Le culture non occidentali
sommario: Premessa. Egitto e Vicino Oriente antico. Persia e India. L'islam e la negazione della figura umana. La Cina. Corea,
Premessa
Qualsiasi riflessione sul corpo umano nell'arte non potrebbe in alcun modo considerarsi completa se non si estendesse lo sguardo anche alle civiltà extraeuropee (intendendo per 'europea' anche quella americana di derivazione anglosassone). Non è infatti difficile constatare che la raffigurazione dell'immagine dell'uomo costituisce un filo rosso che cuce insieme la gran parte delle culture figurative del genere umano, dal momento che ogni civiltà, in luoghi e tempi diversi, ha sempre e comunque sentito il bisogno di elaborare una particolare rappresentazione della figura umana che soddisfacesse le esigenze estetiche, simboliche e culturali in genere di quel particolare gruppo umano: un gruppo le cui caratteristiche possono essere di tipo esclusivamente etnografico, tali cioè da essere circoscritte all'interno di un'unica etnia, che in questo senso condiziona fortemente la rappresentazione umana; oppure di tipo eminentemente culturale, sicché è in questo senso che l'immagine umana prodotta deve essere condizionata. Il secondo caso è quello
Nel caso, invece, che l'immagine dell'uomo si rifaccia a esigenze strettamente legate alla radice etnica, come per le splendide teste bronzee o fittili dei re (oni) nigeriani, allora il modello non può essere ‒ per così dire ‒ esportabile. Tali teste, infatti, come per es. quella proveniente da Ife e databile fra il 15° e il 16° sec. d.C., venivano utilizzate nelle cerimonie della seconda sepoltura, dopo che era trascorso un certo periodo di tempo dal funerale. In queste la caratterizzazione dei tratti somatici risulta essere particolarmente importante (mentre non lo era affatto nei due Buddha, al di là di una generica attribuzione di bellezza), anche ai fini di un'identificazione individuale. La testa, come testimoniano i fori sul collo, veniva attaccata a un corpo di legno e su di essa si posava la corona del sovrano defunto. È vero che anche nel caso delle due statue asiatiche sopra ricordate sono presenti tratti somatici e caratteristiche etniche differenziate, ma la loro funzione è solo quella di rendere più vicina alla cultura di accoglienza un 'prodotto religioso' appunto sovranazionale.
Un altro aspetto importante che si palesa nell'analisi della rappresentazione del corpo nelle culture extraeuropee è costituito dalla grande varietà di soluzioni stilistiche prospettate: soluzioni che, a differenza di quelle europee, le quali utilizzano, per negarlo o per adularlo, il modello greco, prescindono completamente ‒ se si escludono l'arte del
Naturalmente, nel corso della presente trattazione ‒ necessariamente sommaria ‒, saranno privilegiati quei manufatti che mostrano il corpo umano nella sua interezza, anche se non si potrà fare a meno, ove lo imponga
Cercheremo poi di sottolineare, ove possibile, quale sia il valore simbolico di alcune parti del corpo, come per es. la presenza del terzo occhio nella rappresentazione delle divinità tibetane, oppure quale significato assuma la moltiplicazione degli arti nelle divinità induiste. Una larga fetta della produzione artistica extraeuropea, infatti, è strettamente connessa a problematiche di carattere religioso che utilizzano la figura umana come uno degli elementi privilegiati per rappresentare la divinità. Fra i motivi di una simile scelta possiamo sicuramente indicare il fatto che molti dei racconti cosmologici non soltanto narrano del fatto che il Creatore abbia una forma antropomorfa (come per es. Taikomol, il dio creatore della tribù Yuchi nella California settentrionale, che cantando assume gradatamente aspetto umano; Kroeber 1907), ma spesso è l'intero universo ad averla. Così, per es., in Cina troviamo Panku, colui che nacque "al tempo in cui il Cielo e la Terra erano un caos simile a un uovo"; quando morì, la sua testa divenne il
Come si vede, l'importanza della figura umana nelle culture extraeuropee ha radici profonde che giungono fino alla composizione stessa dell'universo, anche se ‒ in ambiti particolarmente evoluti ‒ non è difficile rintracciare altresì un intento estetico particolarmente spiccato nella sua rappresentazione, comunque in nessun modo meno sentito di quello che possiamo riscontrare nelle culture artistiche occidentali. Ciò in particolare riguarda il diverso modo di considerare la figura umana nel corso della millennaria storia dell'arte cinese: infatti, se in ragione degli influssi buddhisti la figura umana risulta essere uno dei temi principali dell'arte cinese degli Han (202 a.C.-220 d.C.) fino a quella dei Wei settentrionali (365-535 d.C.), si constata che una simile predilezione viene accantonata a partire dal 6° sec.; come ha ben spiegato A. Giuganino (1959), è la teoria estetica di Hsiei Ho che, ispirando la pittura di paesaggio, ha provocato l'accantonamento dell'immagine umana. L'idea era che soltanto "l'accordo dell'artista con lo spirito dell'universo genera la vitalità dell'opera d'arte". In altri termini l'immagine dell'uomo finisce per essere un aspetto secondario dell'immensa varietà delle forme che la natura può assumere e "se mai, indica come la natura stessa sovrasti e riesca a schiacciare la minuscola vita dell'uomo, mentre il rapporto delle proporzioni fra l'uomo, gli alberi, le montagne diviene, oltre che un'indicazione simbolica di questa inferiorità umana, un riflesso della vastità immensa degli orizzonti cinesi" (Bussagli 1966). Tutto questo spiega anche lo scarso interesse per una canonizzazione della figura umana in ambito cinese. In altre parole (ed è un'ulteriore differenza che caratterizza gli esiti artistici della figura umana nell'arte extraeuropea rispetto a quella occidentale), non esiste una vera e propria teoria delle proporzioni che fissi le regole di rappresentazione dell'immagine dell'uomo. Qualcosa di molto simile, però, la troviamo nella trattatistica indiana; testi come il Vishnudharmottara indicano nel capo l'unità di
Come si vede, l'analisi, sia pure superficiale, della cultura figurativa extraeuropea costituisce un significativo apporto alla comprensione del modo di porsi e di relazionarsi dell'uomo nei confronti della propria immagine.
Egitto e Vicino Oriente antico
L'antico Egitto
Quasi sempre considerata la base della civiltà occidentale, la civiltà egizia, invece, è più propriamente il punto di cerniera fra mondo asiatico ed europeo. Lo dimostrano, nel corso della sua millennaria storia, i reciproci legami con la cultura grecoromana da una parte e, dall'altra, i rapporti non sempre pacifici con i popoli della Mesopotamia e della Persia. Per questo appare opportuno iniziare la presente trattazione proprio dall'Egitto, una delle poche civiltà, fra quelle che tratteremo, ad aver codificato un metodo per la rappresentazione del corpo umano. Esso consisteva nel disegnare l'immagine dell'uomo all'interno di una 'griglia' che serviva come rigido riferimento per la collocazione inalterabile delle varie componenti corporee, sistemate, così, ognuna all'interno della propria specifica 'casella'. Un simile sistema era utilizzato tanto in pittura quanto in scultura, dove la veduta a tutto tondo della statua era realizzata riportando le varie viste della figura (di fronte, di profilo e posteriore) sulle corrispondenti facce del blocco di calcare o di granito, sbozzandole poi via via fino a raggiungere l'effetto finale (Donadoni 1981, p. 37).
Le conseguenze di questo modo di procedere, però, determinavano una notevole rigidità nella rappresentazione della figura umana, che oltretutto veniva 'smontata', dal momento che si dipingeva il volto di profilo ma l'occhio di fronte, il busto di fronte ma le braccia e le gambe di profilo. Il gonnellino, poi, quasi sempre presente nelle raffigurazioni egizie (come mostra per es. il bassorilievo dalla Tomba di
A conferma di quanto sin qui asserito possiamo citare un'opera nota come Tavolozza degli Avvoltoi. Si tratta di una tavolozza votiva (divisa fra il British Museum di
figura
della parola MET (il determinativo è un ideogramma la cui funzione è quella di chiarificare visivamente il senso dei pittogrammi a valore fonetico che lo precedono; Farina 1926, p. 27). La parola, infatti, è formata da
figura
'M' e da
figura
'T' e il suo determinativo rappresenta un uomo che cade con il sangue che gli cola dalla testa. Il significato è quello di 'morire' (Jacq 1995, p. 227). Ora, al di là delle implicazioni semantiche che connettono MET a MUT, ovverosia il 'morire' alla 'madre' e quindi alla rinascita, quel che qui preme sottolineare è che il determinativo di MET è immaginato negando il 'canone' di rappresentazione. Né si pensi che la cosa sia imputabile al fatto che si tratta di un ideogramma, perché, per es., il determinativo della parola
figura
(SER), ossia 'signore, nobile', è un uomo con il bastone in mano la cui figura rientra perfettamente nel 'canone'. Un altro aspetto, poi, differenzia sostanzialmente il determinativo di MET da quello di SER: nel primo caso l'uomo è nudo, e la nudità nell'antico Egitto è sinonimo di condizione d'inferiorità ed è generalmente attribuita agli schiavi e ai nemici. Anche nella celebre Tavolozza di Narmer, conservata al Museo Egizio del Cairo, il nemico sconfitto da Narmer, il faraone che riunì sotto di sé l'Alto e il Basso Egitto, è nudo e, naturalmente, irrispettoso del 'canone'.
Il desiderio di razionalizzazione della figura umana, poi, portò in Egitto a esiti estetici del tutto particolari, come le celebri statue-cubo provenienti da Saqqara. Si tratta di due simulacri di Hetep, "ispettore dei profeti della piramide di Teti", come spiega l'iscrizione, rappresentato seduto in uno di quei sedili dalla spalliera alta e dagli alti braccioli, ma senza piedi, che potevano essere utilizzati come portantine. Il risultato è che la figura, praticamente accoccolata, sembra iscritta all'interno di un cubo, cosa sulla quale l'anonimo artista gioca abilmente creando, così, quella che sarà una tipologia di ritratto che corrisponde perfettamente all'indole egizia tesa alla ricerca della razionalità. Questo, però, non deve far credere che non ci fosse interesse per la caratterizzazione del corpo umano: dimostra esattamente il contrario la splendida statua lignea di Ka-aper, 'sacerdote lettore', ora al Museo Egizio del Cairo. Non è infatti difficile notare non solo la caratterizzazione fisionomica, ma anche la capacità di resa dell'adipe e di un corpo appesantito dall'abbondanza e dalla vita sedentaria. Come si vede, l'arte egizia sviluppa una notevolissima riflessione intorno alla rappresentazione del corpo umano, che copre una vasta gamma di valori estetici e simbolici che saranno punti di riferimento tanto per le civiltà del Mediterraneo quanto per quelle d'Asia.
Dai sumeri ai fenici
La vasta pianura compresa fra il Tigri e l'Eufrate che conclude a oriente quell'area di grande produttività agricola che gli studiosi chiamano 'Mezzaluna fertile', fu lo scenario all'interno del quale si avvicendarono ‒ dalla fine del 4° millennio fino alla prima metà del 1° a.C. ‒ quelle civiltà mesopotamiche che costituiscono la presenza più importante nel variegato mondo costituito dal Vicino Oriente antico. Elemento costante nella successione dei sumeri, degli accadi, dei babilonesi e degli assiri fu un'arte che poneva al centro della propria espressività la figura umana utilizzata per fini specificamente religiosi o celebrativi, anche se gli esiti estetici e il tipo di stilizzazione utilizzata erano sostanzialmente diversi. Così, pur non disponendo di un 'canone' di rappresentazione raffinato come quello egizio, i sumeri svilupparono una tipologia di rappresentazione della figura umana che affonda le radici nell'ultima fase del periodo di
Non sarà infatti difficile riscontrare analogie nel modo di trattare occhi e sopracciglia fra la testa in alabastro della cosiddetta Signora di Uruk (
L'ascesa al potere di Sargon il Grande, di stirpe semitica, che fonderà un impero di grandi dimensioni ma di breve durata (due soli secoli), porta una rivoluzione in ambito artistico. Lo testimonia un'opera come la Stele di Naram-Sin che descrive la vittoriosa avanzata del nipote di Sargon il Grande (o Sargon di Akkad, dal nome della città più importante dell'impero insieme a Sumer). La figura del condottiero è di dimensioni quasi doppie rispetto a quelle degli altri protagonisti della scena, soldati nemici. Non è difficile notare una netta ripresa dell'elemento naturalistico e un'attenzione alla resa anatomica infinitamente maggiore rispetto a quella dell'arte sumerica precedente. Con la caduta dell'impero accadico dovuta all'invasione del popolo dei gutei provenienti dall'altipiano iranico e detti per questo 'draghi della montagna' (2150 a.C. circa), riemerge il fondo culturale sumerico che si organizza, ancora una volta, intorno alla città di Ur. Ma la figura più importante di questa stagione neosumerica (fine 2° millennio) è sicuramente quella del principe-sacerdote Gudea di
A proposito dell'impiego della condizione di nudità come elemento negativo, va segnalato il bel rilievo in terracotta che mostra il demone Lilith (ricordato anche da Isaia 34, 14) dal busto femminile, ma con le zampe e le ali di uccello. A differenza delle arpie, cui potrebbe far pensare, è provvista di braccia. Per quanto riguarda, poi, le capacità di stilizzazione dell'arte neosumerica, vale la pena di rammentare la terracotta che mostra il volto del mostro Humbaba, la cui faccia terrificante doveva comparire fra le viscere degli animali sventrati per operare dei vaticini. La struttura facciale di Humbaba, infatti, è realizzata come se a formarla fossero gli intestini di una vittima sacrificale, stilizzati in una sorta di fascia continua (Frankfort 1954, pp. 56-57). L'arte babilonese (1728-1550 a.C.), nata a seguito dell'invasione del popolo nomade degli
Tuttavia, l'arte che più di ogni altra, in questa regione, ha fatto della figura umana il suo tema centrale è quella prodotta dall'impero assiro (1112-612 a.C.). Potenza militare di prim'ordine, la civiltà assira utilizzò l'arte per celebrare le proprie gesta nella magnificenza delle sale dei palazzi di rappresentanza, sulle cui pareti immense lastre di pietra raccontavano, mescolando le scritte in cuneiforme alle scene in rilievo, le gesta dei sovrani. Non è difficile, perciò, imbattersi nella rappresentazione di figure umane che mostrano un attento equilibrio fra la resa naturalistica e la stilizzazione. Un bell'esempio sono i soldati, praticamente nudi, che attraversano su otri l'Eufrate nel corso di una delle campagne militari di Assurnasirpal II (rilievo proveniente da
Per avere un'idea della vivacità e della varietà delle culture artistiche che si avvicendano nell'area del Vicino Oriente antico, non ci si può esimere dal dare uno sguardo sia pure superficiale alla situazione sulla costa sconvolta dall'invasione dei Popoli dei monti: hittiti,
Tuttavia, la grande civiltà costiera è quella fenicia, l'unica che da Oriente si sia espansa, nell'antichità, in tutto il bacino del Mediterraneo mantenendo i suoi caratteri orientali. Fra le opere sicuramente più belle e suggestive dell'arte fenicia è da ricordare una placca in avorio dorato e policromo proveniente da Nimrud (segno evidente che i commercianti fenici guardavano anche a Oriente), databile all'8° sec. a.C. e conservata a Londra. Vi è raffigurata una leonessa che sbrana un giovane uomo: al di là della capacità di trasformare un episodio così crudo in un motivo decorativo, quel che qui preme sottolineare è che l'artista si sia preoccupato di caratterizzare etnicamente la figura, rappresentata con grande realismo.
Una delle manifestazioni più interessanti per quanto riguarda il tema della rappresentazione del corpo nell'arte fenicia è poi costituita dalle maschere demoniche, come quella proveniente da
Persia e India
La Persia dai bronzi del Luristan ai sasanidi
Nella millennaria storia della Persia, la figura umana compare nella produzione artistica fin dalle prime manifestazioni, come mostrano i bronzi emersi dalle tombe e dai templi della regione del Luristan situata nelle valli fra gli alti picchi dei monti
L'esistenza di contaminazioni fra le prime manifestazioni dell'arte iranica e quella assiro-babilonese è però testimoniata da opere come il rivestimento murario proveniente da
La figura umana assume un preciso valore decorativo basato sulla ripetizione dell'immagine che, pur seguendo uno schema di rappresentazione sostanzialmente fisso, varia nella ricerca della caratterizzazione individuale. È quanto accade nei rilievi che decorano gli splendidi edifici monumentali del palazzo di Dario a
Dopo la tempesta provocata dall'invasione di Alessandro Magno e la nascita dei regni seleucidi, dal 247 a.C. al 224 d.C., il territorio persiano è sotto la dominazione partica, impegnata per tutta la sua esistenza a contrastare le spinte espansionistiche di
Se dal punto di vista politico, mutatis mutandis, l'impero sasanide ereditò la funzione di quello partico, anche dal punto di vista artistico gli influssi e i contatti finirono per essere simili. Non è infatti difficile riscontrare un notevole influsso classico nell'arte dell'impero, anche se poi questo venne naturalmente interpretato secondo le esigenze culturali del luogo. Così troviamo addirittura la presenza di figure che appartengono alla cultura figurativa romana, come i genietti alati e le vittorie. È il caso dei due grandi rilievi di Bishapur e di Taq-i-Bustan. Il primo celebra il trionfo di Shapur I (241-272) sull'imperatore Valeriano e, nonostante il tema, altro non è che la trasposizione sasanide delle opere romane di glorificazione ufficiale, tanto è vero che gli storici dell'arte propendono per una notevole partecipazione di artisti occidentali alla realizzazione (Scerrato 1962). Si capisce allora perché il piccolo erote in volo offra a Shapur I la kosti, sciarpa che simboleggia la vittoria, in una chiara sovrapposizione di usi (in Occidente l'erote offre la corona o la palma), che risultano, però, coerenti dal punto di vista semantico. Come si vede, l'impiego delle figure nude dipende dagli influssi della cultura classica. Varrà certo la pena di ricordare, in questo senso, un vasetto sasanide conservato all'Ermitage di
Dalla cultura di
Distanti circa 800 km in linea d'aria, i siti di Mohenjo-daro e Harappa, ubicati rispettivamente nelle regioni del
Dal sito di Mohenjo-daro (letteralmente 'luogo dei morti', in lingua sindi) sono invece emerse teste e busti di figure maschili barbute. Probabilmente doveva trattarsi di sacerdoti e, per la particolarità dei tratti, gli studiosi hanno posto questo materiale in relazione con quello coevo di produzione sumerica a Ur, una relazione confermata anche dal tipo di monili rinvenuti a Mohenjo-daro e realizzati in maiolica. Comunque, quel che interessa notare è il particolare tipo di stilizzazione del volto, con l'inserzione di guscio di conchiglia inciso per la realizzazione degli occhi, che però non prescinde dalla restituzione dei tratti fisionomici, come dimostra il confronto fra la testa in calcare del museo di Nuova Delhi e il busto conservato nel medesimo museo.
Come si vede, fin dalle origini l'arte indiana mostrò una predilezione per la figura umana (basti pensare che dagli scavi di Harappa sono emerse 700 figurine antropomorfe e da Mohenjo-daro 500), utilizzata naturalmente all'interno di un contesto religioso di difficile ricostruzione, ma che aveva il suo fulcro nel culto della Dea Madre, come buona parte delle civiltà del Mediterraneo con le quali divideva anche il culto per i bovidi. Infine, non si può fare a meno di ricordare, per il tipo di stilizzazione adottata, opere come la figurina nuda conservata ancora nel museo di
Dall'impero maurya all'immagine antropomorfica del Buddha
Fondato da Candragupta Maurya nel 305 a.C., spazzando via da una parte le guarnigioni greche di Alessandro rimaste di presidio e dall'altra il dominio dei Nanada che si estendeva lungo buona parte del bacino del Gange fino ai confini settentrionali del
La Portatrice di flabello del museo di
L'arte prodotta con la dinastia degli Shunga (185-72 a.C.), che si oppongono anche alla religiosità buddhista fatta propria dai Maurya attraverso l'opera del suo sovrano più famoso, Ashoka (269-232 a.C.), tratta la figura umana in maniera piuttosto angolosa. Naturalmente l'opposizione al credo buddhista fu un fenomeno marginale, legato alla presa di potere degli Shunga, tanto è vero che anche le opere d'arte prodotte sotto questa dinastia sono strettamente connesse alla religiosità di Buddha. Lo dimostrano i frammenti dei portali a vento (torana) provenienti dallo stupa di Bharuth, oggi conservati all'Indian Museum di
Nel frattempo, la zona nordoccidentale dell'India, quella corrispondente al regno indo-greco della
È impossibile qui sintetizzare la complessità di problematiche che derivano da questa nuova scelta, e ancor più affrontare la questione della priorità dell'invenzione dell'immagine antropomorfica di Buddha. Tuttavia, alcuni aspetti vanno puntualizzati. L'impero kushana, che comprende l'area del Gandhara, ma anche la città di Mathura, molto più a sud, crea le condizioni di stabilità politica e la conseguente necessità della creazione di un'arte dinastica perché si affronti questa sostanziale innovazione. I presupposti filosofici sono nella riflessione che il buddhismo
Raffigurare Buddha, però, non significa umanizzarlo, anche perché vengono impiegati parte di quei 32 segni derivati dal pensiero vedico (Sénart 1875), che pongono l'immagine su un piano trascendente. In questo senso è importante notare con Mario Bussagli che l'immagine letteraria del Buddha preesiste a quella iconografica vera e propria, secondo un fenomeno artistico riscontrabile anche in altri contesti (Marco Bussagli 1992). Solo quando si creano le condizioni culturali idonee, infatti, avviene il passaggio dalla realtà testuale a quella figurativa. Così, entrambe le scuole, quella del Gandhara e quella di Mathura, utilizzano gli stessi segni corporei per rappresentare il Beato: l'urna, ossia il ciuffo di peli fra le sopracciglia che allude alla sapienza esoterica (resa con una sporgenza, una pietra o un cristallo) e l'ushnisha, ovvero la protuberanza sul cranio, altro simbolo di sapienza. Gli altri segni (lakshana), come, per es., quello delle membrane fra le dita dei piedi e delle mani, raramente sono presenti. Tuttavia, la diversità fondamentale fra le due scuole è che quella del Gandhara sfrutta il fondo figurativo di tradizione greco-classica che ha a disposizione, mentre
La scuola di Mathura è più rigorosa nel seguire i dettami dei testi, come mostra il Buddha seduto conservato nel Government Museum di Mathura e databile al 1° sec. d.C. La figura, infatti, è rasata, come prevede l'ordinamento monacale, una sorta di spirale segna la protuberanza cranica dell'ushnisha, le piante dei piedi sono segnate e la posa è quella codificata di una mudra. Le mudra (letteralmente 'sigilli') sono posizioni delle mani che esprimono particolari condizioni del Buddha: in questo caso si tratta dell'abhaya-mudra, il gesto del dono. Sempre in ossequio ai lakshana, gli artisti di Mathura tengono a realizzare la capigliatura, quando è necessario, con piccoli ricci orientati verso destra: possiamo ammirarli su un'opera che mostra il Bodhisattva Maitreya conservata presso il National Museum di Nuova Delhi. Il Bodhisattva Maitreya è il 'Buddha del futuro', ma per comprendere le diversità stilistiche rispetto alla scuola gandharica sarà sufficiente confrontarla con opere coeve (2° sec. d.C.) come il Bodhisattva Siddhartha (ossia il 'Buddha storico') conservato al Musée Guimet di Parigi: in quest'ultimo risulta evidente l'impronta classica.
Dalle Grotte di
Con la fine del 4° sec. d.C., i territori dell'impero kushana vengono in parte occupati dall'impero gupta, che avrà vita fino alla metà del 6° sec. e che si estenderà orizzontalmente dalla foce dell'Indo a quella del Gange. Fortemente legato alla potenza gupta da un vero e proprio patto politico, stipulato alla fine del 4° sec., è il regno dei Vakataka, eredi della zona occidentale del dominio dei Satavahana. Ora, è proprio a opera dei Vakataka che fiorisce al centro del loro territorio uno dei complessi di pittura rupestre più spettacolari del mondo, quello delle Grotte di Ajanta, che si sviluppa nel corso di otto secoli, ma che ha l'apice fra il 475 e il 550.
È in questo stesso periodo che comincia a formarsi il Vishnudharmottara-
Le pitture di Ajanta, con le scene che mostrano le effusioni amorose fra Il principe e la principessa, ci introducono a un altro tema centrale per l'arte indiana: quello dell'erotismo. Il Natyashastra ("Trattato di arte"), trattato di drammaturgia scritto da Baharata verso il 1° sec. d.C., definisce lo shringara, ossia l'erotismo, come rasaraja, vale a dire il 're dei sentimenti' (élisséeff, in Rasa 1986). Bisogna però precisare che con la parola rasa non si vuole indicare il sentimento nel senso che attribuisce a questo termine la cultura occidentale, perché rasa (letteralmente 'gusto') è l'essenza stessa dell'arte intesa come poesia, danza, mimica, teatro ecc., tutte discipline strettamente connesse con le arti figurative: per questo le ritroviamo nel Natyashastra che ha carattere enciclopedico.
L'erotismo è materia affine all'arte figurativa, ma anche alla vita e alla religione, perché rasa (Coomaraswamy 1927), significa tutto questo. Altrimenti non si capirebbe per quale motivo gli splendidi templi di Khajuraho (10° sec.) possano essere interamente ricoperti da figure di cui molte in atteggiamenti inequivocabilmente erotici, come pure nel Tempio del Sole di
Il linguaggio del corpo e le divinità a più braccia
L'accostamento fra la poetica descrizione di Kalidasa appena citata e la Yakshi del museo di Gwalior (ma se ne sarebbero potute ricordare molte altre) ci rammenta che esiste una totale compenetrazione ‒ dal momento che Kalidasa era un drammaturgo ‒ tra il teatro e la raffigurazione artistica. Prova ne è che nei trattati tecnici abbiamo visto raccolti insieme precetti e riflessioni legati a entrambe le espressioni artistiche. Nel dramma infatti confluiscono, in armonica sintesi, la recitazione, il canto, la mimica e i sentimenti (Botto 1969) e tutto ciò che attiene alla sfera visiva della drammaturgia può essere trasferito alle arti figurative; il che non solo conferisce una certa teatralità all'arte indiana, ma spiega come possa esser nato, nell'ambito della rappresentazione artistica, una sorta di linguaggio corporeo codificato che ha una certa affinità con quello dei mimi. Del resto abbiamo già avuto modo di accennare al linguaggio delle mani (mudra), che hanno un preciso significato religioso. Allo stesso modo il corpo, assumendo particolari atteggiamenti, non solo comunica precise indicazioni, ma, spesso, certi atteggiamenti sono specifici di alcune divinità, jina (Buddha dei punti cardinali) o Bodhisattva, piuttosto che di altri.
Due sono le grandi categorie degli atteggiamenti corporei: quella che esprime serenità (caratterizzata da un volto disteso, da una posa quieta, da un'acconciatura ordinata, da monili ornamentali e da vesti di stoffa) e quella che comunica collera e incute timore (con il volto accigliato, gli occhi sgranati, la bocca ghignante o urlante con tanto di zanne, una posa dinamica se non addirittura agitata, i capelli spettinati, collane di serpenti o di teste recise e vesti di pelle animale). In ogni caso, la medesima divinità può assumere l'uno o l'altro dei due atteggiamenti secondo le circostanze (Martin du Gard 1977). Così, appare chiaro il motivo per cui il Bodhisattva Avalokiteshvara (ossia 'compassionevole'), come per es. quello in arenaria rossa, purtroppo mutilo, conservato al National Museum di Nuova Delhi, appaia nell'atteggiamento di samapada, ossia stante. Lo troviamo infatti con
Allo stesso modo, si capisce perfettamente per quale motivo una divinità come la dea Vajravarahi, il cui compito è quello di difendere il credo buddhista, si presenti in modo aggressivo e per questo assuma l'atteggiamento di alidha (ossia con le gambe divaricate e quella sinistra piegata) o, come nel caso di una statuetta nepalese in argento databile al 17° sec. (
Come si vede, la riflessione indiana sul corpo, che si esplica attraverso un'arte figurativa di natura essenzialmente religiosa, si colora di risvolti filosofici e mistici che della religiosità, poi, diventano parte integrante. A questo proposito si deve prendere in considerazione un particolare tipo d'iconografia religiosa, quella induista, che usa moltiplicare gli arti di una divinità per esprimerne appieno la potenza. Anche in questo caso, il codice figurativo creato dalla religiosità e dall'iconografia induiste non interessa soltanto l'India, ma tutte quelle aree geografiche che con l'induismo hanno a che fare. Una delle immagini tipiche di questo mondo figurativo è quella di Shiva, una delle massime divinità indù, rappresentato come Nataraja, ossia 'sovrano della danza', le cui statue bronzee, praticamente identiche, furono riprodotte, attraverso i secoli, in un gran numero di esemplari e con minime varianti. Shiva, qui, ha quattro braccia; i suoi gesti e gli oggetti che ha in mano servono a chiarire la sua natura e la sua funzione cosmica. Egli infatti danza all'interno del cerchio di fuoco dell'universo; un piede poggia sul nano Apsamara a indicare che egli è signore della maya, dell'illusione, e che la schiaccia; la gamba sollevata, invece, ha il significato della grazia che rende possibile l'illuminazione liberatrice. In una delle quattro mani tiene il damaru, il tamburo a bocce fluttuanti degli asceti che rappresenta il suono della creazione; dal lato opposto tiene una fiamma che ha il significato della distruzione; con la terza mano fa il gesto della salvaguardia (abhaya-mudra), mentre l'ultima delle quattro mani è piegata verso il piede sollevato, l'omaggio al quale assicura la salvezza (Tucci 1958, p. 605). Tuttavia, le braccia possono essere moltiplicate indefinitamente, come nel caso di Ravana, il re-demone di Lanka (Ceylon) che ha piu di quaranta braccia, oppure come in certe particolari iconografie del Bodhisattva Avalokiteshvara, dove la moltiplicazione delle mani e delle braccia forma addirittura una ruota dietro la figura.
Una celebre statua del 15° sec., conservata nel monastero di Tabo, nella valle himalayana dello Spiti (Ladak), mostra, oltre alla ruota di braccia, tre giri di occhi che la concludono all'esterno: la moltiplicazione degli occhi, infatti, è un altro segno della potenza soprannaturale che allude all'onniscienza (Singh 1968, p. 118). Sarà appena il caso di ricordare che Surya, il dio del sole, è uno dei due occhi di Varuna, il creatore del cielo, e nei testi vedici è detto 'onniveggente', 'lungimirante' e 'iningannabile' (Pettazzoni 1955, p. 173). Legato al simbolismo uranico dell'occhio (perché il cielo ‒ visto che possiede le stelle-occhi ‒ è onnisciente) è anche
L'islam e la negazione della figura umana
L'adozione anche per l'arte islamica del criterio geografico secondo cui è organizzata la trattazione delle altre aree culturali extraeuropee avrebbe richiesto l'aggiunta di un paragrafo per ognuna delle aree interessate, il che tuttavia avrebbe fatto perdere di vista l'insieme della problematica per inseguire particolarismi sterili e poco efficaci per la comprensione del fenomeno. L'islam (letteralmente 'abbandono'), infatti, è sì una religione, ma finisce poi per essere una cultura sovranazionale che raggruppa insieme, in una visione sostanzialmente unitaria (al di là dei particolarismi delle sette) popoli e regioni del mondo completamente diverse l'una dall'altra. È appena il caso di ricordare che dal momento della morte di
Denominatore comune di questo immenso coacervo di genti diverse, è la shari'a, ossia la 'legge' islamica, che fra le sue prescrizioni fa esplicito divieto di riprodurre immagini di esseri viventi e addirittura di possederne, con esclusione delle piante (Bausani 1958, p. 328). Naturalmente l'impatto di una simile proibizione sulle culture artistiche dei popoli conquistati fu deleterio e, prima di vedere in che misura le conseguenze di un simile assunto poi di fatto si vanificarono, sembra giusto ricordare (per dare il senso della furia iconoclasta) che la statua colossale di Buddha a Bamyan, in
È vero che anche l'impero di
La rapidissima conquista islamica portò i seguaci del Profeta a contatto con genti fra le quali la tradizione artistico-figurativa era radicata da millenni e anzi costituiva una delle forme di espressione più vicine all'anima di ogni popolo. Per questo, nonostante i divieti e le prescrizioni, attraverso i secoli, fiorirono scuole di pittura in ognuna delle aree geografiche interessate dall'islamismo, che a volte, come nel caso di quella persiana di Tabriz o di quella prosperata sotto il dominio moghul nell'India dal 16° al 17° sec., raggiunsero livelli di grandissima raffinatezza. Nell'arte moghul è ravvisabile un forte influsso persiano, dovuto alle preferenze stilistiche dell'imperatore Humayun e al fatto che gli artisti indiani vennero formati a questa scuola, divenuta sotto il regno di Akbar una vera e propria istituzione. Così, troviamo addirittura miniature a carattere erotico, sempre molto raffinate come una Giovane donna che si pettina, conservata a Londra e databile alla metà del 17° secolo. La scuola miniaturistica fiorita sotto gli islamici moghul si apre addirittura agli influssi occidentali, come mostra una celebre copia secentesca da una Madonna con il Bambino di Dürer (Windsor Castle) oppure una Figura di donna che tiene in mano uno strumento a corda, di poco precedente, conservata al Musée Guimet a Parigi. La perizia tecnica dei miniatori moghul derivava dalla grande scuola persiana che aveva prodotto opere di grandissima raffinatezza e fantasia, come quelle uscite dallo scriptorium di Chiraz, quali per es. un'Antologia delle imprese d'Iskandar (1410), oggi conservata alla
La maniera di trattare la figura umana nell'ambito dell'islamismo è fondamentalmente legata all'idea di ornamento, come dimostra lo splendido frontespizio delle Lettere dei fedeli puri, redazione duecentesca di un testo enciclopedico del 10° sec. (
La Cina
Dal Neolitico all'età del bronzo. Le origini della figura umana nell'arte cinese
Le prime manifestazioni artistiche della millenaria civiltà cinese si svilupparono fra il 5° e il 4° millennio a.C., dopo quel lungo periodo di vuoto e di silenzio che separa i manufatti del Paleolitico Superiore (22.000-13.000 anni fa), quali grattatoi e punte di freccia, da quelli più complessi e più elaborati ‒ anche per l'impiego di materiali diversi, come la ceramica ‒ delle fasi più tarde del Neolitico, appunto fra il 4000 e il 3000 a.C. È infatti dopo il 5000 a.C. che si assiste alla fioritura, ampiamente documentata dai reperti archeologici, di differenti culture sedentarie, verosimilmente attratte dalla presenza dei depositi argillosi di löss, il terreno trasportato dal vento depositato in accumuli naturali alti fino a 200 m e notevolmente fertile. Questa particolare conformazione del terreno si estende dalla regione del
È proprio da questo ambito che provengono le testimonianze più antiche relative alla rappresentazione della figura umana nell'arte cinese: ci riferiamo in particolare a una statuina assai rozza in argilla, emersa dalla regione di Hupei negli scavi del 1955, che rappresenta un uomo accovacciato; ma soprattutto pensiamo alle testimonianze fittili provenienti dal sito di Banshan, nel Gansu, che appartengono alla cultura di Yangshao. In questo caso non si tratta di figure intere, ma soltanto di teste rotondeggianti di ceramica lavorata e dipinta, dalla faccia piatta, talora addirittura concava, che portano incisi il naso, gli occhi e la bocca. La testa sferoidale sormonta un collo cilindrico che si raccorda a un disco, di ceramica come tutto il resto, dai bordi dentellati e anch'esso dipinto. Secondo alcuni studiosi (Fontein 1962, p. 1034) potrebbe trattarsi di coperchi, mentre altri (Hentze 1967) vi hanno visto un simbolismo legato da una parte agli usi funerari e, dall'altra, alla rappresentazione del cielo. L'evoluzione del modo di rappresentare la figura umana nell'arte cinese si coglie bene a cominciare dall'epoca shang (1523-1028 a.C.), quando si profila anche una precisa relazione fra le prime manifestazioni di scrittura e le successive raffigurazioni della figura umana stilizzata nei bronzi di epoca zhou. I primi documenti scrittori, appartenenti alla tarda epoca shang, compaiono su frammenti ossei di animali (generalmente scapole, perché larghe), che venivano incisi con veri e propri pittogrammi, ritenuti di origine divina; l'uso che si faceva di questi oggetti e il significato di queste iscrizioni era infatti di tipo mantico, in altri termini si trattava di iscrizioni oracolistiche (bu ci), che venivano poi accumulate in depositi, come quelli scoperti ad
Su alcuni di questi manufatti compare, in modo più o meno diretto, un riferimento iconografico all'immagine umana, il più delle volte costituito dalla presenza della testa. Così accade per un'ascia rituale databile fra il 13° e l'11° sec. a.C., che si presenta con l'innesto 'a cannone' sormontato da una testa umana dalla stilizzazione assai sobria, anche se vale la pena di notare il sovradimensionamento dell'occhio (visto di profilo) e lo spostamento completo della posizione dell'orecchio. Assume invece tratti decisamente terrificanti il volto, sicuramente umanoide, che emerge dalla larga lama di un'ascia in bronzo databile fra il 12° e l'11° sec. a.C., conservata al British Museum di Londra. Il motivo di una stilizzazione che tende a comunicare il senso del terrore è perfettamente giustificato dall'uso che si faceva di quest'ascia rituale, destinata a eseguire sacrifici umani attraverso la decapitazione.
A tutt'altra atmosfera s'ispira, invece, il coperchio antropomorfo (una testa) che completa un vaso rituale di tipo huo conservato alla Freer Gallery of Art di
Con il termine della fase shang e l'avvento degli Zhou, intorno al 1027 a.C., si assiste a un orientamento diverso della produzione dei bronzi, all'interno della quale compaiono vere e proprie statuine, soprattutto di animali come elefanti, cavalli o tigri, che testimoniano un preciso cambiamento di gusto che poi si concretizza anche in un allontanamento dai complessi simbolismi degli Shang. D'altra parte, non bisogna dimenticare che è con gli Zhou che si procede alla laicizzazione della scrittura, considerata in precedenza, come si è visto, pratica di carattere religioso e addirittura esoterico. Nell'ambito di questo mutamento di clima si giunge a una riconsiderazione della figura umana, rappresentata ora nel contesto della sua vita quotidiana. Ci troviamo così ad ammirare piccole scene di genere come il Giocoliere con orso ammaestrato conservato alla Freer Gallery di Washington: l'immagine è estremamente spontanea e, sebbene la figura abbia subito un chiaro processo di semplificazione e stilizzazione, questo non ha impedito all'anonimo artista di cogliere con arguzia i caratteri fisionomici e il costume tipico delle genti del Nord, nonché l'estrema naturalezza del movimento. Assai più stilizzato e di qualità nettamente inferiore è un Offerente inginocchiato della Rockhill Nelson Gallery di
Uomini di terracotta: l'armata del sovrano di Qin
La storia della dinastia zhou si divide in due lunghi periodi che corrispondono all'estensione dei domini della dinastia stessa. La prima fase, quella degli Zhou occidentali (1027-771 a.C.), è immediatamente successiva alla distruzione del regno degli Shang, il cui territorio venne inglobato nella conquista zhou e la cui popolazione, che si differenziava dagli Zhou anche per caratteristiche etniche, venne ridotta allo stato servile. Il tipo di organizzazione feudale degli Zhou, se da una parte permetteva una grande capacità di espansione, dall'altra portava però in sé il germe della decadenza che consisteva, poi, nel frazionamento territoriale. Così, quando nel 771 le popolazioni barbariche di frontiera devastarono il regno zhou uccidendo perfino il sovrano e distruggendo la capitale, s'innestò un processo di parcellizzazione del territorio cinese che si sarebbe arrestato soltanto cinque secoli dopo. Costretti a trasferire la propria capitale a Loyang (l'antica capitale shang), gli Zhou, detti ora orientali, rimasero al margine della storia (771-221 a.C.), mentre sul territorio cinese nascevano entità politiche autonome che si fronteggiavano l'un l'altra. È questo il periodo dei 'regni combattenti' che corrisponde, appunto, all'ultima fase del regno zhou. Il fatto singolare, però, è che mentre si andava intensificando questo processo di feudalizzazione, cresceva contemporaneamente l'idea della Cina come unità nazionale e addirittura centro dell'universo, Zhong Guo, ossia 'paese di mezzo'; allo stesso modo si andava facendo strada l'idea che si dovesse ritornare alla monarchia. Ammoniscono i testi: "Come il cielo non ha due soli, così la terra non ha due sovrani, la famiglia non ha due capi" (Petech 1957, p. 31).
Ritirandosi verso Oriente, gli Zhou lasciarono la propria eredità ai signori di un piccolo stato sorto intorno al bacino dello
Appartiene a questo periodo una delle più straordinarie imprese artistiche dell'umanità, che ha per protagonista proprio l'immagine dell'uomo: l'armata di terracotta posta a guardia della tomba di Qin Shi Huang Di, scoperta casualmente nel marzo del 1974, quando un gruppo di contadini stava trivellando un pozzo poco lontano dalla città di Xian. Tuttora oggetto di scavo, la tomba, articolata in tre fosse che 'presidiano' la 'stanza del sonno' dove riposa l'imperatore, ha dato finora alla luce centinaia di statue di guerrieri perfettamente conservati, che costituiscono un documento unico sugli usi, sugli armamenti, sulle tecniche belliche della Cina del 3° sec. a.C. Dal nostro punto di vista, quel che preme sottolineare è da una parte la grande attenzione alla caratterizzazione fisionomica, tanto che si è pensato a una serie infinita di ritratti: non ci sono due statue di terracotta uguali, né per quel che riguarda il volto, né per quel che riguarda la veste che, sebbene risulti essere una divisa, si differenzia sempre per le pieghe delle maniche, per il modo in cui fascia il corpo o quello con cui si porta la cintura. D'altra parte, non si può fare a meno di considerare la prodigiosa capacità di semplificazione della figura, che viene ridotta ai suoi piani volumetrici essenziali. Inoltre la terracotta è piegata a suggerire la consistenza dei diversi materiali: dalla pesantezza della stoffa alla leggerezza dei capelli raccolti in masse omogenee.
Dagli Han ai Tang, il ruolo della figura umana nell'arte cinese
Nonostante quanto potrebbero far supporre le centinaia di statue di terracotta dell'esercito di Qin Shi Huang Di, la figura umana non costituisce il centro di riferimento dell'arte cinese. Lo dimostra il fatto che non sia mai stata elaborata alcuna teoria delle proporzioni per la rappresentazione della figura umana, anche se la medicina cinese si è occupata del corpo con grande attenzione, come mostrano, tra l'altro, le numerose illustrazioni dei manuali di agopuntura. Il fatto è che i cinesi "non considerano l'uomo centro dell'universo, ma solo parte, e minima, di esso; amano, sì, la rappresentazione umana, ma nel ritratto, cioè nella narrazione biografico-morale di un determinato soggetto, e quindi soltanto come espressione figurativa e filosofica del concetto di umano" (Giuganino 1959, p. 9).
Si comprende perciò il motivo per il quale, a maggior ragione, il nudo non costituisca canone di bellezza, ma venga utilizzato solo in particolari contesti narrativi, come, per es., nella pittura murale della cosiddetta 'Grotta del pavone' (Baicheng, Xinjiang), che rappresenta l'assalto di Mara, lo spirito del male, al Buddha. Questi, assorto in meditazione, provato dai digiuni e quasi ridotto a uno scheletro, riesce a respingere la tentazione della carne e a trasformare le avvenenti figlie di Mara, fanciulle nude come quella che gli sta dinanzi, in donne anziane dai capelli bianchi come quelle dipinte alla sua sinistra. Qui il nudo ha una precisa funzione narrativa e dimostra che nel 6° sec. d.C., anche in Cina, la nudità femminile aveva il medesimo valore seduttivo e peccaminoso attribuitole dalla cultura occidentale, anche se con tutte le differenze del caso, dovute al fatto che, per il buddhismo, abbandonarsi ai piaceri della carne non vuol dire venire meno alle regole morali imposte dalla religione, quanto piuttosto scambiare per duraturo quel che è soltanto transitorio, inconsistente e illusorio come il godimento del corpo.
Prendendo in considerazione il più antico e famoso trattato d'arte della letteratura cinese, scritto da Xie-He alla fine del 5° sec. d.C., il Gu Hua Pin Lu, ovvero "Note sulla classificazione delle antiche pitture", si può constatare come fra i 'sei principi' (liu fa) che costituiscono le regole d'oro per creare capolavori, non c'è il minimo accenno al corpo umano. Si tratta, è vero, di regole generali di natura estetico-filosofica che esulano da questioni particolari; ciò non toglie, però, che la figura umana sia considerata alla stregua di qualsiasi altro soggetto. Del resto, la presenza del poderoso esercito di terracotta nel mausoleo dell'imperatore Qin Shi Huang Di, composto da soldati a grandezza naturale (anzi, per la verità, più alti della media di allora, visto che le misure oscillano fra 1,80 e 1,96 m), deve essere intesa non solo come esaltazione della potenza imperiale, ma come eccezione caritatevole all'uso, invalso in epoca shang, di seppellire, insieme al sovrano, vittime sacrificali talora immolatesi spontaneamente. Per l'imperatore di tutta la Cina sarebbe stato necessario seppellire buona parte dei sudditi, cosa evidentemente impossibile: si ricorse dunque a simulacri di terracotta.
Con l'avvento degli Han, le grandi statue divennero statuette (non soltanto figure umane, ma anche animali ‒ cani, cavalli ‒, oggetti e perfino riproduzioni di case e templi) che popolano le sepolture cinesi. Non solo, ma con l'andar del tempo, l'aspetto paludato lasciò il posto a raffigurazioni di maggiore spontaneità, come nel caso della terracotta che raffigura due Acrobati intenti a provare un esercizio, conservata all'Ashmolean Museum di Oxford. Emerso da una sepoltura databile fra il 5° e il 3° sec. a.C., il gruppo ‒ che mostra i due uomini praticamente nudi ‒ doveva avere la funzione di divertire il defunto nell'altra vita. I manufatti in terracotta affiorati dalle tombe han testimoniano del modo assai raffinato con cui si sapeva rappresentare la figura umana. Ne troviamo un bell'esempio nella statuina di un Guardiano tombale (Londra, Victoria and Albert Museum), vestito alla maniera degli Han, che doveva tenere in mano un oggetto votivo. Databile al 1° sec. d.C., la statuetta, stilizzata nella lunga veste dalle larghe maniche e che mostra ancora tracce di colore, comunica un senso di grande compostezza. Ben diverso è il dinamismo che caratterizza un Danzatore, pure di terracotta, conservato al Musée Cernuschi di Parigi: modellato a mano e lavorato con il coltello, l'omino sintetizza bene, con la sua postura, il ritmo della danza. La grande novità di epoca han fu la contestualizzazione della figura umana. Finora, infatti, abbiamo trovato immagini singole, magari utilizzate per oggetti rituali come vasi oppure con funzione funeraria. In questa fase, invece, compaiono le prime scene, come la caccia al cervo rappresentata su una lastra di argilla incisa, conservata presso il Museo Nazionale d'Arte Orientale di Roma. È con il 3° sec. d.C., infatti, che abbiamo le prime testimonianze pittoriche su lastra di terracotta preparata (come quelle del Museum of Fine Arts di Boston) che, al di là di una prodigiosa capacità di stilizzazione, riflettono una delle più antiche definizioni che i cinesi danno della pittura (hua), secondo la quale, per l'appunto, dipingere significa 'disegnare delle frontiere' (Bussagli 1966, p. 31). Non è infatti difficile constatare quanto sia importante nella pittura cinese il ruolo del contorno: ciò svela immediatamente la stretta parentela della pittura con quella che era considerata l'arte per eccellenza, la calligrafia. L'immagine dell'uomo non può non risentire di questa impostazione, sicché il più delle volte essa viene ridotta a un arabesco o, per meglio dire, a una forma che abbia assai pronunciate le caratteristiche ornamentali e in cui il senso del volume è affidato semplicemente alla diversa pressione esercitata dal pennello nel disegnare il contorno.
Un esempio classico, in questo senso, può essere considerato La toletta delle dame, particolare del lungo rotolo a carattere didattico dedicato al tema degli Ammonimenti della istitutrice alle dame di palazzo. Conservato al British Museum di Londra, il rotolo è attribuito a
L'attitudine calligrafica non significa infatti che gli artisti cinesi non sapessero rendere autonomamente, e in maniera soddisfacente, l'anatomia umana. Basterà citare in questo senso una delle scoperte archeologiche di questi ultimi anni: i quattro Buoi di ghisa, accompagnati da altrettanti vaccari, venuti alla luce nel 1989 nel distretto di Yongjixian e ora completamente restaurati (La civiltà del Fiume Giallo 1992, p. 127). Realizzati nell'anno 724, in pieno dominio dei Tang, questi mandriani a torso nudo, del peso di una decina di tonnellate ciascuno (i buoi pesano fra le 55 e le 75 t), mostrano un'attenzione e una cura per l'anatomia che nulla hanno da invidiare ai più attenti artisti rinascimentali, al punto che È addirittura evidenziato, nello sforzo espressivo e muscolare, il gruppo degli scaleni del collo, muscoli dello strato intermedio che normalmente non si vedono.
Un ruolo di rilievo in relazione all'immagine umana lo ebbe poi senz'altro il buddhismo, sicché vale la pena di menzionare almeno due importanti complessi pittorici, come quello delle grotte di
L'altro genere che si diffuse in epoca tang fu il ritratto, la cui funzione era sostanzialmente quella di ricordare ai contemporanei e ai posteri, attraverso la descrizione della fisionomia del personaggio, quali fossero le sue doti morali e quanto alto fosse stato il suo esempio, come avviene, per es., nel rotolo con I tredici imperatori, pervenutoci in copia ma dipinto nel 7° sec. da Yan Li-ben (600-673) e conservato a Boston nel Museum of Fine Arts, dove ognuna delle tredici figure imperiali è racchiusa nella sua calligrafica monumentalità. L'attenzione agli aspetti fisionomici, già presente in epoca han (come dimostrano quattro zhen, 'fermacarte' antropomorfi in bronzo conservati presso il Museo Distrettuale di Yuanpingxian), si fece ancora più acuta in epoca tang: lo dimostra il cospicuo numero di statuine che raffigurano personaggi di etnie differenti rappresentati secondo il mestiere tipico di quei popoli e il loro caratteristico ruolo. Così troviamo i mercanti ebrei dal naso adunco, i venditori di vino armeni dalla faccia larga e i falconieri turchi dagli eleganti costumi.
Dalla pittura chan ai Qing
L'altra grande novità della pittura cinese del 10° sec. è sicuramente costituita dall'utilizzo, come unico mezzo espressivo, dell'inchiostro steso a rapide pennellate su carta. Si tratta di una forma di espressione, ispirata alla corrente di meditazione buddhista denominata Chan (assai più nota nella sua versione giapponese Zen), che costituisce una ventata di rinnovamento nel panorama pittorico cinese. Riducendo i mezzi espressivi al minimo (inchiostro di china e carta, generalmente di fibra di riso), infatti, i pittori chan, che eliminano dal loro orizzonte artistico la presenza dei colori tipica del precedente periodo tang, si pongono nelle condizioni di affrontare, portando soluzioni estetiche e stilistiche innovative, tanto i temi legati alla rappresentazione del paesaggio quanto quelli strettamente connessi alla figura umana.
Sfruttando la raffinata esperienza derivata dalla disciplina calligrafica, i maestri chan riassumono l'immagine dell'uomo in un susseguirsi di tratti che sempre più tendono alla sintesi della forma. Lo mostra bene il confronto fra il ritratto del Patriarca buddhista e tigre, conservato a
Più che in altre civiltà figurative, dove l'elemento caricaturale è quasi sempre impiegato per descrivere il demoniaco e la sua deformità (si pensi, per es., all'India e ai suoi demoni, accostati da
Simili piccoli simulacri, come per es. quello conservato al Museo Nazionale d'Arte Orientale di Roma, ancorché piuttosto diffusi, testimoniano bene del rapporto fra la cultura, la morale e la civiltà cinese in genere con il corpo femminile nudo, rapporto ben diverso, per es., da quello che abbiamo visto svilupparsi nell'ambito del mondo indiano. Se è vero, infatti, che una delle divinità cinesi più amate e popolari è la Guanyin, figura femminile riprodotta in gran numero di esemplari fra cui quelli settecenteschi in porcellana bianca spiccano per delicatezza e candore, è altrettanto vero che la divinità è sempre raffigurata pudicamente vestita. Soltanto quando la Guanyin si dispone ad allattare, in ossequio alla propria natura misericordiosa (il nome, abbreviazione di Guanshiyin, vuol dire "colei che percepisce gli accenti del mondo"), allora gli artisti possono rappresentarla con il seno scoperto.
Corea, Giappone e Indonesia
Anche a uno sguardo superficiale, non è difficile constatare che in Corea, Giappone e Indonesia l'influenza culturale e artistica va sicuramente riferita, sia pure con tutte le sfumature e variazioni del caso, a due paesi in particolare: la Cina e l'India. Se, infatti, bisogna riferirsi all'India per il credo religioso e l'iconografia che ne deriva, che ha egemonizzato l'intera zona dove il buddhismo si è dovuto misurare tanto con lo scintoismo quanto con l'islamismo, dalla Cina, invece, le popolazioni di queste aree geografiche ricavarono potenti influssi sulla lingua e sull'arte. In questa sede ci si limiterà a sottolineare solo i fatti salienti fra quelli relativi alla rappresentazione della figura umana nell'ambito delle civiltà fiorite nell'Estremo Oriente.
Corea
L'arte della Corea, come del resto tutta la storia di questo paese, risente di un potente influsso proveniente dalla Cina fin dall'età più remota, tanto che la leggenda narra che il mitico Ij zi (Ki Ja in coreano), primo capo del popolo coreano, fosse della stirpe shang. Per questo non stupirà trovare il medesimo calligrafismo dell'arte cinese nel modo di trattare la figura umana, come mostra un frammento di lastra del 7° sec. d.C., conservato a Seul (Museo Nazionale di Corea). Vi si rintraccia addirittura quella sottile vena caricaturale che diviene poi più evidente quando il soggetto è legato all'iconografia demoniaca, comune, peraltro, anche all'arte giapponese. Identico carattere caricaturale ha un vaso di ceramica a forma di personaggio a cavallo, conservato pure a Seul.
L'unica caratteristica peculiare del modo di rappresentare la figura umana in Corea può essere individuata nella tendenza degli artisti coreani ad allungare le figure, come mostra, per es., una statua lignea di Bodhisattva Avalokiteshvara (7° sec.) conservata nel monastero giapponese di Horyu-ji. Talora questa tendenza degenera nella mancanza di senso delle proporzioni, come nel caso della statua lignea di Yokasa Yurai, realizzata durante il regno del Grande Silla, quando la Corea venne unificata (8°-9° sec. d.C.). La sproporzione di questo manufatto dimostra il persistere di certi arcaismi che si conservarono anche in epoca più tarda sotto forma di un'accentuata rigidità, come quella che pervade il Ritratto di religioso dipinto su seta nel 14° secolo. Nonostante il raffinato calligrafismo, infatti, la figura risulta inconsistente e inespressiva. Assai diversa, invece, è l'impressione che suscita un'opera come Il saggio in meditazione del pittore coreano Kang Hui-an (1419-1465), conservata presso il Museo Nazionale di Corea di Seul. Realizzata a inchiostro su carta, quest'opera è figlia delle esperienze chan della grande pittura cinese, di cui conserva anche la sottile ironia, forse addirittura accentuandola (Swann 1974, p. 202). Va infatti notata la grandissima capacità di sintesi che l'artista pone in essere nella rappresentazione del saggio ‒ dipinto con pochissimi, equilibrati tratti d'inchiostro ‒ , la cui presenza anima, fin quasi a confondersi con esso, lo sperone roccioso sul quale si è sdraiato. Il suo gesto, tipico del pensiero chan, allude alla necessità di immergersi completamente nella natura per raggiungere il vero equilibrio interiore.
Giappone
La rappresentazione della figura umana compare nell'arte giapponese fin dai suoi albori. Gli idoletti del periodo
Alla cultura jomon si sostituisce, intorno al 2° sec. a.C., probabilmente in concomitanza con l'inizio dell'età del bronzo, la cultura detta Yayioi dal nome della strada di Tokyo dove venne rinvenuto il primo vaso di terracotta appartenente a questo secondo corso. Cambiano le forme, più sobrie, e il modo di decorare il vasellame, ornato con incisioni sottili (yayioishiki) e contenute, senza più l'uso di corde, ma soprattutto muta il modo di rappresentare la figura umana. Adesso, infatti, si producono statuine fittili a tutto tondo dette haniwa, la cui funzione era quella di accompagnare i defunti nella sepoltura. Come le statuine funerarie cinesi che rappresentano uomini, animali, oggetti quotidiani e talora case, così gli haniwa giapponesi rappresentano spesso guerrieri, donne assise o altre figure. Per via di questi manufatti a destinazione funeraria, il periodo Yayioi, a cominciare dal 1°-2° sec. d.C., prende il nome di 'periodo delle grandi sepolture' (o kofun), che dura fino al 6° secolo. Particolarmente interessante è la cura con la quale vengono rappresentati i guerrieri nell'ambito di questa produzione fittile, giacché gli anonimi artisti si spingono fino alla rappresentazione delle armature di tipo keiko, della spada corta (la katana) e dei bracciali, ossia della protezione per mani e avambracci (kote). Probabilmente, lo scopo era quello di proteggere il defunto o d'indicare le sue virtù militari, il che ‒ in un caso o nell'altro ‒ giustifica ampiamente l'attenzione ai particolari tecnici. In termini generali, poi, bisogna notare che gli haniwa (tutti collocati su basi più o meno cilindriche, tali da permettere alle statuine di essere infisse nel terreno) hanno forme più arrotondate e plastiche rispetto agli idoletti del periodo jomon. Il volto, assai meno stilizzato, è caratterizzato dalla presenza di tre tagli: due profondi per gli occhi e uno per la bocca. Queste sostanziali diversità stilistiche hanno indotto gli studiosi a ipotizzare che simili varianti stilistiche siano da imputare addirittura a una sostituzione etnica che avrebbe prodotto questa nuova civiltà figurativa.
A cominciare dal 6° secolo il Giappone, per motivi di carattere commerciale e militare, entrò sempre più nell'ambito culturale coreano (che poi voleva dire cinese), adottò il buddhismo come religione ufficiale e, grazie a questi contatti, fece enormi passi in avanti anche sulla strada della rappresentazione della figura umana. Durante il periodo
La grande scultura giapponese cominciò ad affermarsi a partire dal tardo periodo
L'insieme non differisce di molto dalle statue dei guerrieri divini, come quella conservata a Nara (Monastero Todai-ji). D'altra parte, le immagini dei guerrieri e delle divinità guardiane celesti costituivano un'ottima occasione per gli scultori giapponesi (che realizzavano in un unico blocco ligneo le loro opere, perciò dette ichibokubori, ossia "immagini ricavate in un unico albero") di mostrare tutta la loro abilità nella cura anatomica della figura umana. Questo aspetto appare evidente, per es., in una suggestiva Immagine di guardiano celeste del periodo
Naturalmente, il concetto è identico nella rappresentazione delle divinità negative, con la sola differenza che in queste la potenza muscolare è segno di una natura malvagia e incoercibile che solo la preghiera e la corretta condotta morale possono domare. Per questo, nel medesimo complesso religioso di Kofuku-ji a Nara possiamo ammirare la statua lignea di un Demone porta lanterna, la cui tremenda potenza è docilmente piegata al servizio del tempio. Eseguita intorno al 1215 da Kohen, uno dei due figli del più importante scultore del periodo kamakura, Unkei, la statua mostra una cura dell'anatomia che si spinge fino alla corretta descrizione dell'arcata epigastrica. D'altra parte, Unkei perfezionò la tradizione artistica precedente dando vita a opere di grande impatto visivo, come per es. il ritratto idealizzato del Patriarca Muchaku (Nara, Kofuku-ji), dove la resa della statura morale, oltre che a un'impostazione larga e solida della figura, è affidata alla complessa tessitura delle pieghe della veste che scendono verso il basso, quasi fossero le ritmiche onde di una cascata.
Con mezzi completamente differenti, anche la pittura del periodo kamakura mantiene il medesimo livello e la medesima suggestione, come accade nei ritratti del pittore Fujiwara Takanobu. L'artista, infatti, applica alle sue figure la 'formula' del contrasto fra la grande massa del kimono nero e la sottile raffinatezza dei tratti del volto. La 'formula' diviene una vera e propria cifra stilistica che il pittore ripete per i vari ritratti che esegue, come quelli di Minamotono-Yoritomo o del guerriero Takanobu, conservati a
Con il periodo edo (1614-1867), al di là della molteplice presenza di diverse correnti pittoriche (tra cui una denominata Maruyama-Shijo, ossia 'scuola di pittura occidentale'), non ci furono novità di rilievo nel modo di trattare la figura umana. Anzi, oggetti come i pannelli per paravento favorirono l'impiego della figura umana come elemento decorativo. È il caso di una Danzatrice del 17° secolo, dipinta a colori su carta d'oro, chiusa nei valori decorativi della stoffa del suo kimono appena increspata dalle pieghe prodotte dal movimento sinuoso della danza. Aspetti caricaturali nel modo di descrivere la figura umana emergono, invece, in altri soggetti, come per es. la Divinità del tuono dipinta su un altro pannello per paravento del 17° secolo (Kyoto, Kemin-ji), dove è pure mantenuto il carattere decorativo dell'immagine. È interessante, infatti, notare come le componenti che dovrebbero incutere terrore, proprie di quella divinità, finiscano invece per scivolare impercettibilmente da una dimensione terrificante a una caricaturale, se non addirittura comica.
Del resto questa è una condizione dell'immagine umana evidente nell'arte giapponese, dovuta, almeno in parte, alla pratica della pittura zen, ispirata ai principi dello chan cinese e, come questa, realizzata con l'inchiostro nero (sumi) su carta di riso, il cui bianco di fondo è simbolo concreto del vuoto (yohaku) quale realtà ultima (Bigliani 1982). Anche qui emerge la prodigiosa capacità di sintesi nel rappresentare, per es., la figura di Ho-tei che guada il fiume, un dipinto di
La grande novità del periodo edo è rappresentata dalla tecnica xilografica a più colori con l'impiego di matrici lignee diverse. Ne è considerato inventore Hishikawa Moronobu (1618-1694) che, pur eseguendo ancora xilografie monocrome, in bianco e nero, eleva la tecnica xilografica da semplice sistema illustrativo ad arte per antonomasia, prediligendo la rappresentazione delle geishe e i soggetti femminili in generale. Okunurra Masanobu (1686-1764) fu il primo a introdurre altri tre colori (rosso, arancione e verde) nell'esecuzione della stampa, utilizzando tasselli di legno di varia forma e dimensione, secondo le esigenze della matrice dove venivano introdotti. Tuttavia, a perfezionare la tecnica delle stampe a colori, note come nishiki-e o 'pittura di broccato', fu Suzuki Horunobu (1725-1770). Le innovazioni di Horunobu permisero la nascita dei grandi capolavori di Hutamaru e Hokusai che ebbero, come è noto, notevolissima influenza sullo sviluppo della pittura francese del secolo scorso. Per quel che ci riguarda, non si può fare a meno di notare un ulteriore accentuarsi delle componenti decorative che talora giungono fin quasi a disgregare l'immagine umana. Lo mostrano in modo esemplare alcune stampe di Utagawa Toyokuni (1769-1825), come quella che rappresenta Cantanti, attori e musicista sulla scena (Tokyo, Teatro Nazionale, inv. nr. 2674), dove la figura dell'attore Onoe Matsusuke II (1784-1849) emerge a fatica dalla sua splendida veste da scena, risucchiato com'è in una sorta di horror vacui. Ma, in definitiva, quel che si evidenzia è il mirabile equilibrio, nella resa dell'immagine dell'uomo, fra la capacità di sintesi e la considerazione della forma come motivo decorativo, valore intermedio, questo, comune alla gran parte delle stampe giapponesi.
Indonesia
La particolare posizione geografica dell'arcipelago indonesiano, situato a sud della penisola di Malacca, fra l'Indocina e l'Australia, ha permesso lo sviluppo di una complessa e variegata cultura figurativa che, se da una parte risente degli influssi cinesi e indiani (si pensi al proliferare dei templi buddhisti nell'isola di Giava e ai bassorilievi di
Caratterizzata dagli influssi della cultura di Dongson (nella penisola indocinese), la stilizzazione della figura umana su alcuni tessuti provenienti dall'isola di
Il culto degli antenati ha determinato la nascita di una produzione scultorea con preciso valore apotropaico e propiziatorio. In particolare intendiamo riferirci ai cosiddetti hampatong, caratteristici della popolazione dei Daiacchi, nel
Una forma particolare del culto degli antenati può, infine, essere rintracciata nella pratica del teatro delle ombre caratteristico dell'isola di Giava. È infatti certo, al di là della controversia sulle origini di questa forma di spettacolo, che il wayang-kulit (i due termini significano rispettivamente 'ombra' e 'cuoio', il materiale con cui vengono realizzate le marionette) abbia avuto fin dall'inizio un significato religioso. Genere ormai popolare e diffuso a Giava fin dal 1000 d.C., il wayang rappresentava il punto d'incontro fra il mondo dei vivi e quello dei morti, le cui ombre si proiettano su un telo trasparente illuminato dalla tremula luce di una lampada. Quel che qui interessa sottolineare è che l'impiego così singolare di questi burattini ha obbligato gli artisti a cercare una stilizzazione della forma umana funzionale alla resa scenica. Così, a differenza di quanto accadeva per la decorazione delle stoffe, la figura umana non viene più rappresentata frontalmente ma di profilo, secondo il criterio della migliore leggibilità. Il volto, infatti, è di profilo, il busto è frontale con la caratteristica disposizione delle spalle 'a stampella' che, oltre a facilitare l'articolazione degli arti superiori, rende inequivocabile la comprensione dei movimenti, che così finiscono per avvicinarsi alle angolosità delle danze giavanesi. Da notare che, talvolta, le spalle sono asimmetriche, conferendo così minore rigidità alla figura. I piedi sono pure di profilo e seguono il medesimo verso del volto. In questo modo risulta ancora più chiara la direzione del personaggio, la cui macroscopica sproporzione è accentuatta dagli arti superiori lunghi fin quasi ai piedi. I burattini del teatro wayang possiedono un loro vocabolario corporeo che non possiamo non evidenziare nei tratti essenziali. Così, se la posizione divaricata delle gambe è tipica degli eroi bellicosi o dei demoni aggressivi, quella a gambe unite appartiene al sesso femminile. Anche le dimensioni giocano un ruolo importante: demoni e dei sono molto più grandi degli uomini. Infine, pure il profilo e la fisionomia caratterizzano il personaggio: gli eroi hanno lineamenti delicati anche se aguzzi, con il naso e la fronte sulla stessa linea, gli occhi allungati in una mandorla e la barba sul mento. I demoni e i personaggi negativi in genere (con l'eccezione del valoroso Bima, la cui fisionomia è più vicina a quella dei demoni che a quella degli eroi) hanno invece il naso sporgente 'a patata', gli occhi rotondi che quasi escono dalle orbite e la bocca atteggiata in una sorta di ghigno.
Per concludere, non si può fare a meno di ricordare le maschere per le danze rituali della cultura batacchi (Sumatra), usate per le cerimonie in onore dei morti.
Australia e Oceania
Australia
Il primo punto da chiarire quando ci si accinga a occuparsi della rappresentazione dell'immagine dell'uomo in culture così primitive come quelle australiane è che devono necessariamente essere abbandonati tutti i parametri estetici che in un modo o nell'altro sono sottesi all'espressione artistica delle civiltà evolute. Se è vero, infatti, che non esiste una ricerca estetica in quanto tale (nel senso che essa si ponga come elemento propulsore per il perfezionamento di una forma data), è altrettanto vero che esiste un percorso evolutivo nell'espressione artistica. Non è infatti difficile apprezzare la differenza fra le striature incise con le dita sulle pareti di calcare delle grotte di Koonalda (
Lo prova il fatto che oggetti cultuali come i tjurunga e i rombi (tavolette di legno di varia dimensione e dalla forma ovoidale, i secondi perforati) e oggetti d'uso per così dire comune, come i propulsori per le lance o i bumerang, traggono la loro efficacia funzionale dalla decorazione che li orna (Grottanelli 1987, p. 8). Infatti, come spiega H. Petri, "un bumerang ornato con i loro simboli non è, agli occhi del suo proprietario, semplicemente un bel bumerang, ma anche un bumerang dotato d'efficienza, in quanto trae la propria sanzione dal mondo extraumano" (Petri 1959, col. 205). Si comprende bene, allora, quale sia il ruolo dell'immagine dell'uomo nelle espressioni artistiche scaturite da un simile contesto. Nella gran parte dei casi, infatti, per quel che ci è dato sapere, le figure antropomorfe che compaiono incise o dipinte sulle rocce del continente australiano rappresentano antenati o esseri totemici la cui presenza ha il compito di garantire equilibrio e continuità fra il mondo spirituale e quello materiale.
Questa unità d'intenti, però, non deve far ritenere che gli esiti formali, nel modo di concepire la figura umana, siano ovunque identici nel vasto territorio australiano dove le pitture rupestri costituiscono il mezzo espressivo privilegiato dagli aborigeni. Possiamo, infatti, individuare una serie di 'stili' profondamente diversi l'uno dall'altro, circoscrivibili in particolari zone geografiche del continente. Abbiamo già accennato alle figure filiformi della Terra di Arnhem, che rappresentano sicuramente l'esito esteticamente più accattivante fra quelli noti, tanto da meritarsi l'appellativo di 'stile elegante' coniato da A. Lommel (1959). Reperibili nella zona nordoccidentale (
Una così asciutta stilizzazione offre agli artisti la possibilità di adattare le figurette alle più diverse funzioni narrative con una duttilità sconosciuta alle immagini appartenenti a un altro stile, quello wondjina, proveniente dalla medesima zona geografica dell'Australia nordoccidentale. Sono infatti queste figure antropomorfe di grandi dimensioni che rappresentano antenati totemici, come per es. quello dipinto su corteccia proveniente dalla zona del fiume Prince Regent e oggi conservato presso lo Städtisches Völkermuseum di
Un altro stile è quello che gli studiosi sono soliti indicare come 'pittura a raggi X', visto che gli animali rappresentati in questo modo sembrano mostrare la struttura scheletrica e gli organi interni. Provenienti esclusivamente dalla Terra di Arnhem, pitture di questo tipo (come quella conservata al Museo Pigorini di Roma ed eseguita su corteccia), mostrano una semplificazione e una rigidità della figura umana piuttosto grossolane. Talvolta, l'immagine dell'uomo è ridotta a una struttura nastriforme, come nel caso delle pitture rupestri presso Oerberna (Terra di Arnhem), non prive di una certa suggestione. In simili casi, la presenza degli organi sessuali maschili e femminili assume una notevole rilevanza.
Finora non si è fatta alcuna menzione di opere scultoree o, quanto meno, realizzate con mezzi plastici piuttosto che pittorici, e infatti non esiste nel continente australiano una produzione in vasta scala che possa definirsi scultorea. Le forme espressive degli aborigeni australiani sono limitate alle pitture rupestri che abbiamo esaminato, ai dendroglifi (incisioni sui tronchi degli alberi), ai petroglifi (incisioni rupestri), alle pitture su corteccia, ai disegni sulla sabbia e agli ornamenti degli oggetti di legno. In altri termini, pochissimi e rari sono gli esempi di plastica. Fra questi i più diffusi sono rombi o tjurunga le cui sagome oblunghe sono state trasformate in oggetti dalla forma naturalistica che richiama quella degli animali. Alcuni fra questi esemplari, provenienti dalle culture desertiche dell'interno, hanno assunto un profilo antropomorfo che rappresenta esseri totemici, spiriti bambini che hanno valore didattico e non esoterico, come una sculturina lignea antropomorfa e piatta proveniente dall'Australia centrooccidentale (tribù dei Mandjidjara) conservata presso l'University Museum di
Oceania
Con il termine Oceania s'intende tutto quel complesso di arcipelaghi e di isole che s'estende a oriente del continente australiano, coprendo una superficie che corrisponde, grosso modo, a 150 volte quella dell'Italia. La suddivisione di questa immensa area geografica in zone più piccole, corrispondenti agli arcipelaghi della
Questo complesso mosaico di genti diverse ha prodotto una notevole varietà di culture tribali che hanno utilizzato la figura umana per scopi di carattere sacro e cerimoniale. Sia pure con tutte le differenze e le diversificazioni del caso, in tutta la vasta area oceanica l'elemento religioso portante è costituito dal culto degli antenati in una diversificazione di esiti formali e di oggetti così vasta che non è possibile, in quest'ambito, documentarla compiutamente. La sola Nuova Guinea, per es., conta poco meno di dieci culture diverse che hanno espressioni artistiche ben caratterizzate l'una dall'altra. Accanto alle figure di antenati accovacciati scolpiti in blocchi di legno di una ventina di centimetri, infatti, troviamo oggetti come i korwaar, pure provenienti dalla costa nordoccidentale dell'isola (Roma, Museo Pigorini) che hanno la funzione di veri e propri ostensori, in quanto su di essi venivano sistemati i crani degli antenati oggetto di venerazione. È interessante notare che, a differenza di quel che abbiamo avuto modo di osservare nel continente australiano, nella vasta area degli arcipelaghi dell'Oceania è la scultura mobiliare a costituire il mezzo di espressione privilegiato. Questa si esplica, poi, anche nella realizzazione di oggetti d'uso comune, come poggiatesta o cucchiai in cocco dove la figura umana ha la doppia funzione ornamentale e sacrale. Esemplare, in questo senso, un pettine ligneo cerimoniale proveniente dallo stretto di Torres e conservato a
Completamente diversa la stilizzazione di manufatti lignei come i malanggan provenienti dalla Nuova
La devozione per i defunti, da intendersi naturalmente nei termini che abbiamo detto, produsse un fenomeno che è comune a tutta l'area oceanica: l'uso di costruire, con mastice o altri materiali facilmente plasmabili, teste umane sulla base ossea di veri crani umani. Talvolta i supporti ossei finiscono per costituire la parte anteriore di una maschera; talaltra, invece, completamente ricoperti e magari impreziositi dalla presenza della madreperla, come nel caso dell'esemplare conservato al Museo Pigorini di Roma, costituivano oggetti di culto, simili, in questo senso, alle teste maori (
Caratteristiche della cultura maori e particolarmente interessanti per questo rapido excursus, sono le figurine antropomorfe dalle membra contorte in posizione quasi fetale dette tiki o hei tiki. Quasi sempre di sesso femminile, talvolta scolpiti in osso umano (Roma, Museo Pigorini), tali manufatti dovevano avere un significato beneaugurante connesso con la fertilità. Non per nulla, simili figurette ricordano i piccoli esseri che brulicano sul corpo del dio polinesiano Tangaroa o Ta'aroa: divinità creatrice per eccellenza, Tangaroa ha il volto segnato da questi piccoli uomini dalla bocca larga, disposti in luogo degli occhi, del naso e della bocca del dio; questo modo di conferire fisionomia alla divinità non fa altro che esaltarne la capacità creatrice che ha, come fulcro centrale, proprio la ripetizione (virtualmente all'infinito) dell'immagine dell'uomo.
Per concludere, un discorso a parte va fatto per l'Isola di Pasqua, cosiddetta perché scoperta dall'ammiraglio olandese
Le Americhe
Quando si pensa alle culture autoctone americane, generalmente l'attenzione si focalizza sull'idea che ci è stata tramandata dall'immaginario collettivo del 20° secolo, il quale, sulla base della produzione filmica nordamericana, ha finito per istituire l'equazione fra le civiltà dei pellerossa e l'intera storia etnologica del continente americano. Per la verità, invece, non solo all'interno dell'immenso territorio del continente americano hanno coabitato per secoli culture completamente diverse fra loro, ma l'immagine stessa dei pellerossa, come quella di guerrieri a cavallo armati di fucile o anche semplicemente di arco e frecce, appartiene a una fase assai tarda del percorso etnologico di queste popolazioni. Solo con la colonizzazione degli spagnoli nell'America meridionale, infatti, fa la sua comparsa nel nuovo continente il cavallo, prima di allora completamente sconosciuto. A portarlo nell'America settentrionale furono, oltre agli spagnoli, gli olandesi, i francesi e gli inglesi. L'adozione di questo nuovo mezzo di trasporto (che non ne sostituì alcuno a esso preesistente, a parte il cane e il lama, visto che, prima, gli indigeni americani si spostavano a piedi) provocò l'accentuazione di un nomadismo latente che indusse le tribù gravitanti intorno alle foreste orientali del continente nordamericano a trasformarsi da genti stanziali con regime di economia agricola in popolazioni nomadi dedite alla caccia nelle
Semmai, una cultura legata alla caccia e alla raccolta la troviamo fra gli eschimesi, mentre nell'America centrale e meridionale ci imbattiamo nella fioritura delle grandi civiltà degli Aztechi, dei Maya e degli Incas, la cui complessità sociale non è neppure lontanamente paragonabile a quella delle altre etnie. Dunque, l'America, lungi dall'essere un insieme etnicamente omogeneo, è la variegata composizione di genti e popoli diversi che hanno adattato la loro cultura alle differenti condizioni climatiche e ambientali. Per la gran parte di essi, però, la figura umana costituisce un punto centrale del loro mondo espressivo.
Gli eschimesi
Appartenenti a quel variegato complesso etnico e culturale (legittimamente considerato per molti aspetti omogeneo) che va sotto il nome di 'popoli artici', gli eschimesi occupano un vastissimo territorio che va dall'Alasca occidentale fino alla penisola del Labrador e alla
Tuttavia, gli oggetti artistici legati a rappresentazioni antropomorfe si fanno più consistenti nel periodo successivo al VMB III, dominato dalla cultura di Punuk, dal nome dell'isola su cui sono state trovate le prime testimonianze. La diffusione della cultura di Punuk è assai maggiore rispetto a quella del VMB da cui in parte deriva e si hanno testimonianze circa la conoscenza rudimentale della metallurgia da parte degli eschimesi che appartenevano a quella cultura. Fra gli oggetti più importanti di questo periodo si deve citare una statuina in avorio, conservata presso lo United States National Museum di Washington, che rappresenta una figura femminile acefala. Realizzata con grande cura per i particolari anatomici, la figuretta mostra una donna incinta, forse un idolo, il cui valore non doveva essere così distante da quello ricoperto dalle sculturine che a tutt'oggi gli eschimesi di
L'America settentrionale
Anche sulle coste canadesi troviamo insediamenti eschimesi appartenenti alla cosiddetta cultura di
La scarsa importanza che simili culture attribuivano alla rappresentazione della figura umana è testimoniata dal fatto che, per es., gli sciamani del Labrador consideravano il loro tamburo non come uno strumento di lavoro, ma come un essere vivente capace di parlare il linguaggio degli uomini. Addirittura, gli appartenenti alla tribù dei Penobscot indicavano il tamburo con la parola medeolinu, che letteralmente vuol dire 'persona con
Maggiore attenzione alla rappresentazione della figura umana si rileva invece nelle culture delle foreste orientali che giungono fino alla Florida. Nota anche come 'cultura dei tumuli funerari' (burial mounds), questa civiltà, sostanzialmente agricola, si spostò dal nord verso il sud, scendendo al di sotto del 44° parallelo e seguendo il corso dell'Ohio (cultura di Adena, 1000 a.C.-300 d.C.; cultura di Hopewell, 300-700 d.C.) e quello del
Dalla zona settentrionale delle foreste orientali provengono manufatti lignei quali maschere dal terribile ghigno. Alcune hanno fattezze intermedie fra quelle degli uomini e quelle degli animali, come gli esemplari conservati presso il Museum of the American Indian di New York. Queste maschere, utilizzate per scacciare gli spiriti maligni e realizzate in legno, sono ornate di crine e dipinte a vivaci colori; caratterizzate da grosse labbra e da un naso prominente, riassumono in sé forme umane e zoomorfe. Altre maschere d'impronta decisamente umana vengono utilizzate nei villaggi irochesi per le cerimonie di primavera organizzate da due distinte confraternite, che prendono il nome proprio dal tipo di maschere utilizzate. Quella detta delle 'facce finte' usa maschere lignee ornate di crine e opera i suoi riti pubblicamente; la società detta dei 'volti di mais', invece, adopera suggestive maschere realizzate con fibre vegetali annodate e intrecciate insieme in modo da mimare il volto umano. L'effetto non è troppo distante da quello che si nota osservando il Vertumno del nostro Arcimboldi. Le maschere venivano indossate dai membri della confraternita durante le cerimonie della 'lunga casa', nel corso della quale i presenti venivano aspersi con acqua medicinale e cenere, considerate entrambe efficaci rimedi terapeutici e profilattici. La mitologia irochese attribuisce infatti l'origine delle malattie e delle cure umane in genere al 'grande gobbo', una sorta di copia di Tawiskaron (letteralmente '
Lungo la costa occidentale del continente nordamericano, invece, erano stanziate altre popolazioni di religiosità sciamanica, per le quali uno dei punti di riferimento della sacralità era costituito dal totem posto all'ingresso dell'abitazione. I
Le Americhe centrale e meridionale
Esiste una discrepanza fra le convenzioni geografiche moderne e le considerazioni di tipo storico-culturale connesse alle civiltà che fiorirono nell'America centrale. Secondo le prime, infatti, i territori che si estendono a settentrione del Golfo di Theuántpec appartengono al continente nordamericano, mentre, ripercorrendo le tappe del complesso percorso storico di quest'immensa area geografica, è del tutto evidente che le nobili culture che ne furono protagoniste sono connesse alle civiltà propriamente mesoamericane. Basterebbe, in questo senso, pensare agli influssi reciproci fra la cultura degli Olmechi (fiorita nell'attuale
La continuità dell'arte degli Aztechi (che a partire dal 1168 si sostituiscono ai Toltechi, la cui civiltà era già insidiata dai
La stessa pratica dei sacrifici umani, che tanto colpì (negativamente) l'immaginario dei
L'uomo, insomma, era il nutrimento dell'intero universo e per questo gli Aztechi sacrificavano anche alle divinità della terra e della vegetazione, generalmente scorticando le vittime. Anzi, questa pratica venne stigmatizzata nella rappresentazione delle statuette del dio
Molti sono i punti di contatto fra la cultura azteca in senso lato (intendendo per tale anche quella olmeca, tolteca e chichimeca) e quella dei Maya, il cui dominio, caratterizzato da alterne vicende, ebbe il suo periodo aureo fra il 317 e il 900 d.C., detto per questo classico. Basterà, in questo senso, confrontare la figura di Chac-Mool a Tula con quella che campeggia al limitare della piattaforma del Tempio dei Guerrieri a Chichén Itzá per renderci conto che si tratta della medesima divinità (della pioggia) che assolve l'identica funzione sacrificale. Con la scoperta del ciclo di pitture murali di Bonampak nel 1944 si è definitivamente accertato che anche i Maya erano dediti ai sacrifici umani per ragioni cosmologiche sostanzialmente identiche a quelle degli Aztechi. Quel che cambia, semmai, è il modo di rappresentare le figure, meno geometrizzato e più attento agli aspetti naturalistici dell'immagine umana.
Occorre precisare che certi aspetti fisionomici che potrebbero sembrare frutto di stilizzazione sono invece l'attenta riproduzione di usi e costumi maya. Mi riferisco al profilo dalla fronte schiacciata, caratteristico delle figure di questa complessa civiltà, che si fa particolarmente evidente in opere come il rilievo proveniente da Yaxchilán. Lungi dall'essere una fantasiosa invenzione dell'artista, il profilo schiacciato rifletteva l'uso maya di modificarsi il cranio schiacciandolo in ossequio a un canone estetico e alla volontà di creare una migliore base d'appoggio per portare i pesi. Allo stesso modo, lo strabismo presente in molte maschere maya, come quella che rappresenta la divinità solare conservata presso il Museo Nacional de Antropología di Città di Messico, rifletteva un altro canone di bellezza. È noto, infatti, che le cure amorevoli delle madri nei confronti dei piccoli le spingevano a sospendere una pallina sulla fronte delle loro creature all'altezza degli occhi in modo da provocarne lo strabismo.
Anche la civiltà maya, come quella azteca, utilizzava maschere funerarie in giada verde, considerata simbolo di vita e d'immortalità. Esemplare, in questo senso, una maschera regale conservata nel Museo Nacional de Antropología di Città di Messico, che ha gli occhi e i denti in ossidiana. Questi ultimi hanno la forma a T, tipica della divinità del giaguaro e considerata ulteriore segno d'immortalità.
La capacità artistica dei Maya nella resa fisionomica è ampiamente dimostrata dalle teste in stucco a grandezza naturale provenienti dalla cripta di
Se è vero che l'impero degli Inca finì per attrarre nell'ambito della sua influenza la gran parte delle culture fiorite nell'America meridionale, non escluse quelle amazzoniche, è altrettanto vero che il loro dominio si sovrappose alle culture andine preesistenti. Il periodo che vede la nascita e la massima espansione della civiltà inca, infatti, va posto dal 1100 d.C., anno in cui il leggendario Manco Capac, primo imperatore inca, avrebbe fondato la città di
Pochissimo si sa, però, delle civiltà che precedettero l'impero degli Inca, anche perché, come è stato sottolineato dalla gran parte degli studiosi (per es. von
Africa
La scelta di riservare all'Africa l'ultima parte di questa trattazione sul modo di rappresentare la figura umana nelle culture extraeuropee, ha un po' il sapore del ritorno al punto di partenza, visto che abbiamo preso le mosse dall'arte egiziana, per seguire un percorso circolare che ha portato a esaminare i vari aspetti della raffigurazione dell'immagine dell'uomo prima nell'antico continente asiatico, poi in quello australiano, successivamente in quello americano, giungendo finalmente all'immensa area geografica africana. Nel trattare di quest'area, talmente vasta da ospitare culture diversisssime le une dalle altre, non si prenderà in considerazione la fascia delle culture che si affacciano sul Mediterraneo, se non per gli aspetti più antichi delle pitture rupestri, visto che tutte appartengono al mondo islamico dove, come si è visto, l'immagine dell'uomo riveste un ruolo marginale nell'economia dell'espressione artistica; non si riparlerà altresì dell'Egitto, anche perché il fenomeno culturale egiziano esula completamente dal contesto africano, essendo proiettato verso le civiltà asiatiche e occidentali come la
Preistoria africana
La comparsa della figura umana nel panorama artistico delle pitture rupestri dell'Africa settentrionale appartiene a una fase più tarda di quella che vede il fiorire della grande arte naturalistica nel Nord Sahara. La cronologia è però incerta, anche se questa nuova fase può essere datata intorno ai 6000 anni fa. Quel che sorprende è il tipo di stilizzazione delle figure scoperte da H. Lhote (1958) presso
Le culture dell'area sudanese
Il primo punto da chiarire prima d'intraprendere una disamina necessariamente sommaria della rappresentazione della figura umana nelle culture africane è che, a differenza di quel che normalmente si è soliti pensare, ci si trova dinanzi a una gamma vastissima di espressioni artistiche, prodotte da culture eterogenee, molto diverse fra loro per complessità e livello, talora tali da poter essere considerate delle vere e proprie civiltà. Risultato di una storia tutt'altro che lineare, la civiltà africana ha visto avvicendarsi, anche nella fascia sudsahariana, imperi (come quello del Mali) e regni (come quello del
L'area geografica sudanese consiste in quell'ampia fascia di steppe e savane che, al di sotto del deserto del Sahara e al di sopra delle foreste tropicali della
Una singolare eccezione è costituita dalla tribù dei Nuba, stanziati nell'attuale
La prima cultura, andando da Oriente a Occidente, che invece si preoccupa di rappresentare l'immagine umana è quella attestata dal complesso archeologico del Sao, geograficamente collocato nell'area limitrofa al lago Ciad. Non si tratta di una cultura attuale (la zona è oggi occupata dai
Nella grande area circoscritta dall'ansa del fiume
Ancora più a occidente, verso le fonti del fiume Niger, vi è un altro insediamento di grande interesse fra quelli dell'area sudanese: quello dei Bambara. Considerati dalle genti islamiche, come del resto i Dogon, degli infedeli (bambara vuol dire 'miscredenti'), i Bambara hanno mantenuto integre le loro tradizioni connesse a un'economia di carattere agricolo. I loro prodotti artistici più importanti sono costituiti dalle maschere per riti agrari e iniziatici. Prima vassalli e poi avversari dell'impero del Mali, di cui causarono il crollo nel 1670 dando vita a due regni minori (
Le culture dell'area guineiana
Assai più varia e complessa è la situazione nell'area delle foreste della Guinea (denominazione, questa, intesa anche qui in senso geografico), che si estendono dalle coste meridionali dell'Atlantico lungo tutte le sponde settentrionali del Golfo di Guinea fino all'attuale
L'associazione fra elementi aviformi e la figura femminile (vale la pena, peraltro, di rammentare che il pittogramma sumerico mud che indica la madre è costituito da un uccello in cova con l'uovo vicino) si ritrova anche presso un'altra cultura dell'area guineiana: i
Ben diversi sono gli esiti formali raggiunti dai vicini Ghere, siti a sudest dei Dan. Le loro maschere, a linearità convessa, giungono quasi a smontare l'armonica struttura maxillo-facciale, praticando nel blocco ligneo con cui è realizzata la maschera profonde e incongrue fenditure che deformano completamente la fisionomia, ma che costituiscono indubbiamente un tentativo estremo e suggestivo d'interpretare il volto umano.
Assai più equilibrati nelle loro espressioni artistiche sono invece i
Appartenenti alla stessa area sono le statuine propiziatorie per il parto degli Ashanti (akua-ba), realizzate in legno per favorire la fecondità; è interessante notare che, se si desiderava un maschio, allora la testa assumeva la forma geometrica di un quadrato; se invece, come nel caso della statuetta conservata al British Museum di Londra, si desiderava una femmina, allora la testa diveniva rotonda. Con la cultura degli Yoruba (che contano circa 11 milioni d'individui) entriamo nel territorio nigeriano. Gli Yoruba si considerano eredi delle nobili civiltà di Ife e di
La produzione figurativa nigeriana è fra quelle di grande tradizione storica nel continente africano: basterà ricordare i tre celebri centri stilistici di Nok, Ife e Benin, che costituiscono un percorso cronologico oltre che stilistico. L'insediamento di Nok, scoperto nel 1944 dall'archeologo inglese B. Fagg, si sviluppò dal 4° secolo a.C. fino al 2° d.C. Le terrecotte prodotte in questo periodo costituiscono uno degli esempi più antichi di arte africana; rappresentano teste (come quella del National Museum di
I Bantu
Con il termine bantu, che letteralmente significa 'uomini', come buona parte dei nomi dei popoli africani (anche i Sao sono gli 'uomini', mentre gli Zulu sono il 'popolo'), non si indica un'unica etnia, ma un coacervo di genti che occupano la gran parte del continente africano nella sua area centrale e meridionale. La parola, infatti, ha una valenza etnico-linguistica, in quanto il comune denominatore di questi popoli è costituito da lingue che procedono con il sistema dei prefissi, indicanti genere, numero e classe delle parole. Così, il prefisso ba o bu indica la moltitudine degli individui e se ba-
La 'catalogazione' delle maschere africane teorizzata da H. Lavachery negli anni Trenta, cui si è accennato (v. sopra: Premessa), è forse un po' schematica, ma risulta ancora utile per comprendere differenze formali che altrimenti potrebbero passare inosservate. La distinzione in 'stile concavo' e 'stile convesso' evidenzia infatti i due modi diversi in cui la cultura artistica africana interpreta l'eminenza plastica della testa. Le genti, come i Rega, che fanno proprio quello che, con una certa artificiosità, gli studiosi chiamano 'stile concavo', scavano il blocco ligneo nel quale si scolpisce il massiccio facciale in modo che occhi, naso e bocca siano eminenze plastiche 'risparmiate' dall'intaglio: esemplari, in questo senso, statuine in avorio e legno conservate a New York, appartenenti alla cultura rega, sita nell'area del Ruvenzori, fra il corso dello
Questo, grosso modo, è quindi il percorso che ora ci accingeremo a compiere nel tentativo di descrivere per sommi capi in qual modo le genti bantu rappresentino e utilizzino la figura umana nella loro produzione artistica. L'area corrispondente all'attuale Camerun, soprattutto nella zona settentrionale, costituisce un punto di passaggio geografico ed etnico fra le culture delle savane, della Guinea e quelle bantu, giacché è qui che si trovano le etnie semibantu dei Bekom, dei
Proseguendo lungo la costa, nell'area dell'odierna
La problematica legata agli antenati, comunque, ha prodotto fra le culture bantu soluzioni artistiche per la rappresentazione del corpo umano completamente diverse l'una dall'altra, anche se ugualmente affascinanti. Assai vicina alla pratica dei Fang di ornare i 'reliquiari' delle ossa degli antenati con statuette lignee o teste degli antenati stessi, è quella dei
Il rapporto con il mondo dei defunti, così presente nelle società tribali, ha prodotto nella società mpongwe, una tribù del Gabon meridionale, la necessità di utilizzare per i propri rituali vigorose maschere femminili dipinte di bianco (il colore dei morti), indossate dai danzatori durante alcune cerimonie. Come ha notato B. De Rachewiltz (1959), queste maschere altro non sono che ritratti realizzati da artisti-stregoni per offrire una 'veste' corporea ai defunti. Si tratta di un fenomeno di 'vampirismo' rituale per il quale il defunto, grazie alla maschera che riproduce, a sua insaputa, i tratti di una donna, può appropriarsi momentaneamente delle sue fattezze. I caratteristici occhi 'a fessura' hanno lo scopo, anch'esso rituale, d'impedire al defunto di danneggiare chi porta la maschera durante la cerimonia.
Ancora rimanendo sulla costa, all'altezza dell'estuario dello Zaire, va segnalata la cultura woyo, che utilizza la figura umana come elemento ornamentale di oggetti destinati all'uso quotidiano, come coperchi lignei da cucina o pentole. La diversità rispetto ad altre culture che impiegano l'immagine dell'uomo per decorazione, risiede nel fatto che qui viene adombrato l'elemento narrativo, tanto che talora le scene rappresentano proverbi figurati. All'interno dell'area prospiciente il bacino del fiume Zaire troviamo altri stanziamenti umani come, a settentrione, quello dei
Dei Rega e dei baLuba, collocati nell'area prospiciente il lago
L'area geografica sudoccidentale rispetto a quella occupata dai Songye è sede di varie culture disperse su un vasto territorio al confine fra Congo, Angola e
All'abilità dei baKuba si devono anche oggetti di tipo rituale, come le coppe utilizzate per il cosiddetto 'giudizio di dio'; ovvero recipienti, antropocefali o antropomorfi, nei quali si usava mettere una pozione velenosa da far bere all'accusato. L'esito, quasi sempre letale, confermava la verità della colpa che così veniva, ovviamente, punita. Altri recipienti scolpiti in forma umana erano quelli utilizzati per la conservazione della tukula, una polvere rossa da spargere sul corpo a mo' d'unguento. Ne abbiamo un bell'esemplare conservato a Francoforte sul Meno (Museum für Völkerkunde), che ha l'aspetto di un nanerottolo le cui mani, come le braccia, spuntano direttamente, senza soluzione di continuità, dalle ginocchia piegate. Una forma assai simile a quella appena descritta è impiegata anche da un artista lulua per scolpire un singolare mortaio per tabacco conservato al Museo Pigorini di Roma. In entrambi i casi, al di là delle reciproche influenze formali, vale la pena di notare come forme consimili possano essere impiegate per oggetti dall'uso del tutto diverso e come l'immagine dell'uomo finisca per divenire elemento strutturale e ornamentale insieme per la realizzazione di manufatti di grande importanza sociale. Lo dimostra anche una bella ascia da guerra baLuba conservata nel medesimo Museo Pigorini, che presenta una raffinata testa femminile a fungere da raccordo fra il manico, sistemato al posto del collo, e la lama che esce dalla bocca. Da ricordare infine la produzione scultorea dei Ciokwe, che costituiscono la propagine situata all'estremo meridionale del mondo bantu artisticamente più attivo. Assoggettati per lungo tempo dal regno
I Boscimani
Come si è visto, la massima parte delle espressioni artistiche africane è di carattere scultoreo, mezzo espressivo particolarmente congeniale alla sensibilità degli indigeni e, nello stesso tempo, adatto a sfruttare la materia prima di cui l'Africa subsahariana è ricca: il legno. Vistosa eccezione è costituita dalle pittura dei San, meglio noti con il nome olandese di 'uomini dei boschi', bosjeman, italianizzato in Boscimani. Differenti per razza (statura piccola e pelle giallastra) e cultura dal ceppo negro, i boscimani occupano l'immensa area dell'Africa australe, dove hanno lasciato testimonianze artistiche di grande interesse, rappresentate da mirabili pitture rupestri. Genti nomadi, dedite alla raccolta e alla caccia, i Boscimani hanno fatto di queste attività i soggetti privilegiati delle loro pitture nelle quali, ovviamente, un ruolo di rilievo hanno gli animali, dipinti con grande capacità di osservazione, riscontrabile, naturalmente, anche nella rappresentazione degli uomini o delle donne. Sebbene piuttosto stilizzate e con la testa smisuratamente piccola, le figurette femminili mostrano sempre la caratteristica steatopigia dei glutei che contraddistingue questa etnia. L'abilità artistica, però, si riscontra soprattutto nel dinamismo che acquistano le immagini maschili, realizzate con pochi tratti. Nei dipinti rupestri dei Boscimani, che furono riprodotti ad acquerello da G.W. Stow e D.F. Bleek (1930), è rilevante anche l'esagerazione dei tratti somatici nella rappresentazione di etnie diverse, come per es. quella di alcuni guerrieri bantu intenti ad attaccare gli arcieri boscimani. La pittura, riprodotta da Stow, mostra anche la differenza di dimensione fra i due gruppi, forse per segnalare la superiorità bantu e rendere epica la narrazione figurata.
Conclusione
Trarre delle conclusioni in una materia così complessa e articolata può essere pericoloso, perché necessariamente si deve ricorrere alla semplificazione. Tuttavia, assumendo una posizione distaccata in modo da comprendere con uno sguardo d'insieme l'intera problematica, possiamo sicuramente affermare che, nell'ambito delle civiltà extraeuropee, sono due soli i casi in cui sia stato sviluppato un sistema coerente per stabilire le proporzioni convenzionali della figura umana. Ci si riferisce, ovviamente, all'Egitto faraonico e all'India dei Gupta, a cui pure sembra possa spettare il merito di aver elaborato la più profonda riflessione filosofica sul corpo umano e sulla possibilità o meno di raffigurare la divinità in termini antropomorfi, possibilità che al contrario viene del tutto esclusa dalla religiosità islamica. In tutte le civiltà che abbiamo preso in considerazione, invece, abbiamo riscontrato la tendenza a utilizzare il corpo umano come elemento decorativo, a partire da strutture macroscopiche, quali
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