia per iniziative a carattere regionale (Campomori, Caponio 2012, p. 150). Agli enti locali è affidato il compito di declinare nel concreto le linee programmatiche individuate in sede regionale: in altre parole, ai comuni o alle province spetta articolare gli specifici servizi e progetti sulle aree di intervento indicate dalle regioni.

All’inizio degli anni Duemila vari fattori hanno concorso a un’ulteriore spinta verso la devoluzione delle politiche di integrazione alle regioni e agli enti locali. Dal punto di vista istituzionale i due fattori principali sono stati la legge di riforma dell’assistenza sociale (l. 8 nov. 2000 nr. 328) e la riforma del titolo V della Costituzione (l. cost. 18 ott. 2001 nr. 3), che ha modificato in profondità la ripartizione delle competenze tra Stato e regioni, creando tra l’altro incertezze sulle politiche di integrazione e conseguenti conflitti fra centro e periferia riguardo sia alle competenze, sia anche alla allocazione delle risorse (si veda in proposito Vrenna 2010).

Entrando più nel dettaglio, la legge di riforma dell’assistenza sociale ha istituito i Piani sociali di zona come modalità ordinaria per programmare e implementare le politiche sociali di competenza locale, incluse le misure di integrazione. Gli enti locali, insieme ad altri attori pubblici e privati del territorio, hanno acquisito pertanto notevoli poteri di formulazione delle politiche anche rispetto all’ente regionale, che rimane comunque il referente finale dei vari piani di zona. Andrea Stuppini (2013, pp. 66-67), rappresentante delle regioni nel Comitato tecnico nazionale sull’immigrazione, rileva peraltro una certa disorganizzazione nelle elaborazioni progettuali locali, soprattutto nei primi anni di applicazione dello strumento dei Piani di zona, e sottolinea che a questo risultato ha concorso probabilmente anche la mancanza di continuità della programmazione nazionale, poiché dopo il 2001 (e fino al 2010) praticamente non c’è più traccia del piano triennale previsto dalla Turco-Napolitano.

Per quanto riguarda invece la riforma costituzionale del 2001, la conseguenza più significativa dell’appropriazione da parte delle regioni delle politiche di integrazione è stata la soppressione del Fondo per le politiche migratorie, che è confluito all’interno del Fondo nazionale delle politiche sociali (istituito dalla l. 8 nov. 2000 nr. 328 ) senza vincolo di destinazione da parte delle regioni e senza quindi alcun obbligo di programmazione in materia. Le regioni pertanto hanno ricevuto completa autonomia nello stabilire le priorità di politica sociale e possono decidere se e come portare avanti interventi a favore degli immigrati.

Se dai fattori istituzionali che hanno favorito la spinta al localismo passiamo a quelli politici, si osserva che i governi di centrodestra, che si sono susseguiti nel primo decennio degli anni Duemila (a parte la breve parentesi del governo Prodi nel 2006-08), hanno rinunciato largamente a governare l’integrazione, lasciando quasi completamente cadere la programmazione triennale (M. Livi Bacci, Cronache di due fallimenti. L’Europa, l’Italia e le politiche migratorie, «Il Mulino», 2, 2011, pp. 433-42).

L’ultima legge sull’immigrazione, la Bossi-Fini, pur introducendo novità restrittive in tema di controllo degli stranieri, ha riconfermato l’impostazione della legge precedente riguardo agli interventi di integrazione, compresa la forte delega alla periferia nella gestione della materia.

La drastica riduzione del Fondo nazionale delle politiche sociali a partire dal 2005, e ancora di più dal 2007, ha costituito il vero nodo problematico, nonché il vincolo principale rispetto al mantenimento di politiche ad hoc per gli immigrati, tanto che solo nove regioni hanno continuato a portare avanti per tutto il decennio una programmazione regolare in materia (Campomori, Caponio 2012), la qual cosa non esclude naturalmente che altre abbiano comunque attuato politiche a favore dei migranti, ma non all’interno di una prospettiva di programmazione specifica e periodica.

Nonostante la debolezza delle indicazioni nazionali, a partire dal 2005 è emerso lo strumento degli Accordi di programma tra il Ministero delle Politiche sociali e le regioni, finanziati utilizzando la parte del Fondo nazionale per le politiche sociali (FNPS), annualmente riservato agli interventi dello Stato: il FNPS, insieme al Fondo europeo per l’integrazione (FEI) – che è stato istituito nel 2007, stanzia circa 15 milioni di euro all’anno e costituisce probabilmente la vera e concreta possibilità di mantenere una continuità di programmazione –, è stato utilizzato principalmente per attuare programmi di formazione e insegnamento della lingua italiana. Allo stesso tempo, proprio l’utilizzo di tali fondi – a cui vanno aggiunti quelli derivanti dal Programma nazionale e asilo e quelli di contrasto alla tratta ex. art. 18 del Testo unico sull’immigrazione del 1998 – spiega una certa tendenza alla convergenza delle politiche per gli immigrati a livello regionale, pur in presenza di amministrazioni con orientamenti politici differenti (Campomori, Caponio 2012).

La decisa sterzata securitaria avviata all’interno della campagna elettorale del 2008 dalla coalizione di centrodestra, e realizzata poi dal governo Berlusconi attraverso il Pacchetto sicurezza, ha prodotto come conseguenza una certa ricentralizzazione delle politiche di integrazione, pur se nell’ottica di un maggiore controllo sui flussi piuttosto che di espansione delle possibilità di inserimento e protezione sociale: un effetto quasi paradossale, perché era stato soprattutto il governo di centrodestra (2001-06) a mostrare disinteresse rispetto alla formulazione di un framework, una ‘regia’ nazionale nelle politiche di integrazione degli stranieri. Insieme a molte misure restrittive, il Pacchetto sicurezza per la prima volta ha istituito un nesso tra le politiche di integrazione e quelle di gestione dei flussi, che fino a quel momento avevano un’impostazione distinta (le prime di competenza regionale e locale; le seconde di competenza nazionale).

Il nesso è stato istituito introducendo uno strumento peraltro già largamente utilizzato in altri Paesi europei, pur se con sfumature variabili: il cosiddetto Accordo di integrazione, che gli stranieri neoarrivati sono obbligati a sottoscrivere nel momento in cui viene loro rilasciato il primo permesso di soggiorno. Secondo questo contratto i migranti si impegnano a conseguire degli specifici obiettivi di integrazione che sono stati successivamente indicati nel regolamento di attuazione, diventato tuttavia operativo solo nel marzo del 2012. L’accordo ha una validità di due anni e impegna l’immigrato su alcuni punti principali: il raggiungimento di un livello di conoscenza sufficiente della lingua italiana (livello A2 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue, QCER), della Costituzione e della cultura civica italiana, tra cui in particolare il settore sanitario, il sistema educativo, i servizi sociali, il funzionamento del mercato del lavoro e degli obblighi fiscali; lo straniero che aspira al permesso di soggiorno si deve inoltre impegnare a far rispettare l’obbligo scolastico per i minori a carico (Caponio 2012, p. 54).

Nel 2010, un anno dopo l’introduzione (solo sulla carta) dell’Accordo di integrazione, il governo guidato da Silvio Berlusconi ha presentato anche un documento che intendeva avviare un nuovo corso nelle politiche italiane dell’integrazione: il Piano per l’integrazione nella sicurezza. Identità e incontro. Di fatto, le cinque priorità ivi individuate ripropongono le principali aree di attività che il livello locale era andato sviluppando negli anni precedenti: lingua ed educazione civica, lavoro, casa, servizi essenziali e minori. Scarsi risultano invece i finanziamenti previsti e assenti i confronti con le regioni e gli enti locali che dovrebbero attuarlo (Stuppini 2013). Insomma, Identità e incontro assume i contorni di una classica politica simbolica, nella quale si propongono degli obiettivi rassicuranti, ma non vengono predisposti mezzi sufficienti ed efficaci per raggiungerli, a significare che probabilmente quegli obiettivi non stanno poi così a cuore ai policy-makers.

In conclusione, lo stesso tentativo di dare un indirizzo nazionale più chiaro e coerente alle politiche di integrazione, che sembra voler emergere dall’Accordo di integrazione e dal documento Identità e incontro, appare depotenziato da una parte dai tempi lunghi per l’entrata in vigore dell’accordo, dall’altra dalla scarsità di risorse messe in campo e dal dialogo inadeguato tra il governo e la periferia.

Gli interventi locali: gestione delle emergenze, pratiche innovative e derive securitarie

Da quanto detto finora emerge chiaramente che l’agenda di policy sull’immigrazione in Italia per lungo tempo non si è spinta oltre alle questioni del controllo degli ingressi e della sicurezza. E anche quando si è arrivati a una presa in carico del tema integrazione, con la legge del 1998, vari fattori istituzionali e politici descritti nel paragrafo precedente hanno determinato l’assenza o l’estrema debolezza di una strategia nazionale in materia. A differenza di molti altri Paesi europei, in Italia è mancato insomma un modello nazionale coerente di inclusione degli immigrati, che non è mai stato nemmeno formulato in maniera articolata come politica ‘dichiarata’.

A questo riguardo il sociologo Maurizio Ambrosini (La fatica di integrarsi. Immigrazione e lavoro in Italia, 2001) parla di un «modello implicito» di inclusione degli immigrati nel nostro Paese, connotato dal frequente ricorso a pratiche e politiche informali, solitamente parziali e che cavalcano le emergenze; mentre le politiche ufficiali tardano a essere formulate e in ogni caso ancora faticano a trovare una loro coerenza e lungimiranza.

È vero, d’altra parte, che anche i Paesi che hanno dichiarato e perseguito modelli di inclusione con una esplicita ‘filosofia’ dell’integrazione, nei fatti non di rado hanno operato in una direzione diversa da quella della retorica politica. Una delle dimensioni principali su cui si è manifestato lo scarto tra politiche di inclusione degli immigrati dichiarate e in uso è stato proprio l’asse nazionale-locale. Il caso francese è esemplare: la Francia è stata per anni un’icona dell’assimilazionismo inteso come strategia di integrazione che punta a una rapida francesizzazione degli immigrati, escludendo tout court il riconoscimento pubblico delle differenze culturali, etniche e religiose. Quando dalle retoriche nazionali si è passati ai problemi concreti affrontati dalle periferie, tuttavia, l’assimilazionismo asserito dello Stato si è tradotto in una politica di riconoscimento multiculturale di fatto, dettata dall’esigenza di trovare interlocutori con le comunità etniche, con un riconoscimento quindi implicito delle differenze (su questo punto si veda M. Schain, Minorities and immigrant incorporation in France, in Multicultural questions, ed. C. Joppke, S. Lukes, 1999). Sempre a livello locale, inoltre, in Francia si stanno diffondendo iniziative con un taglio palesemente multiculturale, come la costruzione di moschee e il riconoscimento/sostegno di associazioni islamiche (la Francia è il Paese dell’Europa occidentale che conta il numero maggiore di musulmani).

Le città non possono permettersi di evitare di affrontare i problemi dell’integrazione e quando lo fanno devono utilizzare un approccio il più possibile pragmatico: questa è probabilmente anche la ragione per cui talvolta gli interventi locali si discostano dalle ideologie del livello nazionale. E anche quando i comuni sono riluttanti a occuparsi di questi temi, potrebbero essere obbligati a farlo a causa dell’esplodere di episodi di violenza, come è accaduto per es. nelle banlieues francesi (R. Pennix, M. Martiniello, Processi di integrazione e politiche (locali): stato dell’arte e lezioni di policy, «Mondi migranti», 2007, 3, pp. 31-59). In relazione allo scarto tra principi declamati e realizzazioni non sempre coerenti con essi, colpisce anche che proprio all’interno del modello universalista francese si sia prodotto un gap molto ampio tra il tasso di disoccupazione dei lavoratori di origine immigrata e quelli di origine nazionale (Zincone 2009).

Tornando al caso italiano, almeno fino all’approvazione di indicazioni legislative in materia (arrivata con la legge del 1998) le regioni e gli enti locali hanno spesso agito in maniera informale, in assenza peraltro di risorse finanziarie specifiche.

Il livello di governo locale nei primi anni Novanta è stato un vero e proprio laboratorio di innovazioni, soprattutto in relazione all’estensione dei diritti sociali degli immigrati. Ciò è stato possibile anche facendo ricorso a pratiche contra legem, in parte successivamente sanate dal governo nazionale. I due esempi più eclatanti si riferiscono all’assistenza sanitaria per gli immigrati irregolari e al diritto all’istruzione allargato anche ai loro figli (Zincone 1998). Riguardo all’assistenza sanitaria, a Torino e in altre città dai primi anni Novanta erano operative associazioni che, ricevendo un finanziamento dalle amministrazioni comunali, prestavano cure agli immigrati irregolari.

Alcuni anni dopo, il d.l. 18 nov. 2005 nr. 489 (il cosiddetto decreto Dini) estendeva agli immigrati irregolari in tutto il territorio nazionale l’accesso alle cure sanitarie urgenti e legate alla maternità e, infine, la Turco-Napolitano garantiva l’assistenza sanitaria gratuita anche ai loro figli. Nel mondo educativo e scolastico si è verificata una situazione simile: alcuni Uffici scolastici provinciali, tra cui quelli di Milano e Torino, già nel 1993 avevano cominciato ad accogliere nelle scuole alunni senza il permesso di soggiorno in attesa che fosse eventualmente rilasciato. Il decreto Dini e la legge Turco-Napolitano anche in questo caso confermarono il diritto all’istruzione per tutti i bambini stranieri presenti sul territorio, regolari o irregolari (Campomori 2012, p. 55).

Un’altra esperienza interessante a livello regionale è quella dell’Umbria, che con la l. reg. 10 apr. 1990 nr. 18 anticipava notevolmente la successiva legislazione nazionale, equiparando i cittadini non comunitari agli italiani nell’edilizia residenziale pubblica e nella tutela sociale e sanitaria (Vrenna 2010).

Nei primi anni Novanta, per aggirare dal basso le restrizioni ritenute inaccettabili all’accesso di alcuni diritti sociali, le autorità locali hanno spesso operato insieme agli attori della società civile: la ricerca di soluzioni pragmatiche e praticabili ad alcune situazioni ha pertanto stimolato la collaborazione – talvolta formalizzata da convenzioni, talvolta basata semplicemente su rapporti informali – tra operatori di servizi pubblici e agenzie del privato sociale. Una collaborazione che, come abbiamo visto, ha anche portato a forzare i margini interpretativi delle norme. Non costituiscono un’eccezione rara, in questo senso, i comuni che hanno scelto di finanziare organizzazioni che si occupano di assistenza agli immigrati irregolari, in particolare nell’ambito dei dormitori pubblici e dei centri di prima accoglienza.

Riguardando ancora l’esordio delle politiche di integrazione territoriali alla fine degli anni Ottanta, emerge come il tempismo e il dinamismo con cui il terzo settore ha dovunque tamponato molte emergenze, legate per es. alla prima accoglienza, in qualche caso ha finito per supplire la vacanza degli attori pubblici. È accaduto per es. a Vicenza, dove i protagonisti nell’accoglienza dei primi flussi consistenti del 1987-88 sono stati la Caritas, l’Ufficio missionario e i sindacati. Solo più di un anno dopo il comune è intervenuto, su sollecitazione tra l’altro di questi stessi attori, istituendo una convenzione con L’isola che non c’è, un’associazione costituita nel 1990 proprio su iniziativa dei sindacati e della Caritas diocesana. Durante tutti gli anni Novanta questa associazione ha ricevuto una delega implicita praticamente totale (vincolata solamente dall’esiguità del budget) negli interventi di integrazione, nonostante la convenzione ufficialmente riguardasse le attività di sportello e di prima accoglienza all’interno dell’albergo cittadino, in cui il comune, a partire dal 1990, aveva riservato dei posti per gli stranieri. Di fatto, L’isola che non c’è ha promosso corsi di formazione per mediatori e operatori e realizzato un osservatorio sull’immigrazione nella Provincia di Vicenza (Campomori 2008).

Il caso di Vicenza segnala pertanto che non sono mancate le difficoltà in alcuni territori nel costruire una vera rete progettuale tra gli attori pubblici e quelli del privato sociale, complice la retorica politica ostile della Lega Nord, che in Veneto, negli anni Novanta, aveva già cominciato a mietere successi elettorali e che nel 2003 (e fino al 2008) è entrata a far parte della giunta comunale della città. La scarsa iniziativa dell’attore pubblico, tuttavia, nasce nel contesto di giunte prima democristiane e poi di centrosinistra (fino al 1998), che sembrano porsi di fronte a questo fenomeno con una elevata cautela. Uno degli operatori dell’Isola che non c’è commentava in questo modo l’azione delle amministrazioni comunali negli anni Novanta:

La logica dei governi di centrosinistra verso gli immigrati qui a Vicenza era fare il meno possibile e quel poco che si faceva non dirlo in giro: c’era una grande paura che porre sul piano paritario i rapporti tra cittadini e non cittadini portasse a tensioni sociali (Campomori 2008, p. 109).

Lo stile scarsamente interventista degli amministratori locali nei territori della cosiddetta subcultura politica bianca, a Vicenza ha anche prodotto momenti di tensione rispetto alle misure di integrazione. Nei primi anni Duemila, infatti, le associazioni di industriali e artigiani avevano ritirato i finanziamenti messi a disposizione per varie misure di inclusione, con l’intenzione dichiarata di manifestare dissenso rispetto allo scarso intervento e investimento di risorse dell’attore pubblico. Questo ha portato a una situazione paradossale che si è protratta per alcuni anni: nel 2005 si decise di far pagare le prestazioni dello Sportello del Comune di Vicenza 5 euro a pratica; poco dopo il servizio di Sportello comunale, che è l’intervento minimo di base nell’integrazione degli immigrati, è stato smantellato per indisponibilità di investimenti in materia da parte degli enti pubblici (E. Barberis, Le politiche migratorie a Modena e a Vicenza, «Mondi migranti», 2007, 3, pp. 61-82).

Per le regioni e gli enti locali uscire da un’impostazione del tema immigrazione legato all’emergenza è stato un processo complesso e lento: il fatto che in molti territori l’immigrazione si fosse appunto imposta sulla scena pubblica come un’emergenza ha innescato un processo di dipendenza dal percorso già intrapreso (path dependency) riguardo a come definire questo tema e quindi intervenire su di esso. Quando si parla di politiche per gli immigrati, tra l’altro, è anche importante distinguere tra gli interventi universalisti collegati all’accesso ai servizi di welfare, che hanno come destinatari tutti i residenti (immigrati inclusi), e le politiche di integrazione in senso stretto. Queste ultime si riferiscono al target specifico degli stranieri e puntano a colmare il divario tra i servizi esistenti e le possibilità concrete di usufruirne.

Due sono gli strumenti di intervento che, a partire dal 2005, hanno creato una certa convergenza tra le politiche locali, anche se attuate da maggioranze con diverse colorazioni politiche: i corsi di lingua per stranieri e l’introduzione dei mediatori interculturali. Un ulteriore strumento, che tuttavia è ancora in fase poco più che embrionale, riguarda le azioni di contrasto alle discriminazioni (Stuppini 2013). I corsi di lingua rappresentano di gran lunga lo strumento più diffuso nei vari territori, e lo erano anche prima dell’introduzione dell’accordo di integrazione (2009) che li ha resi obbligatori. A partire dal 2005, infatti, molte regioni hanno cominciato a sottoscrivere Accordi di programma con il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali per favorire l’apprendimento della lingua italiana. All’impegno dell’attore pubblico si è affiancato anche quello dell’associazionismo e del volontariato; un impegno che Stuppini definisce lodevole, ma non sempre qualificato (2013, p. 74). Per quanto riguarda i mediatori culturali, che hanno favorito l’integrazione soprattutto nelle regioni settentrionali, essi sono collocati in particolare nelle strutture sanitarie e nelle scuole; in Italia se ne contano alcune migliaia, in genere alle dipendenze di cooperative sociali.

Da paladini dei diritti sociali dei migranti, alcuni comuni delle regioni settentrionali nei primi anni Duemila hanno assunto il volto di persecutori, utilizzando provvedimenti amministrativi di stampo xenofobo. Ricordiamo le ordinanze eccentriche dei sindaci veneti di Treviso e Vicenza, che vietavano l’utilizzo dei parchi pubblici come luogo per svolgere picnic e proibivano di sdraiarsi sul prato o sulle panchine: provvedimenti che non citavano mai i migranti ma che avevano chiaramente loro come bersaglio, pur finendo per danneggiare anche la popolazione locale. Un ulteriore caso in questa direzione è rappresentato dalla l. reg. 30 apr. 2009 nr. 8, una norma regionale della Lombardia composta da soli sei articoli diventata nota come ‘legge anti-kebab’, approvata sotto la spinta della Lega Nord. Essa limitava gli orari di apertura degli esercizi commerciali che vendevano kebab, con l’implicito intento di contrastare l’insediamento sul territorio degli immigrati e mettere dunque al bando i simboli visibili delle diversità culturali.

Accanto a questi provvedimenti fortemente simbolici, ma non eccessivamente lesivi, ce ne sono stati altri con un’alta valenza discriminatoria, che hanno puntato a limitare i diritti sociali (anche quelli già acquisiti) degli stranieri. Solo per fare qualche esempio, nel 2007 il sindaco di Milano Letizia Moratti vietava l’ingresso agli asili nido e alle scuole materne ai figli di immigrati irregolari, salvo poi ritirare la delibera qualche mese più tardi in seguito al ricorso presentato e vinto da alcune associazioni. Un fatto simile è accaduto a Brescia, dove il comune nel 2008 ha istituito un ‘bonus bebè’ per ogni neonato riservandolo ai soli cittadini italiani o con almeno un genitore italiano. Anche in questo caso il tribunale ha fatto decadere la delibera per la manifesta discriminazione che produceva.

L’accesso all’edilizia pubblica e l’accesso degli stranieri alle prestazioni assistenziali sono stati altri temi su cui le discipline regionali e locali hanno assunto posizioni diverse fra loro, che rivelano tra l’altro come la condizione giuridica dello straniero sia frammentata in riferimento al luogo in cui risiedono. Riguardo all’assegnazione di alloggi pubblici, per es., il Comune di Verona nel 2007 ha stabilito una maggiorazione di punteggio fino a 4 punti a favore dei cittadini italiani residenti nel comune o che vi svolgessero un’attività lavorativa da un certo numero di anni. Una disposizione simile era stata prevista dal Comune di Milano, dichiarata poi discriminatoria dal Tribunale di Milano a seguito di un ricorso.

Un altro esempio significativo è rappresentato, nella Regione Friuli Venezia Giulia, dalla l. reg. 5 dic. 2008 nr. 16 che ha modificato l’attribuzione dei punteggi degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, prevedendo una maggiorazione in base agli anni di residenza nel territorio regionale o allo svolgimento di attività lavorativa in Friuli per almeno cinque anni. Tutti questi provvedimenti hanno sollevato critiche e azioni legali, in particolare da parte dell’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione; per una presentazione articolata di questa copiosa casistica si veda F. Biondi Dal Monte, I diritti sociali degli stranieri tra frammentazione e non discriminazione. Alcune questioni problematiche, «Le istituzioni del federalismo», 2008, 5, pp. 557-95).

Va anche rilevato, comunque, che alcuni enti subnazionali continuano invece a svolgere una ruolo di pungolo verso il livello nazionale per il riconoscimento di diritti sociali. Esemplare in questo senso è il caso della Toscana riguardo alle prestazioni sociali per i cittadini irregolari, un campo che ha suscitato attrito negli ultimi anni tra Stato e regioni. La normativa nazionale stabilisce che gli unici destinatari delle politiche di integrazione sociale debbano essere gli immigrati regolarmente soggiornanti sul territorio, ma già da diversi anni le leggi di molte regioni utilizzano un’espressione volutamente ambigua (si parla di stranieri comunque dimoranti) per avallare di fatto l’accesso alle prestazioni anche agli irregolari. La Regione Toscana ha sfidato apertamente la normativa nazionale, prendendo atto di una prassi già largamente in uso nei servizi sociali. La l. reg. 8 giugno 2009 nr. 29, all’art. 6, prevede esplicitamente che alcune prestazioni sociali siano erogate anche agli stranieri irregolari: «stranieri dimoranti nel territorio regionale, anche se privi del permesso di soggiorno, possono fruire degli interventi urgenti e indifferibili» (Vrenna 2010, p. 51).

Le politiche di integrazione in Emilia-Romagna, Veneto e Puglia

La scelta di approfondire le politiche per gli immigrati in queste tre regioni tiene conto di due importanti fratture (cleavages), che caratterizzano l’Italia: da una parte quella tra Nord e Sud, che si manifesta principalmente nel divario economico e di capitale sociale; dall’altra quella nella cultura politica, che caratterizza le regioni del Centro-Nord.

La Puglia è rappresentativa dei problemi e delle criticità dell’Italia meridionale dal punto di vista degli alti livelli di disoccupazione e di economia sommersa, della carenza di servizi, della corruzione politica e dell’inefficienza delle amministrazioni pubbliche. Il Veneto e l’Emilia-Romagna raffigurano invece due delle regioni economicamente più sviluppate del Paese, con un elevato grado di protezione sociale e di capitale sociale, oltre a essere tra quelle con la maggiore presenza di immigrati. Nonostante le similitudini in termini di struttura e di performance economica, così come nella vivacità dell’associazionismo e della società civile in generale, Veneto ed Emilia-Romagna appartengono a due tradizioni o culture politiche opposte: per il Veneto la cultura politica di riferimento è quella ‘bianca’, di retaggio cattolico e democristiano, che negli anni Novanta ha subito il fascino della Lega Nord; l’Emilia-Romagna, invece, è impregnata della tradizione politica comunista o ‘rossa’, che dagli anni Novanta ha trovato nel Partito democratico (PD), e in generale nelle coalizioni di centrosinistra, il proprio riferimento politico privilegiato.

Per quanto questa tradizionale frattura, risalente al secondo dopoguerra, si sia ampiamente trasformata e certamente sia meno profonda di un tempo, rimane nelle due regioni qualche eredità di policy specifica. In particolare, mentre in Veneto gli attori politici, fedeli al principio cattolico della sussidiarietà, sono sempre stati propensi a delegare agli attori privati e appartenenti al privato sociale la responsabilità nella progettazione e implementazione dei servizi, in Emilia-Romagna invece il modello di policy-making si è sempre caratterizzato per un ruolo di primo piano dell’attore pubblico, che per questo si è guadagnato la fama di essere interventista.

Dal punto di vista politico, l’Emilia-Romagna è stata governata prima dal Partito comunista italiano (PCI) e successivamente da coalizioni di centrosinistra. Il Veneto è stato tradizionale roccaforte della Democrazia cristiana, ma negli anni Novanta con la scomparsa della DC è stato governato da maggioranze di centrodestra, che dal principio degli anni Duemila hanno compreso anche la Lega Nord. Quest’ultima alle elezioni regionali del 2010 è risultata il primo partito con il 35% dei voti, portando un suo candidato, Luca Zaia, alla guida della regione. Infine la Puglia per tutti gli anni Novanta e fino al 2005 è stata governata da maggioranze di centrodestra; alle elezioni del 2005 c’è stato un cambio di colore politico con la vittoria della coalizione di centrosinistra (L’unione), che ha incoronato come presidente Nichi Vendola.

Analizzare il modo in cui queste tre regioni hanno definito l’immigrazione e si sono proposte di agire su di essa, principalmente fornendo linee guida e indirizzi agli enti locali, aiuta anche a capire se e quanto i cleavages territoriali e di cultura politica hanno influenzato le politiche per gli immigrati nei diversi contesti.

L’Emilia-Romagna

La programmazione regionale dell’Emilia-Romagna ha avuto inizio nel 1999, subito dopo l’approvazione della legge Turco-Napolitano che ha introdotto il Fondo per le politiche migratorie e richiesto alle regioni di predisporre specifici programmi per accedervi. Da allora i programmi sono stati redatti regolarmente, anche se l’estinzione del fondo vincolato per politiche migratorie (nel 2002) ha fatto venire meno l’obbligo per le regioni di una programmazione su questo settore. L’Emilia-Romagna ha altresì continuato a garantire una soglia minima di risorse da destinare al settore immigrazione, pari a circa 2,6 milioni di euro (Stuppini 2012).

A seguito della legge di riforma dell’assistenza sociale del 2000, che ha introdotto i piani di zona come strumento principe della programmazione locale, l’articolazione degli interventi e la loro implementazione è stata progressivamente trasferita dalle province ai distretti sociali: dal 2004 i 38 distretti sociali sono destinatari di circa il 70% delle risorse messe in campo dalla regione per l’integrazione dei cittadini stranieri. Lo stile di governance dell’Emilia-Romagna appare pertanto fortemente decentrato, poiché agli enti locali viene riservato un budget e un mandato ampio nel decidere come e cosa implementare tra le priorità individuate nei programmi (Campomori, Caponio 2012). Dall’altra parte, a differenza di altre regioni (come la Toscana e la Lombardia), l’Emilia-Romagna continua a emanare programmi specifici sull’immigrazione: possiamo parlare pertanto di un decentramento controllato, nel senso che la regione detta le priorità su questo tema, per quanto generali e suscettibili di differenti modalità di implementazione.

L’Emilia-Romagna si è posta in maniera critica verso la legge Bossi-Fini e non ha mancato di esprimere disapprovazione anche all’interno dei documenti programmatori, accusando questa legge di intrappolare gli immigrati in uno status legale precario. La legge regionale sull’immigrazione (l. reg. 24 marzo 2004 nr. 5) nasce anche con l’intento di contrastare la rigida impostazione della legge Bossi-Fini e per tale motivo il governo Berlusconi sollevò poi la questione della sua illegittimità presso la Corte costituzionale, che tuttavia nel 2005 respinse il ricorso, dichiarandola legittima.

Guardando i documenti di programmazione nella loro complessità, si coglie l’evoluzione del fenomeno migratorio, ma anche del modo in cui è stata posta la questione degli immigrati a partire dal nuovo millennio. Il primo programma, per es., riservava una quota importante del budget per la costruzione di alloggi di prima accoglienza, che nei piani successivi non sono quasi più stati menzionati. Inoltre, se il titolo di questo programma faceva riferimento ad attività di «accoglienza e assistenza a favore degli immigrati», già due anni dopo la parola ‘assistenza’ non veniva più utilizzata e si parlava di «azioni per l’integrazione sociale degli immigrati». E in seguito all’approvazione della legge regionale del 2004 (Norme per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati), gli immigrati hanno cominciato a essere definiti ‘cittadini’, mentre in altre regioni italiane, come il Veneto, ha prevalso a lungo l’espressione ‘extracomunitari’.

Riguardo a come viene inquadrato il fenomeno immigrazione, nei piani dei primi anni del Duemila emerge un maggior accento sull’arricchimento culturale portato dall’immigrazione, sottolineando anche l’auspicio al raggiungimento di una società multiculturale che abbia come perno il pieno status di cittadinanza concesso agli immigrati. Successivamente, nel piano triennale 2006-08, questa enfasi si attenua a favore di un maggior riconoscimento degli aspetti economici: il documento fa proprie le parole del Programma europeo dell’Aia (2004) secondo il quale un’immigrazione ben regolata e gestita può portare vantaggi per ogni Stato in termini di economie più forti, maggiore coesione sociale e senso di sicurezza (Campomori, Caponio 2012). E nel preambolo del successivo piano triennale 2009-11 si afferma che la percezione diffusa, secondo cui i costi dell’integrazione siano più alti dei vantaggi economici, sia errata.

Dal punto di vista del sistema di credenze della regione sulle politiche di integrazione, l’Emilia-Romagna fin dall’inizio degli anni Duemila può essere ricondotta a un frame aperto al riconoscimento e alla valorizzazione delle identità culturali degli immigrati e delle loro associazioni, nonché alla promozione di forme di partecipazione politica (Campomori, Caponio 2012, p. 144).

La sperimentazione di percorsi di cittadinanza, attraverso l’istituzione di consulte degli stranieri, è un tratto caratterizzante della politica di integrazione dell’Emilia-Romagna. La prima consulta regionale è stata introdotta dalla legge del 2004 e a essa si sono poi aggiunte una trentina di esperienze a livello provinciale, distrettuale e comunale. Prima delle consulte era stato utilizzato lo strumento del consigliere aggiunto (il Comune di Nonantola, in provincia di Modena, è stato il primo a promuovere questa figura all’inizio degli anni Novanta). Il problema della loro rappresentatività, ma anche della loro efficacia, negli ultimi anni ha imposto alla regione una riflessione critica su questi dispositivi di partecipazione politica (Stuppini 2012).

Le iniziative interculturali sono un altro dei punti qualificanti e ricorrenti nei documenti programmatori, che nelle linee guida raccomandano la predisposizione di corsi di italiano e di educazione civica; allo stesso tempo una particolare rilevanza viene data alla figura dei mediatori linguistico-culturali nei servizi sociali, sanitari, nelle scuole e nelle carceri (nel 2009 risultavano operanti 300 mediatori con contratti a tempo pieno e altri 500 con contratti di prestazione occasionale). Gli indirizzi regionali insistono anche sulla formazione degli operatori nei servizi che hanno sempre più un’utenza multiculturale.

Un’ulteriore declinazione delle iniziative interculturali è quella dei centri interculturali, presenti in quasi tutti i capoluoghi di provincia, e nel sostegno alla comunicazione tra culture nei media in lingua italiana e straniera.

Ricorrente nei programmi regionali è anche la presa in carico dei richiedenti asilo e delle persone vittime di tratta. Per entrambi gli ambiti ci sono percorsi specifici. Sull’asilo sono stati attivati percorsi di protezione e accoglienza attraverso la rete SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), che utilizza un fondo nazionale appositamente realizzato (Programma nazionale asilo); riguardo alle vittime di tratta, dal 1996 la regione finanzia un programma chiamato Oltre la strada, con sede operativa in alcuni comuni che lo attuano in cooperazione con associazioni del terzo settore.

Il contrasto alle discriminazioni è l’ultimo filone tematico individuato dalla regione: la legge regionale del 2004 ha istituito un centro regionale per la discriminazione, una possibilità già prevista dalla legge Turco-Napolitano e sulla quale le direttive europee, a partire dal 2005, hanno cominciato a insistere molto. Sempre su questa tematica l’Emilia-Romagna ha sottoscritto un accordo con l’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) per condividere il sistema informativo e la formazione degli operatori, ma anche per utilizzare la rete di sportelli informativi già esistente sul territorio e quindi evitare servizi ridondanti in un tempo di scarsità di risorse (Stuppini 2012).

Il Veneto

La programmazione del Veneto in materia di immigrazione è cominciata nel 2001 per proseguire regolarmente di anno in anno, come in Emilia-Romagna, anche quando i cambiamenti legislativi non l’hanno più resa formalmente obbligatoria.

I documenti programmatici di questa regione elencano aree di priorità abbastanza precise e circoscritte, che rimangono in gran parte costanti per tutto il primo decennio degli anni Duemila. I destinatari principali delle risorse economiche, nonché responsabili dell’implementazione, sono le province, che tuttavia sembrano disporre di un margine di manovra minore rispetto agli enti locali dell’Emilia-Romagna. La regione infatti destina uno specifico budget per ogni priorità da essa individuata in modo che gli enti locali non possano scegliere se investire di più su una priorità rispetto a un’altra, avendo un ammontare di risorse già prefissato per ognuna. Circa il 25% delle risorse previste dalla regione viene assegnato ai comuni, che dal 2004 sono responsabili per l’integrazione scolastica e sociale dei bambini immigrati, in collaborazione con le associazioni del terzo settore e le scuole stesse. Una parte del budget viene infine trattenuta dalla regione soprattutto per il finanziamento dell’Osservatorio regionale sull’immigrazione, che produce rapporti sull’andamento sociodemografico dell’immigrazione. Lo stile di governance del Veneto si presenta quindi più accentrato rispetto a quello dell’Emilia-Romagna.

Riguardo al sistema di credenze dei policy-makers, la lettura dei piani rivela che l’enfasi sull’immigrazione regolare è uno degli elementi caratterizzanti: in particolare viene a più riprese ribadita l’importanza di combattere gli ingressi illegali. È inoltre esplicitato più volte che gli interventi sociali devono essere rivolti solo agli immigrati regolari. L’accento sul controllo nei primi piani fa quasi perdere di vista l’obiettivo dei programmi stessi, tanto che la parola ‘integrazione’ nei primi due piani non è mai menzionata (Campomori, Caponio 2014), mentre a partire dal 2004 diventa una delle parole chiave delle varie priorità.

Un altro elemento tipico della programmazione veneta, che ci dice qualcosa sul framing dell’immigrazione in questa regione, riguarda il fatto che gli immigrati sono costantemente messi a confronto con gli emigranti veneti di ritorno: emigrazione e immigrazione vengono trattate negli stessi documenti, salvo accordare una corsia preferenziale agli emigrati di ritorno nell’accesso ai servizi sociali, tra cui quello all’edilizia pubblica.

Contrariamente all’Emilia-Romagna, il Veneto mostra di apprezzare la legge Bossi-Fini, per il fatto di porre l’immigrazione legale e il lavoro come elementi centrali per una buona convivenza; nel programma regionale del 2003, infatti, la formazione professionale è considerata uno strumento cruciale per l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro e nella società e fornisce sostegno agli emigrati italiani di ritorno (http://www.stranieriinitalia/briguglio/immigrazione-e-asilo/2003/aprile/progr-regione-veneto-2003.html).

Il sistema di credenze che sembra connotare questa regione in riferimento alle politiche per l’integrazione è inoltre riconducibile a un frame che si potrebbe definire assimilazionista: agli immigrati viene richiesto di assimilarsi alla società ospite principalmente attraverso il lavoro, ma con una particolare sottolineatura rispetto a una assimilazione culturale (come vedremo poco oltre). Viene richiesto infatti di accettare valori e norme anche legate alla cultura specificamente veneta, oltre ovviamente a imparare l’italiano (Campomori, Caponio 2013). Secondo la studiosa dell’immigrazione Jacqueline Andall ciò significa che «nella regione si può identificare un tipo particolare di cittadinanza locale nella quale i diritti culturali, sociali e politici continuano a essere trascurati» (2009, p. 278).

La partecipazione al mercato del lavoro è senz’altro il pilastro principale sul quale vengono costruiti i documenti di programmazione ed è anche lo strumento più concreto con cui la Regione Veneto è riuscita a sviluppare un alto potenziale di integrazione nonostante una retorica pubblica diffidente, se non apertamente ostile all’immigrazione. Il Veneto infatti viene collocato ai primi posti in Italia (per alcuni anni è stata la prima regione) per quanto riguarda l’integrazione degli immigrati (vedi rapporto CNEL 2013, http://www.cnel.it/29?shadow_ultimi_aggiornamenti=3484). Allo stesso tempo i forti consensi ottenuti dalla Lega Nord, almeno fino al 2010, potrebbero far supporre che gli elettori sottoscrivono in pieno le posizioni anti-immigrati del partito.

Sia come sia, è un fatto che la retorica anti-immigrato della Lega Nord non è incompatibile con l’alto livello di integrazione mostrato dal Veneto se messo a confronto con le altre regioni italiane. E questo risultato dipende in gran parte dal dinamismo dell’economia regionale che ha potuto garantire agli immigrati (almeno fino alla crisi) impieghi stabili prevalentemente nell’economia formale (Andall 2009).

Come si è accennato, gli immigrati vengono considerati principalmente nel loro ruolo di lavoratori e, al fine di renderli sempre più utili all’economia locale, la regione promuove tra le sue priorità l’istituzione di corsi di formazione professionale (anche nei Paesi di origine), che comprendono progetti legati alla sicurezza sul lavoro e di rispetto della normativa fiscale, ma anche di formazione degli imprenditori immigrati. Nell’area formazione sono comprese inoltre attività di formazione e aggiornamento di operatori di sportello e mediatori linguistico-culturali.

Un’attenzione particolare si è sviluppata in Veneto attorno al lavoro di cura. Stuppini (2012) ricorda che questa regione è stata tra le prime a muoversi sul tema delle cosiddette badanti, creando una rete di sportelli presenti in ogni distretto sociosanitario. Il piano triennale 2010-12 ha avviato inoltre un progetto di formazione specifica (Prendersi cura in Veneto) che punta a favorire l’apprendimento non solo dell’italiano, ma anche della lingua e cultura veneta «per migliorare la dimensione relazionale nella gestione domiciliare della persona assistita» (p. 9).

Nell’area formazione sono inclusi anche i corsi di apprendimento della lingua e di integrazione civica. I programmi regionali, tra l’altro, anticipano l’Accordo di integrazione inserito nel Pacchetto sicurezza proponendo già nel programma triennale 2007-09 un Patto di accoglienza per gli immigrati. Tale patto prevede percorsi informativi e formativi sui diritti-doveri dei nuovi arrivati, servizi di accompagnamento al primo inserimento e corsi di lingua. Ovviamente, come anche specificato nel documento regionale, esso non può costituire un presupposto per il rilascio del permesso di soggiorno, poiché ancora non era previsto nella legge nazionale, ma viene esplicitato che l’ispirazione di questo dispositivo è il Contrat d’accueil et d’intégration (CAI) francese, che nel 2009 ha ispirato la formalizzazione dell’Accordo di integrazione in Italia.

Il secondo pilastro delle politiche venete di integrazione è l’abitazione. I piani del 2002 e 2003 hanno allocato cifre consistenti (due milioni e mezzo di euro) per sostenere progetti abitativi rivolti specificamente ai lavoratori immigrati, mentre a partire dal 2004 emerge un’impostazione più universalista e questi servizi vengono aperti a tutti i residenti in condizioni di povertà. Nel 2008 inoltre la regione ha lanciato un Fondo etico sulla casa, con lo scopo di acquistare appartamenti da affittare poi a canoni calmierati alle persone in situazioni di disagio (Campomori, Caponio 2013).

La terza area tematica su cui si fondano le politiche per gli immigrati è l’integrazione sociale e scolastica, la cui implementazione, come abbiamo detto, è demandata ai comuni. Questa area entra a far parte della programmazione regionale in maniera sistematica solo a partire dal programma triennale 2004-06, mentre nella programmazione del triennio precedente se ne fa solo un breve cenno all’interno dei progetti pilota. Dopo il 2005 viene dato anche un certo risalto alle figure dei mediatori e, sull’integrazione sociale, ai percorsi di emancipazione per le donne immigrate, in particolare quelle sole con minori a carico.

Come l’Emilia-Romagna, anche il Veneto ha aderito (nel 2012) all’organismo nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni razziali (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, UNAR); il protocollo stipulato prevede un raccordo sia con soggetti istituzionali come le questure e le aziende sanitarie, sia con organizzazioni del privato sociale e del volontariato.

A partire dagli anni in cui la crisi economica ha mostrato i primi segnali la regione ha potenziato le attività di informazione e consulenza legate ai progetti di rientro degli immigrati nel Paese di origine: a tal fine sono stati predisposti a livello territoriale otto appositi sportelli informativi (SIR) che offrono assistenza agli immigrati nella progettazione di piani di rientro.

La Puglia

Il caso della Puglia mostra alcune peculiarità rispetto al Veneto e all’Emilia-Romagna, due regioni nelle quali, come si è visto, la programmazione in materia di integrazione è cominciata nei primissimi anni del Duemila (in Emilia-Romagna già nel 1999) ed è poi proseguita regolarmente negli anni seguenti. In Puglia, invece, l’immigrazione è entrata nell’agenda di policy di fatto solo nel 2005 con la prima amministrazione di Vendola. Nonostante la precedente amministrazione di centrodestra avesse approvato una legge regionale sull’immigrazione (l. reg. 15 dic. 2000 nr. 26), che prevedeva anche l’avvio di una programmazione triennale in materia, nel quinquennio successivo non era stato redatto alcun piano (la regione aveva solo predisposto qualche intervento emergenziale).

Il primo programma della Puglia risale dunque al 2005 e da allora la programmazione è stata redatta regolarmente. Nel 2006 inoltre è stato promosso un processo partecipativo finalizzato alla predisposizione di un nuovo testo di legge sull’immigrazione: sono state coinvolte molte associazioni del terzo settore, accanto a diverse associazioni di immigrati. Nel 2009 si è così arrivati all’approvazione di una nuova legge (l. reg. 4 dic. 2009 n. 32, Norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati in Puglia), che ha anche introdotto una Consulta per l’integrazione degli immigrati analoga a quella dell’Emilia-Romagna. In questo processo, e nell’impostazione generale delle politiche di integrazione, un ruolo di primo piano è stato svolto dall’assessore con delega all’immigrazione, Nicola Fratoianni, presso l’Assessorato alle Politiche giovanili e Cittadinanza.

Anche la scelta dell’assessorato entro cui far ricadere le competenze per l’immigrazione è significativa e sembra voler segnare una presa di distanza dalla giunta precedente, che come abbiamo detto era intervenuta solo sulle emergenze: per questo le deleghe all’immigrazione non sono state assegnate, come avviene per la maggior parte delle altre regioni, all’assessorato alle Politiche sociali (Campomori, Caponio 2012). Si deve principalmente a questo assessore l’impostazione degli interventi per gli immigrati imperniata sull’apertura e la collaborazione con le associazioni del privato sociale.

La presa di distanza rispetto all’impostazione delle politiche per l’immigrazione della giunta precedente guidata da Raffaele Fitto emerge molto chiaramente e polemicamente nell’introduzione al Primo piano annuale del 2005:

Questi vuoti legislativi ed operativi [in riferimento alla giunta precedente] rappresentano le spie di un atteggiamento culturale e politico del passato – molto distante dai programmi della attuale Amministrazione Regionale – che poneva l’attenzione prevalentemente sul concetto di sicurezza pubblica piuttosto che sulle misure di integrazione, pari opportunità di accesso ai servizi sociali, affermazione del principio di tutela delle differenze (Deliberazione della giunta regionale 30 nov. 2005, nr. 1752, p. 2.)

Poco più avanti nel testo dello stesso Piano annuale del 2005, vengono fatte altre considerazioni in polemica rispetto alla giunta precedente:

La politica migratoria del governo regionale pugliese negli ultimi anni – o meglio la sua assenza – ha evidenziato il ‘fastidio’ di avere a che fare con ospiti tutto sommato poco accettati, e la carenza complessiva di una strategia dell’attenzione, che non ha aiutato ad approfondire la necessaria ed auspicabile integrazione tra la società pugliese e le comunità migranti residenti. Ne è prova diretta la mancata attivazione in questi anni degli strumenti di partecipazione che erano previsti dalla l. reg. 15 dic. 2000 nr. 26, come la Consulta regionale dell’immigrazione extracomunitaria, nonché la quasi assoluta assenza di progettualità, investimenti e finanziamenti verso strutture ed attività atte a migliorare il livello di vita e di integrazione degli immigrati residenti (p. 4).

Il discorso pubblico che emerge da queste affermazioni punta a creare una netta discontinuità con il sistema di credenze della precedente maggioranza e ad avanzare al contrario una visione dell’immigrazione come fenomeno permanente su cui è necessario agire in una logica di programmazione e di pianificazione.

L’analisi dei piani dal punto di vista della distribuzione delle competenze ai vari attori pubblici (enti locali) e privati evidenzia uno stile tendenzialmente accentrato della regione. L’Emilia-Romagna e – in misura inferiore – il Veneto, delegano agli enti locali gran parte dei fondi e delle responsabilità nell’implementazione degli interventi: la Puglia sembra invece voler mantenere un certo controllo su questa politica. Avendo l’ente regionale un ruolo di coordinamento e controllo (e quindi non di implementazione), anche la Puglia non si è sottratta alla collaborazione con i comuni: essa ha infatti stipulato con gli enti locali una serie di accordi, sui quali tuttavia ha mantenuto un elevato grado di controllo. Tra questi l’accordo con le province per promuovere agenzie sociali di mediazione e realizzare un fondo di garanzia per gli immigrati che accedono all’affitto, accordi con le scuole per la realizzazione dei corsi di italiano, accordi con alcuni comuni (Foggia, Cerignola e San Severo) per la realizzazione del progetto Albergo diffuso avviato nel 2006.

Quest’ultimo progetto ha permesso di inaugurare, nei tre comuni oggetto della sperimentazione, delle strutture per l’accoglienza di lavoratori stagionali nelle campagne pugliesi. Gli alberghi diffusi non sono quindi, come viene ribadito nei programmi, delle strutture assistenziali in senso stretto (viene richiesto anche un contributo minimo ai lavoratori), ma un’offerta abitativa legale abbinata a una rete di servizi sociosanitari, che punta a sottrarre gli immigrati dalle maglie dello sfruttamento lavorativo.

Un altro intervento legato all’accoglienza abitativa riguarda l’istituzione di un fondo regionale di garanzia per facilitare l’accesso alle abitazioni in locazione e l’istituzione di agenzie per l’intermediazione abitativa. La regione si è attivata anche sulle azioni di contrasto alla tratta (progetto Le città invisibili) che negli anni pre-Vendola erano quasi completamente a carico delle associazioni del terzo settore, senza alcun appoggio istituzionale.

È evidente, analizzando i piani, che i bisogni legati al settore socioassistenziale sono pressanti e prioritari; tuttavia il sistema di credenze della giunta è inquadrabile all’interno di un frame aperto al riconoscimento delle identità culturali, simile a quello dell’Emilia-Romagna. Si è già detto dell’interazione con le associazioni di immigrati e della consulta per l’integrazione che punta a garantire una partecipazione politica degli stranieri. Accanto a questo, e per quanto riguarda l’ambito dell’intercultura, nel 2006 sono stati attivati quattro centri interculturali (a Foggia, Bari, Lecce e Altamura) ed è stato predisposto un contributo specifico affinché gli enti locali e le associazioni possano cofinanziare in particolare attività di mediazione culturale nei vari servizi sociali, educativi e sanitari (Campomori, Caponio 2012, p. 145).

La delicata situazione economica e sociale della regione trova un riscontro nei documenti di programmazione non solo perché viene posta un’attenzione particolare ai progetti nell’ambito generale del settore socioassistenziale, ma anche perché la formazione propriamente professionale, centrale nei piani del Veneto e mirata alle competenze richieste dal mercato del lavoro di quella regione, qui è invece praticamente assente, almeno fino all’ultimo piano triennale. Il programma relativo al periodo 2013-15, infatti, dedica alla formazione professionale e all’inserimento lavorativo degli stranieri uno specifico paragrafo; esso punta soprattutto a ribadire un generico impegno della regione a favorire l’inserimento lavorativo degli immigrati, secondo quanto previsto dalla legge regionale in materia. Nelle ultime righe del documento si entra nel merito delle azioni programmate per il triennio 2013-15, e si citano in particolare due progetti finanziati con il Fondo europeo per l’integrazione che vanno nella direzione di prevenire il lavoro sommerso e di attivare tirocini formativi rivolti agli immigrati (Deliberazione della giunta regionale 3 maggio 2013 nr. 853).

Per quanto riguarda le politiche antidiscriminazione, la Puglia nel 2012 ha approvato la convenzione con l’UNAR e a seguito di questa collaborazione ha avviato alcune azioni che vengono riportate nell’ultimo programma triennale: la sottoscrizione da parte di 61 aziende e 27 pubbliche amministrazioni di una Carta per le pari opportunità e l’eguaglianza sul lavoro; la promozione di un progetto culturale audiovisivo; l’istituzione di un tavolo tecnico con la partecipazione anche delle associazioni che punta a individuare e implementare buone pratiche; la realizzazione di giornate di formazione per gli operatori dei centri territoriali antidiscriminazione.

I cleavages storici a confronto con le politiche

L’analisi delle politiche per l’integrazione degli immigrati nelle tre regioni ci permette di avanzare qualche ipotesi sul potenziale esplicativo dei cleavages territoriali e di cultura politica relativamente all’approccio alla tematica immigrazione (Campomori, Caponio 2014).

Il cleavage Nord-Sud, che rimanda allo storico squilibrio nello sviluppo economico e di capitale sociale, sembra quello più significativo, nonostante la Puglia, a differenza di altre regioni del Sud, si caratterizzi per un’elevata attenzione al tema immigrazione, nonché per una certa intraprendenza nell’affrontare le sfide dell’integrazione. Il vero punto di svolta arriva dall’amministrazione Vendola nel 2005, che comincia a rendere operativi programmi e interventi, mentre nel periodo precedente la tematica sembrava quasi del tutto ignorata o comunque non era oggetto di una pianificazione. Questo rimanda inevitabilmente al tema dell’inefficienza e dell’inerzia amministrativa delle regioni meridionali, che è ancora più evidente guardando a regioni come la Calabria o la Basilicata, che non hanno mai fatto una programmazione triennale, o alla Campania, in cui la programmazione è del tutto frammentaria e saltuaria. La valenza esplicativa di questo cleavage emerge anche in riferimento ai contenuti dei piani, che in Puglia pongono un forte accento sugli interventi di assistenza a vari livelli, in considerazione della situazione più svantaggiata che vivono gli immigrati, a causa delle minori opportunità lavorative nell’economia formale, ma probabilmente anche a causa di un sistema di protezione sociale meno efficiente rispetto a quello di Veneto, Puglia ed Emilia-Romagna.

Il cleavage legato alle differenti culture politiche è senza dubbio importante se guardiamo al livello dei discorsi pubblici e quindi delle narrative di policy: il Veneto e l’Emilia-Romagna utilizzano un linguaggio, una terminologia e pertanto una modalità di definire l’immigrazione che contiene delle evidenti differenze, soprattutto nei primi anni del Duemila. Le narrative di policy presenti nei programmi riflettono e danno conto senza dubbio delle opposte tradizioni politico-ideologiche. Da una parte l’Emilia-Romagna, che valorizza il confronto culturale come dato positivo e di arricchimento reciproco, evocando una cultura politica propria della sinistra, tradizionalmente aperta alla diversità e alla sua integrazione. Dall’altra il Veneto, che insieme a una preoccupazione per il quadro di legalità entro cui l’immigrazione deve essere circoscritta (tipica della retorica della destra), pone l’accento soprattutto sugli aspetti socioeconomici e vede nell’integrazione all’interno del mercato del lavoro il punto principale di ogni politica per gli immigrati.

Tuttavia, se ci spostiamo dalle definizioni che troviamo nelle premesse dei vari piani o nelle dichiarazioni dei policy-makers e guardiamo alle concrete priorità individuate dai documenti delle due regioni, non è difficile osservare elementi di similarità e di convergenza. L’Emilia-Romagna dal 2005 ha cominciato a porre più enfasi sul mercato del lavoro e sulle necessità economiche collegate all’immigrazione, mentre il Veneto dal 2004 ha inserito stabilmente nei suoi programmi le attività di integrazione scolastica e ha riconosciuto la rilevanza della mediazione culturale, temi che in precedenza erano appena abbozzati. La variabile legata alla cultura politica pertanto non sembra essere decisiva, nel senso che non produce differenze significative nella governance concreta dell’integrazione degli immigrati, anche se certamente le retoriche politiche rispecchiano le differenti colorazioni politiche delle maggioranze delle due regioni (Campomori, Caponio 2014).

Un elemento che contribuisce a creare convergenza tra le politiche delle regioni, soprattutto in tempi di scarsità di risorse degli enti subnazionali, sono i fondi nazionali ad hoc su tematiche specifiche (in particolare il fondo per l’asilo, i fondi per la lotta alla tratta e quelli per i corsi di italiano) e i FEI, utilizzati principalmente per i corsi di lingua italiana e per quelli di integrazione civica.

Tutto ciò naturalmente non autorizza ad affermare che i diritti sociali degli immigrati siano tutelati in maniera più omogenea rispetto a un decennio fa. Permangono elementi di cittadinanza locale e di diritti differenziati, non attribuibili tuttavia esclusivamente alle politiche per gli immigrati. In parte, la complessità del livello urbano – a causa della discrezionalità di cui gode nei dispositivi di protezione sociale – ha portato e porta a differenze non di poco conto sulla fruizione dei servizi e quindi anche dei diritti. Dall’altra, permane la frattura tra Nord e Sud in termini di offerta di servizi (oltre che di opportunità lavorative), che inevitabilmente condiziona il godimento dei diritti di cittadinanza sociale, che appunto sempre più sono legati al comune di residenza.

Conclusioni

In questo saggio si è cercato di tratteggiare lo scenario e delineare l’evoluzione delle politiche per gli immigrati in Italia, mettendo anche in luce gli elementi di contraddittorietà, o comunque di non completa corrispondenza, tra le retoriche pubbliche e gli interventi concretamente attuati. L’intensa politicizzazione del tema immigrazione, infatti, ha contribuito a far assumere a tale questione un ruolo di primo piano nell’agenda politica (non solo in Italia, naturalmente), che spesso ha dovuto scontare semplificazioni ideologiche e prese di posizione retoriche funzionali in gran parte a rassicurare gli elettori (che sono italiani).

A differenza delle politiche di controllo migratorio e di gestione dei flussi, la tematica specifica dell’integrazione è stata tuttavia a lungo ignorata dal livello nazionale di governo, o oggetto di normative vaghe non corredate da risorse economiche che ne permettessero l’implementazione. Lo stile di policy italiano in materia di integrazione degli immigrati si è insomma contraddistinto per essere contingente e basato su risposte poco lungimiranti alle emergenze che di volta in volta si sono presentate.

L’indolenza dei governi nazionali, e la conseguente debolezza nelle indicazioni su questo tema, non ha comunque impedito alle regioni, e soprattutto agli enti locali, di attivarsi – pur se in maniera volontaristica e con risorse proprie – già dalla fine degli anni Ottanta per far fronte alle emergenze abitative e sociali create dagli arrivi degli immigrati provenienti in particolare dai Paesi dell’Est Europa.

Le disposizioni contenute nella legge Turco-Napolitano (l. 40/1998) hanno in parte colmato il silenzio del livello nazionale su questo tema, formalizzando per le regioni e gli enti locali un ruolo specifico nell’ambito degli interventi per l’inclusione degli stranieri nei vari contesti locali, a fronte della predisposizione di risorse economiche dedicate.

La riforma costituzionale del 2001 (l. cost. 3/2001) ha tuttavia cambiato nuovamente le carte in tavola, dato che le politiche di integrazione sono diventate materia di competenza esclusiva delle regioni, le quali possono pertanto decidere se e come formulare interventi per gli immigrati e quante risorse eventualmente destinare a questo tema.

Nonostante ciò, il Pacchetto sicurezza (l. 94/2009) sembra voler andare nella direzione di ricentralizzare parzialmente le politiche per gli immigrati, attraverso l’introduzione dell’Accordo di integrazione, uno strumento che peraltro molti Paesi europei avevano già introdotto negli anni precedenti e che punta a selezionare i nuovi arrivati sulla base della loro disponibilità ad assimilarsi al Paese ospite, imparando la lingua e aderendo ai valori civici fondamentali. L’Accordo, dopo essere stato solennemente codificato nella legge, annunciato nel discorso pubblico ed enfatizzato nel documento Piano per l’integrazione nella sicurezza. Identità e incontro, è entrato in vigore solo nel marzo del 2012, quando è stato emanato il regolamento d’attuazione.

Le competenze e l’autonomia decisionale delle regioni e degli enti locali non sono comunque significativamente ridotte dall’introduzione di questo dispositivo e appare chiaro che le politiche che si rivolgono agli stranieri già residenti in Italia sono tuttora decise e implementate dai livelli di governo subnazionali. Ciò è tanto più vero se si guarda al livello urbano, dove le derive securitarie e limitative dei diritti degli stranieri sono sempre in agguato, anche se in molti casi le corti di giustizia hanno mitigato gli effetti dei provvedimenti restrittivi e dal sapore retorico degli amministratori locali. È lecito infatti sospettare che i sindaci delle città del Centro-Nord si potessero attendere una controffensiva legale rispetto alle loro delibere anti-immigrati, ma che abbiano comunque voluto trasmettere un messaggio simbolico ai propri cittadini rimarcando, per es., il diritto di precedenza degli autoctoni nella fruizione dei diritti sociali o la presa in carico del tema della sicurezza da parte delle amministrazioni locali.

Infine, l’analisi delle politiche di integrazione in Emilia-Romagna, Veneto e Puglia ha fatto emergere come il ruolo del livello nazionale negli interventi per gli immigrati sia visibile soprattutto guardando ai fondi introdotti da alcuni ministeri su temi specifici (come l’asilo, le azioni di contrasto alla tratta degli esseri umani e l’apprendimento dell’italiano). Insieme ai Fondi europei per l’integrazione degli immigrati (FEI), essi sono l’elemento parzialmente unificante degli interventi regionali in tema di integrazione, soprattutto in tempo di carenza di altre risorse (come è noto il Fondo per le politiche sociali dopo il 2007 ha subito una netta riduzione). Le differenze nelle retoriche ascrivibili all’orientamento politico di chi governa le regioni o gli enti locali sono attenuate da un lato da dinamiche di lungo periodo, collegate alle più ampie politiche sociali e all’efficienza degli apparati amministrativi, e dall’altro – come si è detto – dalla disponibilità di fondi nazionali da destinare a interventi specifici (Campomori, Caponio 2012).

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