Le modifiche alla responsabilità civile dei magistrati

Libro dell'anno del Diritto 2016

Le modifiche alla responsabilità civile dei magistrati

Francesco Antonio Genovese

Il contributo si sofferma, in particolare, su alcune modifiche apportate dalla l. 27.2.2015, n. 18 al precedente assetto della responsabilità civile dei magistrati, introdotta con l. 13.4.1988, n. 117, mostrando i profili problematici nascenti dall’innesto delle modifiche sul tronco della legge originaria, anche alla luce di oltre un quarto di secolo di applicazioni, con particolare riferimento al danno risarcibile ed alla figura della colpa grave (per la sua definizione alla luce di due nuovi criteri valutativi: il travisamento del fatto e delle prove), all’assenza di un diritto transitorio, ai riflessi delle modifiche sullo stesso giudizio di cassazione.

La ricognizione

Il tumultuoso dibattito di questi ultimi trent’anni, a partire dall’esito di un noto referendum popolare1 abrogativo, e della successiva legificazione mirata a organizzare una normativa prima mancante, sembra aver trovato un suo assestamento nella recente nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati, recata dalla dibattutissima l. 27.2.2015, n. 18, modificativa del primo (e secondo)2 impianto dato dalla l. 13.4.1988, n. 117, entrata in vigore il 19 marzo 2015. Ovviamente non è questa la sede per ripercorrere le tappe di questo faticoso e sofferto percorso che, all’ordinamento giuridico nazionale, è parso indispensabile completare dopo che, approfittando di una “richiesta dell’Europ”», si è deciso di por mano alla materia anche ben oltre il richiamo, rettamente inteso, proveniente dall’Unione europea3.

La legge reca alcuni rilevanti novità, rispetto all’assetto precedente:

a) sul piano sostanziale, essenzialmente la definizione di nuovi criteri per la definizione della colpa grave del magistrato; b) sul piano processuale, l’eliminazione del filtro di ammissibilità dell’azione risarcitoria.

Altre modificazioni appaiono, se non trascurabili, sicuramente meno rilevanti (così il termine di decadenza per la proposizione della domanda, che il nuovo art. 4 stabilisce in tre anni; così la disciplina della rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato che abbia cagionato il fatto accertato come illecito, e poco altro più).

Nell’ambito della definizione dei nuovi criteri per la definizione della colpa grave del magistrato, spicca, da un lato, accanto alla violazione manifesta della «legge», anche la lesione (altrettanto manifesta) «del diritto dell’Unione europea» (ciò che costituiva, principalmente, la preoccupazione dell’Unione e la ragione della richiesta di una modificazione della disciplina anteriore); da un altro, accanto al cd. vizio revocatorio del giudizio, l’innesto delle due figure del «travisamento del fatto e delle prove».

La focalizzazione

Prima della riforma del 2015, il meccanismo giudiziale era imperniato su questi passaggi:

i) l’attore doveva proporre la sua domanda davanti al «tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello, da determinarsi a norma dell’articolo 11 del codice di procedura penale e dell’articolo 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271»;

ii) il tribunale, sentite le parti, deliberava in camera di consiglio sull’ammissibilità della domanda (di cui all’art. 2 della legge);

iii) la domanda doveva essere dichiarata inammissibile, con decreto motivato, quando non erano rispettati i termini o i presupposti di cui agli art. 2, 3 e 4 della legge, ovvero quando si presentava come manifestamente infondata;

iv) il decreto era impugnabile con i modi e le forme di cui all’art. 739 c.p.c., innanzi alla corte d’appello che pronunciava anch’essa in camera di consiglio con decreto motivato entro il termine di quaranta giorni dalla proposizione del reclamo;

v) il decreto di inammissibilità della corte d’appello, a sua volta, era ricorribile per cassazione;

vi) la dichiarazione di ammissibilità della domanda (da qualunque giudice disposta) comportava la prosecuzione del processo davanti al tribunale che decideva in composizione «intieramente diversa» (e nell’eventuale giudizio di appello non potevano far parte della corte i magistrati che avevano composto il collegio che aveva pronunziato l’inammissibilità).

Tale meccanismo processuale è stato ritenuto troppo limitativo della libertà di azione dell’attore in via risarcitoria (ossia di colui che aveva «subìto un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia») e un’aula parlamentare, assai “motivata” e piuttosto “reattiva” nei riguardi del cd. potere giudiziario, ne ha chiesto ed ottenuto l’eliminazione.

2.1 L’eliminazione del filtro all’azione risarcitoria

Qual è, adesso, lo schema processuale dopo l’eliminazione del filtro di ammissibilità dell’azione? Molto semplicemente resta in piedi un’unica fase, cd. di merito, quale – nel vecchio impianto processuale – risultava dopo il superamento di quella di ammissibilità della domanda, con la sola differenza che il meccanismo d’instaurazione del processo ora avviene direttamente, ad opera della parte, davanti al giudice competente per il merito (come in un giudizio ordinario), senza che vi sia la fase (definitivamente scomparsa) della prosecuzione di quello iniziato, attraverso la verifica di ammissibilità.

La domanda, infatti, deve essere proposta «contro lo Stato» e deve «essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri» (art. 4, co. 1), davanti al tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello, da determinarsi a norma dell’articolo 11 c.p.c., già menzionato4.

Il magistrato («il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio») non può essere chiamato in causa ma può intervenire (art. 6, co. 1) in ogni fase e grado del procedimento, ai sensi di quanto disposto dall’art. 105, co. 2, c.p.c., avendo egli diritto di ricevere, almeno quindici giorni prima della data fissata per la prima udienza, la comunicazione da parte del presidente del tribunale, al fine di intervenire (ove lo voglia) nel giudizio.

Tuttavia, ove egli sia intervenuto, dovrà accettarne anche le conseguenze (art. 6, co. 2), atteso che la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato non farà stato nel giudizio di rivalsa (oltre che nel procedimento disciplinare conseguente) solo se il magistrato non sia intervenuto volontariamente in giudizio.

Viene, infine, enfaticamente proclamato (art. 7, co. 1) che, all’esito del giudizio contro lo Stato, la Presidenza del Consiglio dei ministri, entro due anni «dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale», ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato, «nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui all’articolo 2, commi 2, 3 e 3bis» siano stati determinati da dolo o negligenza inescusabile (ma, «in nessun caso la transazione», negoziata dalla Presidenza, «è opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa o nel giudizio disciplinare» (art. 7, co. 2).Anche l’azione di rivalsa verso il magistrato (art. 8, co. 1) deve essere proposta davanti al tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello, da determinarsi, a norma degli artt. 11 c.p.p. e 1 disp. att. c.p.p., e la sua misura (art. 8, co. 3), come modificata dalla nuova disciplina, «non può superare una somma pari alla metà di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità», ma tale limite non si applica al fatto commesso con dolo (l’esecuzione della rivalsa, può essere effettuata mediante trattenuta sullo stipendio: in tal caso non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore ad un terzo dello stipendio netto).

Da notare che, ai sensi dell’art. 7, co. 3, se i giudici popolari (che compongono temporaneamente le Corti d’assise) rispondono soltanto in caso di dolo, i cd. “estranei” rispetto alla magistratura professionale, che concorrono a formare o formano gli organi giudiziari collegiali (dagli organi minorili, alle sezioni specializzate agrarie rispondono, ai tribunali delle acque pubbliche, ecc.)5, sono aggredibili non solo in caso di dolo ma anche per «negligenza inescusabile per travisamento del fatto o delle prove».

2.2 I criteri di valutazione della colpa grave. Il vizio revocatorio

Ferma la clausola di salvaguardia, secondo la quale – al di fuori dell’ipotesi dolosa – non può dar luogo a responsabilità né l’attività di interpretazione delle regole giuridiche né il giudizio sui fatti, posti a base della domanda giudiziale (art. 2, co. 2: «non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove»), il proprium dell’illecito, sotto il profilo soggettivo della colpa grave, è così riformulato nel nuovo testo dell’art. 2, co. 3: «Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».

Lo spazio del cd. errore revocatorio («l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento») ha già formato oggetto di molti commenti, essendo l’ubi consistam della norma originaria (unitamente a quello relativo alla lesione della libertà personale, che sostanzia l’ultima parte della disposizione).

L’art. 395, n. 4, c.p.c. vigente (e il suo antecedente, costituito dall’art. 494, n. 4, del c.p.c. del 1865) stabilisce che «Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: … se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare».

Secondo l’interpretazione assolutamente prevalente della norma processuale (e, quindi, anche di quella che qui si esamina) non deve trattarsi di un errore di valutazione, ma di un errore nella percezione: non un errore di giudizio, ma un errore su un fatto non controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure un errore su un fatto supposto inesistente, ma la cui verità invece, è positivamente stabilita e accertata.

L’errore previsto come motivo di revocazione consiste, dunque, in una falsa percezione della realtà, in una svista obiettivamente ed immediatamente rilevabile, che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo, incontestabilmente escluso dagli atti e documenti di causa, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo, che dagli atti e documenti medesimi risulti positivamente accertato (secondo la costante giurisprudenza di legittimità ed anche amministrativa)6 sempre che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito materia del dibattito processuale su cui la pronuncia contestata abbia statuito.

Un tale errore, che non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche, deve avere i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti e documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche e deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione da lui pronunciata deve esistere un nesso causale tale che senza l’errore la pronuncia sarebbe stata diversa.

L’errore di fatto, idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall’art. 395, n. 4, c.p.c. (e dal testo originario della disciplina della responsabilità civile dei magistrati), deve cioè consistere in un travisamento di fatti costitutivo di «quell’abbaglio dei sensi» che cade su un punto decisivo ma non espressamente controverso della causa7.

Il fatto che tale criterio di accertamento della colpa non sia stato previsto per i cd. estranei che concorrono a formare o formano gli organi giudiziari collegiali (cfr. supra, § 2.1), essendosi per loro stabilito che essi rispondano non solo in caso di dolo ma anche per «negligenza inescusabile per travisamento del fatto o delle prove», pone il problema se gli stessi possano rispondere anche per il vizio revocatorio di cui si è detto poc’anzi. La risposta deve essere positiva in quanto il vizio revocatorio è sicuramente un minus rispetto al travisamento del fatto, rispetto al quale la modifica legislativa ha voluto che i magistrati onorari rispondessero sicuramente. Per loro, infatti, resta puntualmente esclusa solo la colpa grave costituita dalla «violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea» (ai sensi dell’art. 2, co. 3, prima parte).

2.3 Il travisamento dei fatti

Ma il dato innovativo della l. n. 18/2015 è costituito dall’introduzione, tra i criteri di valutazione della colpa grave, oltre che dal vizio revocatorio anche della cd. ipotesi del travisamento dei fatti e delle prove. È questa la novità essenziale delle riforma, in uno con l’eliminazione del filtro di ammissibilità, su piano processuale.

Ma cosa s’intende, esattamente, per travisamento?

Ricorda uno studio recente8 che travisare vuol dire «alterare, spec. intenzionalmente; falsificare, deformare qualcosa dandone un’interpretazione errata o parziale» (diz. Gabrielli) ovvero «presentare o interpretare la realtà in modo contrario alla verità» (diz. Sabatini-Coletti). Secondo altri (Dizionario della Lingua Italiana, Le Monnier, 2012) quel termine vuol dire: «Esporre o interpretare in modo alterato o falsato; distorcere, stravolgere». E potremmo continuare. Ma qui importa solo far rilevare la radice comune di una nozione che ha avuto una certa fortuna nelle scienze giuridiche e che mostra di volerne ancora avere; di avere, cioè, una forza di crescita che non pare arrestarsi.

Infatti, la nozione di “travisamento” nasce nella nostra cultura giuridica, nell’ambito delle scienze amministrativistiche e, in particolare, nell’ambito dello studio dell’eccesso di potere e delle sue figure sintomatiche: sotto la nozione di eccesso di potere si raggruppano tutte le violazioni dei limiti interni della discrezionalità amministrativa, quali la corrispondenza all’interesse pubblico, alla causa del potere esercitato, ai principi di logica ed imparzialità, oltre che alla corretta formazione della volontà dell’organo.

Secondo la dogmatica tradizionale, il travisamento dei fatti costituisce un’ipotesi di cattiva formazione della volontà, causa di vizi dell’atto amministrativo (allo stesso modo in cui possono esserlo per il negozio giuridico di diritto privato) cagionato dal fatto che l’organo pubblico abbia emanato il provvedimento sul presupposto dell’esistenza o inesistenza di fatti che, dagli atti, risultino invece rispettivamente insussistenti o sussistenti9. In tal senso, il travisamento consiste nell’errore radicale del fatto presupposto (e affermato come sussistente o mancante, di contro alla sua realtà materiale, di segno opposto). Ne prese atto Giannini, il quale10, in disparte la critica alla teorica (di Zanobini) dell’eccesso di potere come vizio della volontà (colpevole – a suo dire – del fatto di emergere quando già la giurisprudenza sarebbe radicalmente cambiata, ma «senza che se ne specifichino gli approdi»), demolisce anche le cd. figure sintomatiche di quel vizio di legittimità dell’atto perché considerate «locuzioni empiriche». Tra queste, in particolare, alcune non avrebbero significato, come il travisamento dei fatti, poiché essa altro non sarebbe se non «l’errore di fatto».

In effetti Zanobini11, ricondotto il vizio alle irregolarità attinenti all’elemento volitivo dell’atto, definisce il travisamento dei fatti come la figura che si riscontra quando, nella motivazione del provvedimento, sono affermati, come presupposto di essi, fatti insussistenti o sono negati fatti viceversa reali. Egli, tuttavia, allarga l’area della nozione affermando che ad essa «è equiparata l’alterata considerazione dei fatti affermati», mentre se trattasi di un apprezzamento inopportuno o ingiusto si esce dal vizio di legittimità per entrare in quello di merito.

Come si vede, già con Zanobini12 il travisamento del fatto non è puramente e semplicemente solo l’erronea postulazione (o negazione) dei presupposti di fatto del provvedimento ma esso viene allargato in modo da comprendere anche i fatti che vengano alterati da chi li deve prendere in esame o sia alterata la loro considerazione da parte di costui. Perciò il giudizio liquidatorio di Giannini sembra piuttosto affrettato.

2.4 Il travisamento delle prove

La nozione di “travisamento della prova” è il frutto dell’elaborazione della giurisprudenza penale di legittimità.

Se la nozione del travisamento del fatto la troviamo già espressa nella giurisprudenza penale, fin dagli anni sessanta, quella relativa al «travisamento della prova» emerge più tardi, principalmente a seguito della riforma del 2006, incisiva anche del testo dell’art. 606 c.p.p., ma non esclusivamente13, riferendola qualche pronuncia alla lett. c) del menzionato art. 606 («cinosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza; …; emancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame»: lettera così sostituita dall’art. 8 l. 20.2.2006, n. 46).

Tuttavia, solo due anni dopo la Corte, sempre con lo stesso relatore, muta la propria linea di pensiero e così decide: «In tema di ricorso per cassazione, non è possibile dedurre come motivo il “travisamento del fatto”, giacché è preclusa la possibilità per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito. Mentre è consentito, (art. 606, lett. e, c.p.p.), dedurre il “travisamento della prova”, che ricorre nei casi in cui si sostiene che il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale. In quest’ultimo caso, infatti, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se questi elementi esistano»14.

Si passa così dall’uso della nozione di “travisamento del fatto”, che tanto era stato speso dalla giurisprudenza penale di legittimità fino ai primi anni del 2000, alla nozione di “travisamento della prova”, che diviene la nuova frontiera del ricorso per cassazione in materia penale.

La riforma di cui alla l. n. 46/2006 ha infatti introdotto la possibilità, ex art. 606, co. 1, lett. e), c.p.p. di fare riferimento ad «...altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame», e, fermo restando che la novella codicistica non ha mutato la natura del sindacato di legittimità (che non può estendersi alla rivalutazione del materiale probatorio), la Corte ha concluso che essa ha eliminato la preclusione all’esame degli atti processuali, ciò che consente di verificare la conformità allo specifico atto del processo, rilevante e decisivo, della rappresentazione che in esso dà la motivazione del provvedimento impugnato15. In sostanza, il travisamento della prova si configura solo quando il giudice del merito abbia utilizzato una prova inesistente o presupposta come esistente una prova mai assunta, ovvero abbia introdotto un’informazione inesistente nel processo o, al contrario, taciuto di un elemento esistente16.

La nozione ha trovato poi applicazione anche nell’ambito del giudizio civile, da ultimo con la sentenza 25.5.2015, n. 10749, secondo cui, ove il ricorrente abbia lamentato un travisamento della prova, solo l’informazione probatoria su un punto decisivo, acquisita e non valutata, mette in crisi irreversibile la struttura del percorso argomentativo del giudice di merito e fa escludere l’ipotesi contenuta nella censura. Infatti, il travisamento della prova implica, non una valutazione dei fatti, ma una constatazione o un accertamento che quella informazione probatoria, utilizzata in sentenza, è contraddetta da uno specifico atto processuale (decisione resa a proposito di un caso in cui le informazioni contenute nella relazione del consulente tecnico d’ufficio, in ordine alla tipologia di fondamenta ritenute più idonee alla realizzazione di alcuni alloggi appaltati dallo IACP, diverse rispetto a quelle imposte dal capitolato inter partes, non erano decisive ai fini dell’accoglimento delle censure formulate dalla ditta appaltatrice).

I profili problematici

Danno risarcibile e travisamento del fatto e delle prove costituiscono ancora i profili di fondo maggiormente controversi. Il primo per quanto si dirà in ordine al limite all’azione risarcitoria costituito dal mancato svolgimento dei mezzi di impugnazione. Il secondo per le incertezze sulla consistenza stessa della innovazione legislativa.

3.1 Il danno risarcibile

Si è detto che – secondo alcuni – il danno risarcibile, atto a configurare una responsabilità del magistrato, finisce per operare principalmente nel settore della giustizia penale mentre, in quella civile, esso potrebbe valere solo in «misura limitata e in casi eccezionali»17 e ciò per la ragione che, ai fini dell’accoglimento della domanda, influirà – secondo lo stesso dettato consolidato della legge (l’art. 4, in particolare) – il fatto che siano «stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno». In altre parole, la domanda risarcitoria presuppone, di norma, che sia stato esperito il rimedio impugnatorio, con i suoi conseguenti corollari in caso di rigetto o di accoglimento.

In caso di rigetto, infatti, il provvedimento che si assume dannoso diventerà definitivo e, pertanto, «è da escludere la possibilità di configurare un danno risarcibile derivante dal provvedimento confermato»18. Quest’ultimo, proprio in ragione della sua conferma (e del rigetto, formale o sostanziale, dell’impugnazione) è divenuto pienamente legittimo, sicché le sue conseguenze, nella realtà, sono qualificate come conformi alla legge, senza che si possa recriminare oltre rispetto alla motivazione o all’opinabilità della soluzione.

Alla luce di tale considerazione, si comprende come l’esperibilità dell’azione, in caso di conferma del provvedimento impugnato (dopo il suo esame nel merito o perché l’impugnazione sia risultata inammissibile o improcedibile), sia soltanto un dato ipotetico attribuito dal legislatore (art. 4, co. 2: «L’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento»), atteso che la proposizione delle impugnazioni serve proprio a verificare l’esattezza, secondo l’ordinamento giuridico, del provvedimento che si assume dannoso e, quando esso abbia trovato conferma, o in ragione dell’insuccesso dell’impugnazione19 o del mancato esperimento del rimedio previsto, l’azione risarcitoria difetta propriamente del presupposto per il suo accoglimento e, come tale, si presenta come radicalmente inammissibile20, non essendo ipotizzabile un danno da provvedimento legittimo (diversamente che per il caso dell’indennizzo del danneggiato a causa di un provvedimento amministrativo legittimo).

In caso di accoglimento dell’impugnazione, invece, il provvedimento giurisdizionale illegittimo viene sostituito da quello che ha riformato il precedente e, di conseguenza, il danno può dirsi riconducibile solo con riferimento agli effetti interinali del provvedimento riformato (in caso di sua provvisoria esecutività, ovvero di conseguenze fattuali determinatesi in ragione della sua adozione).

Ma, com’è facile immaginare, anche in tali casi gli spazi perché si manifesti un danno in senso oggettivo sono assai limitati e tutti da dimostrare.

3.2 Il travisamento del fatto e delle prove

La più rilevante innovazione operata dalla l. n. 18/2005 è costituita dall’innesto di un nuovo criterio di valutazione della colpa grave. Da un lato, l’errore sul diritto applicabile (la legge e il diritto dell’Unione europea), da un altro, non più solo l’errore di fatto revocatorio ma anche la nuova ipotesi costituita dal «travisamento del fatto o delle prove», della cui origine lessicale e storico-giuridica si è detto sopra.

Secondo una prima dottrina21, l’inescusabilità e la gravità dell’errore, per il caso del travisamento del fatto e delle prove, sono in re ipsa, diversamente che per l’ipotesi della «violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea», ciò che si desumerebbe dal tenore dell’art. 2, co. 3-bis, della legge in esame.

La tesi appare condivisibile, tenuto conto che tale disposizione afferma espressamente che, «ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea», si deve tener conto, in particolare, «del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza», nonché, in caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea, «anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea». Mentre, nulla di tutto questo (o di qualcosa che sia assimilabile ad una tale ponderazione) viene espresso a proposito dell’accertamento, nel corso del giudizio per responsabilità civile, di un «travisamento del fatto o delle prove» in cui sia caduto il magistrato.

Se però si parte dalla considerazione che sia assai difficile distinguere e separare la percezione del fatto dalla sua valutazione (allo stesso modo in cui sia possibile farlo con il sangue e la muscolatura, nel corso di un intervento chirurgico)22, si dovrà ammettere che un tale regime differenziato sia assolutamente ingiustificato, poiché in disparte la difficoltà di tener distinto il fatto dal diritto, è noto che la ricostruzione del fatto rilevante in un giudizio si presenta come assai più complessa e difficoltosa della ricostruzione del diritto applicabile al caso. Perciò, non comprendendosi la mancata posizione di criteri relativi alla valutazione di inescusabilità e gravità del cd. travisamento del fatto e delle prove, si dovrà convenire con un’interpretazione di essa, certamente come sussistente in re ipsa, ma postulando che il travisamento non possa che riguardare, in via esclusiva, il vero e proprio abbaglio, se non altro restringibile alla mancata rilevazione dell’informazione probatoria contenuta nell’ammasso dei dati emergenti dai fatti allegati ovvero accertati ovvero contenuti nelle prove ammesse e raccolte.

3.3 Ripercussioni sul giudizio di cassazione

La dottrina che si è poc’anzi citato, attraverso un ragionamento del tutto plausibile, arriva alla conclusione che la l. n. 18/2015 non ha soltanto modificato il regime della responsabilità dello Stato per gli errori giudiziari, ma ha anche inciso sul regime dei rimedi contro le sentenze viziate per travisamento del fatto e delle prove, ciò di cui dovrebbe tener conto la nostra Corte di cassazione23.

La tesi è condivisibile poiché appare davvero paradossale che, nell’ordinamento giuridico unitariamente inteso, possano concepirsi rimedi risarcitori per reintegrare la vittima dell’errore commessi dal magistrato e non si diano rimedi che tali errori tendano a prevenire, non solo eliminando la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea, ma anche impedendo che si consolidino errori revocatori ovvero consistenti nel travisamento dei fatti e delle prove.

In disparte la possibilità che gli stessi organi dell’Unione europea possano contestare al nostro paese una tale dissimmetria e gli effetti paradossali che in tal modo si paleserebbero, resta il fatto che anche la Corte costituzionale potrebbe essere investita di un’interpretazione non costituzionalmente adeguata. Di qui la necessità di consentire, nel giudizio di Cassazione, sia in quello penale che in quello civile, la rilevabilità dell’errore commesso dal giudice di merito, per il commesso travisamento.

3.4 L’entrata in vigore e le situazioni pendenti

La nuova legge è entrata in vigore il 19 marzo 2015. In relazione a tale dato, si pone il problema della sua complessiva applicazione, e quindi dell’esclusione delle disposizioni abrogate, a cominciare dal “filtro di ammissibilità della domanda”, ovvero attraverso l’introduzione diretta del merito della controversia, senza la preoccupazione del vaglio preliminare, per finire con lo stesso termine decadenziale biennale rispetto al nuovo termine, fissati in tre anni (art. 4, co. 2 e 4).

Secondo il principio tempus regit actum, infatti, si applicherà la disciplina anteriore, anche per la mancata previsione di un’apposita disciplina transitoria, a tutti i fatti consumatisi in data anteriore al 19 marzo 2015. Per tali fatti (consumatisi nel regime anteriore) si devono intendere tutti i comportamenti, atti o provvedimenti giudiziari posti in essere dal magistrato, secondo l’ipotesi «accusatoria» con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni, anteriormente alla detta data, ma con le seguenti precisazioni, sia in ordine ai comportamenti che ai fatti-provvedimento giurisdizionali.

Poiché il dies a quo per il computo del termine decadenziale è costituito non già dalla data di pubblicazione del provvedimento giurisdizionale, ma da quella in cui l’atto processuale è divenuto stabile o definitivo (si veda ad es. Cass., sez. I, 4.1.2001, n. 76) che ha enunciato il principio secondo cui il termine di decadenza biennale per la proposizione dell’azione risarcitoria decorre dalla data di «esaurimento dei mezzi ordinari d’impugnazione» ovvero dalla data della «immodificabilità ed irrevocabilità» del provvedimento giurisdizionale): ne segue che la nuova disciplina della responsabilità civile del magistrato, introdotta dalla l. n. 18/2015, troverà applicazione, con riguardo ai provvedimenti giurisdizionali (ma il discorso è identico per i fatti-comportamento) solo quando il termine per l’«esaurimento dei mezzi ordinari d’impugnazione» non sia ancora completato alla data del 19 marzo 2015. In caso contrario (ovvero quando a quella data si siano esauriti gli ordinari mezzi d’impugnazione o si sia completato il comportamento censurabile) s’applicherà la precedente disciplina, ossia quella vigente anteriormente alle modifiche legislative introdotte nel 2015, sia con riguardo al termine decadenziale (biennale) sia con riguardo alla proposizione della domanda con il suo esame attraverso il filtro di ammissibilità dell’azione.

In tal senso, del resto, si è espressa di recente la stessa Corte di cassazione (sez. VI3, ord. 14.5.2015, n. 9916), la quale ha applicato il più breve termine decadenziale, quello proprio della disciplina anteriore, «secondo la norma applicabile ratione temporis e non potendo applicarsi le modifiche arrecate alla l. n. 117 del 1988 dalla l. 27 febbraio 2015, n. 18, che, siccome priva di disciplina transitoria, regola solo le fattispecie successive alla sua entrata in vigore, avutasi il 19.3.15» (cfr. il testo della motivazione).

Tale regime riguarderà anche il caso in cui il provvedimento, che si assume lesivo di diritti altrui, sia passato in giudicato anteriormente al 19 marzo 2015 o i comportamenti, che si reputano illeciti, siano stati posti in essere prima di detta data, ma non sia del tutto trascorso il termine decadenziale biennale: il fatto che la legge sia entrata in vigore mentre la decorrenza di quel termine era in corso non comporta la proroga di esso. Il termine triennale, infatti, potrà avere corso solo con riguardo ai casi in cui il provvedimento sia passato in giudicato o il comportamento si sia consumato dopo il 18 marzo 2015.

Alla stessa stregua dei principi, così ricostruiti, deve risolversi il problema della responsabilità del magistrato per il diniego di giustizia (ossia per il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto24, la parte abbia presentato istanza per ottenere il provvedimento e siano decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria anche dell’istanza volta ad ottenere il provvedimento: art. 3). Occorrerà, cioè, verificare quando il termine di legge sia venuto a scadenza, se prima o dopo lo spartiacque del 19 marzo 2015, applicandosi nel primo caso il regime anteriore e, solo nel secondo, la legge riformata.

1 Indetto, nel corso del 1987, per l’abrogazione degli art. 55, 56 e 74 c.p.c., che dette esito positivo e portò poi all’approvazione della l. n. 117/1988. Sulla vicenda cfr. Scotti, L., La responsabilità civile dei magistrati: commento teorico-pratico alla Legge 13 aprile 1988, n. 117, Milano, 1988.

2 Le prime modifiche sono state apportate dalla l. 2.12.1998, n. 420 (Disposizioni per i procedimenti riguardanti i magistrati).

3 Se ne veda l’articolata vicenda parlamentare in www.camera.it e, per la sottolineatura del corretto intendimento del richiamo proveniente dall’Unione europea, per tutti Trimarchi, P., Colpa grave e limiti della responsabilità civile dei magistrati nella nuova legge, in Corr. giur., 2015, 893 ss.

4 Cass., S.U., ord. 23.6.2015, n. 13018, di recente ha ricordato che «non è ‘causa pendente’ tra ricusato e ricusante, ai sensi dell’art. 51, n. 3, c.p.c., il giudizio di responsabilità di cui alla legge n. 177 del 1988, atteso che il magistrato non assume mai la qualità di debitore di chi abbia proposto la relativa domanda, questa potendo essere rivolta, anche dopo la legge 27 febbraio 2015, n. 18, nei soli confronti dello Stato».

5 Tra gli estranei, giustamente, Cass., sez. III, 15.8.2010, n. 18170 esclude gli appartenenti alla polizia giudiziaria, e i curatori fallimentari (Cass., sez. III, 8.5.2008, n. 11229) ma sembra includere i magistrati onorari, quali sono indubbiamente i giudici onorari di tribunale, i vice procuratori onorari e i giudici di pace (cfr. la motivazione della sentenza da ultimo menzionata).

6 Giurisprudenza assai abbondante: Cass., ord. 18.2.2014, n. 3739; Cass., 11.12.2013, n. 27679; Cass., S.U., ord. 30.10.2008, n. 26022; Cass., 19.4.2013, n. 9637; Cass., 28.7.2011, n. 16572; Cass., 29.10.2010, n. 22171; Cass., 25.6.2008, n. 17443; Cass., 5.7.2004, n. 12283; Cass., 26.10.1998, n. 10635; Cass., 30.3.1998, n. 3317; Cons. St., sez. VI, 9.2.2009, n. 708.

7 Cons. St., sez. VI, 12.11.2009, n. 7040; cfr. anche Cass., 29.11.2013, n. 26777.

8 Di Amato, S., La responsabilità disciplinare dei magistrati: gli illeciti, le sanzioni, il procedimento, Milano, 2013, 201.

9 Virga, P., La Tutela giurisdizionale nei confronti della Pubblica Amministrazione, Milano, 1976, 266.

10 Giannini, M.S., Diritto amministrativo, II, Milano, 1970, 634.

11 Zanobini, G., Corso di Diritto amministrativo, I, Milano, 1958, 313; II, Milano, 1958, 203 (ove numerose decisioni giurisprudenziali citate a sostegno del proprio pensiero).

12 L’A. mette solo in guardia circa l’apprezzamento discrezionale dei fatti esistenti: in tal caso l’esame è di merito e non risulta censurabile.

13 Si veda ad esempio Cass. pen., sez. IV, 9.6.2004, n. 29920: «ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. c) il “travisamento della prova”, è il vizio costituito dall’avere il giudice di merito utilizzato per la decisione una prova inesistente (ad esempio, il teste indicato in sentenza non esiste) o un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello effettivo (ad esempio, nella ricognizione personale la persona ha indicato Tizio e non Caio come è invece scritto nella sentenza)».

14 Cass. pen., sez. IV, 17.5.2006, n. 4675.

15 Cass. pen., sez. I, 14.7.2006, n. 25117, Stojanovic; Cass. pen., sez. VI, 4.5.2006, n. 33435, Battistella.

16 Cass. pen., sez. III, 18.5.2009, n. 39729, Belluccia; Cass. pen., sez. II, 3.10.2013, n. 47035, Giugliano.

17 Così Trimarchi, P., Colpa grave e limiti, cit., 894.

18 Ancora Trimarchi, P., Colpa grave e limiti, cit., 894.

19 Proprio di recente la Corte di cassazione ha affermato (Cass., sez. I, 17.4.2015, n. 7924) che l’art. 4, co. 2, l. n. 117/1988, «nel consentire l’esercizio dell’azione risarcitoria contro lo Stato solo quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione e, comunque, quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento, ha inteso precludere quell’azione qualora il rimedio previsto (nella specie, l’impugnazione per revocazione) non sia stato utilizzato, così subordinandola alla circostanza che il danneggiato si sia avvalso di tutti gli strumenti processuali normalmente apprestati dall’ordinamento per eliminare, o almeno ridurre, il danno».

20 Con riguardo alla mancata coltivazione dell’impugnazione, la Cassazione (Cass., sez. III, 14.3.2014, n. 5955) ha stabilito che l’azione risarcitoria è semplicemente inammissibile, quando non siano stati ancora esauriti i mezzi ordinari di impugnazione, nel caso esaminato, «in relazione ad una sentenza di primo grado di parziale accoglimento di una domanda di ammissione al passivo, ove, interrotto il giudizio di appello a seguito dell’intervenuta chiusura della procedura fallimentare, il creditore non lo abbia riassunto anche solo al fine di conseguire l’accertamento del suo credito nei confronti del debitore rientrato in bonis o dei suoi successori».

21 Auletta, F.Verde, G., La nuova responsabilità del giudice e l’attuale sistema delle impugnazioni, in Corr. giur., 2015, 898.

22 Secondo Auletta, F. Verde, G., La nuova responsabilità, cit., 901 e 903.

23 Auletta, F.Verde, G., La nuova responsabilità, cit., 903.

24 Quando l’omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell’imputato, il termine, di cui al co. 1 dell’art. 3, è ridotto a cinque giorni, improrogabili, a decorrere dal deposito dell’istanza o coincide con il giorno in cui si è verificata una situazione o è decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale.

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